Contributo
alla kermesse di Legnano del 21 ottobre 2023. 1. La poesia non ci salverà (Siamo consapevoli della follia della vita.
Perciò scriviamo. Sapendo che la parola non cura, intravedendo la guarigione,
ammettendo l’incurabilità.) Nell’arte o,
meglio, nell’atto creativo, la Pena coincide con la Cura: la
Pena è quella che viviamo ed attraversiamo, è nella dimensione dell’Essere, nel
trascorrere tragicomico degli eventi; la cura, nella lucida
consapevolezza della follia della vita che pur non vogliamo rinnegare. La
narrazione poetica potrebbe essere il luogo della cura. La poesia e la
scrittura sono salvifiche non come semplice sfogo personale ma in quanto, per
loro natura, mostrano un orizzonte più vasto, una dimensione altra che
può comprendere e persino salvare dalla follia dell’esistere, ma mai potrà normalizzare.
Perciò io difendo il diritto alla Cura, ma anche quello all’incurabilità. Si
scrive nel mezzo, sospesi su un ponte, intravvedendo la guarigione:
non si potrebbe mai più scrivere, una volta attraversato il Ponte, perché solo
da lì lo sguardo vede, comprende e tiene insieme le due
sponde. Sul ponte sta la sentinella, il poeta che considera e vede. Davvero il
poeta è veggente: viaggia pericolosamente dal di qua al di là,
ma… conosce la strada. Nella malattia il dolore è inutile, sterile, non si può
narrare dunque non diventa arte, perché la vita, nella malattia, è un
surrogato. Nella guarigione il dolore, come anche l’ispirazione, vengono
richiesti in modi e tempi stabiliti che non sono quelli dell’arte. Nel
Purgatorio della poesia c’è liberazione, il dolore è compreso, ma modulandosi e
decantando diventa compatibile con la realtà. Perciò bisogna vivere molto,
stare tra la gente, riempire il ponte di presenze per poterci restare senza
parlare solo di sé stessi.
2. La poesia non ci salverà Mai innamorarsi
della propria poesia, sarà la prima a tradire. E non ci salverà. Poi, siamo
tutti dannati, da prima. Condannati alla smemoratezza dell’oggi sapendo che in
altro luogo si cela la risposta, in altro tempo si pone l’esatta domanda. Esistela poesia prima di scriverla. Prima la
si vive, la si pesa, la si soffre. Poi, si cuce con un po’ di vivo tessuto, si
scava di fretta a mani nude, si va di scalpello levando dal marmo l’eccedenza,
dalla scorza la polpa. Talvolta penso possiamo salvarla noi la poesia, forse
tacendo. Lasciando parlare le esistenze, le storie. Cessando quest’uso
improprio della parola, questa scandalosa emorragia: Non abbiate paura di ciò che introducete ma di ciò che esce dalla
vostra bocca. Parola di Vangelo, Luca credo. Amen.
Così, talvolta mi condannerei
personalmente a un ergastolo di silenzio, non per una colpa, bensì per
un’intenzione! Espiazione uguale rinuncia. Sì, il mio tribunale fa continui
processi per direttissima e la difesa si mostra debole, l’alibi inconsistente:
il piacere narciso di leggersi, contemplare inchiostri, tracce, parole, è
sempre in agguato. Mi autocondannerei per questo, lo so, ma anche nell’altro
caso, la rinuncia intendo, non meriterei proscioglimenti.Sempre all’erta l’impietoso giudice; nuovo
capo d’imputazione: incoerenza. Ma infine colpevole di che? Di un’intenzione? Infilassimo
ogni colpa una dietro l’altra come perline su un filo ne usciremmo innocenti
come la bugia di un bambino, come un ladro per fame. Al massimo potremmo
dichiararci responsabili: di ciò che abbiamo detto, di ciò che abbiamo omesso,
del parlare troppo, del tacere ignavo, delle contraddizioni, delle ispirazioni
visionarie e delle aspirazioni incoerenti, dei falsi pudori, del vizio
letterario pubblico e virtù private coltivate in silenzio. Dunque, non sono io
che pecco: è la poesia che mi tiene sul filo sottile, infido del dire-non dire,
del senso letterario-letterale, del dare scandalo o tacere.Vivere o scrivere, this is the question! Dunque, a mia
discolpa questo posso dichiarare: la poesia è un imperativo, un accadimento, un
demone che muove l’istinto e ha in sé il germe del cambiamento perché sempre
macchiata di futuro: è una rivoluzione che non possiamo non fare. Non ci
salverà personalmente a meno che non ci salvi tutti, insieme.