Rassegna sul
racconto a cura di Cesare Vergati per Bookcity 2023. …«Pioveva, una pioggerella da battesimi
settembrini, e ho pensato fosse meglio entrare in libreria. Oltretutto, la
giovane commessa aveva delle belle braccia nude, e su una di loro un vero
giardino di rami e fiori variopinti. Anni dopo mi sono chiesto come mai, fra
tanti libri abbia scelto il tuo, così poco visibile, messo in alto e di costa». «Mi ricordo: nulla
ti spingeva ad alzare la testa, quando ne avevi davanti di più comodi sui banconi
o all’altezza degli occhi». «Infatti, l’ho
alzata, e nella fila ti ho scoperto – ma tu non sei mai stato alla comoda
altezza del nostro sguardo – e se non mi avesse colto il desiderio di uscire a
passeggio non ti avrei forse mai incontrato, oppure in un “clima psichico” differente
e con altri esiti». «Più o meno validi
di quando mi hai fatto risorgere?» «Scrivere di te è
come girare attorno a un vaso di vetro istoriato con figure di vario genere,
per cui ben poco si vede oltre la buccia». «E in quel giorno sei
proseguito col rischio di perdermi…» «Di due passi, per
poi ritornare». «Scusa, se seguo lo spirito della narrazione per cui ci veniamo
a trovare dove non sarebbe possibile, ma ho subito compreso, che a non piacerti
troppo era il mio cognome di valligiano, mentre ti attirava il titolo». «Proprio così, per
seguirti lungo le tue vedute boschivo-lacustri, ora poetiche, ora soltanto se
stesse». «E oltre a questo,
cosa trovavi in me?» «Estatici
precipizi e inquietanti levità… ma ti ho subito amato così!» «Scusa, mi sorge
un dubbio: parli dell’autore o dell’écriture?» «Caro, sentivo di
leggere te, in quell’astuccio color avocado – e cosa altrimenti?» «Avocado... ma se
sono bois de rose? Eh già, tu mi vedi
attraverso una sorta di daltonismo psico-retinico». «Prendo
l’occasione per dirti, che non esistono tabelle cromatiche in grado di
conoscere le tue tinte: ognuno ha la sua, ma tu, sul piano espressivo, sei
riuscito a raggiungere l’ultravioletto e l’infrarosso, raggirando Medusa». «E che c’entra
Medusa?» «C’entra, perché
dagli spiragli dei tuoi libri, in cui passi continuamente du Coq a l’âne, nessuna realistica Medusa è mai riuscita a
pietrificare gli sguardi ondeggianti che ti avvolgevano, e solo quando, sul
lago di Thun, ti sei trasformato in un unico occhio, hai fatto tu stesso chi
impietra, e allora addio chiare, fresche e dolci acque». «Eh, sì, guardavo trasformando
me stesso in un unico occhio alla stregua di un cieco, ma se tu sei un lettore…» «E cos’è un autore
cui manchi chi lo raccolga? Tu hai scritto dei texstes plurielles, qualcosa di specular fiabesco che eseguivi come
si farebbe con un liuto».
«E se mi apri
sentirai anche l’aroma dell’olio di lino, cioè quello della stampa d’antan, per
le note “di testa” come si dice dei profumi, e in tale aroma echeggia qualcosa
di algoso e marino, sebbene io sia del tutto lacustre… purché attorno al
“marino” tu non vada a chiedere precisazioni al Saint-John Perse degli Amer o all’olfattivo Grenouille di
Patrick Süskind. E perché specular fiabesco?» «Non chiederò a
questi due che hanno lo sguardo a venti gradi dal suolo, mentre noi a sessanta
verso le nubi baudelairiane. – Ma no, volevo solo dire che nello specchio delle
tue mobili immagini c’è sempre qualcosa di gentilmente sognato». «E certo ben lungi
dal cogliere me! In molti hanno provato a de-finirmi… Poi, lo sai cosa ho detto
à la Rimbaud, o se vuoi alla Rambo,
nel libro in cui ero una sorta di benjamino della vita, per dirla col
Settembrini della respirazione amorosa a Davos: “Abbandono la civiltà europea”
e quando sono dolcemente impazzito: “Via, non mi seccate di nuovo con questa cartaccia
stampata!”» «Me lo ricordo,
caro Jacob-benjamino, e questo libro-schermo, dove il piovigginoso, floreale e
commovente télos è solo
provvisoriamente teletico… Non mi ricordo più cosa volevo dirti». «Ti verrà». «Sai quanto
spiace, quando le parole non vengono, perché così si disturba l’interlocutore,
il quale, seccato dall’impossibilità di parlare a sua volta, incomincia appunto
con il “Ti verrà”. Ah, ecco, volevo dire che questo piccolo libro, forse perché
il primo della tua anfrattuosa raccolta, ha assunto per me qualcosa di mitico…
del resto, il primo amore non si scorda più, se posso parlare così».
«Non preoccuparti:
noi scorriamo lungo lo spirito della
narrazione, per cui puoi fare tutto da te. Però, attento al mitico,
aggettivo da atleti, vetture e profumi. Per l’amor del Cielo, sai bene cosa può
diventare nel nostro mondo!» «Ah, non v’è
dubbio, ma dopo averti raccolto in libro,
in me è avvenuta una sorta di cristallizzazione stendhaliana in grado di influenzare
gli altri». «Ma in fondo è così
anche per l’autore: lui non si dimentica le prime pagine di adolescente, magari
d’infimo ordine… è l’effetto “prima volta” per cui, se è vero che le successive
si mostrano ben più solide, non hanno più lo stesso charme. Noi amiamo
l’adolescenza e l’anelito, non il frutto maturo». «Eh, sì, Vergänglichtkeit… Tutto declina, tranne
il sogno d’amore, eppure ogni cosa si mostra proprio in questo incessante declino». «Ma torniamo
all’argomento: come fai a illuderti con tuo orecchio cardiaco e da cicisbeo di
sentire tante cose del mio animo, pur continuando a ripetere singula est ineffabilis, se ci divide
questa carovana di segni e immagini acustiche prive di oggetti?» «Forse perché nel
leggerti avverto una sorta di contiguità esistenziale». «Ah, di nuovo la
frase del signor Goethe y Weininger, che per capire l’altro occorra essere come
lui! Ma noi lo siamo semmai tramite echi e tratti sinottici, mentre qui mi conferisci
il tuo sentire sulla base dell’imitazione affettiva... Insomma, tu, da buon
lettore, mi hai eseguito, come si fa
con le note musicali, e in gran parte inventato». «È vero, ma non ti
ho letto per riprodurre una lapidario».