Una
segnalazione, quale questa mia vuol essere, non ha l’impegno e il respiro di
una recensione. Si propone solo di essere un invito alla lettura, e reca ovviamente
implicito un apprezzamento. Come tale tenterà solo di proporre qualche frammento
di testo alla riflessione del lettore. D’altronde L’Antigone non è
l’ermeneutica di una grande tragedia classica, men che meno uno studio
storico-critico. Sotto il nome di Antigone non passa solo una figura storica,
quanto piuttosto una persona che ancora vive e ci interr0ga. Riporta Chiara
Zamboni che per Stefano Raimondi “la figura di Antigone ha costituito un
orientamento nella sua vita, percependo in lei la possibilità di seguire una
via politico-esistenziale diversa da quella corrente”. Ancora L’Antigone non è un
testo semplice (almeno per me): “dà molto a pensare”, come le idee estetiche
(mi si passi il paragone sommario) di cui dice Kant (nel par. 49 della Critica
del giudizio): “quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno
occasione a pensare molto, senza però che un qualunque pensiero […] possa esser
loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente
esprimerle e farle comprensibili”. Questo vale per tutta la letteratura che
abbia qualche senso, a prescindere da ogni graduazione di valori. Colpisce
dapprima l’aura familiare che vi circola: L’Antigone è dedicato a Catia
(moglie di Stefano Raimondi), in copertina sta un disegno di Giacomo (il figlio
adolescente). La prefazione è di una comune amica, Chiara Zamboni. Non conosco invece
Niccolò Nisivoccia, autore della postfazione, né Mario Cresci, cui si debbono le
sobrie illustrazioni; ma anch’essi serbano traccia di un’atmosfera comune. Leggendo il testo mi lascio
andare al gioco dei rimandi tra donne e uomini, cui già la prefazione invita. Un
uomo, un grande tragediografo – Sofocle - ha scritto di una donna, Antigone, in
una tragedia che Hegel giudica “una delle opere d’arte più eccelse e per ogni
riguardo più perfette di tutti i tempi”. Tantissimi uomini, non poche donne,
leggono poi Antigone. In questo caso un uomo (chi scrive) legge il testo di un altro
uomo (Stefano), che parla di una donna (Antigone). Una donna (Chiara) scrive la
prefazione al libro di un uomo che parla di una donna; e accentua il tema della
differenza, che le appartiene. Per conto mio accentuerei il tema della
relazione; e mettere in relazione non è per nulla mettere sullo stesso piano e
cancellare le differenze. La prefazione di una donna, Chiara, è già porsi in
relazione; Stefano scrivendo si pone in relazione.
Conclude
il libro la postfazione, di un uomo: Niccolò Nisivoccia coglie bene un punto
fondamentale: “di Antigone come persona ci dimentichiamo, perché la vediamo
solo some simbolo. Quando pensiamo a lei, in fondo non è a lei che pensiamo
veramente, ma a noi: a tutto quello che, appunto, la sua storia rappresenta e
ci evoca”. Antigone non può esser vista come una metafora, un simbolo che
rinvia al di là di ogni sua concretezza vissuta, che ne trascura l’individualità
“in carne e ossa”, l’essere dotato di un corpo, di una materia, di qualità
sensibili-sensuali, di una sessualità. Su questo ha richiamato l’attenzione
anche Chiara Zamboni. Mi lascio avvolgere da questo
intrico, senza lasciarmene troppo condizionare. Mi pone in ogni caso qualche
problema. In primo luogo: chi parla (Stefano Raimondi) in nome di cosa parla?
Dei principi etico-esistenziali che animano la sua vita, presumo, e che lo
portano a prender posizione sulla realtà femminile, talvolta violentata, che lo
sollecita, e che ci circonda. Lo stesso accade nel caso del suo
precedente Soltanto vive, che verte su immagini di donne violentate,
perseguitate, a volte uccise, da uomini. Inoltre: in nome di chi parla Stefano?
direttamente in nome delle donne? Mi è
sempre stato arduo parlare in nome di altri, delle donne in particolare; ma lo
si è pur sempre fatto. Certo, ho parlato del mio (significativo) rapporto con
loro; cioè di ciò che tocca da vicino me. Lo stesso accade a Stefano Raimondi? Di
lui mi interroga anche certa sua (benvenuta peraltro) inclinazione a farsi
portavoce di figure femminili tormentate.
L’Antigone ha
sprazzi di illuminazione e giri di parole che interrogano, a volte sconcertano.
Attrae l’intreccio di significati e significanti, mi lascio trasportare dal
ritmo, ma prescindere dai significati non mi è proprio possibile. Metto
momentaneamente da parte il mio istinto inguaribilmente “illuministico”, che
non è il modo più proprio di accostare gli scritti letterari. È soprattutto la
musicalità che “dice”, e convince; può presentare scarti ritmici, smagliature; cui
fanno da pendant le enigmaticità di taluni periodi. Ma resta il principale
veicolo del senso e della commozione. Volendo esemplificare, tra i più poetici
cito il brano contrassegnato dal numero 5: “Da
piccola correvo, giocavo anch’io all’incrocio di tre vie. Erano sempre tre le
mie strade: due sapevano, una come andare e l’altra come ritornare, ma la terza
mi faceva paura: non portava da nessuna parte. Era la strada rotta. La
chiamavamo così, io e i miei fratelli, senza sapere nulla del fato. Era una via
che sembrava una piazza, girava e girava protetta, serrata da un cerchio. Le
vie, le altre, tentavano la fuga ma tornavano, ritornavano come una palla
lanciata in salita”.