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martedì 16 gennaio 2024

CONTRO IL NEOFASCISMO 
di Corrado Caruso



Un patto repubblicano.


1. Di fronte all’ennesima, inquietante commemorazione della strage di Acca Larentia, la comunità dei giuristi democratici corre il pericolo di perdersi nei meandri dei filosofemi e delle sottigliezze legalistiche. Persino chi, come il sottoscritto, ha sempre difeso le ragioni delle libertà politiche contro gli abusi della democrazia (o forse meglio, della militanza democratica) avverte ora il pericolo di un approccio astratto e riduzionista al problema italiano del neofascismo. Noti sono i dilemmi teorici: fino a che punto si può essere tolleranti nei confronti degli intolleranti, di coloro cioè che si avvalgono delle libertà costituzionali per ricusare (e nella peggiore delle ipotesi, sovvertire) l’ordine pluralista? Fino a che punto è coerente con le coordinate di una democrazia “aperta” prevenire e punire manifestazioni estreme, contrarie ai valori della Costituzione?
Ho l’impressione che la soluzione a tali quesiti non stia nelle risposte. Il problema riposa, piuttosto, nelle domande stesse, le quali sottostimano la concreta esperienza politica e costituzionale del Paese. Non si tratta, in altri termini, di chiedersi fino a che punto possa essere inclusa una certa opinione (per quanto deprecabile possa essere: razzista, sessista, omofoba, etc.) nella protezione offerta dall’art. 21 Cost., o quale sia il perimetro di legittimità, ai sensi degli artt. 18 e 49 Cost., di movimenti estremisti. La questione va invece circoscritta e specificata: è ammissibile, secondo la Costituzione del 1948, che alcuni soggetti organizzati, dotati dunque di un plusvalore di forza politica, possano servirsi delle libertà costituzionali per assecondare, testimoniare, propagandare l’ideologia fascista in qualsiasi forma? Benché negli anni il problema delle sanzioni contro il fascismo, per riprendere il titolo della voce enciclopedica di Barile e De Siervo, abbia progressivamente perduto di rilievo, anche per una certa tendenza a confinare le recrudescenze del fenomeno ad episodi di goliardia se non di vero e proprio folklore, la risposta è e deve essere, secondo il nostro ordinamento costituzionale, negativa.



2. Non si deve infatti confondere l’apertura democratica del nostro assetto costituzionale, e dunque il rifiuto di congegni di protezione della democrazia, con l’idea che la nostra Costituzione sia afascista. È questa una tesi che ciclicamente riaffiora nel dibattito pubblico sin dalla Costituente, quando, nella discussione sui principi generali, il liberale Lucifero ebbe a sostenere che il fascismo non avrebbe dovuto entrare nel testo costituzionale nemmeno come «numero negativo», «né in forma positiva né in forma negativa», perché l’afascismo è l’unica concezione «liberale di uno Stato di uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo» (Assemblea costituente, Seduta di martedì 4 marzo 1947, in AC p. 1728). Questa idea, debitrice all’impostazione crociana del fascismo come parentesi del divenire storico (una concezione, sia detto per inciso, forse intimamente contraddittoria con la stessa tesi del Croce sulla storia come processo continuo di realizzazione dello spirito universale), è stata ripresa da De Felice nella nota intervista rilasciata, alla fine degli anni ’80, a Giuliano Ferrara sulle pagine del Corriere della Sera, ed è stata più recentemente riaffermata (e banalizzata) dalle dichiarazioni del presidente del Senato La Russa, quando ha sostenuto, qualche tempo fa, che nella Costituzione non vi sarebbe «alcun riferimento esplicito all’antifascismo».
Una lettura complessiva e sistematica (peraltro ampiamente condivisa anche tra i non addetti ai lavori) del dibattito costituente e del testo costituzionale smentisce questa tesi: l’antifascismo è stato, per le forze costituenti, il «minimum comune» (Luciani), l’«elementare substrato ideologico» (Moro, Assemblea costituente, Seduta di giovedì 13 marzo 1947, pp.  2039), il fattore unificante che portava a considerare la Costituzione una garanzia normativa e istituzionale, cosicché «ciò che è accaduto una volta non possa più accadere» (Togliatti, Assemblea costituente, Seduta di martedì 11 marzo 1947, p. 1994). Il precipitato formale di questa saldatura ideologica è stato la XII disposizione transitoria e finale, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partita fascista». La sua qualificazione non deve ingannare: le disposizioni transitorie e finali sono parte integrante del documento costituzionale (sicché la proposta avanzata da Calamandrei – Assemblea costituente, 4 marzo 1947, in AC pp. 1753-1754 – di inserirla nella partizione interna della Costituzione aveva solo il senso di dare una solennità maggiore alla previsione e, col senno di poi non a torto, di evitare equivoci). Più precisamente, la XII disp. individua una norma finale, non transitoria (Corte cost., ord. n. 323 del 1988): transitoria non è l’efficacia giuridica della norma, ma il partito fascista come fatto storico necessariamente transeunte, tramontato e sconfitto dai partiti ciellenisti protagonisti dalla Resistenza.
La XII disp. pone dunque «un’affermazione concreta e precisa […] che tutto ciò che è stato fascista è condannato» (Togliatti, autore dell’emendamento, in Assemblea costituente, Commissione per la Costituzione, prima Sottocommissione, 39, seduta di martedì 19 novembre 1946, in AC p. 403). Il significato normativo della prescrizione può essere tratto dalla stessa collocazione, a mo’ di epilogo normativo del testo costituzionale: essa pone un’eccezione alla regola della apertura democratica sancita dagli artt. 18, 21 e 49 Cost., l’unico, vero vincolo di adesione ideologica esplicitato nella Costituzione (Ridola). Non a caso, il divieto di riorganizzazione è previsto «sotto qualsiasi forma», così escludendo, dalla libera dialettica democratica, anche «i movimenti che, anche sotto altro nome, professino l’ideologia e utilizzino i metodi del fascismo» (Bologna).



3. La XII disp. è stata attuata con la legge n. 645/1952, cosiddetta legge Scelba, che ha dato sostanza al «nome» (per dirla ancora con Calamandrei) o alla etichetta di partito “fascista”. Ai sensi della legge, fascista è quell’associazione, quel «movimento o comunque [quel] gruppo di persone [… che] persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista» (art. 1, l. n. 645/1952). Da questa definizione deriva una serie di corollari: sono puniti la promozione, l’organizzazione e la partecipazione a simili movimenti, la propaganda e l’apologia del fascismo (con pena aggravata, secondo l’interpolazione compiuta dalla legge n. 205/1993, cd. legge Mancino, quando questa riguarda idee e metodi razzisti»), la partecipazione a riunioni ove si compiano «manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste». Simili movimenti devono poi essere sciolti secondo un procedimento alternativo: in via giurisdizionale, una volta accertata la riorganizzazione, con sentenza seguita dal decreto di scioglimento del Ministro dell’interno; in via politica, tramite un decreto-legge adottato all’uopo dal Governo.
Nella prassi repubblicana, queste disposizioni sono state interpretate riduttivamente: la legge Scelba non è stata di ostacolo all’inclusione nell’arco istituzionale del Movimento Sociale Italiano, partito che ha raccolto il testimone della tradizione repubblichina, e ha trovato sporadiche applicazioni (sempre in sede giurisdizionale), ad esempio in occasione dello scioglimento delle formazioni neofasciste di stampo eversivo (Ordine Nuovo, nel 1973, Avanguardia nazionale nel 1976, mentre per lo scioglimento del “Fronte nazionale”, nel 2000, è stata applicata la simile previsione della legge Mancino).
Gli stessi reati di opinione previsti dalla l. n. 645 del 1952 sono stati puntualmente delimitati da alcune, risalenti, decisioni della Corte costituzionale, che hanno delimitato il perimetro delle fattispecie penali, volte a sanzionare le manifestazioni o le condotte apologetiche solo se realizzate con modalità tali da risultare potenzialmente in grado di ricostituire il partito fascista (sentenze nn. 1/1957, 74/1958, 15/1973). Il tentativo di circoscrivere lo spettro applicativo di tali delitti ha originato una prassi giurisdizionale largheggiante ma anche oscillante, diretta, di volta in volta, a verificare se le specifiche circostanze del caso potessero integrare le condizioni di pericolosità concreta individuate dal Giudice delle leggi. Questi orientamenti non solo pongono problemi di certezza, tassatività e determinatezza della fattispecie penale (Galluccio) ma creano anche contraddizioni interne legate alla sussunzione del medesimo fatto in fattispecie penali diverse ma volte a tutelare beni giuridici affini. Ad esempio, la valutazione di rilevanza penalistica del saluto fascista va condotta alla luce del delitto di pericolo concreto posto dalla legge Scelba o secondo la fattispecie di pericolo astratto della legge Mancino, che sanziona le manifestazioni esteriori o l’ostentazione di emblemi propri delle organizzazioni razziste? Su simili incertezze saranno chiamate a pronunciarsi le sezioni unite della Cassazione, cui la I sez. penale ha rimesso la questione sul corretto inquadramento penalistico del braccio teso durante la cd. cerimonia del presente.



4. La scarsa ed episodica applicazione delle norme sullo scioglimento, la conseguente rilettura dei delitti di opinione quali fattispecie di pericolo concreto, le incongruenze giurisprudenziali che portano a un certo lassismo applicativo per le manifestazioni fasciste (proprio ove la Costituzione pone un chiaro vincolo ideologico) mi pare siano figlie di una precomprensione storicamente situata – e oramai superata – del fenomeno fascista. Le prassi istituzionali (di cui anche l’interpretazione giuridica è parte) non nascono come Minerva dalla testa di Giove o dalla sapiente dottrina di erculei giureconsulti, ma sono il frutto di concrete dinamiche sociali, dei valori che le forze egemoni sposano e sostengono in un determinato momento storico (Barbera). Negli anni del dopoguerra, la tolleranza verso il principale movimento neofascista era dovuta all’ordine materiale definito dalle forze costituenti, del quale gli stessi partiti ciellenisti non erano solo fautori ma anche i principali garanti politici. Il radicamento di questi soggetti nella società, la loro capillare organizzazione, le loro finalità, diversificate ma comunque congruenti con le disposizioni ad alta tensione assiologica della Costituzione repubblicana, hanno rappresentato la paratia politica di fronte a possibili esondazioni autoritarie e ai rigurgiti di un passato sconfitto ma non del tutto tramontato. L’esistenza politica del Movimento sociale italiano era sì consentita, ma al prezzo di una sostanziale emarginazione dello stesso dalle scelte fondamentali di indirizzo politico (come insegna al contrario  l’emblematica vicenda del Governo Tambroni). Queste condizioni non esistono più. I partiti costituenti si sono profondamente trasformati (quando non estinti); il Movimento Sociale Italiano è andato incontro a una importante ma incompiuta transizione, che ha portato alla fondazione di Alleanza Nazionale e alla constatazione, da parte dell’allora segretario Gianfranco Fini, che «l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato». Dal tracollo di quel progetto politico e dalla diaspora di AN è sorto Fratelli d’Italia, oggi principale partito di governo, «espressione di una destra a-fascista», che pure sta tentando, quanto meno attraverso parte della sua dirigenza, il definitivo approdo a una destra «nazional-conservatrice» (Vassallo-Vignato). Allo stesso tempo, i movimenti neofascisti non sono tramontati, ma anzi riemergono ciclicamente per riaffermare la propria  «ideologia della negazione» (Scurati), che vive di esaltazioni eversive (la cerimonia del presente dedicata, lo scorso marzo, al funerale del terrorista Pierluigi Concutelli, assassino del magistrato Vittorio Occorsio, le cui indagini avevano portato allo scioglimento di Ordine Nuovo) e persino della violenza quale forma di lotta politica (la devastazione della sede della CGIL compiuta il 9 ottobre del 2021 nell’ambito delle proteste no-vax contro le misure di contenimento dell’epidemia, fatti per i quali sono stati condannati in primo grado i leader di Forza nuova, ai quali però non è stata contestata la violazione della legge Scelba).
In questo quadro, l’atteggiamento nei confronti dei fenomeni neofascisti deve necessariamente mutare. Il cambiamento deve passare, anzitutto, dalle forze politiche, chiamate a stipulare un nuovo patto repubblicano volto a respingere, a settantacinque anni dalla approvazione della Costituzione, qualsiasi vicinanza, ambiguità, collateralismo rispetto ad organizzazioni contrarie al vincolo politico e ideologico posto dalla Costituzione. Un patto repubblicano che consenta una strategia di rinnovata e reciproca legittimazione di soggetti politici divisi sulla comprensione della realtà e sulle priorità da perseguire ma uniti nel riaffermare la matrice antifascista della Costituzione repubblicana. Alla unità delle forze politiche dovrebbe seguire un mutamento di atteggiamento delle istituzioni (magistratura, forze di polizia, scuola e accademia) che non hanno mancato, in talune occasioni, di mostrare una certa tolleranza rispetto ai soggetti organizzati che si collocano al di fuori dell’ordine costituzionale. Non è più il tempo del garantismo di combat o dell’astratto ottimismo à la Pangloss, che rischia di sfociare in una sorta di rimozione psicanalitica del trauma fondativo della Costituzione repubblicana. È tempo invece, di ricordare, riaffermare, ricostruire la memoria collettiva su cui si fonda l’ordine costituzionale, anche (ma non solo) attraverso gli strumenti repressivi previsti dall’ordinamento.