1.Di fronte all’ennesima, inquietante commemorazione della strage
di Acca Larentia, la comunità dei giuristi democratici corre il pericolo di
perdersi nei meandri dei filosofemi e delle sottigliezze legalistiche. Persino
chi, come il sottoscritto, ha sempre difeso le ragioni delle libertà politiche
contro gli abusi della
democrazia (o forse meglio, della militanza
democratica) avverte ora il pericolo di un approccio astratto e riduzionista al problema italiano
del neofascismo. Noti sono i dilemmi teorici: fino a che punto si può essere
tolleranti nei confronti degli intolleranti, di coloro cioè che si avvalgono
delle libertà costituzionali per ricusare (e nella peggiore delle ipotesi,
sovvertire) l’ordine pluralista? Fino a che punto è coerente con le coordinate
di una democrazia “aperta” prevenire e punire manifestazioni estreme,
contrarie ai valori della Costituzione? Ho l’impressione
che la soluzione a tali quesiti non stia nelle risposte. Il problema riposa,
piuttosto, nelle domande stesse, le quali sottostimano la concreta esperienza
politica e costituzionale del Paese. Non si tratta, in altri termini, di
chiedersi fino a che punto possa essere inclusa una certa opinione (per quanto
deprecabile possa essere: razzista, sessista, omofoba, etc.) nella protezione
offerta dall’art. 21 Cost., o quale sia il perimetro di legittimità, ai sensi
degli artt. 18 e 49 Cost., di movimenti estremisti. La questione va invece
circoscritta e specificata: è ammissibile, secondo la Costituzione del 1948,
che alcuni soggetti organizzati, dotati dunque di un plusvalore di forza politica,
possano servirsi delle libertà costituzionali per assecondare, testimoniare,
propagandare l’ideologia fascista in qualsiasi
forma? Benché negli anni il problema delle sanzioni contro il fascismo, per
riprendere il titolo della voce enciclopedica di Barile e De Siervo, abbia
progressivamente perduto di rilievo, anche per una certa tendenza a confinare
le recrudescenze del fenomeno ad episodi di goliardia se non di vero e proprio
folklore, la risposta è e deve essere, secondo il nostro ordinamento
costituzionale, negativa.
2. Non si deve infatti confondere l’apertura democratica del
nostro assetto costituzionale, e dunque il rifiuto di congegni di protezione
della democrazia, con l’idea che la nostra Costituzione sia afascista. È questa una tesi che
ciclicamente riaffiora nel dibattito pubblico sin dalla Costituente, quando,
nella discussione sui principi generali, il liberale Lucifero ebbe a sostenere
che il fascismo non avrebbe dovuto entrare nel testo costituzionale nemmeno
come «numero negativo», «né in forma positiva né in forma negativa», perché
l’afascismo è l’unica concezione «liberale di uno Stato di uomini liberi, la
cui libertà è negazione del fascismo» (Assemblea costituente, Seduta di martedì
4 marzo 1947, in AC p. 1728). Questa idea, debitrice all’impostazione crociana
del fascismo come parentesi del divenire storico (una concezione, sia detto per
inciso, forse intimamente contraddittoria con la stessa tesi del Croce sulla
storia come processo continuo di realizzazione dello spirito universale), è
stata ripresa da De Felice nella nota intervista rilasciata, alla fine degli
anni ’80, a Giuliano Ferrara sulle pagine del Corriere della Sera, ed è stata
più recentemente riaffermata (e banalizzata) dalle dichiarazioni del presidente
del Senato La Russa, quando ha sostenuto, qualche tempo fa, che nella
Costituzione non vi sarebbe «alcun riferimento esplicito all’antifascismo». Una lettura
complessiva e sistematica (peraltro ampiamente condivisa anche tra i non
addetti ai lavori) del dibattito costituente e del testo costituzionale
smentisce questa tesi: l’antifascismo è stato, per le forze costituenti,
il «minimum comune»
(Luciani), l’«elementare substrato ideologico» (Moro, Assemblea costituente,
Seduta di giovedì 13 marzo 1947, pp. 2039), il fattore unificante che
portava a considerare la Costituzione una garanzia normativa e istituzionale,
cosicché «ciò che è accaduto una volta non possa più accadere» (Togliatti,
Assemblea costituente, Seduta di martedì 11 marzo 1947, p. 1994). Il
precipitato formale di questa saldatura ideologica è stato la XII disposizione
transitoria e finale, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma,
del disciolto partita fascista». La sua qualificazione non deve ingannare: le
disposizioni transitorie e finali sono parte integrante del documento
costituzionale (sicché la proposta avanzata da Calamandrei – Assemblea
costituente, 4 marzo 1947, in AC pp. 1753-1754 – di inserirla nella partizione
interna della Costituzione aveva solo il senso di dare una solennità maggiore
alla previsione e, col senno di poi non a torto, di evitare equivoci). Più
precisamente, la XII disp. individua una norma finale, non transitoria (Corte
cost., ord. n. 323 del 1988): transitoria non è l’efficacia giuridica della
norma, ma il partito fascista come fatto
storico necessariamente transeunte, tramontato e sconfitto dai
partiti ciellenisti protagonisti dalla Resistenza. La XII disp. pone
dunque «un’affermazione concreta e precisa […] che tutto ciò che è stato
fascista è condannato» (Togliatti, autore dell’emendamento, in Assemblea
costituente, Commissione per la Costituzione, prima Sottocommissione, 39,
seduta di martedì 19 novembre 1946, in AC p. 403). Il significato normativo
della prescrizione può essere tratto dalla stessa collocazione, a mo’ di
epilogo normativo del testo costituzionale: essa pone un’eccezione alla regola
della apertura democratica sancita dagli artt. 18, 21 e 49 Cost., l’unico, vero
vincolo di adesione ideologica esplicitato nella Costituzione (Ridola). Non a
caso, il divieto di riorganizzazione è previsto «sotto qualsiasi forma», così
escludendo, dalla libera dialettica democratica, anche «i movimenti che, anche
sotto altro nome, professino l’ideologia e utilizzino i metodi del fascismo»
(Bologna).
3. La XII disp. è stata attuata con la legge n. 645/1952,
cosiddetta legge Scelba, che ha dato sostanza al «nome» (per dirla ancora con
Calamandrei) o alla etichetta di partito “fascista”. Ai sensi della legge,
fascista è quell’associazione, quel «movimento o comunque [quel] gruppo di
persone [… che] persegue finalità antidemocratiche proprie del partito
fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta
politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla
Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della
Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla
esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito
o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista» (art. 1, l. n.
645/1952). Da questa definizione deriva una serie di corollari: sono puniti la
promozione, l’organizzazione e la partecipazione a simili movimenti, la
propaganda e l’apologia del fascismo (con pena aggravata, secondo
l’interpolazione compiuta dalla legge n. 205/1993, cd. legge Mancino, quando
questa riguarda idee e metodi razzisti»), la partecipazione a riunioni ove si
compiano «manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di
organizzazioni naziste». Simili movimenti devono poi essere sciolti secondo un
procedimento alternativo: in via giurisdizionale,
una volta accertata la riorganizzazione, con sentenza seguita dal decreto di
scioglimento del Ministro dell’interno; in via politica, tramite un decreto-legge adottato all’uopo dal
Governo. Nella prassi
repubblicana, queste disposizioni sono state interpretate riduttivamente: la
legge Scelba non è stata di ostacolo all’inclusione nell’arco istituzionale del
Movimento Sociale Italiano, partito che ha raccolto il testimone della
tradizione repubblichina, e ha trovato sporadiche applicazioni (sempre in sede
giurisdizionale), ad esempio in occasione dello scioglimento delle formazioni
neofasciste di stampo eversivo (Ordine Nuovo, nel 1973, Avanguardia nazionale
nel 1976, mentre per lo scioglimento del “Fronte nazionale”, nel 2000, è stata
applicata la simile previsione della legge Mancino). Gli stessi reati di
opinione previsti dalla l. n. 645 del 1952 sono stati puntualmente delimitati
da alcune, risalenti, decisioni della Corte costituzionale, che hanno
delimitato il perimetro delle fattispecie penali, volte a sanzionare le
manifestazioni o le condotte apologetiche solo se realizzate con modalità tali
da risultare potenzialmente in grado di ricostituire il partito fascista (sentenze
nn. 1/1957, 74/1958, 15/1973). Il tentativo di circoscrivere lo spettro
applicativo di tali delitti ha originato una prassi giurisdizionale
largheggiante ma anche oscillante, diretta, di volta in volta, a verificare se
le specifiche circostanze del caso potessero integrare le condizioni di
pericolosità concreta individuate dal Giudice delle leggi. Questi orientamenti
non solo pongono problemi di certezza, tassatività e determinatezza della
fattispecie penale (Galluccio) ma creano anche contraddizioni interne legate
alla sussunzione del medesimo fatto in fattispecie penali diverse ma volte a
tutelare beni giuridici affini. Ad esempio, la valutazione di rilevanza
penalistica del saluto fascista va condotta alla luce del delitto di pericolo
concreto posto dalla legge Scelba o secondo la fattispecie di pericolo astratto
della legge Mancino, che sanziona le manifestazioni esteriori o l’ostentazione
di emblemi propri delle organizzazioni razziste? Su simili incertezze saranno
chiamate a pronunciarsi le sezioni unite della Cassazione, cui la I sez. penale
ha rimesso la questione sul corretto inquadramento penalistico del braccio teso
durante la cd. cerimonia del presente.
4. La scarsa ed episodica applicazione delle norme sullo
scioglimento, la conseguente rilettura dei delitti di opinione quali
fattispecie di pericolo concreto, le incongruenze giurisprudenziali che portano
a un certo lassismo applicativo per le manifestazioni fasciste (proprio ove la
Costituzione pone un chiaro vincolo ideologico) mi pare siano figlie di una
precomprensione storicamente situata – e oramai superata – del fenomeno
fascista. Le prassi istituzionali (di cui anche l’interpretazione giuridica è
parte) non nascono come Minerva dalla testa di Giove o dalla sapiente dottrina
di erculei giureconsulti, ma sono il frutto di concrete dinamiche sociali, dei
valori che le forze egemoni sposano e sostengono in un determinato momento
storico (Barbera). Negli anni del dopoguerra, la tolleranza verso il principale
movimento neofascista era dovuta all’ordine materiale definito dalle forze
costituenti, del quale gli stessi partiti ciellenisti non erano solo fautori ma
anche i principali garanti politici.
Il radicamento di questi soggetti nella società, la loro capillare
organizzazione, le loro finalità, diversificate ma comunque congruenti con le
disposizioni ad alta tensione assiologica della Costituzione repubblicana, hanno
rappresentato la paratia politica di fronte a possibili esondazioni autoritarie
e ai rigurgiti di un passato sconfitto ma non del tutto tramontato. L’esistenza
politica del Movimento sociale italiano era sì consentita, ma al prezzo di una
sostanziale emarginazione dello stesso dalle scelte fondamentali di indirizzo
politico (come insegna al
contrariol’emblematica
vicenda del Governo Tambroni).Queste
condizioni non esistono più. I partiti costituenti si sono profondamente
trasformati (quando non estinti); il Movimento Sociale Italiano è andato
incontro a una importante ma incompiuta transizione, che ha portato alla
fondazione di Alleanza Nazionale e alla constatazione, da parte dell’allora
segretario Gianfranco Fini, che «l’antifascismo fu un momento storicamente
essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva
conculcato». Dal tracollo di quel progetto politico e dalla diaspora di AN è
sorto Fratelli d’Italia, oggi principale partito di governo, «espressione di
una destra a-fascista», che pure sta tentando, quanto meno attraverso parte
della sua dirigenza, il definitivo approdo a una destra
«nazional-conservatrice» (Vassallo-Vignato). Allo stesso tempo, i movimenti
neofascisti non sono tramontati, ma anzi riemergono ciclicamente per
riaffermare la propria «ideologia della negazione» (Scurati), che vive di
esaltazioni eversive (la cerimonia del presente dedicata, lo scorso marzo, al
funerale del terrorista Pierluigi Concutelli, assassino del magistrato Vittorio
Occorsio, le cui indagini avevano portato allo scioglimento di Ordine Nuovo) e
persino della violenza quale forma di lotta politica (la devastazione della
sede della CGIL compiuta il 9 ottobre del 2021 nell’ambito delle proteste
no-vax contro le misure di contenimento dell’epidemia, fatti per i quali sono
stati condannati in primo grado i leader di Forza nuova, ai quali però non è
stata contestata la violazione della legge Scelba). In questo quadro,
l’atteggiamento nei confronti dei fenomeni neofascisti deve necessariamente
mutare. Il cambiamento deve passare, anzitutto, dalle forze politiche, chiamate
a stipulare un nuovo patto repubblicano volto a respingere, a settantacinque
anni dalla approvazione della Costituzione, qualsiasi vicinanza, ambiguità,
collateralismo rispetto ad organizzazioni contrarie al vincolo politico e
ideologico posto dalla Costituzione. Un patto repubblicano che consenta una
strategia di rinnovata e reciproca legittimazione di soggetti politici divisi
sulla comprensione della realtà e sulle priorità da perseguire ma uniti nel
riaffermare la matrice antifascista della Costituzione repubblicana. Alla unità
delle forze politiche dovrebbe seguire un mutamento di atteggiamento delle
istituzioni (magistratura, forze di polizia, scuola e accademia) che non hanno
mancato, in talune occasioni, di mostrare una certa tolleranza rispetto ai
soggetti organizzati che si collocano al di fuori dell’ordine costituzionale.
Non è più il tempo del garantismo di combat o dell’astratto ottimismo à la Pangloss,
che rischia di sfociare in una sorta di rimozione psicanalitica del trauma
fondativo della Costituzione repubblicana. È tempo invece, di ricordare,
riaffermare, ricostruire la memoria collettiva su cui si fonda l’ordine
costituzionale, anche (ma non solo) attraverso gli strumenti repressivi
previsti dall’ordinamento.