Quella che vi racconto è una storia
piccola. Una di quelle storie così piccole che di solito restano confinate
nell’ambito familiare. Doveva essere il 1943 quando avvenne il fatto che io
scoprii da bambina piccola, verso la metà degli anni Cinquanta.Mia nonna,
protagonista di questo fatto, lo raccontò per caso, perché a quei tempi non ci
si faceva belli per aver fatto una cosa che semplicemente sembrava giusta. Ogni
tanto nella mia famiglia veniva fuori qualche ricordo legato agli anni del
fascismo e della guerra, ma sempre così, incidentalmente, come quando scoprii
che mio nonno materno aveva un solo dente perché gli altri li aveva persi tutti
il giorno che i fascisti lo massacrarono con i sacchetti di sabbia, lasciandolo
con quasi tutte le ossa rotte, quasi immobilizzato per circa sei mesi. Venne
fuori così, durante un grande pranzo di famiglia in onore di vecchi zii che
erano venuti a trovarci e ricordavano i tempi in cui erano stati al confino e
quelli in cui, insieme a Di Vittorio, mio nonno aveva dovuto lasciare Cerignola
per non essere ammazzato dalla banda dei Caradonna. Era stata una grande festa
familiare tra persone che non si vedevano da tanti anni e che avevano un
passato che ancora li univa. In questi casi, si sa, i racconti epici non
possono mancare!Insomma, sempre per caso venivano fuori tante di quelle storie
che formano l’humus, ma in modo impercettibile, della Storia, quella che si
legge sui libri. E un giorno capitò per caso anche un ricordo di mia nonna
paterna, rievocato da una cosa da nulla. L’ho già raccontato in un’altra
occasione, ma oggi lo racconto per Odissea.
Squadristi fascisti
Era un giorno d’estate e faceva molto caldo. Io ero una
bambina di circa cinque anni e avevo i capelli lunghi e biondi che erano
l’orgoglio di mia madre, quindi li tenevo sempre sciolti sulle spalle. Ma quel
giorno faceva molto caldo e mia madre decise di farmi le trecce. Mia nonna paterna che
viveva con noi aveva sempre tante storie della sua gioventù da raccontarmi.
Storie così straordinarie e divertenti che ancora me la fanno ricordare con un
po’ di nostalgia. Era molto vecchia mia nonna, era nata a fine Ottocento da una
famiglia, allora ricca, delle Marche “papaline”, ma era analfabeta perché aveva
imparato a ricamare, a ballare e pure a ripetere le preghiere in latino – un
latino che ve lo raccomando! – ma aveva frequentato solo per pochi giorni la
prima elementare e poi, chissà perché, aveva lasciato la scuola. Insomma, non
era stupida mia nonna, ma era una donnina ignorante. Quando mi vide con le
trecce si portò le mani al viso, sbarrò gli occhi come se avesse avuto chissà
quale visione e con l’accento umbro-marchigiano che non aveva mai perduto
esclamò «Oh Gesù mio, sei proprio come quella
pupa! Oh Dio, oddiomio quanto je somigli! Pure lei portava le trecce, proprio
come te! Biondina, piccoletta, c’avrà avuto manco cinqu’anni, proprio come te!» Poi, seguendo il suo ricordo, proseguì: «Ma che paura! Mammamia ancora me lo ricordo. Che paura!» e allungava sempre molto sulla u come se quella
paura non l’avesse ancora lasciata. Io ero là, davanti a lei,
con le trecce. Mia madre, abbastanza impaziente, temendo qualche racconto che
mi avrebbe affascinato e a lei avrebbe fatto perdere tempo, disse: «Vabbè, ora andiamo, saluta nonna che usciamo».
Eh no! Come facevo a
salutarla senza farmi raccontare il seguito? Allora mia nonna mi disse: «Lo voi che nonna te lo racconta?» e senza aspettare risposta, seguendo il suo
pensiero, andò avanti così: «Ma che
paura! Si quelle bestie scoprivano che l’avevo nascosta non c’eri manco tu, lo
sai? Manco tu, perché c’avrebbero ammazzat’a tutti, pure a papà tuo. Manco tu!» Ripeté quel “manco tu” come se io potessi
scomparire di lì a un momento. Poi, seguitando a parlare a sé stessa più che a
me, aggiunse: «Ma chissà mo ‘ndo sta quella pupa! Me
piacerebbe vedella, ma manco so come faceva di cognome! Però che paura!» ripeté allungando sempre la u e tenendosi ancora le
mani sulle guance. Io non è che avessi capito
molto, ero piccola e mi piacevano tanto i suoi racconti di quando ballava nelle
feste paesane fino alle cinque del mattino con i “giovanotti”, come li chiamava
lei, che si litigavano per farle da “cavalieri”. Infarciva così bene di
dettagli quei racconti, che io li vedevo tutti quei giovanotti, e lei, e i
balli, come fossero film. Ma questa della bambina nascosta per due giorni,
che le faceva tanta paura anche solo ricordare e che poteva essere causa
dell’eliminazione di tutta la sua famiglia, compreso mio padre, non l’avevo mai
sentita e non riuscivo a capire perché l’avesse fatto.
Mia madre scalpitava
perché voleva portarmi via dall’influenza di mia nonna, però all’epoca i vecchi
si rispettavano e quindi si limitava a stare sulla porta facendo sentire il
piede che batteva a terra. Io quella volta non chiesi alla nonna il racconto
dei particolari perché avvertivo il respiro nervoso di mia madre e poi non
sapevo proprio nulla di leggi razziali e robaccia simile, quindi mi limitai a
chiederle: «Scusa, nonna, ma se avevi tanta paura
perché l’hai fatto?» Ho detto che mia nonna era
una piccola donna ignorante, sapeva ricamare, ballare e pregare in quel suo
latino un po’ fantasioso, ma non avrebbe davvero mai saputo spiegare il
concetto di “imperativo categorico”. Lei aveva molte parole per i racconti e
ascoltarla mi piaceva da morire, ma non ne aveva certo per definire un concetto
astratto. Così mi guardò stupita. Come se le avessi chiesto qualcosa che doveva
essere chiaro di per sé. Fece una smorfia con le labbra, alzò le spalle come a
dire “embè”, poi tolse le mani dalle guance, le aprì verso l’esterno in una
gestualità che appartiene a tutto il centro Italia e disse, con delle pause per
cercare parole che non venivano – e non venivano perché in fondo ne bastava una
sola – disse: «Embè, perché? Perché? Perché… e
perché era giusto, no?» Perché era giusto. E come
lei tanti altri avevano fatto cose simili, anche senza vera e propria coscienza
politica, solo perché era giusto! Poi, mentre mia madre
diceva: «Dai, adesso da’ un bacetto a nonna e
andiamo», la nonna ripeté: «Sì, era proprio bionda, piccoletta e con le trecce come te. Era
giusto fallo, mica la potevo fa’ pijà da quelle bestie». Credo di non averci più
pensato per parecchio tempo, ma ci sono cose che ti segnano per sempre, nel
bene e nel male e restano a lavorarti dentro. L’etologia e la psicologia le
chiamano “imprinting”. Dopo diversi anni, mentre
studiavo un periodo cupo della nostra storia contemporanea, mi tornò alla mente
il racconto di mia nonna e ne capii il contesto storico. Ma non serviva. Quello
che lei aveva detto, e che avrebbe indirizzato la mia vita, era tutto in
quell’aggettivo con funzione di categoria morale: era giusto.
Alcune cose si fanno
perché è giusto. Basta così. Mia nonna, nella sua
semplicità, aveva chiaro che il senso di giustizia non ammette compromessi. Lei
aveva imparato a pregare in latino sì, ma non credo conoscesse il concetto di
giustizia secondo i padri della Chiesa, forse non sapeva nemmeno che la
giustizia secondo le Sacre Scritture è la prima delle virtù cardinali. L’unico
San Tommaso che conosceva era il discepolo incredulo, non certo il filosofo. Ma
il senso della giustizia ce l’aveva talmente forte da rischiare la vita sua e
della sua famiglia per proteggere una bambina che conosceva appena. Così si salvarono molte
vite in quel periodo terribile, vite di ebrei e vite di antifascisti, e altre
se ne sacrificarono a causa di qualche delatore, quelle sordide figure che a
Roma vengono definite “infami”. Anche queste figure sono elementi che
costituiscono l’humus della Storia, ma non sono elementi nobili come le tante
piccolissime storie simili a quella appena raccontata. Quella di una piccola
donna analfabeta che amava la vita eppure l’aveva rischiata, mettendo a rischio
anche quella dei suoi familiari, per salvare una bambina che forse neanche
conosceva. In questi giorni
più che mai quel senso di giustizia vorrei che lo riscoprissero anche i
figli e i nipoti di quelle persone salvate dalle grinfie delle bestie naziste e
lo utilizzassero per salvare i bambini massacrati oggi dalle bombe sioniste.
Vorrei, vorrei!!!