Mosca. I dubbi sulla vicenda di Alexey Navalny forse non verranno
mai del tutto chiariti. Scrivo da Mosca, da dove mi sto per muovere per recarmi
nuovamente verso il fronte ucraino. Quasi nessuno in Russia è persuaso dall’ipotesi
di un coinvolgimento diretto di Vladimir Putin. Almeno apparentemente non vi
alcun motivo credibile che possa giustificare una scelta del genere, tanto più
in una mente ultrarazionalista e calcolatrice. E non certo per una questione di
scrupoli. Dopotutto, perché uccidere un oppositore già detenuto che non
rappresenta alcuna minaccia rilevante per il potere costituito? Perché
ucciderlo dopo il clamoroso successo dell’intervista rilasciata al giornalista
statunitense Tucker Carlson ed i possibili risvolti di questa? E perché farlo a
ridosso delle elezioni presidenziali di marzo e dopo la presa di Avdeevka? A
queste domande, si aggiungono la curiosa sincronia tra la morte di Alexey
Navalny e la presenza di sua moglie Yulia alla conferenza di Monaco e le
pesanti dichiarazioni di sua madre Ludmila. Il rigore della logica porta ad
escludere l’ipotesi dell’ordine diretto di Vladimir Putin. Così come la
tempistica della morte di Alexey Navalny porta a considerare assai poco
realistica l’ipotesi di una morte naturale. Rilevare che Vladimir Putin abbia
nelle sue mani un potere enorme è quasi banale: non lo è, invece, ricordare
come in generale e nella Russia dei nostri giorni la natura del potere non sia
del tutto monolitica, al di là di ogni apparenza. In questo senso, la
possibilità che Alexey Navalny sia stato ucciso con l’intento di bloccare sul
nascere un possibile dialogo con gli Stati Uniti è a mio avviso da considerare.
Resta comunque un fatto indiscutibile: la vicenda nel suo complesso si è trasformata
immediatamente nell’ennesimo argomento per giustificare l’invio di armi all’Ucraina,
imporre nuove sanzioni e rinnovare l’oltranzismo antirusso, in primo luogo a
Washington e Londra.