“L’ora
sta precipitando, il mondo si sta armando e una terribile sfiducia appare negli occhi di tutti, la fanfara di guerra può essere suonata domani. Cosa stiamo aspettando ancora? Vogliamo essere noi stessi complici come mai prima d’ora?”. (Dal
memorabile discorso sulla pace di Dietrich Bonhoeffer, ventottenne, ai giovani
della Conferenza Internazionale del Concilio Ecumenico a Fanø, in Danimarca il
28 aprile 1934). Ci
troviamo sempre più frequentemente ad affrontare problemi, rischi dei quali,
con difficoltà, comprendiamo la vera natura. Con la conseguenza che siamo
spesso incerti sul da farsi. Sono incertezze che derivano da temi che sembrano
molto lontani dai nostri interessi quotidiani. Sembrano ma non lo sono. E
quindi dobbiamo provare ad affrontare questi temi anche se ci sembrano lontani
dalla nostra quotidianità. Molte delle nostre difficoltà quotidiane derivano da
una grande contraddizione nella quale siamo profondamente immersi. Da un lato
stiamo vivendo l’inizio di un processo di deglobalizzazione, dall’altro siamo
incalzati da problemi che richiedono una sempre più stretta integrazione e
collaborazione mondiale. Da
qualche tempo ascoltiamo, con sempre maggiore frequenza, l’affermazione che
siamo entrati in una fase storica di deglobalizzazione, di un riorganizzarsi
dell’economia mondiale per grandi blocchi regionali. Ma si tratta di
conclusioni affrettate e, in gran parte, superficiali, come erano quelle dei
movimenti no global dei decenni scorsi.
Polibio
La
prima, chiara formulazione del concetto di globalizzazione l’ho trovato in
Polibio, l’ultimo scrittore della Grecia libera, storico ammiratore della
crescita di Roma a potenza globale. Proprio all’inizio delle sue storie,
Polibio scrive: dopo la prima guerra punica “la storia viene a costituire
quasi un corpo unitario, le vicende dell’Italia e dell’Africa settentrionale si
intrecciano a quelle dell’Asia e della Grecia e i fatti sembrano tutti
coordinarsi a un unico fine”. Ma anche nel nostro tempo il processo di
globalizzazione si muove tra alti e bassi, tra avanzamenti e ritirate. Nella
seconda parte dell’ ’800, parte finale del secolo degli inglesi, il mondo era
molto più integrato e libero di tutto il ’900 ed aveva compiuto una lunga
strada verso quella che oggi chiamiamo globalizzazione. “Nella
seconda parte dell’800 il mondo era già abbastanza integrato e aveva già
compiuto una lunga strada verso quella che oggi chiamiamo globalizzazione. La
libera circolazione dei fattori essenziali dello sviluppo (persone, conoscenza,
beni, servizi, capitali) era già molto avanzata. Sono i decenni in cui ingenti
capitali europei si riversano su quel paese in via di sviluppo, denominato Usa.
Sono i decenni in cui, in poco tempo, cinquanta milioni di europei si riversano
nelle Americhe. Sono gli anni in cui i siciliani emigrano in Tunisia. Sono i
decenni in cui paesi chiusi al resto del mondo, come il Giappone e la Cina,
vengono obbligati, anche con metodi brutali, ad aprirsi. Poi, la guerra civile
europea, che durerà dal 1914 al 1945 con il breve intermezzo di un armistizio
armato, porterà alla deflagrazione del sistema nelle singole nazioni, ai
nazionalismi, al fascismo, al totalitarismo nazista, ai protezionismi, alle
dogane proibitive, alle svalutazioni competitive, ai controlli valutari e, con
la rivoluzione bolscevica del 1917, alla creazione della più grande economia
collettivizzata della storia umana. La risposta del Novecento alla globalizzazione
si chiama Hitler, Mussolini, Stalin, nazionalismo giapponese”. (Marco Vitale, America.
Punto e a capo, Scheiwiller, 2002, pag. 106).
Il
mondo diventa così sempre più spezzettato, autarchico, lacerato. Dopo la fine
della seconda fase della grande guerra mondiale europea (1914-1945) il
confronto tra economie di mercato, guidate da Usa emersi dalla guerra come
leader indiscusso, e i grandi blocchi di economie collettiviste diviene
serrato. Ma all’inizio degli anni Settanta inizia, ben mascherato, il declino ed
implosione della più grande economia collettivista della storia umana, quella
dell’URSS. Doveva cadere il muro di Berlino nel 1989 e dovranno venire gli anni
Novanta per farci capire bene la portata storica di questa implosione. Così
dopo l’implosione dell’URSS, il processo di globalizzazione ha ripreso, negli
anni Novanta, il suo cammino, dopo essere stato stroncato dal 1914 al 1989,
dalle guerre, dai nazionalismi, dai collettivismi. Ma non si tratta di un
processo né automatico né sicuro. Il pendolo può sempre girare da un altro lato
ed ha ricominciato a farlo. Così ci ammonisce lo storico americano, Harold
James, che ha studiato a fondo il passaggio dalla globalizzazione britannica ai
laceranti nazionalismi che hanno caratterizzato quasi tutto il ’900 (The End of
Globalisation, Lessons from the great depressione, Harvard University
Press, 2001)e che, ben prima del 21 settembre 2001, aveva previsto che
“vi sono almeno quattro ragioni per pensare che una violenta reazione (al
processo di globalizzazione) sia inevitabile”. Fu proprio la
lettura di questo importante libro che mi fece riflettere, nel 2001, su: “I
nodi della globalizzazione prima e dopo l’11 settembre 2001” (ora in Marco
Vitale, op.cit., pag. 105-126).
La mia conclusione fu che la globalizzazione
dei nostri giorni non era imposta da quello che è stato chiamato “il
consenso di Washington”, come volevano farci credere i talebani dei
movimenti antiglobalizzazione. Essi erano la conseguenza, in primo luogo, del
crollo per inefficienza, disumanità, umiliazione dell’uomo, dei regimi
collettivisti e satrapeschi che, a lungo, hanno dominato gran parte del mondo, ingannandolo
e inferendo inaudite sofferenze a milioni di persone. In secondo luogo,
all’emergere di un intreccio di grandi forze positive: estensione dei
meccanismi di mercato agli ex paesi comunisti e ai paesi in via di sviluppo;
liberalizzazione dei commerci mondiali; sviluppo delle tecnologie in rete;
mercati finanziari sempre più integrati. Nell’insieme la globalizzazione del
nostro tempo è stata ed è un fattore positivo, ma dopo il 1989 si stava
trasformando in una inaccettabile omogeneizzazione, con modalità di
imperialismo economico-militare americano. Ciò ci chiamava ad una revisione
profonda di tanti aspetti della stessa. Come scrive Harold James: “Questi
mutamenti ci rendono consapevoli di come la nostra attività è ormai legata con
il destino di altri miliardi di esseri umani nel mondo. Il dramma delle trasformazioni
economiche che stiamo vivendo richiede un riordino sostanziale delle nostre
istituzioni, non un loro abbandono ma un rafforzamento rispetto alle politiche
tradizionali, come esse si sono sviluppate nel corso del secolo scorso”.
Abbiamo bisogno, dunque, di maggiore mondializzazione più che di maggiore
globalizzazione economica all’americana. Questo scrivevo nel 2001. Ed arriviamo
così all’altro termine della grande contraddizione che ci stringe.
Un
grande libro ci aiuta a comprendere la portata del secondo termine della grande
contraddizione: Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra, L’umanità
al bivio, Feltrinelli, gennaio 2022, pag. 11: “L’umanità di fronte a un
bivio. Il progetto kantiano.L’umanità si trova di fronte a emergenze
globali che mettono in pericolo la sua stessa sopravvivenza: il riscaldamento
climatico, destinato, se non verrà arrestato, a rendere inabitabili parti
crescenti del nostro pianeta; la minaccia nucleare proveniente dalle migliaia
di testate atomiche sparse sulla Terra e dotate di una capacità di distruzione
totale; la crescita delle disuguaglianze e della miseria e la morte ogni anno,
per fame o per malattie non curate, di milioni di esseri umani; la diffusione di
regimi dispotici che violano sistematicamente le libertà fondamentali e gli
altri diritti proclamati in tante carte costituzionali e internazionali; lo
sviluppo del crimine organizzato e delle economie illegali, che hanno mostrato
una straordinaria capacità di contagio e di corruzione dell’economia legale; il
dramma, infine, di centinaia di migliaia di migranti, ciascuno dei quali fugge
da una di queste tragedie. A causa della catastrofe ecologica, per la prima
volta nella storia il genere umano rischia l’estinzione: non un’estinzione
naturale come fu quella dei dinosauri, ma un insensato suicidio di massa dovuto
all’attività irresponsabile degli stessi esseri umani. (…) Grazie
a questa crescente integrazione, l’umanità forma già una società civile planetaria.
Ma è attraversata da conflitti e confini che le impediscono di affrontare i
suoi tanti problemi globali, i quali richiedono risposte politiche e
istituzionali altrettanto globali che certamente non possono essere date dai
singoli Stati nazionali. È quindi inverosimile, in mancanza di limiti e vincoli
costituzionali, che quasi 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani, 10 dei
quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un
sistema industriale ecologicamente insostenibile, possano a lungo sopravvivere
senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità,
alle guerre endemiche senza vincitori, alla crescita delle disuguaglianze e
della povertà e, insieme, dei razzismi, dei fondamentalismi, dei terrorismi,
dei totalitarismi e della criminalità. Oggi, perciò, è più attuale che mai il
progetto kantiano della stipulazione di una “costituzione civile” quale
fondamento di una “federazione di popoli” (…)“È da questa
elementare consapevolezza che è nata l’idea di dar vita a un movimento
d’opinione – la cui prima assemblea si è svolta a Roma il 21 febbraio 2020 – diretto
a promuovere una Costituzione della Terra in grado di imporre limiti e vincoli
ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali, a garanzia dei
diritti umani e dei beni comuni di tutti.L’aspetto più allarmante e sconcertante delle sfide e delle emergenze
odierne è infatti la mancanza di una risposta politica e istituzionale alla
loro altezza, dovuta al fatto che esse non fanno parte dell’agenda politica dei
governi nazionali e possono essere affrontate con successo soltanto a livello globale”.
Questa,
in breve sintesi, il pensiero centrale del libro e del movimento per una
Costituzione della Terra. Ma il libro merita di essere meditato riga per riga,
anche perché esso indica i passi concreti attraverso i quali si può camminare
verso la meta. Alcuni di questi passi sono più semplici di quanto pensiamo. Prendiamo
il caso più eclatante: quello della sanità. Il Covid ha colto tutti i governi
impreparati, svelandone la totale imprevidenza. Eppure, il servizio sanitario
internazionale dispone già di un’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma pochi
sanno che questa organizzazione, roboante nel titolo, può contare su
scarsissimi mezzi (4 miliardi e 800 milioni ogni due anni, in gran parte provenienti
da privati) e sulla mancanza di effettivi poteri. Come meravigliarsi che in
occasione del Covid abbia dato prova di una clamorosa inefficienza? “Bisognerebbe
perciò riformarla e rafforzarla, quanto ai finanziamenti e quanto ai poteri, trasformarla
in una vera istituzione globale di garanzia della salute”(Ferrajoli,
pag. 25). Questi è solo un esempio anche se molto evidente. Ma lo stesso
ragionamento si può sviluppare con la FAO sul tema dell’alimentazione, con la
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale
del Commercio nel campo economico, per il costituendo Demanio Planetario a
tutela dei beni vitali come l’acqua potabile, l’aria, i grandi ghiacciai, le
grandi foreste. È necessario rafforzare questi organismi internazionali e
trasformarli in istituzioni indipendenti dal controllo dei paesi più ricchi, “onde
porli in grado di attuare le finalità emanate dai loro stessi statuti”. (Ferrajoli,
pag. 85).
Niente
è facile, ma niente è impossibile. La nostra Costituzione, compreso l’art.11,
traccia la nostra via che è quella dell’homo faber, della pace, del rispetto
della terra, dell’economia circolare, della dignità inviolabile delle persone ed
è già in perfetta armonia con i principi base del titolo primo del Progetto di
Costituzione della Terra (L. Ferrajoli, op.cit. pag. 149-153).Per portare avanti la trasformazione verso un
mondo multipolare che è la grande trasformazione che stiamo vivendo, e poter così
affrontare i grandi temi comuni di sopravvivenza della specie umana sulla
terra, è indispensabile un mondo di pace, cioè capace di ripudio della guerra come
strumento di soluzione di controversie tra Stati. Anche in questo campo
decisivo abbiamo, almeno sul piano astratto, fatto molti progressi, come
analizza Ferrajoli, nel capitolo: “Il costituzionalismo globale come attuazione
dell’universalità dei diritti umani”. Ma non sufficienti. Sono molte le carte
internazionali sulla pace, sui diritti umani, sui crimini di guerra, che dimostrano
che la coscienza del mondo è andata ben oltre la tradizionale visione che conta
solo la legge del più forte: “oggi questa legge non soltanto è entrata in
contraddizione con tutte le carte internazionali sulla pace e sui diritti
umani, è diventata più che mai insostenibile a causa di due fenomeni nuovi, in
passato impensabili: l’enorme potenza distruttiva degli armamenti in possesso
degli Stati e la crescente integrazione e l’inevitabile interdipendenza fra
tutti i popoli della Terra generate dalla globalizzazione. Di qui la necessità
di una ridefinizione sia della cittadinanza che della sovranità, logicamente
conseguente ai diritti umani universali e al principio di pace, e perciò di un
salto di qualità del costituzionalismo imposto dalle emergenze globali e dai
crimini di sistema che pesano sul futuro dell’umanità” (L. Ferrajoli,
op.cit. pag. 60).
Ma
l’aggressione all’Ucraina, per le modalità disumane e insensate con le quali è
stata condotta, ed ancor più la retorica militarista che essa ha suscitato in
gran parte della classe dirigente americana ed europea, dimostra che, su questa
tematica essenziale abbiamo fatto una regressione paurosa verso la quale fa
ancora molto senso ricordare le parole fondamentali di I. Kant: “Come
l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, che li spinge a
preferire di azzuffarsi di continuo fra loro piuttosto che sottoporsi a una
coazione legale da loro stessi stabilita, a preferire una folle libertà a una
libertà ragionevole, noi lo riguardiamo con profondo disprezzo e lo
consideriamo barbarie, rozzezza, degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe
pensare che popoli civili (di cui ognuno forma uno Stato per sé) dovrebbero
affrettarsi a uscire al più presto da uno stato così degradato”(I.
Kant, Per la Pace perpetua, 1795).
Ma
alla fine ognuno deve prendere una posizione precisa per sé stesso, per la sua attività
nel mondo, per le idee e gli interessi che rappresenta, per i compiti che deve
assolvere. Noi ci dedichiamo ai temi dell’impresa e della imprenditorialità. Non
abbiamo dubbio nell’affermare, con vigore, che l’impresa italiana è interessata
ad una rapida uscita dallo stato di barbarie di cui parla Kant e verso il quale
vogliamo disimpegnarci, a favore invece di una mondializzazione aperta ed inclusiva,
una pace stabile e costituzionalizzata, una stretta collaborazione con tutti
gli altri popoli per affrontare insieme i grandi temi della sopravvivenza del
genere umano sulla terra: riscaldamento climatico, minaccia nucleare, disuguaglianze
crescenti, creazione di un demanio mondiale di beni fondamentali (acqua,
foreste e altri), pandemie e altri temi generali della salute, dell’uomo, degli
animali, della natura, lo sviluppo del crimine organizzato e la loro capacità
di controllare il potere politico, l’ azione responsabile di fronte alle grandi
migrazioni. Nel contribuire ad affrontare responsabilmente questi grandi temi,
l’impresa italiana, se libera e flessibile, può svolgere un ruolo positivo
molto importante e molto utile.