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giovedì 29 febbraio 2024

PER UNA CULTURA DELLA SPERANZA
di Pietro Civitareale



L'attuale crisi politica ed etico-sociale degli Stati europei e non è sotto gli occhi di tutti e i mezzi di comunicazione di massa ne parlano a proposito e a sproposito: Si parla anche, con ossessiva ripetitività, della violenza interpersonale, nelle famiglie, sulle strade, nelle comunità in genere; della corruzione che dilaga ad ogni livello istituzionale ed amministrativo; degli attentati contro la persona, la proprietà, la morale; della criminalità organizzata che sottrae alla Stato decine e decine di miliardi di euro all'anno. Ciò di cui, non si parla affatto, o non si parla a sufficienza (e che, più di quanto non appaia, è strettamente legato alla situazione economica, morale e civile di un popolo) è la crisi culturale e spirituale dell'uomo del nostro tempo sempre più preda d'una pecorile sudditanza agli idoli della mondanità, ai feticci del successo ad ogni costo. Egli ha tutto e, avendo tutto, non si aspetta più nulla dalla vita. Ha smesso persino di guardare avanti, di scrutare il futuro. Ciò che per lui conta è il presente, il qui ed ora. Animale ammaestrato e senza più sentimenti e capacità di ragionare, si limita e ripetere i gesti e le parole che gli hanno insegnato, come se il senso dell'esistenza fosse rimasto altrove, scomparso negli effimeri miracolismi dell'immediato e del contingente, dimenticando, in tal modo, che il progresso materiale, esteriore, meramente strumentale, non dà mai nulla per nulla, che ciò che dà se lo riprende con gli interessi, che il mondo nuovo diventa come il vecchio che ha soppiantato, lasciando che ad ogni cambiamento sopravviva soltanto la sofferenza umana.



Il fatto è che il primato della coscienza sui fatti, il primato del pensiero sulla prassi, il primato, cioè, della cultura sulla politica, come è stato in passato, non esiste più. Il modo stesso in cui gli Stati odierni impostano il problema dello sviluppo sociale e civile è quanto meno discutibile, perché si basa sull'idea che le condizioni economiche, e la politica che ne deriva, sono di primaria importanza per la vita umana, connotano l'identità stessa dell'individuo, mentre non c'è stato un solo esempio, in tutta la storia dell'umanità, in cui la politica si sia rivelata matrice delle condizioni culturali di un popolo e la cultura qualcosa di separato e marginale rispetto ad essa. Semmai, il problema va posto in maniera diversa, nel senso, cioè, che teoria e prassi, conoscenza ed esperienza, cultura e politica sono imprescindibili, si alimentano reciprocamente; e se una priorità esiste essa appartiene alla cultura e non alla politica. L'idea stessa di organizzazione e di gestione di una comunità, prima di appartenere al mondo della politica appartiene al mondo della cultura. Platone, Aristotele, Sant'Agostino, Machiavelli, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, Rousseau sono lì a testimoniarlo con i loro scritti. Per Platone, ad esempio, sono i filosofi i reggitori dello Stato, coloro cioè che possiedono la sapienza se non la verità (ma per Platone sapienza e verità sono la medesima cosa), per cui il venir meno della conoscenza, il venir meno del pensiero, il venir meno delle risorse spirituali e intellettuali equivale al venir meno dello Stato stesso. 



Parlando di cultura, inoltre, non intendiamo riferirci esclusivamente alla cultura occidentale (ossia ad una cultura specifica), ma a tutte le culture del mondo, considerate nella loro diversità. Non ignoriamo che l'uguaglianza è un'antica aspirazione dell'uomo, ma nella cultura il concetto prevalente è sempre stato quello della diversità. Il pluralismo delle culture non implica necessariamente il relativismo dei valori. Preso atto che ogni sistema culturale non è il centro del mondo, che le presunzioni di superiorità sono ingiustificate, l'unica strada da percorrere è quella della intercultura, del decentramento del soggetto, nella convinzione che una cultura, intesa come realtà omogenea e integrale, non è di nessun aiuto alla vita in un mondo che sta diventando sempre più locale e sempre più globale. Sarebbe molto più utile riconoscere che identità e diversità culturale costituiscono aree di scambio, di supporto ed apporti reciproci, che è necessario tendere alla creazione non di un mosaico multiculturale (con le sue barriere interne, erette in nome dell'appartenenza, come avviene in certe particolari zone del Pianeta), ma di spazi in cui ciascuno possa vivere con la propria faccia e la propria storia. Ma, soprattutto, bisogna tendere ad un tipo di cultura fondato su una concezione finalistica dell'esistenza, una cultura che sancisca la distinzione tra mezzi e fini, ritenendola un fondamento dell'atto morale. Una cultura la quale, distinguendosi dal pragmatismo oltranzista della modernità (che nega una tale distinzione, considerando il fine d'ogni azione uno strumento per un fine ulteriore, in un processo di continuità, di mezzi e fini), non rifiuti un'ipotesi metafisica, una prospettiva teleologica, un sapere in grado di sovrapporsi al sapere delle singole scienze. Una cultura, in definitiva, matrice di valori durevoli, capace d'assolvere ad una funzione inaugurale e fondativa della speranza, nella convinzione che soltanto in una tale cultura l'uomo può trovare la soluzione al problema della sua funzione e delle sue ragioni di vita; insomma, delle sue finalità destinali.
 
[Firenze, Febbraio 2024]