PER UNA CULTURA DELLA SPERANZA di
Pietro Civitareale
L'attuale
crisi politica ed etico-sociale degli Stati europei e non è sotto gli occhi di
tutti e i mezzi di comunicazione di massa ne parlano a proposito e a
sproposito: Si parla anche, con ossessiva ripetitività, della violenza
interpersonale, nelle famiglie, sulle strade, nelle comunità in genere; della
corruzione che dilaga ad ogni livello istituzionale ed amministrativo; degli
attentati contro la persona, la proprietà, la morale; della criminalità
organizzata che sottrae alla Stato decine e decine di miliardi di euro
all'anno. Ciò di cui, non si parla affatto, o non si parla a sufficienza (e
che, più di quanto non appaia, è strettamente legato alla situazione economica,
morale e civile di un popolo) è la crisi culturale e spirituale dell'uomo del
nostro tempo sempre più preda d'una pecorile sudditanza agli idoli della
mondanità, ai feticci del successo ad ogni costo. Egli ha tutto e, avendo
tutto, non si aspetta più nulla dalla vita. Ha smesso persino di guardare
avanti, di scrutare il futuro. Ciò che per lui conta è il presente, il qui ed
ora. Animale ammaestrato e senza più sentimenti e capacità di ragionare, si
limita e ripetere i gesti e le parole che gli hanno insegnato, come se il senso
dell'esistenza fosse rimasto altrove, scomparso negli effimeri miracolismi
dell'immediato e del contingente, dimenticando, in tal modo, che il progresso
materiale, esteriore, meramente strumentale, non dà mai nulla per nulla, che
ciò che dà se lo riprende con gli interessi, che il mondo nuovo diventa come il
vecchio che ha soppiantato, lasciando che ad ogni cambiamento sopravviva
soltanto la sofferenza umana.
Il
fatto è che il primato della coscienza sui fatti, il primato del pensiero sulla
prassi, il primato, cioè, della cultura sulla politica, come è stato in
passato, non esiste più. Il modo stesso in cui gli Stati odierni impostano il
problema dello sviluppo sociale e civile è quanto meno discutibile, perché si
basa sull'idea che le condizioni economiche, e la politica che ne deriva, sono
di primaria importanza per la vita umana, connotano l'identità stessa
dell'individuo, mentre non c'è stato un solo esempio, in tutta la storia
dell'umanità, in cui la politica si sia rivelata matrice delle condizioni culturali
di un popolo e la cultura qualcosa di separato e marginale rispetto ad essa.
Semmai, il problema va posto in maniera diversa, nel senso, cioè, che teoria e
prassi, conoscenza ed esperienza, cultura e politica sono imprescindibili, si
alimentano reciprocamente; e se una priorità esiste essa appartiene alla
cultura e non alla politica. L'idea stessa di organizzazione e di gestione di
una comunità, prima di appartenere al mondo della politica appartiene al mondo
della cultura. Platone, Aristotele, Sant'Agostino, Machiavelli, Erasmo da
Rotterdam, Tommaso Moro, Rousseau sono lì a testimoniarlo con i loro scritti.
Per Platone, ad esempio, sono i filosofi i reggitori dello Stato, coloro cioè
che possiedono la sapienza se non la verità (ma per Platone sapienza e verità
sono la medesima cosa), per cui il venir meno della conoscenza, il venir meno
del pensiero, il venir meno delle risorse spirituali e intellettuali equivale
al venir meno dello Stato stesso.
Parlando di cultura, inoltre, non intendiamo
riferirci esclusivamente alla cultura occidentale (ossia ad una cultura
specifica), ma a tutte le culture del mondo, considerate nella loro diversità.
Non ignoriamo che l'uguaglianza è un'antica aspirazione dell'uomo, ma nella
cultura il concetto prevalente è sempre stato quello della diversità. Il
pluralismo delle culture non implica necessariamente il relativismo dei valori.
Preso atto che ogni sistema culturale non è il centro del mondo, che le
presunzioni di superiorità sono ingiustificate, l'unica strada da percorrere è
quella della intercultura, del decentramento del soggetto, nella convinzione
che una cultura, intesa come realtà omogenea e integrale, non è di nessun aiuto
alla vita in un mondo che sta diventando sempre più locale e sempre più
globale. Sarebbe molto più utile riconoscere che identità e diversità culturale
costituiscono aree di scambio, di supporto ed apporti reciproci, che è
necessario tendere alla creazione non di un mosaico multiculturale (con le sue
barriere interne, erette in nome dell'appartenenza, come avviene in certe
particolari zone del Pianeta), ma di spazi in cui ciascuno possa vivere con la
propria faccia e la propria storia. Ma, soprattutto, bisogna tendere ad un tipo
di cultura fondato su una concezione finalistica dell'esistenza, una cultura
che sancisca la distinzione tra mezzi e fini, ritenendola un fondamento
dell'atto morale. Una cultura la quale, distinguendosi dal pragmatismo
oltranzista della modernità (che nega una tale distinzione, considerando il
fine d'ogni azione uno strumento per un fine ulteriore, in un processo di
continuità, di mezzi e fini), non rifiuti un'ipotesi metafisica, una
prospettiva teleologica, un sapere in grado di sovrapporsi al sapere delle
singole scienze. Una cultura, in definitiva, matrice di valori durevoli, capace
d'assolvere ad una funzione inaugurale e fondativa della speranza, nella
convinzione che soltanto in una tale cultura l'uomo può trovare la soluzione al
problema della sua funzione e delle sue ragioni di vita; insomma, delle sue
finalità destinali. [Firenze,
Febbraio 2024]