Pochi
mesi fa è uscita la seconda edizione di un mio libro intitolato Gegen die
Feindschaft. Ein Übungbuch (Contro l’inimicizia. Un libro di esercizi), che
prende lo spunto dall’opera di un autore ebreo, Hans Keilson: il prodigioso e
lucido romanzo Der Tod des Widersachers, pubblicato in Germania nel 1959
e in Italia da Mondadori nel 2011 col titolo La morte dell’avversario,
che l’autore inizia a scrivere nel 1942 in piena guerra mondiale. Il
giovane protagonista – un ebreo, termine che non compare nel testo – è
crescentemente consapevole di essere stato assunto a ‘nemico’ da un personaggio
chiamato B., dietro al quale si cela niente meno che Adolf Hitler. Eppure, il
protagonista si dice convinto fin all’inizio della narrazione che il cammino
incontro e attraverso il nemico (114) equivale al cammino verso se stesso. Le
ultime righe del romanzo appaiono ancor più problematiche e oscure: dopo avere
appreso della morte di B. (Hitler), l’Io narrante dichiara che avrebbe voluto
“evitare questa perdita” (256) e trasformarla “in qualcosa di durevole” (256),
per affermare nel finale della narrazione che “un granello della morte” di B. continuerà
a spargere “il suo sconvolgente seme” (256) nella sua stessa vita. C’è chi ha
letto queste parole quale risultato di una patologia.
Adolf Hitler
Senonché
Keilson era un autore eminente, sebbene poco conosciuto, uno psicoanalista di
scuola freudiana, che durante l’esilio in Olanda fece parte della Resistenza. È
evidente, dunque, che il romanzo richieda, a partire dalle righe finali, una
chiave di lettura adeguata alle intenzioni dello scrittore, tanto complesse
quanto limpide: il protagonista perseguitato rifiuta di “accettare il grido di
guerra” (151) e di rendere eterno lo scontro, la cui logica rimane anche ai
nostri giorni quella enunciata nell’antichità da Carneade (in analogia con
Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia): “Così è sempre stato
[…], si uccide il proprio antagonista poiché per due che si combattono,
evidentemente, non c’è posto sulla terra.” (148). Il protagonista è isolato: la
grande maggioranza si lascia ammaliare da B. (le motivazioni di questa
attrazione sono oggetto di due densi capitoli); ma anche i compagni del giovane
ebreo non condividono le sue posizioni. Per tutti sarà presto troppo tardi per
contrastare la violenza e il terrore di B.
Soltanto
nella cornice del romanzo il lettore viene a sapere che il protagonista è entrato
nella Resistenza (in cui svolge, come l’autore, il ruolo di mediatore di
conflitti), che ha impugnato le armi e sparato al nemico, seppure dopo essere
stato colpito. Le circostanze della sua morte sono tuttavia enigmatiche, tanto
da non potere essere considerato il suo lascito. Quest’ultimo coincide
piuttosto con la semenza della morte di B., con cui termina la narrazione: “E
un granello della sua morte ha sparso in me il suo sconvolgente seme” (256). Il
seme del confronto con l’avversario, che nel giovane ebreo ha trovato il
‘terreno’ adatto per attecchire, è trasmesso al lettore con l’intento di
ostacolare il compiersi della profezia: “Udrete con i vostri orecchi e non
comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete” (Mt 13.13-14). Fase
dopo fase, capitolo dopo capitolo, il giovane persevera nella cura di questo
granello, che nel romanzo assume significato in riferimento a una grande
immagine letteraria: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una
parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra
parte cadde sul terreno sassoso […]; germogliò subito, perché il terreno non
era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò.
Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra
parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta
per uno. Chi ha orecchi, ascolti” (Mt 13.6-9).
Hans Keilson
Fedele a se stesso, il protagonista di
Keilson ha rifiutato lo scontro anche oltre la morte dell’avversario, per
esplorare il principio dell’odio ed è di quest’ultimo che è diventato nemico.
L’esperienza acquisita – il suo lascito – è affidata a un manoscritto che
registra un vero e pro- prio percorso di educazione dei sensi: il primo
incontro con B. è affidato non a caso all’udito, il secondo a una vista
differenziata, aperta su passato e futuro. Nel presente, privo come è di
alleati, il giovane ebreo non può che essere sconfitto. Ha però posto ogni cura
nel predisporre il “terreno buono” e vi ha piantato il “sconvolgente seme”,
che, qualora attecchisse consenti-rebbe di ravvisare per tempo e di contrastare
i “sempre nuovi avversari che scenderanno in campo” (102), prima che sia troppo
tardi. La decisione di curare il granello, affinché possa ‘dare frutto’
abbondante (“il trenta per uno”, “il sessanta”…, Mt 13.9), è affidata a ogni
sin-golo, dal momento che il ‘tribunale’ è quello pacifico della letteratura
che, “[t]i accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai”, come nel
Processo di Kafka. In tal senso, La morte dell’avversario – questa la
mia prospettiva – rende possibile tramutare l’esperienza di lettura in
‘esercizio’, in ‘cura di sé’ e ‘cura del mondo’, ovvero in quella Kulturarbeit
che Freud (Il disagio della civiltà) considera, al pari di Keilson, il
“problema fondamentale”, da cui dipende il “destino della specie umana”.
La
lettura in controluce qui proposta spiega tra l’altro perché il protagonista
non abbia nome, mentre per l’avversario sia stato scelto, tra tutte le lettere,
proprio la B. o bet, rispetto alla quale il giovane ebreo viene a costituirsi
quale alef. Alla lotta tra i molti, il romanzo sostituisce il confronto tra due
personaggi esemplari, la cui rappresentatività si comprende per esempio se
comparata con l’invito di Gesù nello Pseudo Matteo (31.2), che potrebbe fungere
da epigrafe del romanzo: “Dite prima che cosa è l’alef ed io poi vi crederò
quando parlerete della bet.” Il grande romanzo di Hans Keilson diviene
realmente capace di gettare il suo “seme” di pace, certo, a patto di leggere i
diversi capitoli a partire da una reale apertura, da una sollecitudine di
corpo, sensi, ragione e immaginazione, disposti a mettere in discussione le
proprie convinzioni (spesso identitarie e dunque difensive) – motivo per cui il
romanzo è stato non solo frainteso, ma letto assai meno di quanto non meriti.
In
quale modo si esplica qui ed ora la nostra diffusa disattenzione? Che
cosa non vogliamo vedere e udire ancor oggi? In risposta, La morte
dell’avversario sviluppa due tracce. La prima, più generica, in quanto
rinvia a un dover essere, è rappresentata dalla massima di rabbi Hillel, che
aveva raccomandato a un pagano – disposto a convertirsi a condizione che gli
insegnasse il giudaismo nel tempo in cui riusciva a stare su una gamba sola –
un’unica massima: “Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te.” (Più
nota è la riformulazione di Kant.) Ma è la seconda sollecitazione, che proviene niente meno che da un
ammiratore di B., a essere destinata a fungere da “sconvolgente seme” per il
lettore. Mentre l’avversario pare al protagonista “un individuo sfrontato,
spudorato e insolente”, peraltro non “abbastanza interessante” (69), l’amico
del cuore, diventato suo seguace, lo invita a ricredersi: Ti sbagli […], il
tuo nemico dev’essere più importante per te del tuo amico. […] Devi fare i
conti con lui […], quel che spesso un amico non ti dice, quel che spesso
nemmeno tu osi dirti perché non vuoi saperlo o perché davvero non lo sai,
spesso lo scopri solo grazie al tuo nemico. […] In qualche modo devi averlo
profondamente colpito, più profondamente di tanti altri che forse ti sono più
vicini. […] Non sono le sue parole che devi soppesare o studiare. Là dov’è
colpito, là devi andare a cercare. Potresti scoprire che siete affini. (68–70)
Nel proseguo – proprio perché “le
possibilità del mondo esterno sono nel contempo la realtà di quello interno”
(72) – il protagonista si separa dall’amico dell’adolescenza, mentre il
confronto con l’avversario diviene la via maestra dell’esperienza. Anzi, con un
approccio spregiudicato alla vita psichica, il giovane ebreo avverte di avere
individuato, “il [suo] nemico in carne e ossa” (73) tramite il quale indagare
l’intima costituzione del mondo, materiato di luci e di ombre. Sul finire della
narrazione giunge inoltre a intendere la favola sugli alci che muoiono in
mancanza dei lupi, i loro nemici naturali, narratagli dall’amico. E alla figura
del padre, deportato in un lager e ormai morto, che gli fa visita sul finire
della narrazione e che non può comprendere le sue parole, confessa: “Ho
riconosciuto il mio avversario, papà [...]. Gli devo molto. È stato nella mia paura che l’ho riconosciuto.” E
soprattutto non soltanto dichiara che i lupi “[s]oggiacciono
al potere di uno che è più forte, un potere terribile più terribile di quello
che opprime gli alci” – si tratti del peso delle dinamiche storiche, si tratti
della loro personale condizione psicopatologica –, ma anche che “[i]l tempo dei
lupi, sono anche gli alci a stabilirlo” (253), gli alci, tutti quelli che
avversari non sono e non vogliono essere, le donne e gli uomini pacifici, che
devono comprendere e agire per tempo. Chi
coltiva le divisioni, coltiva l’odio. Il protagonista ne fa esperienza nel
capitolo X, assistendo al racconto della profanazione di un cimitero ebraico da
parte di quattro seguaci di B. L’ebreo sa di non potere raccontare a nessuno ciò a cui ha assistito (205). Eppure,
non è andato via, non ha
distolto lo sguardo dalle ombre, di modo che l’avversario tenuto a bada non è
l’altro essere umano, uguale e diverso, ma il sentimento dell’inimicizia:
all’odio che “si rivolge alla
morte”, ha affiancato
l’amore rivolto “alla vita”, ristabilendo tra gli opposti una continuità
indissolubile. Scende fin dentro le radici dell’odio, tanto da coglierne il
potere trasformativo:
Se potessero la
cancellerebbero dal creato, la morte, con il loro odio e le loro imprese eroiche
la annienterebbero e nel loro vaneggiamento si illuderebbero che la loro vita
possa crescere con tanto più vigore quanto più infuriano contro la morte. Ma
non con l’odio, è con la vita che deve negare la morte. Fin quando odi e sono
tumuli e lapidi quelli che devasti, devi sapere che è un cattivo odio perché si
rivolge alla morte e non alla vita. Quest’odio è il tuo nemico, e devi stare
attento perché è un nemico pericoloso. Perciò bisogna imparare anche l’odio.
Oggi è una debolezza, domani può essere una forza, ma è sempre un potere che
arde solo nella trasformazione. (206)
La ricostruzione inizia dunque da un Tu che
non spezzi la relazione con l’Io. Distogliere lo sguardo e chiudere gli occhi è
invece pericoloso, poiché “le qualità inferiori e inaccettabili, le
immagini e i pensieri rimossi, le pulsioni ostacolate, le funzioni poco
sviluppate e in generale tutti gli aspetti non coscientemente vissuti della
psiche vengono proiettati” (M. Trevi, A. Romano, Studi sull’ombra)
sull’altro, sul nemico esterno. La morte dell’avversario osa sfidare il lettore – la cui
singolarità è chiamata in causa, in questo brano centrale, per mezzo dei
pronomi personali io e tu – per amore di una “pienezza” della
vita capace di confrontarsi con le contraddizioni: “in questo fondo originario io voglio
toccarti ed essere afferrato da te, là io sono con te”. È la voce dell’autore
che parla per mezzo del suo protagonista: E se ami appena un
po’ la vita lo trasformerai dentro di te, là dove sei nemico e avversario di te
stesso, e insieme io lo sono per te, là tu lo trasformerai. Puoi anche
pensarlo, ma non è così, tu non mi combatti perché ho un’altra opinione o un
altro colore di capelli o perché nel mio viso sta un naso diverso dal tuo, ciò
contro cui combatti è tutto tuo, e quanto più lo taci a te stesso e non vuoi
accettarlo e non puoi comprenderlo e bari, tanto più fortemente tu lo neghi in
me, con un odio che non è più volto alla vita. Ma là dove tu stesso te la
prendi con te, in questo fondo originario io voglio toccarti ed essere
afferrato da te, là io sono con te. E fin quando tu e io, pensavo ancora, non
avremmo imparato quest’odio che viene dalla pienezza di un cuore buono e
indiviso, volto alla vita, e non avremo messo in salvo quella goccia d’amore
che c’è in esso, saremo cattivi avversari su questa terra e non saremo degni di
incontraci. […] Dovrò ancora impararlo (207)
Hannah Arendt
Dobbiamo
impararlo. La realtà sociale, come oggi si presenta, o il “raggio della
ordinaria esperienza umana”, come sosteneva Hannah Arendt in Vita activa (cap.
42), non offrono molte occasioni che possano favorire “la fiducia nella
contemplazione come mezzo per giungere alla verità”. La grande letteratura,
quale anticipazione di trasformazioni future, consente per intanto di farne
esperienza col corpo, i sensi e la mente.