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lunedì 11 marzo 2024

CON HANS KEILSON  
di Simonetta Sanna


Simonetta Sanna

Oltre la dicotomia di guerra e pace
 
Alla distinzione tra guerra e terrore, avanzata da Silvia Vegetti Finzi su Odissea, vorrei aggiungere quella tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ di ogni conflitto, ossia tra le azioni in difesa della pace avviate per tempo e fatte valere nel tempo, e quelle intraprese quando il conflitto sembra ormai inarrestabile. Lo scarto che si profila chiama in causa la nostra disattenzione quotidiana, laddove una vigilanza costante sarebbe auspicabile, anche se ciò sembra superare le competenze dei nostri organi di senso e lo sviluppo della nostra coscienza. Diversamente dalla prassi sociale e dalla sua economia dell’attenzione distorta, la letteratura favorisce l’attenzione paziente, lo sviluppo della facoltà percettive e la riflessione critica, e non a caso sarà un romanzo a guidarci oltre la dicotomia di guerra e pace.


Silvia Vegetti Finzi
 
Pochi mesi fa è uscita la seconda edizione di un mio libro intitolato Gegen die Feindschaft. Ein Übungbuch (Contro l’inimicizia. Un libro di esercizi), che prende lo spunto dall’opera di un autore ebreo, Hans Keilson: il prodigioso e lucido romanzo Der Tod des Widersachers, pubblicato in Germania nel 1959 e in Italia da Mondadori nel 2011 col titolo La morte dell’avversario, che l’autore inizia a scrivere nel 1942 in piena guerra mondiale. Il giovane protagonista – un ebreo, termine che non compare nel testo – è crescentemente consapevole di essere stato assunto a ‘nemico’ da un personaggio chiamato B., dietro al quale si cela niente meno che Adolf Hitler. Eppure, il protagonista si dice convinto fin all’inizio della narrazione che il cammino incontro e attraverso il nemico (114) equivale al cammino verso se stesso. Le ultime righe del romanzo appaiono ancor più problematiche e oscure: dopo avere appreso della morte di B. (Hitler), l’Io narrante dichiara che avrebbe voluto “evitare questa perdita” (256) e trasformarla “in qualcosa di durevole” (256), per affermare nel finale della narrazione che “un granello della morte” di B. continuerà a spargere “il suo sconvolgente seme” (256) nella sua stessa vita. C’è chi ha letto queste parole quale risultato di una patologia.

Adolf Hitler
 
Senonché Keilson era un autore eminente, sebbene poco conosciuto, uno psicoanalista di scuola freudiana, che durante l’esilio in Olanda fece parte della Resistenza. È evidente, dunque, che il romanzo richieda, a partire dalle righe finali, una chiave di lettura adeguata alle intenzioni dello scrittore, tanto complesse quanto limpide: il protagonista perseguitato rifiuta di “accettare il grido di guerra” (151) e di rendere eterno lo scontro, la cui logica rimane anche ai nostri giorni quella enunciata nell’antichità da Carneade (in analogia con Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia): “Così è sempre stato […], si uccide il proprio antagonista poiché per due che si combattono, evidentemente, non c’è posto sulla terra.” (148). Il protagonista è isolato: la grande maggioranza si lascia ammaliare da B. (le motivazioni di questa attrazione sono oggetto di due densi capitoli); ma anche i compagni del giovane ebreo non condividono le sue posizioni. Per tutti sarà presto troppo tardi per contrastare la violenza e il terrore di B.



Soltanto nella cornice del romanzo il lettore viene a sapere che il protagonista è entrato nella Resistenza (in cui svolge, come l’autore, il ruolo di mediatore di conflitti), che ha impugnato le armi e sparato al nemico, seppure dopo essere stato colpito. Le circostanze della sua morte sono tuttavia enigmatiche, tanto da non potere essere considerato il suo lascito. Quest’ultimo coincide piuttosto con la semenza della morte di B., con cui termina la narrazione: “E un granello della sua morte ha sparso in me il suo sconvolgente seme” (256). Il seme del confronto con l’avversario, che nel giovane ebreo ha trovato il ‘terreno’ adatto per attecchire, è trasmesso al lettore con l’intento di ostacolare il compiersi della profezia: “Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete” (Mt 13.13-14). Fase dopo fase, capitolo dopo capitolo, il giovane persevera nella cura di questo granello, che nel romanzo assume significato in riferimento a una grande immagine letteraria: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso […]; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti” (Mt 13.6-9).

Hans Keilson
 
Fedele a se stesso, il protagonista di Keilson ha rifiutato lo scontro anche oltre la morte dell’avversario, per esplorare il principio dell’odio ed è di quest’ultimo che è diventato nemico. L’esperienza acquisita – il suo lascito – è affidata a un manoscritto che registra un vero e pro- prio percorso di educazione dei sensi: il primo incontro con B. è affidato non a caso all’udito, il secondo a una vista differenziata, aperta su passato e futuro. Nel presente, privo come è di alleati, il giovane ebreo non può che essere sconfitto. Ha però posto ogni cura nel predisporre il “terreno buono” e vi ha piantato il “sconvolgente seme”, che, qualora attecchisse consenti-rebbe di ravvisare per tempo e di contrastare i “sempre nuovi avversari che scenderanno in campo” (102), prima che sia troppo tardi. La decisione di curare il granello, affinché possa ‘dare frutto’ abbondante (“il trenta per uno”, “il sessanta”…, Mt 13.9), è affidata a ogni sin-golo, dal momento che il ‘tribunale’ è quello pacifico della letteratura che, “[t]i accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai”, come nel Processo di Kafka. In tal senso, La morte dell’avversario – questa la mia prospettiva – rende possibile tramutare l’esperienza di lettura in ‘esercizio’, in ‘cura di sé’ e ‘cura del mondo’, ovvero in quella Kulturarbeit che Freud (Il disagio della civiltà) considera, al pari di Keilson, il “problema fondamentale”, da cui dipende il “destino della specie umana”.



La lettura in controluce qui proposta spiega tra l’altro perché il protagonista non abbia nome, mentre per l’avversario sia stato scelto, tra tutte le lettere, proprio la B. o bet, rispetto alla quale il giovane ebreo viene a costituirsi quale alef. Alla lotta tra i molti, il romanzo sostituisce il confronto tra due personaggi esemplari, la cui rappresentatività si comprende per esempio se comparata con l’invito di Gesù nello Pseudo Matteo (31.2), che potrebbe fungere da epigrafe del romanzo: “Dite prima che cosa è l’alef ed io poi vi crederò quando parlerete della bet.” Il grande romanzo di Hans Keilson diviene realmente capace di gettare il suo “seme” di pace, certo, a patto di leggere i diversi capitoli a partire da una reale apertura, da una sollecitudine di corpo, sensi, ragione e immaginazione, disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni (spesso identitarie e dunque difensive) – motivo per cui il romanzo è stato non solo frainteso, ma letto assai meno di quanto non meriti.



In quale modo si esplica qui ed ora la nostra diffusa disattenzione? Che cosa non vogliamo vedere e udire ancor oggi? In risposta, La morte dell’avversario sviluppa due tracce. La prima, più generica, in quanto rinvia a un dover essere, è rappresentata dalla massima di rabbi Hillel, che aveva raccomandato a un pagano – disposto a convertirsi a condizione che gli insegnasse il giudaismo nel tempo in cui riusciva a stare su una gamba sola – un’unica massima: “Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te.” (Più nota è la riformulazione di Kant.) Ma è la seconda sollecitazione, che proviene niente meno che da un ammiratore di B., a essere destinata a fungere da “sconvolgente seme” per il lettore. Mentre l’avversario pare al protagonista “un individuo sfrontato, spudorato e insolente”, peraltro non “abbastanza interessante” (69), l’amico del cuore, diventato suo seguace, lo invita a ricredersi:
 
Ti sbagli […], il tuo nemico dev’essere più importante per te del tuo amico. […] Devi fare i conti con lui […], quel che spesso un amico non ti dice, quel che spesso nemmeno tu osi dirti perché non vuoi saperlo o perché davvero non lo sai, spesso lo scopri solo grazie al tuo nemico. […] In qualche modo devi averlo profondamente colpito, più profondamente di tanti altri che forse ti sono più vicini. […] Non sono le sue parole che devi soppesare o studiare. Là dov’è colpito, là devi andare a cercare. Potresti scoprire che siete affini. (68–70)


 
Nel proseguo – proprio perché “le possibilità del mondo esterno sono nel contempo la realtà di quello interno” (72) – il protagonista si separa dall’amico dell’adolescenza, mentre il confronto con l’avversario diviene la via maestra dell’esperienza. Anzi, con un approccio spregiudicato alla vita psichica, il giovane ebreo avverte di avere individuato, “il [suo] nemico in carne e ossa” (73) tramite il quale indagare l’intima costituzione del mondo, materiato di luci e di ombre. Sul finire della narrazione giunge inoltre a intendere la favola sugli alci che muoiono in mancanza dei lupi, i loro nemici naturali, narratagli dall’amico. E alla figura del padre, deportato in un lager e ormai morto, che gli fa visita sul finire della narrazione e che non può comprendere le sue parole, confessa: “Ho riconosciuto il mio avversario, papà [...]. Gli devo molto. È stato nella mia paura che l’ho riconosciuto.” E soprattutto non soltanto dichiara che i lupi “[s]oggiacciono al potere di uno che è più forte, un potere terribile più terribile di quello che opprime gli alci” – si tratti del peso delle dinamiche storiche, si tratti della loro personale condizione psicopatologica –, ma anche che “[i]l tempo dei lupi, sono anche gli alci a stabilirlo” (253), gli alci, tutti quelli che avversari non sono e non vogliono essere, le donne e gli uomini pacifici, che devono comprendere e agire per tempo.
 
Chi coltiva le divisioni, coltiva l’odio. Il protagonista ne fa esperienza nel capitolo X, assistendo al racconto della profanazione di un cimitero ebraico da parte di quattro seguaci di B. L’ebreo sa di non potere raccontare a nessuno ciò a cui ha assistito (205). Eppure, non è andato via, non ha distolto lo sguardo dalle ombre, di modo che l’avversario tenuto a bada non è l’altro essere umano, uguale e diverso, ma il sentimento dell’inimicizia: all’odio che “si rivolge alla morte”, ha affiancato l’amore rivolto “alla vita”, ristabilendo tra gli opposti una continuità indissolubile. Scende fin dentro le radici dell’odio, tanto da coglierne il potere trasformativo:


 
Se potessero la cancellerebbero dal creato, la morte, con il loro odio e le loro imprese eroiche la annienterebbero e nel loro vaneggiamento si illuderebbero che la loro vita possa crescere con tanto più vigore quanto più infuriano contro la morte. Ma non con l’odio, è con la vita che deve negare la morte. Fin quando odi e sono tumuli e lapidi quelli che devasti, devi sapere che è un cattivo odio perché si rivolge alla morte e non alla vita. Quest’odio è il tuo nemico, e devi stare attento perché è un nemico pericoloso. Perciò bisogna imparare anche l’odio. Oggi è una debolezza, domani può essere una forza, ma è sempre un potere che arde solo nella trasformazione. (206)



La ricostruzione inizia dunque da un Tu che non spezzi la relazione con l’Io. Distogliere lo sguardo e chiudere gli occhi è invece pericoloso, poiché “le qualità inferiori e inaccettabili, le immagini e i pensieri rimossi, le pulsioni ostacolate, le funzioni poco sviluppate e in generale tutti gli aspetti non coscientemente vissuti della psiche vengono proiettati” (M. Trevi, A. Romano, Studi sull’ombra) sull’altro, sul nemico esterno. La morte dell’avversario osa sfidare il lettore – la cui singolarità è chiamata in causa, in questo brano centrale, per mezzo dei pronomi personali io e tu – per amore di una “pienezza” della vita capace di confrontarsi con le contraddizioni: “in questo fondo originario io voglio toccarti ed essere afferrato da te, là io sono con te”. È la voce dell’autore che parla per mezzo del suo protagonista:
 
E se ami appena un po’ la vita lo trasformerai dentro di te, là dove sei nemico e avversario di te stesso, e insieme io lo sono per te, là tu lo trasformerai. Puoi anche pensarlo, ma non è così, tu non mi combatti perché ho un’altra opinione o un altro colore di capelli o perché nel mio viso sta un naso diverso dal tuo, ciò contro cui combatti è tutto tuo, e quanto più lo taci a te stesso e non vuoi accettarlo e non puoi comprenderlo e bari, tanto più fortemente tu lo neghi in me, con un odio che non è più volto alla vita. Ma là dove tu stesso te la prendi con te, in questo fondo originario io voglio toccarti ed essere afferrato da te, là io sono con te. E fin quando tu e io, pensavo ancora, non avremmo imparato quest’odio che viene dalla pienezza di un cuore buono e indiviso, volto alla vita, e non avremo messo in salvo quella goccia d’amore che c’è in esso, saremo cattivi avversari su questa terra e non saremo degni di incontraci. […] Dovrò ancora impararlo (207)

Hannah Arendt
 
Dobbiamo impararlo. La realtà sociale, come oggi si presenta, o il “raggio della ordinaria esperienza umana”, come sosteneva Hannah Arendt in Vita activa (cap. 42), non offrono molte occasioni che possano favorire “la fiducia nella contemplazione come mezzo per giungere alla verità”. La grande letteratura, quale anticipazione di trasformazioni future, consente per intanto di farne esperienza col corpo, i sensi e la mente.