L’OSCENA
PASSIONE PER LA GUERRA di Alessandra Bocchetti
Un tempo
si diceva: la guerra è cosa da uomini. Infatti gli uomini si sceglievano un bel
campo lontano dalle città e lì si davano battaglia e si ammazzavano tra loro,
si ammazzavano guardandosi in faccia. Le donne, altrove aspettavano le lettere
dal fronte e intanto si industriavano, mandavano ai loro figli, mariti, padri delle
calze di lana, delle maglie, qualcosa di buono da mangiare. Oggi piuttosto la
morte arriva dal cielo sotto forma di bombe, di missili non c’è più fronte, si
bombardano le città. Si ammazzano tutti uomini, donne, bambini, vecchi. Per
questo il numero dei morti cresce. Adesso la guerra è cosa di tutti. I nemici
non si guardano più in faccia e non si scrivono più lettere. Nella Prima guerra
mondiale morirono 15 milioni di persone, nella Seconda guerra mondiale ne
morirono settanta milioni. Questo spaventoso balzo in avanti è dovuto al
progresso della tecnica delle armi, l’industria delle armi, progredisce, si
specializza e fa più morti. Perché questa è la guerra: vince chi fa più morti.
Con i progressi della tecnica la guerra non è più lontana, anche quando di
fatto lo è. Ogni sera davanti lo schermo della televisione facciamo il pieno di
desolazione e di pena. La cosa che più mi impressiona sono le immagini delle
case sventrate. Una parete distrutta ti permette di vedere un letto, quadri
sbilenchi alle pareti, un tavolo, un vaso pieno di fiori, che immaginiamo di
plastica. In genere i racconti dell’orrore vengono dopo, a guerra finita. Prima
c’è molta epica, una città viene conquistata oppure perduta. C’è sempre
qualcuno che piange e qualcuno che festeggia. I racconti dell’orrore vengono
dopo, dopo viene a galla il peggio, la merda della guerra, che in genere
riguarda soprattutto le donne: la storia della vecchia crocifissa alla porta
della sua casa o quella della madre costretta a bere il sangue del suo bambino
sgozzato, le teste tagliate con cui si gioca a pallone. E gli stupri. La voglia
di fare più male, più male possibile quella in cui gli uomini perdono anche
quella poca dignità che la guerra potrebbe permettere loro. Quello straccio di
dignità che resta comunque in ogni essere umano. Gli uomini che festeggiano, in
guerra, esprimono spesso la loro gioia sparando in aria, l’ho visto tante
volte. Sparano al cielo per la gioia. Lo stesso fucile con cui hanno ucciso,
perché se festeggiano vuol dire che hanno ucciso, lo rivolgono al cielo e
sparano. Questo è uno dei momenti in cui io misuro la distanza, una
distanza abissale dagli uomini. E dico dentro di me “Mi fanno schifo” ed è così
che la guerra rende peggiore anche me.
Quante
guerre ci possono essere. Quanti nomi. Guerra di difesa, guerra di conquista,
guerra punitiva, guerra umanitaria e perfino guerra preventiva. Questa è
proprio il colmo. Preventiva a che? Al peggio, perché il peggio non muore mai,
come diceva la mia balia. La guerra è un terribile gioco e come tutti i giochi
ha le sue convenzioni e strumenti. Per esempio le divise. I contendenti
indossano divise diverse per non sbagliarsi, altrimenti puoi ammazzare uno dei
tuoi o forse puoi essere ammazzato da quello che pensavi amico. Le divise
servono perché in guerra ci si ammazza tra perfetti sconosciuti. Alle donne
questo non riesce troppo bene. Una donna, certo che sa uccidere, ma in genere
conosce bene chi uccide, ne sa nome e cognome. Avete mai sentito le donne
raccontare la guerra? Come sono diversi i loro racconti dai racconti degli
uomini! Non c’è mai trionfalismo, difficile che trapeli gioia, compiacenza. Al
fondo c’è sempre una certa reticenza, quasi una vergogna. Certo che ci sono
delle eccezioni, ma sono appunto eccezioni. Quando diciamo di raccontare la
guerra fuori dagli schieramenti, non vogliamo dire che non sia possibile
schierarsi, voglio dire che il mio compito di donna è quello di testimoniare
l’orrore della guerra. L’orrore della guerra è al di sopra delle parti e le donne
lo sanno bene perché loro hanno perso tutte le guerre anche quelle che i loro
uomini hanno vinto. La bomba all’uranio esplosa su Hiroshima il 6 agosto del
1945 ha raso al suolo e bruciato il 70% degli edifici ed ucciso 140.000 persone
oltre ad aver provocato un aumento di tassi di cancro e leucemia. La bomba al
plutonio sganciata su Nagasaki solo tre giorni dopo ha ucciso 74.000 persone.
Ancora oggi, si curano migliaia di malattie attribuibili ai bombardamenti del 1945. L’America ancora oggi si giustifica dicendo che se non avesse sganciato
quelle bombe la guerra sarebbe durata e secondo i loro calcoli 250.000 soldati
americani sarebbero morti. Li hanno salvati così. Oggi l’ipotesi di un
bombardamento atomico occupa spesso le prime pagine dei quotidiani. Non se ne
fa una tragedia, è un’ipotesi. I numeri delle guerre sono morti e feriti. I
numeri hanno l’effetto paradossale di nascondere i corpi. I corpi diventano
numeri e sui numeri non si può piangere. Dietro ogni morto però c’è una madre,
una casa, una storia, dei figli… Proviamo a pensarla così: per la Prima guerra
mondiale di madri ce ne sono volute 15.000.000; per la seconda di madri ce ne
sono volute 70.000.000. Forse solo così i numeri tornano ad essere corpi. E
così ci appare l’abisso di dolore.
I valori
supremi per cui gli uomini dicono di combattere sono gli stessi che proprio con
la guerra distruggono: il proprio paese, la propria casa, gli esseri amati, la
vita. Allora ti accorgi che è un serpente che si mangia la coda. O una brutta
malattia. Rigorosamente cerco di attenermi alle norme della raccolta dei
rifiuti. Una cosa fastidiosa è staccare il beccuccio di plastica dal
contenitore del latte che invece è di carta. Quando porto i sacchetti nei
cassonetti della raccolta leggo un adesivo che qualcuno ha messo ben in vista,
che ti interroga intimidatorio “Vuoi bene al pianeta?”. I fiumi che si gettano
nel mar Nero non hanno più pesci, carichi di veleno, raccolto dalle fabbriche
chimiche bombardate, arrivano al mare, e lo inquinano, e il mare Nero a sua
volta inquina il mar di Marmara ed eccoci nel Mediterraneo. Ho sentito questa
mattina alla radio che si prevede che quella guerra durerà ancora cinque anni.
Il che significa che ci stanno uccidendo tutti. Che ne vogliamo fare di questo
nostro femminismo, di questi anni spesi a capire, a studiare, ad ascoltarci,
alla fatica di metterci al mondo, alla fatica di farci libere in un mondo dove
la nostra libertà non era prevista? Che ne facciamo? Se davanti queste guerre
che sono sotto i nostri occhi non riusciamo a sentirci estranee, non estranee
alla morte, al dolore, ma estranee alla guerra stessa, alla sua logica, ai suoi
modi e forme. Eppure quanto abbiamo studiato Antigone, quanti seminari abbiamo
fatto ragionando sull’estraneità alla logica del nemico/amico, quanta passione
abbiamo messo e sorpresa e anche dolore, ma anche grandissima allegria quando
abbiamo detto con Carla Lonzi “Siamo state fuori dalla storia”. Io non mi
assumo la responsabilità dei morti di tutte le guerre della storia. Io mi
assumo la responsabilità dei vivi della storia. Tutti, ma proprio tutti per
venire al mondo sono passati tra le nostre gambe. Viviamo ancora nella storia
degli uomini e la guerra ce lo sta dicendo continuamente. Il patriarcato esiste
e i suoi dispositivi funzionano, la guerra è un suo dispositivo per eccellenza.
Ma il patriarcato è morto nella nostra testa questo è il fatto nuovo. Siamo
state sempre a fianco degli uomini nel corso dei secoli della storia, ma ora
ci troviamo uno di fronte all’altro. È il tempo della differenza, è il tempo di
imparare a raccontare la nostra storia diversa dalla loro e farla valere. La
cultura antropocentrica, lo dice la parola, mette l’uomo al centro e da questo
centro misura le distanze le vicinanze, le somiglianze, da lì fa ordine. Questo
ordine mette la morte a significare la vita. Sembra un gioco di parole ma non
lo è. Tanto è vero che in questo ordine tutti noi viventi siamo chiamati i
mortali.
In questo
ordine per dare inizio a cose importanti si uccide, così Caino uccide Abele,
sicuramente sotto gli occhi della sorella. Della sorella nessuno ne parla ma
sicuramente c’era. Una cifra della cultura antropocentrica è che se anche le
donne ci sono sempre, non se ne parla quasi mai, “quantité negligiable”
anche quando c’è da dare inizio all’umanità. E poi siamo a Roma, come
dimenticare Romolo che uccide Remo, per fondare la città. Io sto con Antigone,
con la sorella di Caino, e aggiungo che sto anche con quella donna anziana,
ostaggio, che liberata saluta il suo carceriere dandogli la mano e augurandogli
pace. Perché loro mi fanno capire che ci sono altri ordini politici possibili,
nei quali la pace non è il risultato temporaneo della guerra e la vita non è
significata dalla morte. Ho il dovere di pensare un mondo diverso. Forse non arriverà
mai, forse non lo vedremo, ma lo devo pensare, perché pensarlo significa
tenerlo in vita come desiderio, come progetto. Pensarlo è già farlo essere.
Questo me lo chiede il mio femminismo.