Pagine

martedì 5 marzo 2024

L’OSCENA PASSIONE PER LA GUERRA 
di Alessandra Bocchetti



Un tempo si diceva: la guerra è cosa da uomini. Infatti gli uomini si sceglievano un bel campo lontano dalle città e lì si davano battaglia e si ammazzavano tra loro, si ammazzavano guardandosi in faccia. Le donne, altrove aspettavano le lettere dal fronte e intanto si industriavano, mandavano ai loro figli, mariti, padri delle calze di lana, delle maglie, qualcosa di buono da mangiare. Oggi piuttosto la morte arriva dal cielo sotto forma di bombe, di missili non c’è più fronte, si bombardano le città. Si ammazzano tutti uomini, donne, bambini, vecchi. Per questo il numero dei morti cresce. Adesso la guerra è cosa di tutti. I nemici non si guardano più in faccia e non si scrivono più lettere. Nella Prima guerra mondiale morirono 15 milioni di persone, nella Seconda guerra mondiale ne morirono settanta milioni. Questo spaventoso balzo in avanti è dovuto al progresso della tecnica delle armi, l’industria delle armi, progredisce, si specializza e fa più morti. Perché questa è la guerra: vince chi fa più morti. Con i progressi della tecnica la guerra non è più lontana, anche quando di fatto lo è. Ogni sera davanti lo schermo della televisione facciamo il pieno di desolazione e di pena. La cosa che più mi impressiona sono le immagini delle case sventrate. Una parete distrutta ti permette di vedere un letto, quadri sbilenchi alle pareti, un tavolo, un vaso pieno di fiori, che immaginiamo di plastica. In genere i racconti dell’orrore vengono dopo, a guerra finita. Prima c’è molta epica, una città viene conquistata oppure perduta. C’è sempre qualcuno che piange e qualcuno che festeggia. I racconti dell’orrore vengono dopo, dopo viene a galla il peggio, la merda della guerra, che in genere riguarda soprattutto le donne: la storia della vecchia crocifissa alla porta della sua casa o quella della madre costretta a bere il sangue del suo bambino sgozzato, le teste tagliate con cui si gioca a pallone. E gli stupri. La voglia di fare più male, più male possibile quella in cui gli uomini perdono anche quella poca dignità che la guerra potrebbe permettere loro. Quello straccio di dignità che resta comunque in ogni essere umano. Gli uomini che festeggiano, in guerra, esprimono spesso la loro gioia sparando in aria, l’ho visto tante volte. Sparano al cielo per la gioia. Lo stesso fucile con cui hanno ucciso, perché se festeggiano vuol dire che hanno ucciso, lo rivolgono al cielo e sparano. Questo è uno dei momenti in cui  io misuro la distanza, una distanza abissale dagli uomini. E dico dentro di me “Mi fanno schifo” ed è così che la guerra rende peggiore anche me.



Quante guerre ci possono essere. Quanti nomi. Guerra di difesa, guerra di conquista, guerra punitiva, guerra umanitaria e perfino guerra preventiva. Questa è proprio il colmo. Preventiva a che? Al peggio, perché il peggio non muore mai, come diceva la mia balia. La guerra è un terribile gioco e come tutti i giochi ha le sue convenzioni e strumenti. Per esempio le divise. I contendenti indossano divise diverse per non sbagliarsi, altrimenti puoi ammazzare uno dei tuoi o forse puoi essere ammazzato da quello che pensavi amico. Le divise servono perché in guerra ci si ammazza tra perfetti sconosciuti. Alle donne questo non riesce troppo bene. Una donna, certo che sa uccidere, ma in genere conosce bene chi uccide, ne sa nome e cognome. Avete mai sentito le donne raccontare la guerra? Come sono diversi i loro racconti dai racconti degli uomini! Non c’è mai trionfalismo, difficile che trapeli gioia, compiacenza. Al fondo c’è sempre una certa reticenza, quasi una vergogna. Certo che ci sono delle eccezioni, ma sono appunto eccezioni. Quando diciamo di raccontare la guerra fuori dagli schieramenti, non vogliamo dire che non sia possibile schierarsi, voglio dire che il mio compito di donna è quello di testimoniare l’orrore della guerra. L’orrore della guerra è al di sopra delle parti e le donne lo sanno bene perché loro hanno perso tutte le guerre anche quelle che i loro uomini hanno vinto. La bomba all’uranio esplosa su Hiroshima il 6 agosto del 1945 ha raso al suolo e bruciato il 70% degli edifici ed ucciso 140.000 persone oltre ad aver provocato un aumento di tassi di cancro e leucemia. La bomba al plutonio sganciata su Nagasaki solo tre giorni dopo ha ucciso 74.000 persone. Ancora oggi, si curano migliaia di malattie attribuibili ai bombardamenti del 1945. L’America ancora oggi si giustifica dicendo che se non avesse sganciato quelle bombe la guerra sarebbe durata e secondo i loro calcoli 250.000 soldati americani sarebbero morti. Li hanno salvati così. Oggi l’ipotesi di un bombardamento atomico occupa spesso le prime pagine dei quotidiani. Non se ne fa una tragedia, è un’ipotesi. I numeri delle guerre sono morti e feriti. I numeri hanno l’effetto paradossale di nascondere i corpi. I corpi diventano numeri e sui numeri non si può piangere. Dietro ogni morto però c’è una madre, una casa, una storia, dei figli… Proviamo a pensarla così: per la Prima guerra mondiale di madri ce ne sono volute 15.000.000; per la seconda di madri ce ne sono volute 70.000.000. Forse solo così i numeri tornano ad essere corpi. E così ci appare l’abisso di dolore.



I valori supremi per cui gli uomini dicono di combattere sono gli stessi che proprio con la guerra distruggono: il proprio paese, la propria casa, gli esseri amati, la vita. Allora ti accorgi che è un serpente che si mangia la coda. O una brutta malattia. Rigorosamente cerco di attenermi alle norme della raccolta dei rifiuti. Una cosa fastidiosa è staccare il beccuccio di plastica dal contenitore del latte che invece è di carta. Quando porto i sacchetti nei cassonetti della raccolta leggo un adesivo che qualcuno ha messo ben in vista, che ti interroga intimidatorio “Vuoi bene al pianeta?”. I fiumi che si gettano nel mar Nero non hanno più pesci, carichi di veleno, raccolto dalle fabbriche chimiche bombardate, arrivano al mare, e lo inquinano, e il mare Nero a sua volta inquina il mar di Marmara ed eccoci nel Mediterraneo. Ho sentito questa mattina alla radio che si prevede che quella guerra durerà ancora cinque anni. Il che significa che ci stanno uccidendo tutti. Che ne vogliamo fare di questo nostro femminismo, di questi anni spesi a capire, a studiare, ad ascoltarci, alla fatica di metterci al mondo, alla fatica di farci libere in un mondo dove la nostra libertà non era prevista? Che ne facciamo? Se davanti queste guerre che sono sotto i nostri occhi non riusciamo a sentirci estranee, non estranee alla morte, al dolore, ma estranee alla guerra stessa, alla sua logica, ai suoi modi e forme. Eppure quanto abbiamo studiato Antigone, quanti seminari abbiamo fatto ragionando sull’estraneità alla logica del nemico/amico, quanta passione abbiamo messo e sorpresa e anche dolore, ma anche grandissima allegria quando abbiamo detto con Carla Lonzi “Siamo state fuori dalla storia”. Io non mi assumo la responsabilità dei morti di tutte le guerre della storia. Io mi assumo la responsabilità dei vivi della storia. Tutti, ma proprio tutti per venire al mondo sono passati tra le nostre gambe. Viviamo ancora nella storia degli uomini e la guerra ce lo sta dicendo continuamente. Il patriarcato esiste e i suoi dispositivi funzionano, la guerra è un suo dispositivo per eccellenza. Ma il patriarcato è morto nella nostra testa questo è il fatto nuovo. Siamo state sempre a fianco degli uomini nel corso dei secoli della storia, ma ora ci troviamo uno di fronte all’altro. È il tempo della differenza, è il tempo di imparare a raccontare la nostra storia diversa dalla loro e farla valere. La cultura antropocentrica, lo dice la parola, mette l’uomo al centro e da questo centro misura le distanze le vicinanze, le somiglianze, da lì fa ordine. Questo ordine mette la morte a significare la vita. Sembra un gioco di parole ma non lo è. Tanto è vero che in questo ordine tutti noi viventi siamo chiamati i mortali.



In questo ordine per dare inizio a cose importanti si uccide, così Caino uccide Abele, sicuramente sotto gli occhi della sorella. Della sorella nessuno ne parla ma sicuramente c’era. Una cifra della cultura antropocentrica è che se anche le donne ci sono sempre, non se ne parla quasi mai, “quantité negligiable” anche quando c’è da dare inizio all’umanità. E poi siamo a Roma, come dimenticare Romolo che uccide Remo, per fondare la città. Io sto con Antigone, con la sorella di Caino, e aggiungo che sto anche con quella donna anziana, ostaggio, che liberata saluta il suo carceriere dandogli la mano e augurandogli pace. Perché loro mi fanno capire che ci sono altri ordini politici possibili, nei quali la pace non è il risultato temporaneo della guerra e la vita non è significata dalla morte. Ho il dovere di pensare un mondo diverso. Forse non arriverà mai, forse non lo vedremo, ma lo devo pensare, perché pensarlo significa tenerlo in vita come desiderio, come progetto. Pensarlo è già farlo essere. Questo me lo chiede il mio femminismo.

[Roma 24 Febbraio 2024]