Giampiero
Neri. L’uso della metafora nei suoi primi lavori e negli ultimi testi poetici. Ne:
L’aspetto occidentale del vestito”, 1976, Giampiero Neri faceva uso di
metafore per dissimulare le proprie convinzioni sulla storia, la politica, la
guerra civile e le forme dell’essere immutabili nel tempo. Tra
gli esempi, dall’“Albergo degli angeli”: “Il cattivo tempo è alle porte e non sarà
per dire: “Amici, eccomi”. Si è già preso molte rivincite, arriva eseguendo i
suoi pericolosi esercizi. Come vorrai riceverlo quando, rovesciato sul dorso,
preme con impazienza davanti al tuo cortile?”. Si
osserva nella metafora politico-storica l’insistenza del pericolo: “pericolosi
esercizi, impazienza”, unita all’ironia, al sarcasmo. Altre
volte l’aspetto onirico, il ricordo parziale della memoria prevalgono (“Albergo
degli angeli”): “Così, alle prime parole, nessuno si chiese per esempio da dove
arrivò la voce. Circondati da uno straordinario numero di ombre, ascoltavamo:
Voi tutti, che siete presenti nel mio spirito”. Notevole
l’uso di “per esempio”, che assevera lo stupore e al tempo stesso il magma
inconscio (“uno straordinario numero di ombre”), al punto che il lettore ne è
convinto, persuaso. Più
oltre nella poesia L’aspetto occidentale del vestito si legge: “In
quel periodo di mutamenti e di consigli difficili il luogo stesso teatro dell’azione si confuse col resto: non
è dubbio che l’aria è cambiata -disse
il consigliere guardando la finestra- gli umori sono meno atrabiliari, una bava di vento increspa le vele”.
L’uso
della metafora politica della nave è antichissimo, il primo esempio ricorre in
Alceo, dove la nave è in preda a venti avversi e il poeta non riconosce la
direzione dei venti, fuor di metafora la polis è aggredita.L’uditorio a cui si rivolgeva Alceo sapeva
comprendere i significati precisi di ogni elemento della metafora. Nella poesia
di Neri la metafora non si rivolge invece ad un pubblico preciso, potremmo dire
che è quello costruito dalla fantasia dell’autore, come residuo ricordo di
accadimenti passati o più probabilmente come fantasmi interni. Perciò la
metafora è vaga e non si presta ad essere spiegata punto per punto con
riferimenti reali ma va interpretata nel suo insieme, come un discorso identico
che trova nuove forme, Raboni aveva scritto di decifrazione infinita. Poesia
che ondeggiava tra sentenze, descrizioni irte di orrido e immagini delicate. Nella
poesia “Liceo” si legge: “Lo scrittore di provincia soffriva di insonnia. Si
dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi
progetti letterari. Stava leggendo il finale di capitolo ottavo “Anche tu
valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”. La
voce è quella di Cesare che si rivolge a Publio Servilio Casca il primo che lo
colpisce, definito ironicamente valoroso, Plutarco l’aveva chiamato miarotate=
scelleratissimo, Shakespeare lo definirà “invidioso”. Le ultime parole sono
un’immagine, forse alludono al culto di Salus, divinità latina simile a Ygea
greca, che fa rinascere, le lucertole sarebbero legate a quel culto; più
probabilmente l’immagine è un’associazione libera che ci allontana dalla logica
storica e concreta del tradimento e dell’aggressività, proprio quando diventa
insopportabile l’osservazione dell’evento tragico. “Le tue lucertole sul muro”
metafora chiusa, che si rivolge ad un pubblico ideale o meglio al proprio mondo
interno, in un colloquio con la propria anima e con i fantasmi che la agitano.
Alla conclusione di “Armi e mestieri” si legge questa breve poesia: “Lungo
la strada provinciale si
riconosceva la casa nell’incipiente
oscurità della sera. Il
grande terrazzo al primo piano era vuoto, la
casa sembrava disabitata deserta
di quelle care ombre che
il tempo aveva cancellato”.
La
lingua insiste sulla mancanza già “nell’incipiente oscurità della sera”, poi
con “vuoto”, e poi “disabitata”, meglio chiarita da “deserta”, un abbandono
segnato ritmicamente dall’allitterazione della d e dal ricorrere evocativo
della vocale a e del pronome “quelle”, per poi raggiungere il culmine nella
formula “care ombre”, che si allarga nella relativa dall’espressione violenta
“che il tempo aveva cancellato”. Credo che da questo abisso, pur ritornando più
volte a descrizioni orrorose nelle poesie successive, Neri si sia
progressivamente distaccato, per ricercare una via più lieve. Nel corso del
tempo e dei molti libri, nei quali Neri ha con fatica e perfezione formale
nuovamente descritto le scene più violente della sua storia personale, la
poesia giunge ad un cambiamento significativo. In Piazza Libia così come
in Utopie l’autore compie un percorso inatteso. Da quei riferimenti al
suo mondo interiore, da un linguaggio elusivo e per la sua gran parte rivolto
ad antichi e scomparsi interlocutori, con metafore chiuse e non del tutto
decifrabili, si passa ad una folla di figure, più o meno importanti per
l’autore, unite alle descrizioni animali, solo che, e questa è già una novità,
non c’è più la ripetitivitàdata dagli
stessi effetti musicali-emotivi, da una lingua che ricerca le ferite e poi se
ne allontana, e neppure dalla certezza della immutabilità delle forme
dell’essere, cosa che sarebbe piaciuta nella Grecia arcaica e già in quella
tardo classica veniva messa in crisi. Il poeta descrive animali, persone,
accomunate dalla sconfitta, dal senso di perdita. E in questo senso di perdita
riconosciamo nella sua poesia un percorso che si conclude negli ultimi giorni
di vita, e che include ogni essere vivente e si apre al più vasto mondo
dell’invisibile in modo rigoroso e straordinario, non come una macchia di
dolore antico ma come un incontro. Esemplare
è il testo a pag. 41 di Utopie: “Si dice di alcune persone che, quando
entrano in una stanza, la occupano tutta. Dovrei immaginare che, quando se ne
vanno, lasciano un grande vuoto. Sono invece portato a pensare che a lasciare
un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo
spazio necessario, che si fanno amare.”. L’inizio è sornione con “Si dice”
molto più neutro e convincente nella sua forma impersonale. Prosegue con un
condizionale o falso condizionale “dovrei immaginare”, continua poi con “Sono
portato a pensare”. Proviamo a sostituirlo con “Penso” e avremo un effetto di
modesta convinzione.È portato a pensare, quasi un essere trascinato da una
forma superiore, nell’assenza di volontà. Poi l’uso degli aggettivi per le
persone: “umili, silenziose” in un asindeto che riproduce il silenzio,
l’assenza, e due relative” che occupano soltanto lo spazio necessario, che si
fanno amare”. Sulla base della lingua comune, con la quale il poeta si
confrontava, ci aspetteremmo: “si fanno volere bene”. Ma qui usa una parola con
tutto l’impegno che richiede: amare. Il
verbo occorre solo in un altro passo di tutta l’opera di Neri e in un modo
puramente descrittivo non lirico, qui invece possiamo dire che ne abbia trovato
la ragione nella poesia e nella vita.
Neri
era il soprannome voluto, ricercato dall’autore, a segnare una fedeltà
politica, un legame indissolubile al passato ma proprio negli ultimi testi si
apre ad altro, da quel colore il nero, che meglio rappresenta la morte, come in
Orazio che nelle satire parla di “atra cura” “nero affanno, nera compagna”. Negli
ultimi testi Neri passa ad un incontro con la vita, inatteso e di apertura
dello spirito oltre che della lingua poetica. Si potrebbe dire che da un essere
per la morte, assiduo e tenace, in un’identificazione con l’ombra, politica e
non solo, il poeta sia passato negli ultimi testi ad una descrizione minuta di
persone, ad una ritrattistica degli umili ma non solo dei vinti, una coralità
teatrale e di maschere. Ricordando un dialogo di Luciano la vita può essere
associata ad una grande processione dove le maschere sono portate fino ad un
certo momento e poi restituite. In fondo e alla fine un’assoluzione dal male e
una liberazione dalla storia.