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mercoledì 3 aprile 2024

AUTORI
di Ugo Pontiggia


Giampiero Neri
 
Giampiero Neri. L’uso della metafora nei suoi primi lavori e negli ultimi testi poetici.
 
Ne: L’aspetto occidentale del vestito”, 1976, Giampiero Neri faceva uso di metafore per dissimulare le proprie convinzioni sulla storia, la politica, la guerra civile e le forme dell’essere immutabili nel tempo.
Tra gli esempi, dall’“Albergo degli angeli”: “Il cattivo tempo è alle porte e non sarà per dire: “Amici, eccomi”. Si è già preso molte rivincite, arriva eseguendo i suoi pericolosi esercizi. Come vorrai riceverlo quando, rovesciato sul dorso, preme con impazienza davanti al tuo cortile?”.
Si osserva nella metafora politico-storica l’insistenza del pericolo: “pericolosi esercizi, impazienza”, unita all’ironia, al sarcasmo.
Altre volte l’aspetto onirico, il ricordo parziale della memoria prevalgono (“Albergo degli angeli”): “Così, alle prime parole, nessuno si chiese per esempio da dove arrivò la voce. Circondati da uno straordinario numero di ombre, ascoltavamo: Voi tutti, che siete presenti nel mio spirito”.
Notevole l’uso di “per esempio”, che assevera lo stupore e al tempo stesso il magma inconscio (“uno straordinario numero di ombre”), al punto che il lettore ne è convinto, persuaso.
Più oltre nella poesia L’aspetto occidentale del vestito si legge:
 
“In quel periodo di mutamenti
 e di consigli difficili
 il luogo stesso teatro dell’azione
 si confuse col resto:
non è dubbio che l’aria è cambiata
-disse il consigliere guardando la finestra-
 gli umori sono meno atrabiliari,
 una bava di vento increspa le vele”.



L’uso della metafora politica della nave è antichissimo, il primo esempio ricorre in Alceo, dove la nave è in preda a venti avversi e il poeta non riconosce la direzione dei venti, fuor di metafora la polis è aggredita. L’uditorio a cui si rivolgeva Alceo sapeva comprendere i significati precisi di ogni elemento della metafora. Nella poesia di Neri la metafora non si rivolge invece ad un pubblico preciso, potremmo dire che è quello costruito dalla fantasia dell’autore, come residuo ricordo di accadimenti passati o più probabilmente come fantasmi interni. Perciò la metafora è vaga e non si presta ad essere spiegata punto per punto con riferimenti reali ma va interpretata nel suo insieme, come un discorso identico che trova nuove forme, Raboni aveva scritto di decifrazione infinita.
Poesia che ondeggiava tra sentenze, descrizioni irte di orrido e immagini delicate.
Nella poesia “Liceo” si legge: “Lo scrittore di provincia soffriva di insonnia. Si dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi progetti letterari. Stava leggendo il finale di capitolo ottavo “Anche tu valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”.
La voce è quella di Cesare che si rivolge a Publio Servilio Casca il primo che lo colpisce, definito ironicamente valoroso, Plutarco l’aveva chiamato miarotate= scelleratissimo, Shakespeare lo definirà “invidioso”. Le ultime parole sono un’immagine, forse alludono al culto di Salus, divinità latina simile a Ygea greca, che fa rinascere, le lucertole sarebbero legate a quel culto; più probabilmente l’immagine è un’associazione libera che ci allontana dalla logica storica e concreta del tradimento e dell’aggressività, proprio quando diventa insopportabile l’osservazione dell’evento tragico. “Le tue lucertole sul muro” metafora chiusa, che si rivolge ad un pubblico ideale o meglio al proprio mondo interno, in un colloquio con la propria anima e con i fantasmi che la agitano. Alla conclusione di “Armi e mestieri” si legge questa breve poesia:
 
“Lungo la strada provinciale
si riconosceva la casa
nell’incipiente oscurità della sera.
Il grande terrazzo al primo piano era vuoto,
la casa sembrava disabitata
deserta di quelle care ombre
che il tempo aveva cancellato”.

 
La lingua insiste sulla mancanza già “nell’incipiente oscurità della sera”, poi con “vuoto”, e poi “disabitata”, meglio chiarita da “deserta”, un abbandono segnato ritmicamente dall’allitterazione della d e dal ricorrere evocativo della vocale a e del pronome “quelle”, per poi raggiungere il culmine nella formula “care ombre”, che si allarga nella relativa dall’espressione violenta “che il tempo aveva cancellato”. Credo che da questo abisso, pur ritornando più volte a descrizioni orrorose nelle poesie successive, Neri si sia progressivamente distaccato, per ricercare una via più lieve. Nel corso del tempo e dei molti libri, nei quali Neri ha con fatica e perfezione formale nuovamente descritto le scene più violente della sua storia personale, la poesia giunge ad un cambiamento significativo. In Piazza Libia così come in Utopie l’autore compie un percorso inatteso. Da quei riferimenti al suo mondo interiore, da un linguaggio elusivo e per la sua gran parte rivolto ad antichi e scomparsi interlocutori, con metafore chiuse e non del tutto decifrabili, si passa ad una folla di figure, più o meno importanti per l’autore, unite alle descrizioni animali, solo che, e questa è già una novità, non c’è più la ripetitività  data dagli stessi effetti musicali-emotivi, da una lingua che ricerca le ferite e poi se ne allontana, e neppure dalla certezza della immutabilità delle forme dell’essere, cosa che sarebbe piaciuta nella Grecia arcaica e già in quella tardo classica veniva messa in crisi. Il poeta descrive animali, persone, accomunate dalla sconfitta, dal senso di perdita. E in questo senso di perdita riconosciamo nella sua poesia un percorso che si conclude negli ultimi giorni di vita, e che include ogni essere vivente e si apre al più vasto mondo dell’invisibile in modo rigoroso e straordinario, non come una macchia di dolore antico ma come un incontro.
Esemplare è il testo a pag. 41 di Utopie: “Si dice di alcune persone che, quando entrano in una stanza, la occupano tutta. Dovrei immaginare che, quando se ne vanno, lasciano un grande vuoto. Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare.”. L’inizio è sornione con “Si dice” molto più neutro e convincente nella sua forma impersonale. Prosegue con un condizionale o falso condizionale “dovrei immaginare”, continua poi con “Sono portato a pensare”. Proviamo a sostituirlo con “Penso” e avremo un effetto di modesta convinzione.È portato a pensare, quasi un essere trascinato da una forma superiore, nell’assenza di volontà. Poi l’uso degli aggettivi per le persone: “umili, silenziose” in un asindeto che riproduce il silenzio, l’assenza, e due relative” che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare”. Sulla base della lingua comune, con la quale il poeta si confrontava, ci aspetteremmo: “si fanno volere bene”. Ma qui usa una parola con tutto l’impegno che richiede: amare.
Il verbo occorre solo in un altro passo di tutta l’opera di Neri e in un modo puramente descrittivo non lirico, qui invece possiamo dire che ne abbia trovato la ragione nella poesia e nella vita.


 
Neri era il soprannome voluto, ricercato dall’autore, a segnare una fedeltà politica, un legame indissolubile al passato ma proprio negli ultimi testi si apre ad altro, da quel colore il nero, che meglio rappresenta la morte, come in Orazio che nelle satire parla di “atra cura” “nero affanno, nera compagna”.
Negli ultimi testi Neri passa ad un incontro con la vita, inatteso e di apertura dello spirito oltre che della lingua poetica. Si potrebbe dire che da un essere per la morte, assiduo e tenace, in un’identificazione con l’ombra, politica e non solo, il poeta sia passato negli ultimi testi ad una descrizione minuta di persone, ad una ritrattistica degli umili ma non solo dei vinti, una coralità teatrale e di maschere. Ricordando un dialogo di Luciano la vita può essere associata ad una grande processione dove le maschere sono portate fino ad un certo momento e poi restituite. In fondo e alla fine un’assoluzione dal male e una liberazione dalla storia.