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martedì 9 aprile 2024

L’ARMADIO DELLA VERGOGNA 30 ANNI DOPO
di Guido Salvini 



Nel trentennale della scoperta dell’Armadio della vergogna è stato presentato a Milano, alla Casa della Memoria, il 5 aprile scorso, il libro di Daniele Biacchessi: Crimini nazifascisti, l’armadio della vergogna. Pubblichiamo l’intervento del giudice Guido Salvini che fu consulente della Commissione parlamentare sull’occultamento dei fascicoli sui crimini nazifascisti.


 
 

Il libro di Daniele Biacchessi è vivido, istruttivo, ben documentato. Racconta in tre parti come si arrivò nel 1994 alla scoperta dei fascicoli “sepolti” in uno scantinato della sede della Procura Generale militare, i processi che, nonostante il tempo trascorso, fu possibile riaprire, da quello per la strage di Sant’ Anna di Stazzema a piazzale Loreto a quelli meno noti di Padule di Fucecchio, Caiazzo e altri. Racconta quali furono le ragioni politiche e istituzionali che portarono all’insabbiamento dei fascicoli. Io nel corso dei lavori della Commissione ero magistrato e quindi parto da quello che è stato il punto di osservazione della mia professione, descrivo quella che viene di solito chiamata “la scena del crimine”, un termine ormai frequente oggi, quando si parla degli interventi della Polizia Scientifica sulla scena di delitti eclatanti. E provo, della scena di questi crimini, a farvi una descrizione visiva.
La Commissione ha cercato infatti di ricostruire esattamente come sono stati ritrovati i fascicoli ed ha fatto quindi un sopralluogo nei locali del palazzo della Magistratura Militare ove nel 1994 essi si trovavano occultati.
La scena è quella che posso così descrivere.
Immaginate un cancello, una stanza più grande e poi una stanza più piccola e poi una stanzina ancora più piccola, buia e polverosa, uno di quei posti se non inaccessibili, quasi o in cui, comunque, non si entra mai.
In fondo, in quest’ultimo stanzino, in un armadio – forse addirittura con le ante contro il muro – ci sono questi 695 fascicoli che sono stati recuperati solo nel 1994, quando è scoppiato il “caso Priebke”, individuato dopo tanti anni in Argentina. Cosa c’era in questi 695 fascicoli? Certo, non tutti sono relativi a eventi tragici; si va anche dal furto di bestiame all’incendio del fienile, fatti che sono destinati ad essere dimenticati negli anni. Ma poi salendo ci sono, subito dopo, le fucilazioni di dieci o venti civili nella piazza di qualche paese, molto spesso comuni dell’Emilia o della Toscana, i luoghi dove avvennero i più gravi eccidi contro la popolazione inerme. E poi ancora a salire i fascicoli riguardano fatti gravissimi come Sant’Anna di Stazzema: un eccidio con 560 vittime, in una località in cui, fra l’altro, non era successo nulla che potesse dare luogo a pretesti di rappresaglia, quali importanti azioni partigiane o azioni di sabotaggio contro l’occupante. Era un comune che aveva solo la sfortuna di trovarsi a ridosso della linea difensiva tedesca – la linea Gotica - e quindi venne “bonificato” con le armi uccidendo appunto centinaia di civili, tra i quali molte donne e bambini, in dodici frazioni dell’abitato. E poi saliamo e arriviamo alla strage di Cefalonia: conosciamo tutti questo eccidio che ha provocato migliaia di vittime. Questo è il quadro di quello che c’era. Sono utili gli esempi concreti e anche nel libro si parla spesso di “archiviazione provvisoria”, possiamo quindi leggere e vederne una perché forse questa immagine è quello che più può rimanere impresso.



Ecco l’immagine di una “archiviazione provvisoria” quella relativa all’eccidio di Tavolicci, vicino a Forlì ove nel luglio 1944 furono uccisi 64 civili:
Proviamo insieme a leggerla: “Il Procuratore Generale Militare, visto gli atti relativi al fatto di cui tratta il fascicolo n. 275 – poiché nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto, non si sono avute notizie utili per la identificazione dei loro autori e per l’accertamento delle responsabilità, ordina la provvisoria archiviazione degli atti.
Data: 14 gennaio 1960, firmato: il Procuratore Generale Militare Enrico Santacroce”.
 
Tutto qui: un foglio così leggero è diventato un macigno spaventoso sui fatti di cui vi ho appena detto. Per usare ancora un paragone giudiziario, tratto dall’esperienza del mio lavoro, i giudici più o meno fanno così le archiviazioni per i semplici furti d’auto ad opera di ignoti. Tra l’altro, si dice “non si sono più avute notizie utili per la identificazione dei loro autori”: certo, se nessuno le cerca o le utilizza, le notizie utili da sole non arrivano o non servono. E questo è il cuore della vicenda. E allora cerchiamo di capire che cosa è accaduto e perché si è arrivati, sul piano giudiziario, a seppellire queste vicende tragiche con questi foglietti. È accaduto, verso il termine della guerra, che l’Italia, come sapete, fosse divenuta cobelligerante e aveva quindi assunto, rispetto ai quasi nuovi alleati inglesi ed americani, il diritto e dovere di giudicare o consegnare i criminali di guerra. Era un problema aperto e bisognava capire come celebrare questi processi, ma intanto i fascicoli relativi a tutti i crimini di guerra erano stati accentrati presso un organo centrale, la Procura Generale presso il Tribunale Supremo, che aveva sede a Roma, che aveva raccolto così tutte le notizie che man mano affluivano e che dovevano servire per i processi che si dovevano aprire.


 
C’era però anche il problema dei criminali di guerra italiani.
Finita la guerra, i processi ai generali italiani che avevano commesso crimini all’estero, crimini di guerra in Grecia, in Albania, in Russia, in Etiopia e Libia e in tutti i Paesi occupati, semplicemente non furono giudicati.
Fu istituita una Commissione che si chiamava “Commissione Casati” dal nome dell’esponente politico che la presiedeva, Commissione che tirò in lungo finché si arrivò alla fine degli anni ‘40; e così accadde che i generali non furono né processati in Italia, né consegnati ai vari Paesi, Grecia, Russia, Albania che li avevano richiesti. Tra il 1950 e il 1951 fu chiuso tutto.
Ricordo anche un episodio molto esplicativo: nel marzo 1945 stava per aprirsi, a Roma, il processo, uno dei pochi che in qualche modo – si era alla fine della guerra – doveva iniziare, quello al generale Mario Roatta, che era stato il principale responsabile dei crimini dell’esercito italiano – alleato all’epoca di quello tedesco – contro civili nei Balcani. Pochi giorni prima dell’apertura del processo, probabilmente con l’aiuto dei Servizi segreti militari, il generale Roatta scappò dalla prigione in cui si trovava a Roma e si rifugiò in Spagna, dove c’era un regime “amico”, quello del generale Franco, e ove poi rimase tranquillamente a vivere per oltre venti anni. Si chiuse così il capitolo dei mancati processi ai generali italiani. Aggiungo una riflessione: non giudicare i nostri criminali e nel contempo non consegnarli al Paese dove avevano commesso crimini e quindi decidere di evitarne la punizione, faceva nello stesso tempo perdere, il diritto di chiedere in consegna dalla Germania federale i criminali nazisti. Anzi, faceva capire che non si voleva fare né l’una né l’altra cosa.



Ma torniamo ai processi non celebrati contro i criminali nazisti, e cioè i fascicoli occultati nell’Armadio. Come si è arrivati e perché si è voluto arrivare a provvedimenti del genere? Ad “archiviazioni provvisorie” destinate a durare per sempre? Questo è uno dei temi principale anche del libro di Daniele Biacchessi. I vertici della Magistratura militare certamente non adottarono quei provvedimenti per loro decisione autonoma, ma su input e suggerimento politico. Bisogna infatti ricordare che la Magistratura militare dell’epoca era, nel suo più alto vertice, nominata dal Consiglio dei Ministri, aveva una struttura rigidamente gerarchica, non era indipendente ma dipendeva dal Ministero della Difesa. Così proprio per questa struttura legata al mondo politico e fortemente gerarchica, sono stati più facili ed indolori provvedimenti come quelli di cui stiamo parlando. La Procura Generale presso il Tribunale Supremo fece il proprio “dovere “: occultò i fascicoli, fece quello che percepiva come l’aspettativa esplicita o implicita dei governi, soprattutto quelli formatisi dal 1947 in poi dopo l’estromissione dei partiti di sinistra. L’idea di celebrare un unico grande processo, relativo a tutti i crimini commessi dai nazisti in Italia. Era del resto presto sfumata perché, con l’insorgere della guerra fredda, era venuto meno l’interesse da parte degli Alleati ad aprire un contenzioso con quello che stava diventando il nuovo alleato, cioè la Germania Federale in via di inserimento nella NATO e le cui forze armate potevano essere inglobate nel quadro del sistema difensivo da quello che era visto come il “nuovo nemico”, cioè il comunismo sovietico. 



Nel libro Biacchessi cita un illuminante carteggio intercorso nel 1956, non molto tempo prima delle archiviazioni provvisorie, tra il Ministro degli Esteri Gaetano Martino e il Ministro della Difesa Emilio Taviani. Il primo scrive che richiedere alla Germania l’estradizione dei criminali nazisti avrebbe causato “una sfavorevole impressione” perché la Germania stava ricostruendo proprio in quegli anni le sue Forze armate di cui “la NATO reclama con impazienza l’allestimento”. Il ministro Taviani nella sua risposta “concorda pienamente”. Più chiaro di così. A questo punto il “grande processo” non sarebbe più stato celebrato ma la Procura Generale militare disponeva di tutti i fascicoli. È assolutamente ovvio, non c’è bisogno di essere studenti o laureati in giurisprudenza, per capire quello che avrebbe dovuto fare: prendere i fascicoli uno per uno per e mandarli nelle sedi competenti per territorio dove dovevano svolgersi i processi: la Procura di Torino, quella di Verona, quella di La Spezia e così via è cioè inviare ciascun fascicolo relativo ad ogni crimine avvenuto in Italia nella sua sede naturale ove completare le indagini e portare a giudizio i responsabili. Invece i fascicoli sono stati tutti trattenuti a Roma e il 14 gennaio 1960 archiviati “provvisoriamente”, provvisorietà che durerà quasi 35 anni, sino al ritrovamento del 1994.


 
Richiamo la vostra attenzione su un punto importante: la Procura Generale militare presso il Tribunale Supremo non aveva, nemmeno in base al sistema giudiziario militare dell’epoca, il potere di archiviare. Perché il potere di archiviazione spettava - sicuramente chi legge di un po’ di processi ha memorizzato questo dato – al Giudice Istruttore fino alla riforma, ed adesso al GIP, il Giudice per le Indagini Preliminari. La Procura Generale militare era quindi del tutto incompetente e ha adottato provvedimenti che altro non possono definirsi se non come assolutamente illegali. E perdipiù alcuni fascicoli ebbero strani movimenti. Ne cito solamente uno che è ampiamente trattato anche in un capitolo del libro e riguarda un evento che a Milano non è stato dimenticato: la strage di Piazzale Loreto, del 10 agosto 1944 in cui, su ordine del Comando tedesco ma con materiali esecutori militi della Guardia Nazionale Repubblicana e della Brigata “Muti”, furono fucilati in Piazzale Loreto quindici antifascisti prelevati dal carcere di San Vittore. Bene, il fascicolo relativo a questa strage era stato già completamente istruito dagli Alleati. In particolare l’efficiente Special Investigation Branch inglese già nel ’45, aveva interrogato militari tedeschi, italiani, interpeti, dattilografe, guardie carcerarie; c’era assolutamente scritto tutto. C’era un pacco di atti assai alto, sulla base dei quali si poteva chiaramente procedere subito, senza nessuna difficoltà, contro i responsabili.



Uno di questi era il capitano Theo Saevecke, capo della Polizia di Sicurezza tedesca a Milano. Questo fascicolo rimase parcheggiato per venti anni. Ad un certo punto in Germania si scoprì che Theo Saevecke era stato assunto, con un ruolo importante, nel Ministero dell’Interno; era diventato un funzionario della Polizia tedesca di un certo rango. Però era circolata nel mondo della stampa tedesca anche la notizia che Saevecke aveva commesso gravi crimini durante la guerra e le autorità tedesche erano state costrette a chiedere notizie al nostro governo. Vi furono una serie di passaggi burocratici, dall’Ambasciata italiana al Ministero degli Esteri, da questo al Ministero della Difesa. Il Ministero della Difesa interpellò la Procura Generale militare chiedendo se si sapeva qualche cosa di crimini commessi in Italia dal cap. Saevecke. Il fascicolo allora esce dall’armadio, siamo nel 1963, viene riguardato un momento, le notizie che vengono fornite alle autorità della Germania Federale sono elusive e praticamente inutili e poi il fascicolo torna nell’armadio. Un doppio occultamento quindi. Quanto avvenuto è veramente inquietante. Se pensiamo soprattutto al fatto che quando, nel 1994, si volle veramente esaminare i fascicoli per smistarli alle Procure territoriali che potevano e dovevano condurre le indagini, bastò pochissimo – perché il fascicolo era già pronto – per cercare dove Saevecke vivesse, giudicarlo in primo e secondo grado e condannarlo infine all’ergastolo. E così è avvenuto e Saevecke – in contumacia perché durante il processo è rimasto in Germania – è stato condannato all’ergastolo per l’eccidio di Piazzale Loreto.
 

Ma se il processo fosse stato fatto venti o trenta anni prima non solo lui ma tutti gli altri responsabili, i generali e gli alti ufficiali suoi superiori, che comandavano la piazza di Milano sarebbero stati sicuramente giudicati colpevoli con lui di questo gravissimo eccidio. Prima di concludere bisogna rispondere alle domande più importanti che sono state poste. Ci si è chiesti, ovviamente, perché ciò sia avvenuto: certo anche perché erano stati sottratti alla punizione i generali italiani. Se l’Italia non puniva i suoi criminali, non poteva, di conseguenza, chiedere in consegna dalla Germania federale i criminali nazisti, era una sorta di rinunzia implicita. Questa è una ragione e un meccanismo perverso che si è formato nella cornice politica dell’inizio della “Guerra fredda” in cui l’amico è diventato il nemico e viceversa. Ma una delle possibili cause, ancora, della rimozione della giustizia almeno per alcuni criminali, è il ruolo che alcuni di essi avevano ricoperto dopo la guerra. Si è scoperto – grazie al Freedom Information Act, la legge che ha reso pubblici negli Stati Uniti i documenti anche del periodo successivo alla 2ª guerra mondiale – che Theo Saevecke, dopo il 1945, oltre a diventare funzionario della Polizia tedesca – e già questo non è poco – era stato reclutato dai Servizi di Sicurezza americani, aveva un suo nome in codice, si chiamava Cabanio, e svolgeva un’azione informativa anticomunista in Germania, per conto degli   Americani. E questo dice molto sul motivo per cui alcuni ex nazisti non furono puniti: certo chi viene reclutato non può essere usato come agente di spionaggio se viene messo in carcere. Devo essere lasciato libero di agire perché è divenuto utile a nuovi e determinati interessi. E questo fenomeno ha toccato non solo Saevecke, ma anche altri personaggi di spicco come il maggiore Karl Hass che è stato condannato, insieme a Erich Priebke, per la strage delle Fosse Ardeatine. Karl Hass, reclutato in Austria, era divenuto, sin dal 1946, un agente dei Servizi Segreti americani. Lo ha confessato lui stesso quando è stato individuato, negli anni ’90. Durante le indagini che ho condotto sulla eversione di destra e sulla strage di piazza Fontana, ero infatti andato a cercare anche i documenti che lo riguardavano e nel fascicolo di Hass che abbiamo trovato nell’archivio dei nostri Servizi Segreti, c’era una pigna di documenti sull’attività che aveva svolto per gli Americani, per molti anni, prima di andare in pensione. Era anche in contatto con il Ministero degli Interni italiano ed era stato incaricato di approntare una “reazione” nel caso in cui nel 1948 il Fronte Popolare di sinistra avesse vinto le elezioni.


 
Concludo sull’argomento. Karl Hass, prima di essere scoperto – o riscoperto – come complice di Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, viveva tranquillamente in Lombardia nella sua villetta ed era ormai un doppio pensionato perché era pensionato delle SS e pensionato dei Servizi americani. Quindi aveva proprio fatto carriera, nonostante tutto. Concludendo: ci si è chiesto quale sia stato il senso di questi processi, se sia stato giusto riaprirli.
Io credo che nessuno certamente si ponesse come obiettivo principale quello di mettere in carcere i responsabili, ormai molto anziani, di questi eccidi. Credo che questo interessasse veramente poco. Non è questo il fine per cui la magistratura dopo la scoperta dell’Armadio ha ripreso a muoversi. Le vere finalità, invece, secondo me sono altre. Prima di tutto il significato di questi processi è stata la possibilità di uno smascheramento pubblico dei colpevoli: pensiamo alla persona che ha dato di sé, per decenni, una immagine rispettabile, che è stato magari funzionario di Polizia come Saevecke e che ha vissuto tranquillamente con la fama di uomo perbene, che fa rispettare le leggi. È giusto che questi criminali della “porta accanto” siano stati invece smascherati dinanzi alla opinione pubblica del loro Paese e del nostro Paese come assassini di donne e bambini quali sono stati. E questo secondo me è il punto essenziale. Lo smascheramento pubblico e il fatto che sia stato possibile uscire dal silenzio. E altrettanto importante è che le sentenze pronunziate dopo che è stato possibile riaprire i processi relativi ad alcuni fascicoli dell’Armadio della vergogna, sanciscano tutte il principio giuridico fondamentale che i responsabili non potevano avanzare in alcun modo la giustificazione di aver obbedito ad ordini. Erano semmai quelli che gli ordini li davano. E un altro effetto importante dei processi che sono stati riaperti è l’aiuto che hanno dato al recupero della memoria per le comunità che sono state martoriate e dimenticate. I componenti della Commissione, all’inizio dei lavori, proprio per rendersi conto dei luoghi, hanno visitato il monumento di commemorazione e il Museo Storico di Sant’Anna di Stazzema. 



È uno dei più importanti costituiti dai sopravvissuti di una strage nazifascista e ha un percorso didattico che può essere seguito anche dagli studenti, con un materiale fotografico e documentale notevole e con una stele e un ossario in ricordo di quegli eventi. Questi luoghi di incontro e di commemorazione consentono, per le comunità colpite, che non si perda la memoria e che anche tutte le generazioni che non hanno direttamente vissuto queste tragedie possano ricordare quegli eventi. E se riflettiamo, i fatti di cui si occupata la Commissione e i fatti di strage che sono avvenuti in Italia negli anni ‘70 da piazza Fontana in poi sono legati un po’ da un unico filo: dallo stesso modo di concepire il rapporto fra lo Stato ed i cittadini, cittadini che lo Stato non ha tutelato ma anzi ha accettato che fossero sacrificati e dimenticati. In tutti questi casi è stata sacrificata la vita dei cittadini e la verità per interessi altrui. Dall’Armadio della vergogna alle stragi della strategia della tensione di cui mi sono occupato vi è stata la tragica scelta di stabilizzare equilibri internazionali e comunque mantenere un certo quadro politico e istituzionale che non dovevano essere assolutamente modificati da processi e indagini che potevano dare fastidio. Vi è quindi un filo che collega i crimini avvenuti nell’ultima fase della guerra e il loro occultamento e gli avvenimenti quasi dello stesso segno, i tentativi di colpo di Stato e le stragi, avvenuti negli ’60 e ’70, oggetto di altrettanti occultamenti e depistaggi. Io credo che possiamo comprendere, anche pensando a questo nesso, che la storia d’Italia non è una storia di misteri che non hanno né padri né colpevoli, ma è una storia di verità tragiche che grazie al lavoro dei magistrati, al lavoro delle Commissioni parlamentari e oggi grazie al libro di Daniele Biacchessi, che dovrebbe essere letto in tutte le scuole, siamo ormai in grado di leggere pienamente.