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sabato 13 luglio 2024

POETI
di Alberto Figliolia


 
L’abbaio di un cane…
 
L’abbaio di un cane nei giardini deserti.
I mille occhi dei palazzi muti.
Le reti elettriche tracciano infiniti sentieri nel cielo:
 invisibili dei li percorrono.
Un tram attende la propria partenza.
Lanterne cinesi pendono dagli alberi.
 
I pantaloni verdi come un prato alieno,
la chioma corvina come una notte sconosciuta,
sorridendo attraversa il corridoio.
Scollature immobili sulle sedie di similmetallo.
Il bianco-azzurro di una maglietta dell’Argentina.
“La mia è una patologia degenerativa… Lo stomaco a pezzi…”,
un’eco distorta.


L’artrosi dei sentimenti.
Caotiche ombre sulle pareti.
Lo strofinio delle carte compulsate, con gli esiti
e i numeri del destino.
Non esiste una terapia del dolore contro il dolore dell’amore.
Camici bianchi svolazzano come farfalle tropicali.
Sui termosifoni di pallido azzurro la luce segna inediti confini.
Dalle griglie sul soffitto piovono baluginii rosa.
Un campanello squilla spezzando la monotonia
del momento eterno.


Un sussurrio lontano si rifugia morbido nelle orecchie stanche.
Non è più il tempo dei fiori o forse non lo è ancora.
Le porte ingoiano e risputano, a intermittenza.
Il riflesso del volo di un piccione sui vetri impolverati,
a rovescio fra le nuvole sfrangiate.
Alla balaustra di un balcone un fumatore pensoso;
ha la parvenza dell’immobilità, è il gioco
non percepito della distanza,
orizzonte di carne e strazio afono; poi se ne va, piccole onde 
d’urto nell’indifferenza del mattino.


Un vecchio strascica il passo, il labbro inferiore pendulo,
gli occhi acquosi persi in un universo di malinconia,
la folla scompagnata dei ricordi a torturarlo.
Le unghie cobalto di una dottoressa.
Le cifre mentali del desiderio impotente.
Mi accovaccio nello sguardo interno, in un abito fiorito
dalle pieghe esotiche,
nel dondolio dei corpi che avanzano statici,
nel ticchettio inudibile del tempo,
nell’immagine viola della mia bougainville,
nelle lacrime mai piante.


Un tatuaggio sulla spalla destra ondeggia
come fotogrammi mossi a mano.
Un ragno, fuori, sospeso nel vuoto, come la danza
della foglia quel giorno di ottobre dopo la morte di mio padre,
nel sospiro freddo di un vento corto.
Il tip-tap di piedi impazienti.
Una barba religiosa si alza da un sedile di chiodi figurati,
 la vista dura, la bocca amara.


Rileggo i versi di un amico lontano; aerei son volati
alla mia incerta stazione:
lo stupore mi scuote dolce con il dono di una grata meraviglia;
la vertigine dell’apocalisse si sposta più in là.
Sento le correnti dell’aria condizionata creare cieli artificiali
solcati dai motori di navi oniriche;
forbici di titanio taglieranno le ali.
Biascichio di parole.
 
Due tubicini nelle narici, la disperazione a correre
forsennata nelle pupille.
La spirale frantumata di uno zampirone presso il bordo
sbeccato di una finestra con la tapparella calata.
Fiori selvatici nelle crepe dei muri, il potere dell’umiltà
e della bellezza.


Forse nei cespugli che scorrono fuori si annidano fenici,
il miracolo della resurrezione, una nuova alba.
 
[In un istituto clinico milanese e nei meandri della città
Venerdì 12 luglio 2024]