Scrive Italo
Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da
dire”. Tutti i buoni libri sono dei classici e, dunque, sono intemporali.
Attraverso alcune riflessioni (la religione, l’aldilà, l’universo, la poesia)
di cinque autori di epoche lontanissime, è possibile cogliere la loro estrema
attualità.
Figlio di
Blosone, Eraclito di Efeso (535 a. C. - 475 a. C.), era considerato da tutti, compresi Socrate e
Platone, un autore enigmatico, oscuro (ho skoteinòs). Così si diceva di lui e
del suo libro dei Frammenti. Di lui, di cui sarebbe bastato il frammento
numero 52 per renderlo celebre. Un pensiero semplice, in apparenza, privo di
qualunque oscurità, ma profondo: “Il fiume in cui entrano è lo stesso, ma
sempre altre sono le acque…” aveva scritto. Oscuro non lo era neppure il
frammento numero 37 (furono così rubricati, i pensieri del filosofo, forse per
comodità editoriale e numerati per agevolare il lettore, essendo privi di
titoli tematici come avviene spesso per le scritture aforistiche), e in cui non
c’è traccia di alcuna teogonia e tanto meno l’ombra di una visione creazionistica
e favolisticamente mitologica. Il mondo non ha avuto bisogno di nessun
artefice: “Questo cosmo né alcuno degli dèi lo fece né alcuno degli uomini, ma
fu sempre ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si
spegne con misura”. A questa visione a-teistica della creazione, fa da
corollario una visione del destino umano sconfortante e privo di qualunque aldilà
consolatorio. Il destino di chi nasce è la morte e chi dà la vita consegna i
propri cari a questo ineluttabile destino. Lo leggiamo nel tragico frammento
numero 50: “Una volta nati vogliono vivere e avere il loro destino di morte, e
lasciano figli che diano esseri a destini di morte”. Secoli e secoli dopo, un
poeta del nostro tempo poteva mettere in versi un frammento come questo:
“Poiché la vita procede a caso, / non ti è stata risparmiata la tua dose. / E
ce ne andremo tutti col rimpianto, / di aver messo dei figli sulla terra”.
L’orgoglioso sapiente che riteneva di saper tutto, non aveva alcuna
considerazione della medicina del suo tempo. Si narra che ammalatosi di
idropisia si ricoprì di letame convinto che il calore avrebbe espulso i liquidi
dal suo corpo. Altri sostennero che il letame avesse attirato un branco di cani
e da questi fu sbranato. Tragico destino per un filosofo materialista. Callimaco
l’epigrammista
Anche gli Epigrammi
di Callimaco sono brevi e secchi. Il poeta di Cirene (vi era nato verso il 310
a. C. ed aveva abitato in un sobborgo di Alessandria) se la può cavare con poco,
anche un solo distico per spalancarci un mondo o regalarci un’emozione. De
resto l’epigramma VIII, che si compone di appena otto versi, fa l’elogio della
brevità e ci rammenta che al poeta bastano pochi versi quando è posseduto dal
demone della creatività. Sono quei momenti che i poeti definiscono vere e
proprie epifanie, in cui la poesia sembra farsi da sé, tanto scorre
fluida e precisa. “Poche sillabe occorrono al poeta, / o Dioniso, quando e
fortunato…”. L’epigramma XIII è costruito come un dialogo a tre voci. A parlare
sono una tomba, un visitatore e un defunto e quanto a disillusione, rispetto ad
una possibile vita ultraterrena, la visione non è meno sconfortante di quella
di Eraclito. Vediamola nella sua secchezza.“Non è qui che riposa Càride?”
/ “Se intendi il figlio di Arimma Cireneo sotto di me riposa” / “O Càride che
ne è dell’oltretomba?” / “Buio pesto”. / “E di tornare che si dice?” / “È una
bugia” / “O di Plutone” / “Favole” / “Siamo rovinati”. / “Sono stato sincero.
Ma se cerchi conforto, / un manzo costa appena un soldo giù nell’Ade”. La
chiusa sul prezzo del manzo può suonare cinica, ma è un abile espediente
ironico di alleggerimento.
Aulo Persio
Flacco satirico
A proposito di
oscurità anche alcuni passaggi de Il libro delle satire del giovane Aulo
Persio Flacco (era nato a Volterra nel 34 d. C. ma aveva sempre vissuto a Roma
dove governava Nerone e dove morì nel 62 d. C. ad appena 28 anni) oggi a noi
suonano oscuri, soprattutto senza una serie di spiegazioni che ci permettano di
decifrarle. Si veda questo brano della Satira Quinta che poi altro non è che
una serrata critica rivolta ai poeti. Per molti aspetti quelli di oggi non sono
meno ambiziosi, cortigiani, salottieri di quelli del suo tempo. “È abitudine
dei poeti invocare per sé cento voci, di augurarsi per i loro carmi cento
bocche e cento lingue, sia che si tratti di una tragedia che l’attore declamerà
con faccia lugubre, sia che debbano cantare le ferite del Parto che si strappa
il ferro dall’inguine. Dove vuoi arrivare, o che bocconi di così robusta poesia
vuoi tu ingoiare, per aver bisogno di cento gole? Nella loro magniloquenza,
adunino nuvole sull’Elicona coloro per i quali bollono le pentole di Progne e
di Tieste, di cui dovrà spesso cenare l’odioso Glicone. Ma tu non sospingi i
venti col mantello anelante, mentre nella fornace cuoce il metallo e non
gracchi rauco, con misterioso brontolio, non so che solenni sciocchezze, e
neppure ti gonfi le guance per svuotarle di colpo con uno scoppio…”.Cantare il coraggio dei combattenti iranici
fieri avversari dei Romani che con indomito coraggio si strappavano le frecce
dalla pancia e continuavano a battersi; non essere ampollosi nel linguaggio
poetico usando versi retorici e dal contenuto vacuo (facendo torto alle Muse protettrici
delle arti che risiedono sul monte Elicona); non esagerare con le esibizioni di
immagini orrorifiche con cui venivano imbastiti i versi: carni di figli e di
congiunti serviti come cibi, episodi tratti dalla mitologia antica (Progne e
Tieste) e l’attore Glicone per sbarcare il lunario era costretto a recitare
queste orrende tragedie. Persio non ha bisogno di ricorrere a questi artifizi;
la sua è una poesia umile, fatta di contenuti morali e tesa al bene come gli ha
insegnato l’amico Cornuto a cui rende omaggio. E a questi princìpi si attiene.
C’è, in questa stessa satira, un riferimento alla “candida toga”, quella
indossata da candidati alle cariche pubbliche. La toga candida, da cui
deriva il termine “candidato”, era simbolo di purezza, onestà, rigore morale.
Oggi pochi candidati potrebbero indossarne una sentendovisi a proprio agio, e
il titolo di “onorevole”, che deriva da onore, stride, e sentiamo che molti di
loro non lo meritano. Pubblio
Terenzio Afro il punitore di sé stesso
In molti
citano, nelle versioni più diverse, la frase di Pubblio Terenzio Afro: “Sono un
uomo, e di quanto è umano nulla penso che mi sia estraneo”, ma pochissimi sanno
che il commediografo cartaginese l’ha messa in bocca a Cremente, uno dei suoi
personaggi dell’opera dal titolo che in latino suona come uno scioglilingua: Heautontimorumenos.
Questo è il titolo sulla copertina dell’edizione della Collezione di teatro
Einaudi diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri. Non so se in edizioni
successive, o se stampata da altri editori, il titolo sia poi stato cambiato. Non
avendo nel tempo riletta questa commedia, non ne sono sicuro. Tradotto sarebbe:
Autopunizione o, forse ancora meglio, Il punitore di sé stesso.
Come si chiamasse in origine questo autore non lo sappiamo; sappiamo, invece,
che ancora ragazzo era stato venduto come schiavo ad un senatore romano di nome
Terenzio Lucano a cui deve la sua istruzione e anche il suo ingresso nella società
aristocratica e intellettuale romana. Terenzio scriverà in latino e come
riconoscenza al suo mentore, ne assumerà il patronimico. Il cognome Afro gli
rimase e gli storici sostengono che esso rivelerebbe ascendenze libiche più che
puniche. A noi importa poco, importa la saggia ed umana frase che apre la scena
prima della sua commedia nel dialogo fra Cremente e Menedemo e che da quel
lontano 163 a. C. continua ad essere viva fra quanti, davanti alla ferocia
della storia, non hanno perso il sentimento della pietà e della commozione. Marco Minucio
Felice confronto fra fedi
L’autore di: Ottavio.
Contraddittorio fra un pagano e un cristiano era un avvocato; africano di
nascita si era convertito alla nuova fede cristiana oramai molto diffusa a Roma.
L’opera è un dialogo fra il pagano Cecilio e il cristiano Ottavio e avviene
durante una passeggiata lungo il lido di Ostia. Il tema del contendere è la
religione e si svolge alla presenza di Marco che in questo confronto ha la
funzione di giudice. Sono tutti e tre avvocati, e dunque maestri di retorica e
di rigoroso argomentare. Minucio, in quanto convertito, non è imparziale e in
cuor suo non può che compiacersi della dialettica di Ottavio e della sua
abilità nel confutare le tesi dell’avversario. Cecilio, convinto dai ragionamenti
di Ottavio, alla fine abbraccerà anch’egli la fede cristiana e abbandonerà il
paganesimo. Ci sono, in questo scritto, sprazzi di grande modernità, vediamone
uno tratto dal ragionamento di Cecilio: “L’uomo, e con lui ogni essere vivente,
che nasce, respira, cresce, è una combinazione spontanea di atomi, nei quali di
nuovo si scompone, si dissolve, si disgrega: parimenti ogni cosa ritorna verso
la propria origine e si dissolve in sé stessa, senza bisogno di nessun
artefice, né arbitro, né creatore”. E ancora: “(…) Il caso domina il mondo,
libero da ogni legge, con il suo procedere capriccioso e incerto”. Come si può
vedere, Cecilio esprime una interpretazione fisica e materialistica della
natura, non diversa da quella che si ritrova nel frammento 52 di Eraclito.
Ottavio a sua volta si fa beffe delle credenze degli antenati, degli antichi, e
cerca di minare alla base le credenze derivate dall’età mitologica: “(…) I
nostri antenati prestarono tanto facilmente fede alle menzogne, da ammettere
ciecamente anche altre mostruosità, dei veri prodigi”, che egli definisce
“Favole da vecchie donnicciole”, con “uomini che si trasformano in uccelli e in
belve e così pure degli uomini che diventano alberi o fiori. Se ciò fosse
avvenuto un dì avverrebbe ancora: ciò che non può più avvenire non avvenne mai.
Parimenti i nostri antenati si sono sbagliati in ciò che concerne gli dèi:
malaccorti, creduloni, hanno prestato fede con rozza faciloneria”. Tutto vero e
tutto giusto, però Ottavio non applica questo rigore logico alla sua di fede,
ai miracoli, alla resurrezione e così via. E Minucio non fa dire nulla a
Cecilio perché possa rintuzzare queste credenze altrettante favolistiche di
Ottavio. Ottavio rincara la dose: “Queste favole e queste superstizioni, le
abbiamo apprese dai parenti ignoranti e, ciò che è più grave, le perfezionammo
attraverso lo studio e l’istruzione, soprattutto dai carmi dei poeti che, a
cagione della loro autorità, sommamente hanno nociuto alla verità”. Si vede
bene come queste parole vadano a demolire tutto il mondo omerico e pre-omerico;
quello di Virgilio, di Ovidio, di Dante e dei creatori di fantasia, compresi i
profeti visionari. Da questo punto di vista non era senza ragione che Platone
avesse bandito dalla sua Repubblica i poeti, salvo poi ammannirci a sua volta
un immaginario theòs e uno Stato ideale utopistico e oppressivo. Duro, ma molto
efficace e condivisibile il giudizio di Ottavio sui combattimenti fra
gladiatori nelle arene, definite “autentica scuola di omicidio”.