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mercoledì 18 settembre 2024

CLASSICI
di Angelo Gaccione
 

Eraclito l’oscuro


Scrive Italo Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Tutti i buoni libri sono dei classici e, dunque, sono intemporali. Attraverso alcune riflessioni (la religione, l’aldilà, l’universo, la poesia) di cinque autori di epoche lontanissime, è possibile cogliere la loro estrema attualità.


Figlio di Blosone, Eraclito di Efeso (535 a. C. - 475 a. C.), era considerato da tutti, compresi Socrate e Platone, un autore enigmatico, oscuro (ho skoteinòs). Così si diceva di lui e del suo libro dei Frammenti. Di lui, di cui sarebbe bastato il frammento numero 52 per renderlo celebre. Un pensiero semplice, in apparenza, privo di qualunque oscurità, ma profondo: “Il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque…” aveva scritto. Oscuro non lo era neppure il frammento numero 37 (furono così rubricati, i pensieri del filosofo, forse per comodità editoriale e numerati per agevolare il lettore, essendo privi di titoli tematici come avviene spesso per le scritture aforistiche), e in cui non c’è traccia di alcuna teogonia e tanto meno l’ombra di una visione creazionistica e favolisticamente mitologica. Il mondo non ha avuto bisogno di nessun artefice: “Questo cosmo né alcuno degli dèi lo fece né alcuno degli uomini, ma fu sempre ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si spegne con misura”. A questa visione a-teistica della creazione, fa da corollario una visione del destino umano sconfortante e privo di qualunque aldilà consolatorio. Il destino di chi nasce è la morte e chi dà la vita consegna i propri cari a questo ineluttabile destino. Lo leggiamo nel tragico frammento numero 50: “Una volta nati vogliono vivere e avere il loro destino di morte, e lasciano figli che diano esseri a destini di morte”. Secoli e secoli dopo, un poeta del nostro tempo poteva mettere in versi un frammento come questo: “Poiché la vita procede a caso, / non ti è stata risparmiata la tua dose. / E ce ne andremo tutti col rimpianto, / di aver messo dei figli sulla terra”. L’orgoglioso sapiente che riteneva di saper tutto, non aveva alcuna considerazione della medicina del suo tempo. Si narra che ammalatosi di idropisia si ricoprì di letame convinto che il calore avrebbe espulso i liquidi dal suo corpo. Altri sostennero che il letame avesse attirato un branco di cani e da questi fu sbranato. Tragico destino per un filosofo materialista.
 
Callimaco l’epigrammista



Anche gli Epigrammi di Callimaco sono brevi e secchi. Il poeta di Cirene (vi era nato verso il 310 a. C. ed aveva abitato in un sobborgo di Alessandria) se la può cavare con poco, anche un solo distico per spalancarci un mondo o regalarci un’emozione. De resto l’epigramma VIII, che si compone di appena otto versi, fa l’elogio della brevità e ci rammenta che al poeta bastano pochi versi quando è posseduto dal demone della creatività. Sono quei momenti che i poeti definiscono vere e proprie epifanie, in cui la poesia sembra farsi da sé, tanto scorre fluida e precisa. “Poche sillabe occorrono al poeta, / o Dioniso, quando e fortunato…”. L’epigramma XIII è costruito come un dialogo a tre voci. A parlare sono una tomba, un visitatore e un defunto e quanto a disillusione, rispetto ad una possibile vita ultraterrena, la visione non è meno sconfortante di quella di Eraclito. Vediamola nella sua secchezza. 
“Non è qui che riposa Càride?” / “Se intendi il figlio di Arimma Cireneo sotto di me riposa” / “O Càride che ne è dell’oltretomba?” / “Buio pesto”. / “E di tornare che si dice?” / “È una bugia” / “O di Plutone” / “Favole” / “Siamo rovinati”. / “Sono stato sincero. Ma se cerchi conforto, / un manzo costa appena un soldo giù nell’Ade”. La chiusa sul prezzo del manzo può suonare cinica, ma è un abile espediente ironico di alleggerimento.

 
Aulo Persio Flacco satirico



A proposito di oscurità anche alcuni passaggi de Il libro delle satire del giovane Aulo Persio Flacco (era nato a Volterra nel 34 d. C. ma aveva sempre vissuto a Roma dove governava Nerone e dove morì nel 62 d. C. ad appena 28 anni) oggi a noi suonano oscuri, soprattutto senza una serie di spiegazioni che ci permettano di decifrarle. Si veda questo brano della Satira Quinta che poi altro non è che una serrata critica rivolta ai poeti. Per molti aspetti quelli di oggi non sono meno ambiziosi, cortigiani, salottieri di quelli del suo tempo. “È abitudine dei poeti invocare per sé cento voci, di augurarsi per i loro carmi cento bocche e cento lingue, sia che si tratti di una tragedia che l’attore declamerà con faccia lugubre, sia che debbano cantare le ferite del Parto che si strappa il ferro dall’inguine. Dove vuoi arrivare, o che bocconi di così robusta poesia vuoi tu ingoiare, per aver bisogno di cento gole? Nella loro magniloquenza, adunino nuvole sull’Elicona coloro per i quali bollono le pentole di Progne e di Tieste, di cui dovrà spesso cenare l’odioso Glicone. Ma tu non sospingi i venti col mantello anelante, mentre nella fornace cuoce il metallo e non gracchi rauco, con misterioso brontolio, non so che solenni sciocchezze, e neppure ti gonfi le guance per svuotarle di colpo con uno scoppio…”.  Cantare il coraggio dei combattenti iranici fieri avversari dei Romani che con indomito coraggio si strappavano le frecce dalla pancia e continuavano a battersi; non essere ampollosi nel linguaggio poetico usando versi retorici e dal contenuto vacuo (facendo torto alle Muse protettrici delle arti che risiedono sul monte Elicona); non esagerare con le esibizioni di immagini orrorifiche con cui venivano imbastiti i versi: carni di figli e di congiunti serviti come cibi, episodi tratti dalla mitologia antica (Progne e Tieste) e l’attore Glicone per sbarcare il lunario era costretto a recitare queste orrende tragedie. Persio non ha bisogno di ricorrere a questi artifizi; la sua è una poesia umile, fatta di contenuti morali e tesa al bene come gli ha insegnato l’amico Cornuto a cui rende omaggio. E a questi princìpi si attiene. C’è, in questa stessa satira, un riferimento alla “candida toga”, quella indossata da candidati alle cariche pubbliche. La toga candida, da cui deriva il termine “candidato”, era simbolo di purezza, onestà, rigore morale. Oggi pochi candidati potrebbero indossarne una sentendovisi a proprio agio, e il titolo di “onorevole”, che deriva da onore, stride, e sentiamo che molti di loro non lo meritano.
 
Pubblio Terenzio Afro il punitore di sé stesso  



In molti citano, nelle versioni più diverse, la frase di Pubblio Terenzio Afro: “Sono un uomo, e di quanto è umano nulla penso che mi sia estraneo”, ma pochissimi sanno che il commediografo cartaginese l’ha messa in bocca a Cremente, uno dei suoi personaggi dell’opera dal titolo che in latino suona come uno scioglilingua: Heautontimorumenos. Questo è il titolo sulla copertina dell’edizione della Collezione di teatro Einaudi diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri. Non so se in edizioni successive, o se stampata da altri editori, il titolo sia poi stato cambiato. Non avendo nel tempo riletta questa commedia, non ne sono sicuro. Tradotto sarebbe: Autopunizione o, forse ancora meglio, Il punitore di sé stesso. Come si chiamasse in origine questo autore non lo sappiamo; sappiamo, invece, che ancora ragazzo era stato venduto come schiavo ad un senatore romano di nome Terenzio Lucano a cui deve la sua istruzione e anche il suo ingresso nella società aristocratica e intellettuale romana. Terenzio scriverà in latino e come riconoscenza al suo mentore, ne assumerà il patronimico. Il cognome Afro gli rimase e gli storici sostengono che esso rivelerebbe ascendenze libiche più che puniche. A noi importa poco, importa la saggia ed umana frase che apre la scena prima della sua commedia nel dialogo fra Cremente e Menedemo e che da quel lontano 163 a. C. continua ad essere viva fra quanti, davanti alla ferocia della storia, non hanno perso il sentimento della pietà e della commozione.
 
Marco Minucio Felice confronto fra fedi



L’autore di: Ottavio. Contraddittorio fra un pagano e un cristiano era un avvocato; africano di nascita si era convertito alla nuova fede cristiana oramai molto diffusa a Roma. L’opera è un dialogo fra il pagano Cecilio e il cristiano Ottavio e avviene durante una passeggiata lungo il lido di Ostia. Il tema del contendere è la religione e si svolge alla presenza di Marco che in questo confronto ha la funzione di giudice. Sono tutti e tre avvocati, e dunque maestri di retorica e di rigoroso argomentare. Minucio, in quanto convertito, non è imparziale e in cuor suo non può che compiacersi della dialettica di Ottavio e della sua abilità nel confutare le tesi dell’avversario. Cecilio, convinto dai ragionamenti di Ottavio, alla fine abbraccerà anch’egli la fede cristiana e abbandonerà il paganesimo. Ci sono, in questo scritto, sprazzi di grande modernità, vediamone uno tratto dal ragionamento di Cecilio: “L’uomo, e con lui ogni essere vivente, che nasce, respira, cresce, è una combinazione spontanea di atomi, nei quali di nuovo si scompone, si dissolve, si disgrega: parimenti ogni cosa ritorna verso la propria origine e si dissolve in sé stessa, senza bisogno di nessun artefice, né arbitro, né creatore”. E ancora: “(…) Il caso domina il mondo, libero da ogni legge, con il suo procedere capriccioso e incerto”. Come si può vedere, Cecilio esprime una interpretazione fisica e materialistica della natura, non diversa da quella che si ritrova nel frammento 52 di Eraclito. Ottavio a sua volta si fa beffe delle credenze degli antenati, degli antichi, e cerca di minare alla base le credenze derivate dall’età mitologica: “(…) I nostri antenati prestarono tanto facilmente fede alle menzogne, da ammettere ciecamente anche altre mostruosità, dei veri prodigi”, che egli definisce “Favole da vecchie donnicciole”, con “uomini che si trasformano in uccelli e in belve e così pure degli uomini che diventano alberi o fiori. Se ciò fosse avvenuto un dì avverrebbe ancora: ciò che non può più avvenire non avvenne mai. Parimenti i nostri antenati si sono sbagliati in ciò che concerne gli dèi: malaccorti, creduloni, hanno prestato fede con rozza faciloneria”. Tutto vero e tutto giusto, però Ottavio non applica questo rigore logico alla sua di fede, ai miracoli, alla resurrezione e così via. E Minucio non fa dire nulla a Cecilio perché possa rintuzzare queste credenze altrettante favolistiche di Ottavio. Ottavio rincara la dose: “Queste favole e queste superstizioni, le abbiamo apprese dai parenti ignoranti e, ciò che è più grave, le perfezionammo attraverso lo studio e l’istruzione, soprattutto dai carmi dei poeti che, a cagione della loro autorità, sommamente hanno nociuto alla verità”. Si vede bene come queste parole vadano a demolire tutto il mondo omerico e pre-omerico; quello di Virgilio, di Ovidio, di Dante e dei creatori di fantasia, compresi i profeti visionari. Da questo punto di vista non era senza ragione che Platone avesse bandito dalla sua Repubblica i poeti, salvo poi ammannirci a sua volta un immaginario theòs e uno Stato ideale utopistico e oppressivo. Duro, ma molto efficace e condivisibile il giudizio di Ottavio sui combattimenti fra gladiatori nelle arene, definite “autentica scuola di omicidio”.