Pâris Prassède (Monna Lisa Edizioni, 2023) è un
romanzo anche corporalmente forte, come i romanzi di Volponi (Le mosche del
capitale e altri), esplicito riferimento dell’autore. Un’immaginazione
potente, quella di Giancarlo Micheli. Il titolo ci indica il protagonista,
l’eroe eponimo, il quale attraversa tutta la narrazione con la forza e anche la
prestanza fisica di un personaggio vorticoso in un romanzo vorticosissimo che
si situa sicuramente nell’ambito del romanzo storico, così come è stato
definito dalle riflessioni di György Lukács e Eric Auerbach. Certo, il romanzo
storico, in Italia, è quello che ha introdotto la maggior parte della
popolazione alla letteratura, innanzitutto grazie all’esperienza scolastica: i Promessi
sposi di Manzoni, che alcuni dicono inflitto agli studenti e quindi
fatto non amare. In realtà, in qualche elemento di libera costrizione può
esserci una dose di sanità, perché una persona a modo non andrebbe mai a
leggersi Manzoni da adulto, se non fosse costretto… Con quel minimo di
costrizione, però, si può guadagnare l’accesso a un mondo straordinario, un
mondo robusto, conflittuale, con un narratore onnisciente che conosce i più
intimi pensieri dei suoi personaggi e con un autore che ha fondato, in Italia
almeno, la storia di questo genere letterario, arrivando fino ai nostri giorni.
Nonostante queste origini in grande
della nostra letteratura moderna, ci sono state diverse fasi in cui, da noi e
non solo, le mode editoriali hanno privilegiato una scrittura votata al
frammento, alla prosa d’arte, alle storie minime e minimali, conseguendo a
volte anche risultati di grande bellezza. Dagli anni Novanta del secolo scorso
fino all’inizio del nostro, però, si ricominciò a sentire il bisogno di grandi
narrazioni, di cui la fase post-moderna pareva aver decretato la fine
lasciandoci in mano a un pensiero debole, a un romanzo debole, a una poesia
debole, che non potevano nutrirci e quasi imponevano di rassegnarci ad un
presente senza alternativa, alla fine delle speranze collettive. In particolare
all’inizio di questo secolo abbiamo così avuto una rinascita narrativa (il
romanzo Q del collettivo di scrittura Luther Blissett, uscito proprio
nel 2000, ne è stato un segnale), riemersa dal desiderio di tornare a respirare
in grande, perché - lettori/autori - abbiamo bisogno di questo, di una
grandezza che certo non sia basata sul fanatismo, quanto piuttosto spinta da
alta passione, quella della vicenda degli esseri umani nella storia. E Pâris
Prassède è un romanzo di grande passione, che tratta argomenti importanti,
epocali. Non aspettiamoci dunque microstorie, sebbene alla narrazione di grandi
accadimenti storici l’autore affianchi talora la dimensione dell’aneddoto,
quanto piuttosto il quadro grandioso di una stagione forse irripetibile, almeno
in quei termini di sete di futuro. Il protagonista attraversa una fase della
storia e della geografia umane, dalla metà dell’Ottocento fino ai primi decenni
del Novecento e poi alla data fatidica della Rivoluzione del 1917, che avrebbe
rifondato - o provato a rifondare - il secolo nuovo. Un romanzo storico,
quindi, questo di Micheli, dall’accezione molto personale, in cui i personaggi
appaiono e s’incontrano, surrealisticamente, secondo i riferimenti propri
all’autore, ma s’incontrano in modo oggettivo, poiché una forza unificatrice li
mette l’uno al cospetto dell’altro, non per una cabala delle coincidenze, ma
perché elementi precisi dell’intero flusso della storia umana determinano che
alcune figure vadano a toccarsi e a scontrarsi facendo così scoccare scintille
fragorose. La grande storia e i grandi personaggi - anche nelle loro
piccolezze… - che vivono in lei, dunque, sono materia del romanzo.
Il lettore
incontrerà, dapprima, quei sognatori che, nella seconda metà dell’Ottocento,
hanno pensato come poter costruire politicamente un mondo nuovo, i fondatori
del cosiddetto socialismo utopistico. Il lettore farà quindi esperienza
dell’asprezza dello scontro che oppose Proudhon, da un lato, e Marx,
dall’altro; per poi apprendere, tra molto altro, anche episodi biografici della
famiglia Marx (soprattutto delle sue figlie sognanti e per questo punite nel
dolore di esistenze non facili), mai descritti con frivolezza, bensì in modo da
illustrare i valori umani dei personaggi proprio in virtù delle loro debolezze
e persino delle loro miserie. C’è, nello stile di Micheli, una sorta di poesia
dei nomi propri e geografici: se ne gusterà il colore in elenchi. In filigrana
a tutta la narrazione, si può leggere il discorso peculiare ad alcuni
precursori (ma grandi in sé, non solo perché anticipatori d’altri più maturi,
più completi autori), dalle vite radicali e sofferenti, i quali, accanto al
sogno di una cosa politica, magari dal fondo di un nero carcere coltivavano
visioni cosmiche, come August Blanqui nell’Éternité par les astres (ma
quanti rivoluzionari, hanno pensato al cosmo come a un luogo praticabile:
Bogdanov su tutti, citato nel romanzo). Donne e uomini che misero i loro corpi
nella lotta con un investimento desiderante (alla lettera: da strappare alle
stelle…) che, pagina dopo pagina, viene a sorprenderci.
Vi è dunque, in questo
romanzo, il sogno di altri mondi, dove poter andare se questa terra ci è
stretta, tanto più oggi, quando, sempre più, la stiamo divorando, e divorando
così noi stessi, che ne siamo figli e padroni disonesti (mentre dovremmo
esserne solo umili custodi). Il vortice rutilante della trama riproduce una
forma a spirale, resa densa da uno stile di scrittura interessantissimo dal
punto di vista del lessico e della sintassi. Un lessico ricercato, fatto di
tecnicismi, di lingue straniere, di arcaismi, di parole bellissime/dal
profondo, il cui suono da solo basterebbe a convincerci che sia valsa la pena
di leggere la pagina che le contiene. È un linguaggio sottratto a quello,
mistificatorio e mistificante, che caratterizza il nostro tempo. Le sconfitte
dell’umanità accadono prima nella sfera del linguaggio, quello che ci viene
imposto di usare, poi di conseguenza vengono tutte le altre. Lo sapeva Franz
Rosenzweig, messo in epigrafe da Victor Klemperer nel suo geniale scritto LTI.
La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (1947), che “la lingua è
più del sangue”. Nellalingua vengono preparati fatti di sangue, ecco,
ne viene allestito lo spettacolo.
Lessico, dunque, e poi sintassi. Vi
sono, in Pâris Prassède, dei passaggistraordinari in cui
l’autore inizia una frase ma poi lascia solo il soggetto appenaapparso
e lo abbandona, sulle prime, smarrito/irretito in un ampio inciso al cui
internoaccadono eventi che sembrano prendere il sopravvento su quanto è
al di fuori dellaparentesi: così, mentre il soggetto resta lì in attesa
e ancora non sappiamo cosaveramente accadrà di lui, esso viene lasciato
in sospeso da un’ulteriore piccoladigressione, mentre poi quasi
inaspettatamente arriva il verbo (azione, praxis comenel cognome del
protagonista…) e il lettore si sente rassicurato, perché rintraccia lasua
sintassi minima, soggetto, verbo, complemento (ma è una rassicurazione intrisasempre di spaesamento…). In tal modo, l’autore disarticola il nostro
approccio a una linearità che spesso non è autentica semplicità, ma
banalizzazione tirannica, quasitotalitaria: slogan di propaganda e/o
grido di guerra.Dal momento che ci forniscono una ricchezza nutriente,
la lingua di Pâris Prassède, il suo lessico e la sua sintassi, non
compongono un grido di guerra, mauno di pace. Il sangue può anche
essere sangue risparmiato (cioè ribelle, cherisponde a una guerra
portata), non sangue fatto versare.