Pagine

giovedì 28 novembre 2024

LIBRI
di Gianluca Paciucci
 
Giancarlo Micheli

Pâris Prassède (Monna Lisa Edizioni, 2023) è un romanzo anche corporalmente forte, come i romanzi di Volponi (Le mosche del capitale e altri), esplicito riferimento dell’autore. Un’immaginazione potente, quella di Giancarlo Micheli. Il titolo ci indica il protagonista, l’eroe eponimo, il quale attraversa tutta la narrazione con la forza e anche la prestanza fisica di un personaggio vorticoso in un romanzo vorticosissimo che si situa sicuramente nell’ambito del romanzo storico, così come è stato definito dalle riflessioni di György Lukács e Eric Auerbach. Certo, il romanzo storico, in Italia, è quello che ha introdotto la maggior parte della popolazione alla letteratura, innanzitutto grazie all’esperienza scolastica: i Promessi sposi di Manzoni, che alcuni dicono inflitto agli studenti e quindi fatto non amare. In realtà, in qualche elemento di libera costrizione può esserci una dose di sanità, perché una persona a modo non andrebbe mai a leggersi Manzoni da adulto, se non fosse costretto… Con quel minimo di costrizione, però, si può guadagnare l’accesso a un mondo straordinario, un mondo robusto, conflittuale, con un narratore onnisciente che conosce i più intimi pensieri dei suoi personaggi e con un autore che ha fondato, in Italia almeno, la storia di questo genere letterario, arrivando fino ai nostri giorni.



Nonostante queste origini in grande della nostra letteratura moderna, ci sono state diverse fasi in cui, da noi e non solo, le mode editoriali hanno privilegiato una scrittura votata al frammento, alla prosa d’arte, alle storie minime e minimali, conseguendo a volte anche risultati di grande bellezza. Dagli anni Novanta del secolo scorso fino all’inizio del nostro, però, si ricominciò a sentire il bisogno di grandi narrazioni, di cui la fase post-moderna pareva aver decretato la fine lasciandoci in mano a un pensiero debole, a un romanzo debole, a una poesia debole, che non potevano nutrirci e quasi imponevano di rassegnarci ad un presente senza alternativa, alla fine delle speranze collettive. In particolare all’inizio di questo secolo abbiamo così avuto una rinascita narrativa (il romanzo Q del collettivo di scrittura Luther Blissett, uscito proprio nel 2000, ne è stato un segnale), riemersa dal desiderio di tornare a respirare in grande, perché - lettori/autori - abbiamo bisogno di questo, di una grandezza che certo non sia basata sul fanatismo, quanto piuttosto spinta da alta passione, quella della vicenda degli esseri umani nella storia. E Pâris Prassède è un romanzo di grande passione, che tratta argomenti importanti, epocali. Non aspettiamoci dunque microstorie, sebbene alla narrazione di grandi accadimenti storici l’autore affianchi talora la dimensione dell’aneddoto, quanto piuttosto il quadro grandioso di una stagione forse irripetibile, almeno in quei termini di sete di futuro. Il protagonista attraversa una fase della storia e della geografia umane, dalla metà dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento e poi alla data fatidica della Rivoluzione del 1917, che avrebbe rifondato - o provato a rifondare - il secolo nuovo. Un romanzo storico, quindi, questo di Micheli, dall’accezione molto personale, in cui i personaggi appaiono e s’incontrano, surrealisticamente, secondo i riferimenti propri all’autore, ma s’incontrano in modo oggettivo, poiché una forza unificatrice li mette l’uno al cospetto dell’altro, non per una cabala delle coincidenze, ma perché elementi precisi dell’intero flusso della storia umana determinano che alcune figure vadano a toccarsi e a scontrarsi facendo così scoccare scintille fragorose. La grande storia e i grandi personaggi - anche nelle loro piccolezze… - che vivono in lei, dunque, sono materia del romanzo. 



Il lettore incontrerà, dapprima, quei sognatori che, nella seconda metà dell’Ottocento, hanno pensato come poter costruire politicamente un mondo nuovo, i fondatori del cosiddetto socialismo utopistico. Il lettore farà quindi esperienza dell’asprezza dello scontro che oppose Proudhon, da un lato, e Marx, dall’altro; per poi apprendere, tra molto altro, anche episodi biografici della famiglia Marx (soprattutto delle sue figlie sognanti e per questo punite nel dolore di esistenze non facili), mai descritti con frivolezza, bensì in modo da illustrare i valori umani dei personaggi proprio in virtù delle loro debolezze e persino delle loro miserie. C’è, nello stile di Micheli, una sorta di poesia dei nomi propri e geografici: se ne gusterà il colore in elenchi. In filigrana a tutta la narrazione, si può leggere il discorso peculiare ad alcuni precursori (ma grandi in sé, non solo perché anticipatori d’altri più maturi, più completi autori), dalle vite radicali e sofferenti, i quali, accanto al sogno di una cosa politica, magari dal fondo di un nero carcere coltivavano visioni cosmiche, come August Blanqui nell’Éternité par les astres (ma quanti rivoluzionari, hanno pensato al cosmo come a un luogo praticabile: Bogdanov su tutti, citato nel romanzo). Donne e uomini che misero i loro corpi nella lotta con un investimento desiderante (alla lettera: da strappare alle stelle…) che, pagina dopo pagina, viene a sorprenderci. 



Vi è dunque, in questo romanzo, il sogno di altri mondi, dove poter andare se questa terra ci è stretta, tanto più oggi, quando, sempre più, la stiamo divorando, e divorando così noi stessi, che ne siamo figli e padroni disonesti (mentre dovremmo esserne solo umili custodi). Il vortice rutilante della trama riproduce una forma a spirale, resa densa da uno stile di scrittura interessantissimo dal punto di vista del lessico e della sintassi. Un lessico ricercato, fatto di tecnicismi, di lingue straniere, di arcaismi, di parole bellissime/dal profondo, il cui suono da solo basterebbe a convincerci che sia valsa la pena di leggere la pagina che le contiene. È un linguaggio sottratto a quello, mistificatorio e mistificante, che caratterizza il nostro tempo. Le sconfitte dell’umanità accadono prima nella sfera del linguaggio, quello che ci viene imposto di usare, poi di conseguenza vengono tutte le altre. Lo sapeva Franz Rosenzweig, messo in epigrafe da Victor Klemperer nel suo geniale scritto LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (1947), che “la lingua è più del sangue”. Nella lingua vengono preparati fatti di sangue, ecco, ne viene allestito lo spettacolo.



Lessico, dunque, e poi sintassi. Vi sono, in Pâris Prassède, dei passaggi straordinari in cui l’autore inizia una frase ma poi lascia solo il soggetto appena apparso e lo abbandona, sulle prime, smarrito/irretito in un ampio inciso al cui interno accadono eventi che sembrano prendere il sopravvento su quanto è al di fuori della parentesi: così, mentre il soggetto resta lì in attesa e ancora non sappiamo cosa veramente accadrà di lui, esso viene lasciato in sospeso da un’ulteriore piccola digressione, mentre poi quasi inaspettatamente arriva il verbo (azione, praxis come nel cognome del protagonista…) e il lettore si sente rassicurato, perché rintraccia la sua sintassi minima, soggetto, verbo, complemento (ma è una rassicurazione intrisa sempre di spaesamento…). In tal modo, l’autore disarticola il nostro approccio a una linearità che spesso non è autentica semplicità, ma banalizzazione tirannica, quasi totalitaria: slogan di propaganda e/o grido di guerra. Dal momento che ci forniscono una ricchezza nutriente, la lingua di Pâris Prassède, il suo lessico e la sua sintassi, non compongono un grido di guerra, ma uno di pace. Il sangue può anche essere sangue risparmiato (cioè ribelle, che risponde a una guerra portata), non sangue fatto versare.