A proposito del libro di Massimo
Cacciari su Maria. Ha ragione Gabriella Galzio, quando
sulle pagine di Odissea parla di “negazionismo patriarcale” (articolo del 23
novembre 2024). Ho letto anch’io la stessa intervista a Massimo Cacciari(https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2024/11/massimo-cacciari-la-figura-di-maria-non.html?m=1) sul suo ultimo libro La
passione secondo Maria (Il Mulino, 2024) e ne ho tratto conclusioni che mi
fa piacere condividere in questo spazio di confronto democratico e
autenticamente libertario. In tutta l’intervista altro non trovo che la
ratifica degli stereotipi di genere, che costellano il testo dall’inizio alla
fine. Si comincia con affermazioni come “questa figura della donna simbolo di
amore gratuito, di perfetta misericordia”, e si chiude con una siffatta
conclusione: “La colpa dei padri è di non aver visto e compreso l’icona di
Maria: simbolo straordinario di amore gratuito, di misericordia, di
partecipazione alla sofferenza, di capacità di perdono”. Verrebbe da dire che i
padri tutto questo l’hanno visto eccome! E hanno appiattito Maria in una
figurina bidimensionale, volta unicamente all’abnegazione e al sacrificio. Non
basta certo l’urlo da partoriente sotto la croce, tanto enfatizzato da Massimo
Cacciari, per farne altro! La donna soffre e perdona, l’uomo
esercita il potere. Può essere questa una grande novità? Può essere una
rilettura inedita della figura di Maria? Esasperare i tratti di una Madonna
sofferente non mi pare una grande rivoluzione ermeneutica. La chiamano da
secoli Addolorata, per l’appunto. Ma passiamo ai lapsus linguistici.
A un certo punto Cacciari dice di Maria: “È una donna reale, simbolo di libertà
e di misericordia. Non ha niente a che fare con il simboletto della madre
terra, è protagonista, non si limita semplicemente a generare”.
Ma, mentre scrive questo, Cacciari
sa di cosa parla? Perché io non riesco a capire quale sia per Cacciari il “simboletto
della madre terra”, se lui non lo precisa: si riferisce alle incisioni simili
ai triangoli pubici? Si riferisce ai disegni ornitomorfici o a quelli ofidici?
Allude ai simboli lunari della triplice Dea? Allude ai cerchi, alle spirali, ai
meandri? Si riferisce alle statuette femminili opulente o a quelle stilizzate e
filiformi? Non è dato saperlo. Certo è che sorprende leggere una formula che
appare sprezzante per tre motivi. Perché usare il singolare “simboletto”, se i
simboli della Dea sono tanti? Ma soprattutto perché usare un’espressione così
sminuente - il diminutivo dispregiativo in “etto” - per quello che invece è il linguaggio
della Grande Dea, per parafrasare il titolo del libro di Marija Gimbutas? Un
linguaggio che è stratificato nei secoli e nei millenni, oltre che nelle aree
geografiche, perché parliamo di una civiltà che è durata decine di migliaia di
anni prima che, per sovrapposizione e conquista, più o meno 5.000 anni fa, si
imponesse la patriarcalizzazione ad opera dei pastori nomadi indoeuropei cui
giustamente Gabriella Galzio fa riferimento quando cita Heide
Goettner-Abendroth, la massima esperta nonché fondatrice degli Studi
Matriarcali moderni.
Perché Cacciari parla solo di madre
terra (usando rigorosamente la minuscola!) e non invece di quella Grande Dea
che è appunto la protagonista di processi che vanno ben oltre il mero generare
e che coinvolgono i grandi cicli cosmici della natura, ossia una potenza del
femminile che non si limita alla funzione riproduttiva, ma ha il suo rango in
sé stessa? La risposta è una sola: di tutto questo Cacciari nulla sa. Nel
seguito dell’intervista, infatti, Cacciari non fa cenno alcuno a ciò che
Maria ha significato negli strati popolari e per le donne: l’ultima ipostasi di
una Dea del continuum indistruttibile di nascita, morte e rinascita, sia pur
svilita dopo il concilio di Efeso, come Galzio puntualmente precisa. Mia nonna,
ad esempio, pregava la Madonna come figura intermediaria tra i vivi e i defunti
della famiglia, non come dea della natalità.
Appaiono confuse e sbrigative anche
le considerazioni di Massimo Cacciari sulla maternità surrogata. Andare oltre
la maternità biologica come si concilia, per Cacciari, con lo sfruttamento dei
corpi delle donne? Come distinguere tra lo sfruttamento e il dono? Nella
risposta all’intervistatrice, Cacciari divide la sua riflessione a riguardo in
due parti senza far capire cosa sia per lui l’egoismo e cosa il dono. Ed ecco
che di nuovo Cacciari inciampa negli stereotipi: “Padre è la figura che nella
nostra civiltà doveva garantire anche la stabilità della nostra identità. Ma è
la madre, è Maria la “persona” della Misericordia”. In conclusione, Cacciari vuole
sentirsi un iconoclasta del patriarcato, ma è tutto dentro il patriarcato, che
non chiama con il suo nome, usando invece il termine “maschilismo”, concetto
ben più riduttivo, che nulla dice del sistema di dominio dell’uomo sull’altro
uomo né del dominio dell’uomo sulla natura, oltre che sulla donna.
Mi si potrà dire che sono io ad avere fin troppi problemi di comprensione e
che, se il pensiero di Cacciari è così alto e io non lo capisco, non è colpa
dell’esimio filosofo. Oppure mi si potrà rimproverare che tutto il mio
ragionamento è viziato da pregiudizi ideologici femministi grevi, e che dovrei
leggere non solo l’intervista che ho trovato sguazzando nel web, ma l’intero
libro La passione di Maria, prendendomi la briga di andare almeno a
sfogliarlo in libreria. Ed è quel che farò. Chi legge e studia, quando prende
tra le mani un saggio, parte dalla coda e guarda la bibliografia. E, sapendo
bene quali libri non troverò citati in fondo al volume di Cacciari, ho pensato
di fornirgli dei consigli di lettura. Sono libri di illustri studiose: sono gli
stessi libri che cita anche Gabriella Galzio. Letture che sentiamo di
consigliare non solo ai filosofi, ma anche a molti ministri e, più in generale,
a chiunque voglia usare la parola “patriarcato” con un briciolodi
consapevolezza.