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venerdì 22 novembre 2024

UMANOIDI
di Angelo Gaccione


 
Un po’ di tempo fa volli fare un esperimento: andare a piedi da Porta Romana a Porta Venezia e constatare quante parole avrei scambiato nel corso di questo tragitto. Si tratta di un tragitto non breve, ma io sono abituato a camminare e ad esplorare la città e dunque, non mi ero affatto perso d’animo. Naturalmente non ebbi modo di scambiare una sola parola e nemmeno il più semplice dei saluti, come accade agli abitanti di città molto grandi come Milano. Di ritorno, anche per riposarmi un attimo, entrai in una gelateria e ordinai un cono; fu il solo modo per scambiare qualche frase con il giovane gelatiere. Ovviamente nella mia città di nascita non sarebbe mai accaduto; per quanto la desertificazione migratoria degli ultimi decenni l’abbia svuotata, in un percorso di pari lunghezza sarebbe stato impossibile non incontrare un significativo numero di persone conosciute con cui parlare e scambiare almeno un breve saluto. Di recente a Milano, in una fiera dedicata all’intelligenza artificiale, è stato presentato un umanoide in grado di sostenere una conversazione. I commenti erano entusiasti: presto gli anziani e gli ammalati si sentiranno meno soli ed emarginati, grazie alla loro compagnia. Ignoro il costo di questi robot dotati di parola, ma a me l’idea ha messo tristezza. Gli esperti comunque dicono che ci abitueremo tutti, nei tempi a venire, alla presenza in casa di un umanoide composto di pezzi meccanici, schede magnetiche, sensori e quant’altro. Sarà il suo braccio metallico a farci una carezza se saremo tristi, a portarci un bicchiere d’acqua se avremo sete, e sarà la sua voce, sempre più perfettamente simile alla nostra, a darci il buongiorno. Trentacinque anni fa, e precisamente nel novembre del 1989, scrissi un brevissimo testo teatrale in cui non viene pronunciata una sola parola dal protagonista. Nessuna parola umana fa eco in quella casa, come se le parole fossero state abolite. Si odono solo voci, suoni e rumori emessi dagli oggetti tecnologici di cui ci siamo circondati, e che possiamo considerare come delle “protesi” non del tutto virtuali del nostro tempo. I gesti sono ancora presenti in quella pièce, alcuni per lo meno, ma si trattava, come ho detto, di un tempo lontano. 



Oggi le luci si accendono al nostro passaggio senza dover girare alcun interruttore e si spengono senza dover pigiare un pulsante; basta un clic per aprire e chiudere la portiera di un’auto; la nostra voce per farci dire dalla radio che ora è o attivare un apparecchio; le nostre impronte digitali per programmare l’accensione del riscaldamento o innaffiare le piante del salotto a distanza. Il più semplice dei robot sa pulire i pavimenti e raccontarci una fiaba. L’androide sociale Sophia, creato da una compagnia di Hong Kong, può essere intervistato e darvi risposte coerenti e grammaticalmente corrette come una persona di buona cultura. Mentre di recente la startup Oversonic Robotics ha creato Robee, il primo androide cognitivo prodotto in Italia, in grado non solo di fare tutti i lavori più pesanti, noiosi e pericolosi, ma come accennavo più sopra, addirittura di dialogare con noi. In verità i computer già da tempo dialogano fra loro da un capo all’altro del mondo. Si confrontano preziosamente sul piano medico salvando vite, ma purtroppo anche su quello militare guidando missili che portano morte, armi di sterminio che potrebbero farci saltare tutti in aria per un banale errore di valutazione. La mano è sempre dell’uomo, anche quella che programma gli androidi perché provino empatia e si commuovano con finte lacrime, come certe bamboline che regaliamo ai nostri bimbi. Io preferisco quelle vere che nascono dalla carne, dal sangue, dall’orrore. E preferisco un brandello di dialogo con un essere vivo che ha conservato un’anima, non con un ibrido che non potrà mai averne una.