Pagine

martedì 5 novembre 2024

UNA MANIFESTAZIONE DA VETRINA
di Pierpaolo Calonaci


 
La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua riscoperta come forza sociale. La speranza è il contrario dell’attesa di qualcosa che è stato promesso come diritto. Il tempo di crisi, contrariamente al pensiero comune, è tempo di speranza, perché apre la strada alla possibilità di cambiamenti radicali, la cui necessità, mai come oggi, diviene evidente. Non con l’elaborazione a tavolino di nuovi progetti futuribili, che sono sempre in balìa di una infinità di fattori imprevedibili, ma con lo spirito del bravo contadino che semina curando le condizioni per un buon raccolto, senza però la certezza che tutto andrà bene. Speranza, amicizia, sorpresa sono le basi di una vita che oggi abbia senso.
Ivan Illich
 
Sabato 26 ottobre si è svolta a Firenze, e in tutta Italia, una marcia contro la guerra, per la pace. Molto spesso, inconsciamente o meno, s'incespica nella comodità di sovrapporre la lotta ai fattori di produzione della guerra anteponendo le ragioni della pace come se di per sé questa fosse un antidoto che magicamente faccia diventare tutti buoni, perlopiù in modo indolore.
Propendo ancora una volta a ragionare su cosa sia il termine pace, ponendo perciò fattori e proposizioni che ne costituiranno i pilastri d' inveramento (o meno) nella realtà politica e culturale della vita quotidiana.
Il problema della pace non può essere disgiunto dalla costruzione, in senso dialogico, di un sano conflitto. 



Ma questo non è l'oggetto di questa amara considerazione riguardante la marcia. È ovvio che una marcia non possa essere il luogo dove porre determinate condizioni teorico/pratiche di cui ogni riflessione sulla pace dovrebbe consistere; la piazza semmai è il luogo finale, in senso transitivo, attraverso cui le idee, il pensiero, i desideri, le problematiche, le proposte, i punti fermi di un problema quale la pace è trovano la loro espressione pubblica. Nate dal quotidiano lavorìo, quando esiste, trovano sbocco, come il delta di un fiume, nel mare della coscienza sociale.
Firenze ha cessato di essere città per la pace! Questo slogan non solo è anacronistico, è profondamente fittizio e irreale! Al di là della trazione conservatrice che Firenze oramai da lustri impiega per presentarsi al mondo quale vestale di giustizia sociale - trazione che la marcia ha voluto mantenere - elenco alcuni punti per cui Firenze è, a essere ottimisti, un bordello (sempre splendido per carità vista la sua storia ma bordello, ovvero oltraggio a se stessa).
Per Palazzo Vecchio, la piazza è oramai luogo di controllo. Si pensi a Piazza della Signoria sulla quale pende il Daspo per quanti vogliano ritrovarsi o organizzare qualche manifestazione. L'eufemismo politico è quello di garantire alla piazza ordine e pulizia considerando la centralità che essa ha storicamente avuto nella vita fiorentina e che adesso è corrosa da orde di turisti.



Gli immigrati sono rinchiusi al parco delle Cascine, non solo lì sia chiaro, dove spacciano, non avendo altra possibilità di guadagnarsi la vita con mezzi umani...la legge vieta loro di vivere umanamente! La popolazione carceraria è in incremento costante di suicidio; quando non lo è, è sotto antipsicotici, vessazioni di varia natura o veri e propri atti di tortura (la cronaca ne è piena). Anche le condizioni materiali di vita dentro un carcere sono tali.
Le famiglie sfrattate o in via di sfratto sono trattate alla stregua di criminali (di recente il Prefetto di Firenze ha continuato a criminalizzare queste famiglie senza che la controparte politica lo faccia tacere con politiche della casa capaci di risolvere il bisogno umano di serenità, protezione e dignità che ogni casa dovrebbe assolvere). Il centro storico è una meretrice: basta pagare e ci si appropria dello spazio pubblico. L'università è un laurieficio. Per inciso, davanti al macello dei palestinesi e degli ucraini, e di tutti i popoli vessati e uccisi in nome di osceni nazionalismi religiosi o meno, non solo rimane in silenzio ma si aggrappa all'immagine consolatoria quale formatrice di pensiero critico. Mentre è un crogiolo di lauti finanziamenti europei finalizzati ad inculcare l'idea che studiare e pensiero debbano poi produrre profitto o carriera (e schiena molle). La cementificazione massiccia (non ultimo il tanto osannato Viola Park dell'imprenditore Commisso che ha asfaltato alcuni siti archeologici etruschi come i campi coltivati a grano) e il cambio di destinazione d'uso di alcuni patrimoni architettonici per rendere Firenze appetibile a capitali stranieri l'hanno trasformata nel luogo per eccellenza degli interessi della finanza internazionale.
Le condizioni di sfruttamento e precarizzazione crescente della classe lavoratrice. È l’esempio della Gkn di Campi Bisenzio che oramai da due anni, e nonostante sindacato e lavoratori abbiano prodotto un piano industriale fuori dalle logiche neoliberiste e dei fondi d'investimento stranieri, vive col cappio al collo del licenziamento definitivo (che avverrà).



La pedissequa politica cittadina, in questo caso, secondo la mia sensibilità, troppo sostenuta da una chiesa fiorentina (che altrove ha mantenuto obiettività e rigore critico), non ha avuto altro spirito, poverissimo perlopiù di creatività, che ripetere il mantra della Firenze “inclusiva e di pace”, mostrando, questo sì che è stato chiaro, di mantenere alta la propria autoreferenzialità.
Insieme all'amico Marco, con cui condivido la passione radiofonica di Nuova Resistenza (così si chiama la nostra redazione), per scampare a questo irretimento, abbiamo deciso di rivolgerci, intervistandoli e registrandone le risposte, ad alcuni sindaci che dai vari comuni toscani si sono riversati in testa al corteo. Ebbene, a tre di loro (per la precisione, a quello di San Casciano in Val di Pesa, di Bagno a Ripoli e di Barberino del Mugello) abbiamo rivolto queste domande che abbiamo registrate e di cui faremo un podcast. La prima è stata: se la bandiera palestinese debba cominciare a sventolare dal loro comune. Se il bisogno di pace (queste le loro parole) non fosse maturo per smettere di genuflettersi alle logiche terroristiche degli stati egemoni. E se non fosse per caso giunto il momento di smettere con ogni retorica della pace che serva a mantenere l'ordine dominante. Qui anticipo solo che le risposte di quanti appartengono alle istituzioni sono nutrite di istituzionalizzazione (e non è un paradosso). Le parole della gente, che nessuno oramai più ascolta né intervista, sono altre (basterebbe, se non sono anacronistico, tornare ad ascoltare quello straordinario strumento d'ispezione popolare che fu Comizi d'amore di Pasolini...poi facciamo una comparazione col presente per riflettere su cosa sia diventata la prassi politica). 



La pace resta e rimarrà un miraggio, un oggetto siderale, uno striscione (anche bello) da esporre, se non diventa un ponte su cui s'incontrano, confliggendo molto spesso, il desiderio intellettuale e spirituale dell'individuo quale impegno a cui consacrarsi, il bisogno di una collettività che non nasconda le proprie contraddizioni, promuovendo incessantemente la sempre instabile correlazione tra il desidero individuale e quello comune, e prassi politica che ne raccolga le istanze e ne tessa il manufatto.
Qual è stato il ruolo del popolo nella marcia? Quale attenzione è stata riservata alla sua forza sociale? Che idea ha di se stesso quale coscienza sociale?
Così anche le accalorate parole del rappresentante del Movimento nonviolento hanno sortito il medesimo effetto dei panni ad asciugare al vento; dimenticando (?) che il bucato lo hanno deciso altri, e così pure il sapone, il programma di lavaggio ecc.
La marcia infine si è svolta lungo un insolito percorso che ha permesso ai manifestanti di attraversare le strade del centro storico (se la manifestazione avesse avuto altro colore politico o un altro tema avremmo camminato molto meno, godendo di minore visibilità). Il lungo tragitto è servito ai signori della pace a mostrare ai passanti e ai turisti la merce esposta.
Eppure nonostante tutto era fondamentale esserci in piazza. Ecco la cosa bella e buona. Per affermare in silenzio, forse, quello che la pace oggi pare abbia dimenticato o seppellito: osare è dire no, e ciò equivale ad amare se stessi quanto gli altri, ovvero seminare. A coltivare il coraggio e la speranza come in esergo splendidamente affermate.