UNA MANIFESTAZIONE DA VETRINA di
Pierpaolo Calonaci
La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua riscoperta
come forza sociale. La speranza è il contrario dell’attesa di qualcosa che è
stato promesso come diritto. Il tempo di crisi, contrariamente al pensiero
comune, è tempo di speranza, perché apre la strada alla possibilità di
cambiamenti radicali, la cui necessità, mai come oggi, diviene evidente. Non
con l’elaborazione a tavolino di nuovi progetti futuribili, che sono sempre in
balìa di una infinità di fattori imprevedibili, ma con lo spirito del bravo
contadino che semina curando le condizioni per un buon raccolto, senza però la
certezza che tutto andrà bene. Speranza, amicizia, sorpresa sono le basi di una
vita che oggi abbiasenso. Ivan Illich Sabato
26 ottobre si è svolta a Firenze, e in tutta Italia, una marcia contro la
guerra, per la pace. Molto spesso, inconsciamente o meno, s'incespica nella
comodità di sovrapporre la lotta ai fattori di produzione della guerra anteponendo
le ragioni della pace come se di per sé questa fosse un antidoto che
magicamente faccia diventare tutti buoni, perlopiù in modo indolore. Propendo
ancora una volta a ragionare su cosa sia il termine pace, ponendo perciò
fattori e proposizioni che ne costituiranno i pilastri d' inveramento (o meno)
nella realtà politica e culturale della vita quotidiana. Il
problema della pace non può essere disgiunto dalla costruzione, in senso
dialogico, di un sano conflitto.
Ma
questo non è l'oggetto di questa amara considerazione riguardante la marcia. È
ovvio che una marcia non possa essere il luogo dove porre determinate
condizioni teorico/pratiche di cui ogni riflessione sulla pace dovrebbe
consistere; la piazza semmai è il luogo finale, in senso transitivo, attraverso
cui le idee, il pensiero, i desideri, le problematiche, le proposte, i punti
fermi di un problema quale la pace è trovano la loro espressione pubblica. Nate
dal quotidiano lavorìo, quando esiste, trovano sbocco, come il delta di un fiume,
nel mare della coscienza sociale. Firenze
ha cessato di essere città per la pace! Questo slogan non solo è anacronistico,
è profondamente fittizio e irreale! Al di là della trazione conservatrice che
Firenze oramai da lustri impiega per presentarsi al mondo quale vestale di
giustizia sociale - trazione che la marcia ha voluto mantenere - elenco alcuni
punti per cui Firenze è, a essere ottimisti, un bordello (sempre splendido per
carità vista la sua storia ma bordello, ovvero oltraggio a se stessa). Per
Palazzo Vecchio, la piazza è oramai luogo di controllo. Si pensi a Piazza della
Signoria sulla quale pende il Daspo per quanti vogliano ritrovarsi o
organizzare qualche manifestazione. L'eufemismo politico è quello di garantire
alla piazza ordine e pulizia considerando la centralità che essa ha
storicamente avuto nella vita fiorentina e che adesso è corrosa da orde di
turisti.
Gli
immigrati sono rinchiusi al parco delle Cascine, non solo lì sia chiaro, dove
spacciano, non avendo altra possibilità di guadagnarsi la vita con mezzi
umani...la legge vieta loro di vivere umanamente! La popolazione carceraria è
in incremento costante di suicidio; quando non lo è, è sotto antipsicotici,
vessazioni di varia natura o veri e propri atti di tortura (la cronaca ne è piena).
Anche le condizioni materiali di vita dentro un carcere sono tali. Le
famiglie sfrattate o in via di sfratto sono trattate alla stregua di criminali
(di recente il Prefetto di Firenze ha continuato a criminalizzare queste
famiglie senza che la controparte politica lo faccia tacere con politiche della
casa capaci di risolvere il bisogno umano di serenità, protezione e dignità che
ogni casa dovrebbe assolvere). Il centro storico è una meretrice: basta pagare
e ci si appropria dello spazio pubblico. L'università è un laurieficio. Per
inciso,davanti al macello dei palestinesi e degli ucraini, e di tutti i
popoli vessati e uccisi in nome di osceni nazionalismi religiosi o meno, non
solo rimane in silenzio ma si aggrappa all'immagine consolatoria quale formatrice
di pensiero critico. Mentre è un crogiolo di lauti finanziamenti europei
finalizzati ad inculcare l'idea che studiare e pensiero debbano poi produrre
profitto o carriera (e schiena molle). La cementificazione massiccia (non
ultimo il tanto osannato Viola Park dell'imprenditore Commisso che ha asfaltato
alcuni siti archeologici etruschi come i campi coltivati a grano) e il cambio
di destinazione d'uso di alcuni patrimoni architettonici per rendere Firenze
appetibile a capitali stranieri l'hanno trasformata nel luogo per eccellenza
degli interessi della finanza internazionale. Le
condizioni di sfruttamento e precarizzazione crescente della classe
lavoratrice. È l’esempio della Gkn di Campi Bisenzio che oramai da due anni, e
nonostante sindacato e lavoratori abbiano prodotto un piano industriale fuori
dalle logiche neoliberiste e dei fondi d'investimento stranieri, vive col
cappio al collo del licenziamento definitivo (che avverrà).
La
pedissequa politica cittadina, in questo caso, secondo la mia sensibilità, troppo
sostenuta da una chiesa fiorentina (che altrove ha mantenuto obiettività e
rigore critico), non ha avuto altro spirito, poverissimo perlopiù di
creatività, che ripetere il mantra della Firenze “inclusiva e di pace”,
mostrando, questo sì che è stato chiaro, di mantenere alta la propria
autoreferenzialità. Insieme
all'amico Marco, con cui condivido la passione radiofonica di Nuova Resistenza
(così si chiama la nostra redazione), per scampare a questo irretimento,
abbiamo deciso di rivolgerci, intervistandoli e registrandone le risposte, ad
alcuni sindaci che dai vari comuni toscani si sono riversati in testa al
corteo. Ebbene, a tre di loro (per la precisione, a quello di San Casciano in
Val di Pesa, di Bagno a Ripoli e di Barberino del Mugello) abbiamo rivolto
queste domande che abbiamo registrate e di cui faremo un podcast. La prima è
stata: se la bandiera palestinese debba cominciare a sventolare dal loro
comune. Se il bisogno di pace (queste le loro parole) non fosse maturo
per smettere di genuflettersi alle logiche terroristiche degli stati egemoni. E
se non fosse per caso giunto il momento di smettere con ogni retorica della
pace che serva a mantenere l'ordine dominante. Qui anticipo solo che le
risposte di quanti appartengono alle istituzioni sono nutrite di
istituzionalizzazione (e non è un paradosso). Le parole della gente, che
nessuno oramai più ascolta né intervista, sono altre (basterebbe, se non sono
anacronistico, tornare ad ascoltare quello straordinario strumento d'ispezione
popolare che fu Comizi d'amore di Pasolini...poi facciamo una
comparazione col presente per riflettere su cosa sia diventata la prassi
politica).
La pace resta e rimarrà un miraggio, un oggetto siderale, uno
striscione (anche bello) da esporre, se non diventa un ponte su cui
s'incontrano, confliggendo molto spesso, il desiderio intellettuale e
spirituale dell'individuo quale impegno a cui consacrarsi, il bisogno di una
collettività che non nasconda le proprie contraddizioni, promuovendo
incessantemente la sempre instabile correlazione tra il desidero individuale e
quello comune, e prassi politica che ne raccolga le istanze e ne tessa il
manufatto. Qual
è stato il ruolo del popolo nella marcia? Quale attenzione è stata riservata
alla sua forza sociale? Che idea ha di se stesso quale coscienza sociale? Così
anche le accalorate parole del rappresentante del Movimento nonviolento hanno
sortito il medesimo effetto dei panni ad asciugare al vento; dimenticando (?)
che il bucato lo hanno deciso altri, e così pure il sapone, il programma di
lavaggio ecc. La
marcia infine si è svolta lungo un insolito percorso che ha permesso ai
manifestanti di attraversare le strade del centro storico (se la manifestazione
avesse avuto altro colore politico o un altro tema avremmo camminato molto
meno, godendo di minore visibilità). Il lungo tragitto è servito ai signori
della pace a mostrare ai passanti e ai turisti la merce esposta. Eppure
nonostante tutto era fondamentale esserci in piazza. Ecco la cosa bella e
buona. Per affermare in silenzio, forse, quello che la pace oggi pare abbia
dimenticato o seppellito: osare è dire no, e ciò equivale ad amare se stessi
quanto gli altri, ovvero seminare. A coltivare il coraggio e la speranza come
in esergo splendidamente affermate.