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lunedì 6 gennaio 2025

LO SPAZIO POLITICO EUROPEO
di Franco Astengo


Max Hamlet Sauvage
Trump - 2024

Preso in contropiede da quello che con linguaggio giornalisticamente inappropriato potremmo definire "caso Sala" il governo italiano, nella persona della sua presidente del consiglio, sta tentando una mossa di accreditamento presso la nuova Presidenza USA ,non ancora ufficialmente entrata in carica, ma ben presente sulla scena internazionale anche grazie a una stretta alleanza - per ora in piedi - tra populismo nazionalista e tecnocrazia: un'alleanza che, per quanto potrà durare, segnerà comunque un momento di frattura nel quadro delle relazioni globali. Sicuramente il colloquio di Mar-a-Lago ha traguardato il quadro d'insieme che si sta presentando a livello globale affrontando il nodo della posizione (almeno in apparenza) piattamente atlantista assunta dall'esecutivo italiano rispetto all'invasione russa dell'Ucraina. Un'iniziativa assunta in solitario fuori dal coinvolgimento europeo probabilmente in funzione di sventolare un eventuale risultato positivo quale drappo nazionalista. Al di là dell'esito immediato dell'operazione il punto da valutare riguardo lo scenario che si sta aprendo: in questo modo, in un momento di forte difficoltà dell'asse franco- tedesco e in una fase di crisi europea di natura militare, industriale, energetica. Uno scenario che in una maniera soltanto apparentemente paradossale, può verificare l'apertura di uno spazio reale per una iniziativa che consideri l'Europa davvero "spazio politico" su cui collocare un discorso di democrazia, autonomia, progetto di alternativa nel segno di una ritrovata capacità di governo delle grandi transizioni della modernità. A questo fine risulterà determinante l'esito delle elezioni tedesche prima di tuttoverificando se si sarà riusciti a fermare l'ondata dell'AFD, analizzando l'esito elettorale dell'SPD e quello della BSW verso la quale non va concesso credito verso le posizioni di "sinistra conservatrice". Nello stesso tempo servirebbe una evoluzione del NFP in Francia e l'avvio di una riflessione in Italia capace di avviare un discorso tra sinistra e forze democratiche che tenga il quadro della democrazia europea al primo posto. Si dirà (giustamente): troppi "se" in un quadro complessivo che appare segnato dal ritardo delle forze politiche e da un eccesso del considerarsi l'ombelico di sé stessi. Si tratta di valutare se davvero può essere messo al primo posto lo spazio politico europeo in una espressione di autonomia e di allineamento non scontato alla logica dei blocchi. Quella "logica dei blocchi" giocata sul filo di un nuovo equilibrio del terrore e della ridefinizione di spazi di esclusività nel dominio che sembra rappresentare un obiettivo delle grandi potenze una volta ridefinito il ruolo degli USA tra "America first" e "gendarme del mondo" riaprendo la storia dopo che qualcuno nel dopo '89 ne aveva decretato la chiusura.

COOPERATIVA “LA LIBERAZIONE”
di Angelo Gaccione



L’idea della cooperativa ha origini solidaristiche è prende corpo nel secolo diciannovesimo, soprattutto per l’influenza del pensiero socialista e cattolico. Riguarda fondamentalmente gli ambienti popolari ed operai e lo scopo è il mutuo appoggio. Darsi una mano fra ceti sociali svantaggiati, aiutarsi nelle difficoltà è un’idea grande, e dovremmo farne un punto di forza. In Italia la prima cooperativa nasce a Torino nel 1854; quella di cui intendo parlarvi io, è nata a Milano il 27 giugno del 1945: praticamente all’indomani della fine della guerra. Immaginiamoci le rovine della città con le sue devastazioni, la fame, la popolazione immiserita e l’economia in ginocchio; rimboccarsi da subito le maniche era fondamentale alla stessa sopravvivenza. Il nome lo scelsero coerente: “La Liberazione”; in fondo la liberazione dal nazi-fascismo c’era stata, ed era costata un sacrificio notevole in termini di lutti e dolori. La sede era sul lato opposto della via Lomellina 14 dove si trova ora; una zona non lontana dal centro, ma che allora si caratterizzava per la presenza di orti e di campi, tant’è che la cooperativa poteva contare su una porzione di giardino utilissima per gli avventori. 



Società Cooperativa a responsabilità limitata, inizialmente con durata trentennale, fu in seguito portata a novanta con la costituzione dell’aprile del 1975. Come da Statuto originario la cooperativa nasce proponendosi di giovare all’economia domestica dei soci, di migliorare le condizioni morali, materiali e culturali dei soci e delle loro famiglie, di stimolare lo spirito di previdenza e di risparmio dei soci e dei consumatori in genere, di collaborare allo sviluppo e alla propaganda del movimento cooperativo e mutualistico, provvedendo altresì all’acquisto, nella maniera più diretta possibile, ed alla successiva distribuzione e vendita ai soci di generi di consumo, merci, prodotti ed articoli di qualsiasi natura o tipo, nonché all’organizzazione diretta di determinati servizi ed alla fornitura ai soci delle relative prestazioni. Con questo spirito e con queste premesse, possiamo immaginare come riuscisse a coinvolgere attivamente i propri sostenitori, e come fosse un punto di riferimento importante in termini di soccorso e di socialità. Socialità che la guerra aveva di fatto abolito. 



Ha resistito fino ad oggi come poche, questa cooperativa, seppure nel mutare delle sue funzioni. Attualmente si avvale di un bar ristorante che, come attività collaterale, svolge varie iniziative in ambito culturale. Sono punti di forza sia la buona cucina sia il pullulare di incontri culturali e politici che i suoi incredibili fascinosi locali ospita. Dovete necessariamente andarlo a vedere questo luogo affollato di oggetti curiosi degli anni Cinquanta e anche precedenti, di libri, di collezioni di giornali, di foto rare e introvabili, di manifesti, di dipinti (ci sono persino un Garibaldi al galoppo e un Noam Chomsky dentro un’auto d’epoca), di volti di personaggi di un pezzo d’Italia che non c’è più, di cortei di protesta, di frasi, di testi poetici distribuiti su ogni angolo delle pareti, e tanto altro ancora. Nella Sala interna, preposta agli incontri culturali, ho avuto il privilegio di presentare l’antologia poetica su piazza Fontana. Subito dopo viene sistemata e allestita per la cena. È Carlo Brugnone a condurre gli incontri, che è anche presidente del cda del circolo cooperativo. Del palato e degli stomaci da una decina d’anni si prende cura Rudi Sforza che ne è l’oste. La cucina è di tradizione casalinga, offre un servizio di ottimo livello a prezzi concorrenziali. Oltre al locale commerciale, il circolo ha a disposizione al primo piano, un piccolo appartamento dove ospita la sede dell’ANPI di zona, la Sezione 25 Aprile. 



Nel corso degli ultimi anni la cooperativa è stata anche seggio per le primarie del Partito Democratico. Gli incontri che vengono organizzati sono parte della rassegna “I lunedì di Liberazione”, e sono dedicati a varie tematiche: culturali, politiche, sociali. Spaziano dalle presentazioni di libri alla proiezione di documentari, fino ai dibattiti su temi di più urgente e immediata attualità. Conta complessivamente poco più di 130 soci, ma le iniziative sono rivolte a tutto il quartiere e rigorosamente a ingresso libero. È frequentato sia da esponenti del mondo artistico ed intellettuale, sia da generici professionisti, ma anche da quanti vogliono unire al piacere dell’incontro conviviale, quello della solidarietà e dell’impegno civile.    

domenica 5 gennaio 2025

CALAMANDREI E LA GENTILEZZA
di Vittorio Melandri


Piero Calamandrei
 
1945 - 2025: 80 anni dalla Liberazione
 
La gentilezza è un piacere, riceverla e offrirla, in tutte le occasioni, da quelle di maggior impegno, a quelle più semplici ed anche frivole. Purtroppo, mai come di questi tempi, di gentilezza se ne incontra poca, ed invece straripante è una sempre più stomachevole piaggeria. È con intento gentile che in questo inizio di 2025, in cui ricorreranno gli 80 anni dalla “Liberazione” propongo il ricordo di un grande uomo della Resistenza, Piero Calamandrei, attirando l’attenzione su un suo libro unico intimo e davvero originale. Inventario di una casa di campagna, prima edizione Firenze, Le Monnier, 1941, rieditato, per merito di Edizioni di Storia e Letteratura di Roma nel marzo 2013, per quel che vale il mio sentire, confesso con qualche pudore che sono preso da incantamento alla lettura di queste bellissime pagine, e quando meno me lo aspetto la commozione mi serra la gola, inducendomi a tornare sulle righe appena sfiorate con lo sguardo, per godere di nuovo della commozione e per carpirne a fondo le ragioni. In questo paese dove da decenni moltissimo si modella, ovvero si deforma, con gli strumenti di Corruzione, Frode, Mafia e Parassitismo, per dirla con Franco Cordero, con la “quadrilettera” CFMP, leggere le pagine che Calamandrei aveva destinato all’attenzione delle persone a lui più vicine, ristora, almeno per il tempo in cui la lettura consente anche di credere che un altro mondo sarebbe anche possibile, o addirittura che “il mondo che nasce” ogni giorno più brutto sotto i nostri occhi, potrebbe, per dirla con un altro grande italiano, Adriano Olivetti, essere anche realisticamente figlio di una diversa quadrilettera: AVGB; Amore, Verità, Giustizia, Bellezza. 



Anche senza idealizzare un mitico passato non certamente trascorso indenne da errori umani, un passo del libro di Calamandrei mi ha imposto ad un tempo speranza e amarezza. Laddove egli descrive il luogo dove ha trascorso parte della sua giovinezza, Montauto in Toscana, come il “dolce paesaggio, accogliente e fedele, (…) fatto di medie colline accomodate su diversi ordini di uno stesso scenario”, arriva a sostenere che prima che quella regione “gli uomini l’avessero usata col loro soggiorno di millenni”, a “cento e cento generazioni” quel paesaggio “ha dato il gusto dell’armonia e della gentilezza”. Quando è accaduto che abbiamo cominciato a perdere il gusto dell’armonia e della bellezza che la natura ci ha insegnato senza chiedere in cambio altro che meditato rispetto? e quando abbiamo cominciato a credere di poter rinunciare a quell’insegnamento e ne abbiamo perduto progressivamente il filo, sino a convincerci che la natura sia solo una nemica da piegare e piagare in schiavitù? Ci crediamo più evoluti e moderni, e siamo solo più stupidi e più soli, e, scrive ancora Calamandrei: “quando l’uomo sarà sparito, e si parlerà di esso nelle leggende come noi parliamo dei giganti che toccavano il cielo, forse il seme della civiltà sarà emigrato in questi paesaggi a scala ridotta (quello delle formiche rosse, nota mia): allora il mondo, diventato troppo ristretto per la razza umana, riapparirà agli occhi di questi guerrieri misterioso e infinito; e toccherà a loro, stregati come noi dalla frenesia di conquistarlo, ricominciare la storia”. Non resta che augurarci che questo anniversario tondo della liberazione dal giogo del fascismo di Mussolini, ci aiuti ad onorare il ricordo di uomini come Calamandrei, e a non cadere avviluppati nella ragnatela tessuta dai “nuovi fascisti” del XXI secolo.

LA PSICOPATIA AI VERTICI


Luigi Zoja

Nei posti guida si è seduta una immoralità senza precedenti.
 
Vorrei suggerire la rilettura, o per chi non lo avesse ancora letto, la lettura del prezioso libro che Luigi Zoja, psicanalista di fama mondiale e sociologo, scrisse nel 2009: La morte del prossimo. Non voglio qui fare un ripasso dei numerosi punti che Zoja portò già alla nostra coscienza nel 2009, ma solo risottolineare un punto che è oggi sotto gli occhi di tutti e che è stato ormai talmente interiorizzato da non creare più scandalo, anche se quotidianamente esplodono quotidiani scandali. [Patrizia Gioia]
 
Forse - scrive Zoja - la lotta finale non sarà-, come aveva predetto Ignazio Silone nel suo scritto sui comunisti delusi, uno scontro tra comunisti ed ex-comunisti- ma tra capitalisti ed ex-capitalisti divenuti psicopatici. All'imprenditore post moderno si richiedono doti non comuni: eppure non è facile che diventi, per i suoi dipendenti, un mito equivalente agli eroi tradizionali. Come avevano previsto già Lev Tolstoj e John Ruskin, la sua attività lo trasforma facilmente in un cinico senza onore: all'opposto del comandante che mette in salvo i suoi e affonda con la nave, è lui il primo che deve salvarsi. Del resto, risale a quasi un secolo fa il programma dell'economia moderna, secondo cui il capitalismo-avidità avrebbe finito col rimpiazzare quello classico o fordista. Già nel 1919, infatti, un giudice americano aveva condannato Henry Ford, che voleva reinvestire gli utili della sua fabbrica di automobili creando nuovi stabilimenti e migliorando la produzione: la storica sentenza che diede ragione ai suoi soci fratelli Dodge - più tardi industriali dell'automobile a loro volta - perché, diceva, lo scopo di un’azienda è arricchire i proprietari e non dar lavoro agli operai o prodotti più utili ai consumatori. Al mondo esistono ancora, nominalmente, diversi paesi anticapitalisti, comunisti e/o persino rivoluzionari; e diversi movimenti anticapitalisti, comunisti e/o rivoluzionari nei paesi capitalisti. Mezzo secolo fa le loro voci minacciavano di morte il capitalismo liberale, anche se proprio in quegli anni i paesi a economia di mercato stavano effettuando la più equa distribuzione di redditi e di servizi della storia umana. Si dava ormai per scontato che sanità e istruzione fossero un diritto universale: quanto alla redistribuzione della ricchezza, persino negli Stati Uniti e con un governo di centro-destra (quello del repubblicano Dwight Eisenhower, già capo delle forze armate) le aliquote delle tasse sul reddito personale arrivavano al 90 per cento. Insomma, anche nella patria del capitalismo, in nome degli interessi della società, lo Stato prelevava agli individui più avidamente di ogni capitalista. Tra allora e oggi una rivoluzione (alla lettera: un ribaltamento) è avvenuta. Quella tendenza, infatti, si è letteralmente rovesciata. Infiniti “paradisi fiscali” permettono di evitare le tassazioni più alte - che sono comunque diventate, anche nei socialismi scandinavi, infinitamente inferiori, mentre nell'ultimo grande paese comunista, la Cina, il coefficiente di Corrado Gini (che cresce con la concentrazione di redditi) ha continuato ad aumentare fino a essere il doppio di quello di un paese prototipo del capitalismo come il Giappone e si avvicina ormai a quello del Brasile.



La ricchezza si sta addensando di nuovo nelle mani dei privilegiati con una velocità che non ha precedenti nella storia, mentre il progresso economico lascia spesso ai lavoratori e classe medie solo le briciole. Sappiamo che, nella modernità, la distanza tra paesi poveri e ricchi ha continuato ad aumentare. All'inizio della rivoluzione industriale l'Occidente ricco aveva in media un reddito pro-capite 3-4 volte superiore a quello dei paesi extraeuropei. Oggi il differenziale è nell'ordine delle centinaia, il reddito pro-capite del paese più ricco, la Norvegia, è ormai oltre 500 volte quello del Congo e quasi 700 volte quello del Burundi.
All’interno di Europa e Nordamerica, però, la prima metà del XX secolo aveva portato non solo un grande progresso tecnico, sanitario e dell'educazione, ma anche una sostanziale diminuzione delle differenze sociali. Intorno agli anni sessanta la tendenza si è invertita. Oggi negli Stati Uniti l’uno per cento della popolazione dispone di un reddito pari a quello del 55 per cento che sta più in basso. L’aumento della diseguaglianza è così veloce che il solo incremento di reddito di questi privilegiati negli anni dal 2003 al 2005 è stato superiore del 37 per cento al reddito totale del 20 per cento degli americani ricchi.
Questa è la rivoluzione mondiale dei ricchi, l'unica che nelle ultime generazioni sia avvenuta e rimasta”.


 


“Con maggior o minor ritardo, il mondo sta seguendo questa tendenza. Le persone ragionevoli si pongono una domanda: se ai vertici delle singole imprese industriali e finanziarie le recenti trasformazioni hanno concentrato una inattesa percentuale di psicopatici, cosa succede al vertice di tutta la società? Questa punta della macro-piramide sociale è infatti la somma dei vertici delle micro-piramidi (imprese, gruppi sociali, ecc.) che la compongono: anche se l'analisi clinica di tutto lo strato più alto della società non è possibile, è logico supporre che sia un concentrato delle psicopatie accertate alla cima dei settori di cui si compone. I rivoluzionari cambiamenti, dunque, non consistono solo in rapidissime concentrazioni di ricchezze. L'altra scioccante novità è che nei posti guida si è seduta una immoralità senza precedenti. A denunciarla come psicopatica, questa volta non sono gli anticapitalisti ma alcuni iper-capitalisti. Se scorrete Internet alla voce corporate psychopathy, troverete pagine e pagine che elencano libri e articoli su questa nuova criminalità: non provengono però da editori o movimenti di sinistra e tantomeno da Chiese, per cui le sorti del prossimo non paiono di attualità, ma da pubblicazioni specializzate nella gestione aziendale. Da quando la res publica è diventata res privata, a scrivere di queste cose sono le esperte di psicologia criminale dell’Università del Surrey.
O il dottor Paul Babiak, psicologo dell’industria newyorkese (che inevitabilmente dalle industrie trae il suo reddito)”.

 

RISPARMIATECI I VOSTRI DELIRI 
di Luigi Mazzella 


 
Le cinque religioni
 
È difficile se non impossibile essere tollerante se si vive e ci si nutre della cultura Occidentale, che è costituita unicamente da un coacervo di credenze (tre religiose e due ideologiche o politiche) consistenti in utopie tanto inverificabili e irrealizzabili (o mai realizzate senza provocare catastrofi storiche e umane), quanto assolutistiche e astratte nell’asserzione delle loro pretese e mai provate verità. In altre parole si tratta di una cultura dove un pensiero libero e non condizionato da ipotetiche e false verità non esiste. Esiste solo la menzogna elevata “a sistema di vita” e la propaganda con bugie pre-confezionate, utili ad alimentare una lotta permanente e senza prospettive di pace. L’irriducibilità delle posizioni contrapposte (cristianesimo contro ebraismo e islamismo e rectius: ciascuna delle tre religioni contro ciascuna delle altre due, fascismo contro comunismo), in realtà non consente neppure tregue! In tali condizioni di caos e di “perfetta uniformità strutturale” delle credenze in lotta reciproca, nessun “credente” (anche in una soltanto delle predette utopie) può dire di non subire i condizionamenti di tutti e cinque gli assolutismi in lizza, non essendogli dato né di non subire tentativi di convincimento né gli stimoli all’avversione e alla guerra.



Ciò significa che per un individuo dal pensiero libero e razionale (rarità, di certo, ma non impossibile) gli sdegni moralistici, gli sfoghi umorali, le invettive trucide che quegli assolutisti irrazionali e fanatici si scambiano sui sistemi di comunicazione (di parole non rispondenti al loro significato) lasciano il tempo che trovano. L’individuo (uomo o donna) che ha colto le falsità della cultura dell’Occidente (profferte d’amore che si tramutano in sentimenti feroci di odio, democrazia a parole che nasconde lotte di potere che definire tribali sarebbe un encomio, autodeterminazione dei popoli che nasconde il colonialismo, uso della giustizia che diventa uno strumento di lotta politica, difesa dei diritti umani con l’uso del napalm o del waterboarding e chi più ne ha ne metta) non può leggere senza ricordare antichi proverbi sul bue e sull’asino e non sorridere amaramente di fronte all’improntitudine di chi attacca i fascisti ricordando i meriti dei comunisti o di chi s’indigna (giustamente - è ovvio) per i crimini religiosi altrui, dimenticando che ognuna di quelle infauste religioni se ne è macchiata nei duemila anni di annullamento della razionalità umana.   




Invocazione finale: amici cristiani, cattolici o protestanti, ebrei con o senza tube nere e riccioli, islamici, sunniti o sauditi, fascisti della prima o dell’ultima ora, comunisti dei tempi prima filo sovietici e poi filo atlantici, siate clementi nei confronti di chi vi è contrario in egual misura e senza distinzioni di sorta! 
Dilaniatevi pure (perché, come direbbe Giacomo Leopardi minimamente parafrasato “di (vostra) natura è frutto ogni vaghezza”) ma non pretendete di avere l’assenso di chi è libero nella mente e non crede alle fandonie di cui vi siete alimentati, continuando a farlo. Non vi può seguire chi, privo di istinti suicidi, sa che le vostre utopie (ognuna delle cinque o variamente intrecciate) condanneranno l’Occidente a quel tramonto previsto un secolo fa da chi non aveva negli occhi le vostre traveggole. 

 

sabato 4 gennaio 2025

LABIRINTI
di Angelo Gaccione



Chissà perché mi attraggono così tanto i labirinti. “Perché sei un uomo complicato”, dice mia moglie. Non so se sono complicato, di sicuro sono un uomo non facile, su questo devo convenire. Sono intransigente con me stesso e lo sono molto spesso con gli altri. Sui sentimenti profondi non scherzo, e non scherzo sulle idee che sono costate sangue galera e morte a uomini e donne di ogni tempo, e una vita difficile anche a me. Ma torniamo ai labirinti. Mi attraggono perché sono una metafora dell’esistenza? Perché in fondo ogni vita nasconde un mistero indecifrabile e segreto? Perché essa altro non è se non un errare contorto e insensato alla ricerca di una via d’uscita? Non lo so con certezza. Eppure ogni volta che me li sono trovato davanti, fosse nel giardino di una villa nobiliare, all’interno di un parco, sul pavimento di una chiesa, dentro la pagina di un libro dove è stato graficamente riprodotto, ne sono sempre rimasto affascinato e rapito. Non ha importanza il materiale con cui sono stati realizzati, anche se devo riconoscere che i labirinti vegetali hanno avuto su di me una presa visiva e psicologica più intensa di quelli realizzati con canne, cartoni, legni, mattoni, specchi, pietre, acque, sabbie e quant’altro. 



È la geometria che mi seduce, la forma che essi possono assumere attraverso la visionarietà dei creatori e delle loro abili mani; creatori che io considero dei veri e propri artisti. Circolari, a spirale, quadrati, ottagonali, a stella, a piramide, ovoidali… e così all’infinito, in una mescolanza di linee, di volute, di intrecci dalle mille possibilità. Nessun riferimento al mito classico, nessuno alla visione mistica, nessuno ai contorcimenti della dialettica filosofica, nessuno al mistero di tanta bassa letteratura in circolazione; non è più tempo ai nostri giorni per tutto questo. Solo alla forma, alla forma che è la loro sostanza. A quella primordiale che ha permesso, evolvendosi, di realizzarle tutte: la forma del cervello umano.



Osservatelo attentamente il cervello umano; ha la forma del labirinto più complesso e intricato in assoluto, il più misterioso e imponderabile, il più imprevedibile. È così aggrovigliato che non sono ingiustificati i timori di smarrire la rotta. Nel mito, a Teseo è bastato un filo, il filo solidale di Arianna, per venire fuori dal labirinto e salvarsi. A noi non sono bastati oltre duemila anni di cultura, di tragedie, di ammonimenti. Siamo rimasti prigionieri del nostro tremendo spietato labirinto, un labirinto sbarrato alla ragione e senza alcuna via d’uscita. E sarà il labirinto della nostra protervia che ci inghiottirà.

RICORDO DI FELICE BESOSTRI  
di Franco Astengo
 


Felice Besostri

Protagonista della democrazia e del socialismo.
 
Il centenario del discorso con cui, alla Camera dei Deputati, Benito Mussolini rivendicava l'assassinio Matteotti e apriva la strada al completamento della dittatura coincide (ci sono due giorni di differenza) con il primo anniversario della scomparsa di Felice Besostri, fiero antifascista e protagonista del socialismo e della democrazia per un lungo intenso periodo nella storia della sinistra italiana. Il ricordo del compagno Felice deve quindi corrispondere alla necessità di opporsi alla condizione politica attuale che, per una sorta di "ironia della storia", vede al potere proprio gli eredi diretti dell'era fascista.
Besostri era stato l'autore di due capolavori giuridici inchiodando alla Consulta prima la legge elettorale del 2005, il famigerato "Porcellum", e successivamente il tentativo di modifica avviato nel 2015 (e approvato con il voto di fiducia al governo Renzi) denominato "Italikum" e mai entrato in vigore. Felice aveva lavorato fino all'ultimo istante per contrastare anche l'attuale, chiaramente incostituzionale, formula elettorale promuovendo ancora i ricorsi, animando il Comitato per la Democrazia Costituzionale e tante altre iniziative. Assieme al faro rappresentato dalla Costituzione e dall'obiettivo della piena applicazione del dettato proposto dalla nostra Carta Fondamentale, Felice ha vissuto fino in fondo l'ideale socialista nella sua più pura essenza dell'uguaglianza e della democrazia: non elenco qui incarichi e attività come quelle portate avanti nel Gruppo di Volpedo e nell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, ricordando soltanto l'idea del Dialogo "Gramsci - Matteotti" attraverso il quale si intendeva coltivare l'idea dell'unità di una sinistra capace di valorizzare la propria identità storica e assieme segnalare (richiamandoci ai martiri dell'antifascismo) il pericolo di una destra autoritaria, "cattiva", antidemocratica. Un compagno probabilmente non valutato appieno dai vertici della sinistra italiana nel corso della sua indefessa attività (avvocato, insegnante, senatore) di cui abbiamo bisogno di perpetuare il ricordo per non smarrire il senso della nostra lotta.

 

UN PRETE CONTRO
di Laura Margherita Volante

don Giovanni Ghilardi

 
Ricordo di don Giovanni Ghilardi paladino dei giovani
 
Ho conosciuto Giovanni Ghilardi a 24 anni, appena laureata, presso la Scuola Media don Bosco di Varazze L. P., avendo avuto incarico di docente. Laurea conseguita all’Università di Genova, Facoltà di Pedagogia ad indirizzo psicologico con tesi di laurea in Sociologia, acquisendo ad un concorso pubblico, l’idoneità a tempo indeterminato per il Comune di Cesena. Nel frattempo iscritta a Scienze dell’Educazione del prof. De Bartolomeis all’Università di Torino superai alcuni esami. Corso interrotto per motivi familiari. Da questo incontro nacque già una collaborazione, infatti andavo presso il suo centro di Savona per alcune lezioni di sostegno ai giovani che Ghilardi accoglieva intorno a sé. Poi essendomi trasferita e sposata a Cesena, pur mantenendo i contatti sia con le amicizie sia con lui, i rapporti di collaborazione fattiva si interruppero. In seguito quando l’amico Giovanni fondò La Comunità Giovanile, accolsi nel mio nucleo familiare minori in difficoltà, come pedagogista, durante i mesi estivi, le vacanze natalizie e pasquali. Alcune foto sono esempi di questa mia esperienza come testimonianza dell’impegno a tempo pieno di don Ghilardi, di aiuto alla vita verso i giovani e al loro reinserimento nella società. 



Lo sfiorare la propria esistenza con quella di Giovanni Ghilardi, prete salesiano, che all’apparenza sembra tutto meno che un prete, lascia tracce indelebili nell’anima fino a cambiarne l’essenza: è lì con tutto il suo essere irremovibile tanto che l’opera di crescita redentrice ti urla dentro tutto l’amore dell’universo. Un’esperienza che apre dei varchi molto stretti, difficili da oltrepassare, attraverso i quali, anche quando tocchi il buio riesci ad intravvedere uno spiraglio di luce… ed allora il viaggio del pellegrino, tortuoso e accidentato, ti salva o ti annienta, perché quello spiraglio è un tormento, un’ossessione: è la tua coscienza di essere umano così debole di fronte ad una scelta forte, unica e irrinunciabile. Quante volte Giovanni è stato in tribunale per perorare la causa di giovani. Ricordo quando un suo ospite fu accusato del furto di 10.000 lire e Giovanni rese alla persona derubata un biglietto di lire 50.000 e costui trattenne l’intera cifra… Chi era il ladro, dunque? 



Alla fine degli anni ’60, attorno a Giovanni Ghilardi, sorge un’aggregazione spontanea di un certo numero di giovani per riflettere sulla Bibbia e per occupare spazi d’intervento sociale. All’inizio l’impegno del gruppo era rivolto verso i ragazzi svantaggiati nell’ambito scolastico: le bocciature, l’abbandono scolastico, le giornate trascorse nelle strade diventavano causa di emarginazione e di precoce delinquenza. Istintivi, grossolani, violenti, insicuri e profondamente affamati di affetto, di attenzioni e di amore trovarono in Giovanni un forte punto di riferimento. Giovanni “è” lì ad accogliere i bisognosi, deboli e pericolanti, com’è nell’insegnamento di don Bosco. Egli comunica con lo stesso linguaggio dei ragazzi condividendo tutta la loro povertà, dando a loro ogni suo attimo e ogni suo avere: egli vuole per loro tutto quello che hanno i figli degli “altri”, perché non si sentano umiliati; l’ho sempre visto proteggere i suoi ragazzi dall’ipocrisia, dal pietismo, dall’intolleranza, dall’ingiustizia di chi li considera “altro” e non parte della stessa società.



La Comunità giovanile si è organizzata in associazione di fatto il 26 ottobre 1974, perché già da anni operava in favore di minori in difficoltà e delle loro famiglie. Non si accettano tossicodipendenti. I minori, di età scolare, sono affidati dal Comune di residenza da parte del Tribunale per i Minorenni, con l’indicazione di collocamento presso idonea struttura: le richieste vengono presentate direttamente al responsabile della Comunità giovanile dagli operatori del servizio affidatario. Con alcuni Comuni, con l’Ufficio servizio sociale per minorenni dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia i rapporti sono regolamentati caso per caso. Con altri Comuni e con l’Ufficio Legge 180/78 vige una “Lettera d’impegno”. È ricercata e gradita la collaborazione e il necessario confronto con esperti esterni alla Comunità, come giudici, neuropsichiatri, medici, psicologi, educatori, insegnanti, assistenti sociali e tutti coloro che hanno a cuore il ricupero e il reinserimento sociale dei minori. Il 15 settembre 2016 è venuto a mancare il mio amico di sempre, don Giovanni Ghilardi, sacerdote salesiano, che ha dedicato la propria esistenza ai giovani “poveri e pericolanti”, secondo lo spirito di don Bosco, sfidando la società… Nato a Camaiore, in provincia di Lucca, il 18 aprile 1936, era stato ordinato presbitero l’11 febbraio 1963.  Nel 2008 pubblicò: Rimettersi in gioco. Il libro bianco sulla solitudine dei giovani.
 

 

 

 

 

 

 

venerdì 3 gennaio 2025

CONDIZIONE OPERAIA E MORTE 
di Pierpaolo Calonaci


 
Vincenzo Martinelli

Qualche settimana fa, dopo l’ennesimo omicidio di lavoratori nello stabilimento petrolifero Enel a Calenzano, comune alle porte di Firenze, il quotidiano ‘la Repubblica viene in possesso di una lettera, vergata a mano da uno degli operai (che poi sarà una delle vittime) addetti alle operazioni di carico/scarico delle autobotti, indirizzata ai responsabili della ditta di trasporti per cui lavorava, dove vengono denunciate le precarie condizioni strutturali dell’impianto, le conseguenti (prevedibili) diminuzioni degli standard di sicurezza del luogo di lavoro e la gravosità di turni massacranti ben oltre il contratto. Lamentando - perché la colpa deve sempre ricadere su chi lavora - una lettera disciplinare della ditta di autotrasporti per la mancata consegna di un carico quale conseguenza di quei problemi. A prescindere da tutto questo, se si può, resta un’immagine che è la cifra o semmai lo stigma della condizione di asservimento del lavoro oggi, rappresentato dalla grafia con cui la lettera viene composta. È una grafia effigiante una mano decisa a fare i conti con la propria oppressione, trovando la forza interiore di dire ciò che minaccia il lavoro e la vita. Al netto di qualsiasi enfasi, quella lettera è uno stilema. E forse anche per questo che suscita un sentimento di compassione e dolore davanti alla condizione sociale e umana di ogni lavoratore, di ogni lavoratrice.


La lettera
 
È una scrittura affine a quella dei bambini delle elementari, quando, se ce ne ricordiamo, cercavamo di compiacere gli adulti prestando ossessiva attenzione a non sbagliare la forma sintattica dei suoi fonemi e morfemi. Ortograficamente corretta usa lettere e parole tramite un gesto semplice, pulito, innocente analoga alla coscienza umana di ogni bambino che suole esprimere liberamente sé stesso; il quale non vorrebbe inconsciamente mai perdere e che verrà soffocata inevitabilmente, altrimenti il dominio del mondo degli adulti non potrà educarlo - giusto una nota incidentale -all'accettazione dell'ordine dominante del divenire storico del regime produttivo del lavoro e della sua fenomenologia.



Possiamo immaginare quell’uomo con le mani piagate e piegate da turni di lavoro massacranti con un salario da schiavi e con responsabilità familiari enormi dovute a determinate contingenze cui necessariamente dover assolvere. Contorte eppure salde da un senso della propria vita affetto da gravosità e sofferenza ma in cui rifulge il senso della responsabilità e della ribellione. Ed è bello che fra le righe della lettera non muoia la coscienza con cui trovare la forza e la dignità di scriverla per denunciare uno stato di cose circa l'estrema pericolosità strutturale del lavoro nell'impianto Enel. Eppure quella lettera viene indirizzata a qualcuno. E rimane invariabilmente inascoltata. Chi ascolta oggi gli operai?

 
Al massimo qualche “politico”, nei suoi finimenti istituzionali, potrà concedere l’amabile sforzo di pensare che quell’impianto lì dove sta in mezzo ad una pianura densamente popolata certo non dovrebbe esserci, battendosi magari per farlo spostare (importante, per carità, ma non è certo questo il nucleo del problema); ecco, niente di più. Forse qualche onesto sindacalista.
Come bambini che sanno vedere troppo bene le conseguenze perniciose di un dato discorso produttivo, del progresso, della crescita senza sosta, dell’accumulazione fine a sé stessa - presieduto dagli adulti/padroni che “sanno” - alla mano e alla voce di quell’operaio nessuno presta attenzione.


Morti sul lavoro

I bambini e la classe operaia sono le vittime eccellenti, nascoste accuratamente, dell’attuale società di massa segnata dal connubio tra “capitale e plebe” (Harendt); nel qual sodalizio i bambini introiettano relazioni oppressive e opprimenti in cui il ricatto del mercato pone il principio dell’autoaffermazione individualistica, disumanizzando l’ideale di umanità e dignità dell’uomo e, per converso, i lavoratori sotto forma di atomi, spesso uni contro gli altri, devono lasciare su carta il proprio testamento nella giungla di “popoli trasformati in specie animali” dove produrre e morire.
Ecco dove comincia la morte, nell'invisibilità.

FUGGIRE DALL’ETERNO PRESENTE
di Franco Astengo
 



Sembrano tutti (o quasi) convinti che il tempo scorra in un eterno presente dove si cerca di festeggiare per allontanare l’angoscia: quella che stiamo vivendo però è una crisi diversa dove la connessione tecnocrazia/guerra appare davvero come l’iceberg su cui l’umanità balla la sua fine. È svanito il rimando escatologico, la previsione del futuro e il richiamo al passato che potrebbe ancora formare un ponte. La politica sembra ridotta al problem solving e l’improvvisazione si camuffa da pragmatismo. La sinistra ha bisogno di acquisire coscienza di questo stato di cose e di imporsi fuori dalla pigrizia per cambiare paradigma. È richiesto un tale sforzo di rielaborazione cui nessuna generazione è mai stata chiamata, a partire dalla prima rivoluzione industriale e dal sorgere del capitalismo e dall’organizzarsi della classe operaia nei sindacati e nei partiti di massa. È questo, della presa d’atto dell’avvenuto mutamento di paradigma, il senso di una proposta d’analisi che mi sono permesso di definire come del “socialismo della finitudine”.



“Socialismo della finitudine” per ripartire dall’idea dell’impossibilità, rispetto a quello che abbiamo pensato per un lungo periodo di tempo, di procedere sulla linea dello sviluppo infinito inteso quale motore della storia inesorabilmente lanciato verso “le magnifiche sorti e progressive”.
Il primo punto di programma così teoricamente impostato dovrebbe allora essere quello rappresentato dalla progettazione e da una programmazione di un gigantesco spostamento di risorse tale da modificare profondamente il meccanismo di accumulazione dominante. 
Oggi il ritorno della guerra come prospettiva globale, il riferimento a innovazioni tecnologiche in grado di mutare il quadro di riferimento sociale, l’emergere di tensioni “dittatoriali” sconvolgono l’assetto consolidato in un momento in cui si stava attraversando una forte difficoltà per quell’accelerazione nei meccanismi di scambio che abbiamo definito come “globalizzazione”.

Si è verificato l’ingresso nel novero delle grandi potenze di nuovi attori politici portatori di diversi sistemi di governo della politica e dell’economia, a partire dalla Cina e guardando anche alla spuria aggregazione dei BRICS in tempi in cui nel post-globalizzazione paiono emergere prospettive di consolidamento in blocchi dell'equilibrio mondiale.



La coscienza della propria appartenenza e la volontà politica di determinare il cambiamento rimangono fattori insuperabili e necessari come motore di qualsivoglia iniziativa della trasformazione dello stato presente delle cose.
Attenzione però, lo stato presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione oggettiva della nostra esistenza, sia in quello dell’assunzione di una consapevolezza soggettiva del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza tra individuale e collettivo “si realizza la vita d’insieme che è solo la forza sociale, si crea il blocco storico” (Gramsci Quaderno 11). Come auspicava Lukács la coscienza di classe trova il suo superamento nell’universale riconoscimento della propria appartenenza al genere umano. La coscienza della propria appartenenza deve così sfociare nella convinzione di un’umanità che richiede l’uguaglianza. La volontà politica del “soggetto” va allora impegnata nella ricerca di un socialismo possibile nella forma di un nuovo umanesimo. Un umanesimo socialista posto “contro” il modello di quello realizzato e fallito ma anche oltre forme di socialdemocrazia incapaci di porsi anche soltanto nella semplice prospettiva del riformismo.



Punto di partenza dell’umanesimo socialista: rimanere fedeli ad un’etica della trasformazione in quanto opposizione allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, di un genere umano che ritiene senza limiti l’antropizzazione della natura. Va disegnato l’orizzonte di un “Socialismo della finitudine” inteso come valore universale esprimendo l’intenzione di ripartire dall’idea del dover ripensare la teoria della linea dello sviluppo infinito inteso quale motore di una storia inesorabilmente lanciata verso “le magnifiche sorti e progressive”. Socialismo della finitudine” come idea che, nella sua dimensione teorica, riesca a comprendere quanto di “senso del limite” sia necessario acquisire proprio al fine di realizzare quel mutamento sociale posto nel senso del passaggio dall’individualismo competitivo fin qui egemone nella post-modernità verso nuove forme di soggettività collettiva ponendosi l’obiettivo di riuscire a proporre un mutamento di quell’offerta politica che oggi appare così debole e confusa.

CORTEO A SESTO SAN GIOVANNI




A ROMA CON ROSSANI




giovedì 2 gennaio 2025

TECNOLOGIA E FUTURO
di Romano Rinaldi



Pochi giorni fa, un mio “amico di penna”, come si sarebbe detto molti anni fa; in effetti un amico di Web, esperto nel campo della fisica nucleare, mi pose la domanda: “credi che in un prossimo futuro dovremo ricorrere alle risorse minerarie degli asteroidi per sostenere l’economia delle materie prime sulla Terra?” La mia risposta fu inequivocabile. Con buona pace dei sogni (o incubi) di persone come Elon Musk, le risorse del pianeta Terra non sono in esaurimento per il semplice motivo che, quando una risorsa comincia a scarseggiare, la scienza e la tecnologia sono in grado, come dimostrato già parecchie volte, di volgere lo sguardo verso altre risorse, fino ad allora non ritenute tali e sviluppare tecnologie adatte al loro sfruttamento. Gli esempi sono innumerevoli a partire dai vari passaggi che hanno subito le risorse energetiche legate alla combustione: legno, carbone, petrolio, gas. Poi anche le reazioni nucleari, prima la fissione, in futuro (si spera) la fusione. E per quanto riguarda i materiali strategici, una volta il Platino era considerato una sottospecie dell’argento, da cui il nome “platina”, opposto a “plata”. Era infatti una scoria, un residuo fastidioso perché refrattario (alto fondente) alla fusione nell’estrazione dell’argento (plata), dalle miniere del Messico.  



Quando studiavo i minerali del Litio, oltre mezzo secolo fa, si trattava di curiosità mineralogiche, non certo di minerali strategici. Oggi, senza il litio, sembra non poter esistere il trasporto autonomo, su gomma (il cosiddetto “automotive”). Poco tempo dopo, i miei studi su composti che avrebbero forse consentito in un prevedibile futuro, lo stoccaggio dell’idrogeno in modo sicuro, portarono il laboratorio al quale lavoravo, negli USA, ad ipotizzare un tempo non troppo remoto per lo sfruttamento per scopi energetici della risorsa in assoluto più abbondante sul pianeta. Infatti, dato che il 75% della superficie terrestre è occupata dall’acqua e dato che in una molecola d’acqua ci sono due atomi di idrogeno per ogni atomo di ossigeno, la risorsa idrogeno è sicuramente illimitata. 



Bene, quella è rimasta un’utopia anche se si sono già affacciate diverse applicazioni pratiche. A partire dalla propulsione dei motori per i vettori di satelliti e capsule spaziali più potenti i quali utilizzano già da molti anni il costosissimo combustibile idrogeno liquido e l’ossigeno liquido come comburente. Ma le celle a combustibile (infatti a idrogeno, già sviluppate per i satelliti) saranno il prossimo passo anche per la mobilità terrestre e sul mercato esistono già alcune opzioni, anche per la mobilità privata. Insomma la questione non è il materiale che di volta in volta la tecnologia utilizza, ma la convenienza economica allo sfruttamento di una tecnologia piuttosto che un’altra.
Volendo spostare il ragionamento dal piano strettamente tecnologico a quello socio-economico, penso che l’umanità non sia ancora abbastanza intelligente, come comunità di individui per spingere nella direzione di una economia sostenibile per il pianeta che si trova ad abitare. Preso singolarmente, l’individuo umano ha sicuramente l’intelligenza sufficiente per comprendere quanto detto fin qui e per intraprendere, ad esempio in campo energetico, le strategie di sfruttamento delle risorse inesauribili che la natura ci ha messo a disposizione a partire dalla creazione dell’Universo qualche miliardo di anni fa. 



Si tratta chiaramente del sole, dell’idrogeno, del calore interno della terra (anche a bassissime profondità) e di tutto il corollario di materiali utili per le tecnologie atte a fornire a tutti gli umani un ambiente di vita sostenibile e di pace. Il problema purtroppo però è insito nella natura umana che, pur mostrando doti di intelligenza divina individualmente, essendo un animale socievole che si raggruppa in moltitudini di individui a volte esageratamente densi di popolazione, tende a ragionare come orda o gregge o branco. Insomma una tipica mandria al galoppo in cui, il capobranco, a testa bassa e corna tese a colpire qualunque ostacolo, rincorre qualche invisibile obiettivo e trascina tutta la sua comunità nella corsa sfrenata che tutto travolge.



Siamo dunque ancora ben lontani dall’aver raggiunto una intelligenza “di comunità” intesa come la capacità di interpretare, a livello di popolazione generale, gli obiettivi che la società umana dovrebbe perseguire e che sono stati iscritti a caratteri ben chiari nelle costituzioni democratiche e nelle disposizioni degli organi sovranazionali creati appena dopo la catastrofe dell’ultimo conflitto mondiale. Quando si affacciò ben evidente lo strumento che, in una prossima guerra ci avrebbe tutti portato, come parafrasò Albert Einstein, a combattere quella successiva con asce di pietra.
Quale può essere dunque la via d’uscita? Da queste premesse è chiaro che il modello del capopopolo che, con il falso pretesto di assecondare i bisogni del suo popolo, ne segue gli istinti più “di pancia”, non può fare un buon servizio alla comunità di cui è a capo. Perché si comporterà sempre e solo come il bisonte alfa che guida la mandria in corsa. Sì, tanta forza viene espressa con questa immagine ma quant’è l’intelligenza che traspare? Quali i risultati finali? Davvero la mandria si ritroverà pacificamente a pascolare in enormi distese ricche di alimento e pace per tutti dopo quella folle corsa? Dove sono tutti questi spazi sconfinati sul nostro sempre più ristretto habitat planetario?
Qualche sempliciotto potrebbe anche pensare, ormai ricco da far paura, che avendo finito le risorse sul nostro pianeta dovremo andare a cercarne altre, per cominciare sugli asteroidi che i moti celesti ci portano a tiro, poi su Marte e poi su altri pianeti di cui ancora sappiamo solo dell’esistenza ma ancora troppo lontani per una o due generazioni di astronauti che volessero mettersi in viaggio per raggiugerli. Si accomodino lorsignori! Andate avanti voi, che a me per adesso scappa troppo da ridere!