No a fondi e allo spacchettamento. È il caso
di soffermarsi con attenzione sulla prospettiva di vendita del gruppo
"Acciaierie d'Italia": premessa la strategicità della produzione
siderurgica in una situazione italiana di deficit sul piano della
programmazione industriale; considerata la necessità di un riferimento europeo;
ricordato il passaggio di privatizzazione del settore avvenuto negli anni'90 e
i fallimenti di Riva e di Arcelor Mittal tanto per citare due esempi e il
ritorno al pubblico degli stabilimenti di Taranto, Cornigliano e Novi Ligure
con la formula - appunto - di Acciaierie d'Italia. La situazione in itinere
vede tre società straniere in lizza per l'acquisizione dell'intero complesso:
l'azera Baku Steel Company; gli indiani di Jindal, e il fondo statunitense
Bedrock che punta su metalli ed estrazione. Sono state inoltre avanzate
proposte di acquisto per assett parziali da diversi gruppi tra i quali
Marcegaglia, Eusider e Sideralba. Al di là del facile ottimismo ministeriale e
delle riflessioni aperte nel Sindacato vanno poste immediatamente in essere
alcune proposizioni di principio: a)no a
fondi d'investimento che naturalmente lavorano in funzione dei sottoscrittori e
non della produzione nella sua dimensione d'interesse nazionale e
sovranazionale; b) no a
spacchettamenti molto pericolosi che frazionerebbe l'indispensabile unità del
ciclo produttivo: unica garanzia questa per la conservazione (e
sviluppo) della presenza del settore.
Il tutto si colloca in un quadro
complessivo già ricordato ma che vale la pena di ribadire: Il tessuto produttivo
nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l'economia
del Paese e non si riesce a varare un’efficace programmazione economica. Una programmazione
che funzioni da vettore per selezionare poche ed efficaci misure, in grado di
incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e
lungo periodo. Appaiono in forte
difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura
produttiva, ideati allo scopo di favorire crescita e sviluppo: il caso dei
distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito. Da più parti si
sottolinea, giustamente, il deficit di innovazione e di ricerca. Ebbene, è proprio su
questo punto che appare necessario rivedere il concetto di programmazione e di
intervento pubblico in economia: un concetto che, forse, richiama tempi andati,
di gestioni disastrose e di operazioni “madri di tutte le tangenti”. Emerge, infatti, la
consapevolezza di dover finanziare l'innovazione produttiva. Mentre il mercato
internazionale si specializzava nei beni di investimento e intermedi, con alti
tassi di crescita, l'Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi
tassi di crescita.
Nel 1990 (queste le
responsabilità politiche vere del pentapartito che si riflettono ancora adesso
sulla realtà attuale, assieme al peso dell’aver sottoscritto trattati europei
pesantemente vincolanti in assenza di una qualsiasi prospettiva plausibile di
tipo politico) i paesi europei erano tutti in condizione di debolezza e tutti,
tranne Portogallo, Grecia, e Italia, avevano saputo modificare le proprie
capacità tecnico-scientifiche diffuse, al fine di agganciare il mercato
internazionale poi posto in crisi dal 2007 in avanti e ancora dalla crescita
cinese e adesso nella prospettiva dell'isolamento di marca trumpiana e
dall'aggressività di Musk e dagli altri padroni delle "over the top". In allora i Paesi
europei seppero costruire una ripresa industriale portata avanti anche grazie
al supporto e all'intervento diretto del settore pubblico, mentre l'Italia ha
dovuto importare l'innovazione da altri rinunciando anche allo sviluppo di
segmenti alti del mercato del lavoro, dall'informatica, all'elettronica, alla
chimica, addirittura all'agroalimentare.
Adesso di fronte alle
difficoltà è il momento di rilanciare proprio nella dimensione europea ponendo
a quel livello Il nodo della programmazione, dell'innovazione tecnologica (si
pensi ad esempio rispetto al tema dei satelliti il lavoro di Sitael),
dell'intervento pubblico potrebbe rappresentare la base di un programma di
alternativa rispetto a quello di un governo in apparenza. sovranista ma che sta
cedendo a privati stranieri i punti definitori una possibile identità nella
comunicazione, nella tecnologia, nella produzione industriale.