Sarebbe
già una grande conquista se potessimo cancellare dal vocabolario del nostro
pensiero morale e politico l'orribile parola “obbedienza”. Hannah
Arendt Anche
la bestia più feroce conosce un minimo di pietà. Ma io non ne conosco, perciò
non sono una bestia. Shakespeare
Riccardo III II Parte “La
possibilità della vera responsabilità si apre quando si è costretti a giudicare
in quelle situazioni in cui le condizioni del giudizio determinante sono venute
meno”: questa è la condizione di possibilità dell'etica, in nuce la
questione in filosofia morale del problema tra pensiero e vita etica. Il
dovere in senso etico è un dovere immanentemente riflessivo, metariflessivo,
pluralista. È o dovrebbe diventare un habitus. Può ancora essere
insegnato in modo da conferirgli quella credibilità, ci dice la Forti, che ha
perduto? Laddove il tu devi è oramai uno strumento spuntato e vuoto con
cosa ci si può e ci si deve opporre al male? Per non appesantire il discorso,
lascio questa domanda sospesa.La sua episteme, del dovere, è un “factum dalla
pluralità interna, una modalità di conoscenza che si attualizza in ogni
processo mentale, una prevenzione per discernere ed evitare il male”. I suoi risvolti,
quale prassi politica trovano espressione nella costruzione di rapporti sociali
in cui le forze distruttive della storia trovano un argine.Per inciso, il dovere in
senso etico presenta un risvolto riflessivo davanti al dato tecnico della
proporzionalità della risposta ad una minaccia affinché la vita umana venga
sempre difesa (e francamente questa proporzionalità nel gesto del carabiniere
non l’ho vista).Credo
infine che l’etica e non il dovere abbiano condotto durante la violenza e
l’odio del Ventennio alcuni carabinieri a passare dalla parte della dignità
umana per difenderla dalle angherie delle leggi fasciste, perdendo la propria
vita.
Torno
al problema degli apolidi che mi sta particolarmente a cuore. Ammonisce la
Arendt che davanti alle minoranze, alla loro subalternità, al loro modo di
essere esposti alla cancellazione e all’invisibilità individuale e sociale
occorrerebbe misurare di quella condizione di prostrazione e sradicamento
“l’infezione totalitaria di un governo dall’uso fatto della privazione della
cittadinanza”. Sarebbe esattamente questo il metro con cui misurare il contesto
di “vita” di Muhammad Sitta: una cornice esistenziale di totale mancanza di
diritti umani dove la “mancanza di un posto nel mondo” sottrae tanto alle opinioni
quanto alle azioni un valore, un effetto, una visibilità che possano essere
riconosciute. È vero che Muhammad era richiedente asilo ma questo, ai fini
della mia analisi, è pura retorica in quanto, oggettivamente, si continua a
situare la sua vita in Italia sotto il segno della carità,
dell’assistenzialismo menomamente dentro un’organizzazione sociale che davvero
si faccia carico della sua apolidicità per metterlo in condizioni di
ricostruire dignitosamente la sua vita. Peraltro, riflettere su cosa sia davvero
perdere i diritti umani - che non significa nel contesto della mia analisi solo
perdere libertà e giustizia - è un’operazione che da noi non si fa perché molto
semplicemente li diamo per acquisiti. Significa essere essenzialmentesradicati
dall’appartenenza alla comunità in cui si è cresciuti, alla sua storia, alle
sue tradizioni e pratiche identitarie e catapultati, senza scelta, in una
dimensione di non appartenenza ad una comunità che si vive in quanto aliena. Il
risultato diretto è il trattamento che questa riserva loro e che spesso è e
rimane qualcosa di loro profondamente avverso, esogeno a se stesse in quanto
individualità e umanità non si possono perciò manifestare (questa affermazione
rispetta e ringrazia l’impegno nobile delle tante associazioni che lavorano
nell’accoglienza). È questo avvertimento, con tutte le sue variabili, che
Arendt esplicita davanti al fenomeno globale dell’apolidicità in cui milioni di
innocenti sono privati di diritti umani e dignità. E deve essere chiaro
oltremodo, dice la filosofa, che questa sventura si regge sull’impossibilità di
praticare, da parte degli apolidi, il diritto all’azione ovvero quello di poter
esprimersi, di parlare, di scegliere, di relazionarsi che in certo senso supera
la privazione della libertà. Donde Muhammad poteva uscire e andare ovunque
volesse ma senza poter aver accesso alla dimensione dialogica della e con la
realtà comunitaria ospitante, meno che mai con il mondo del lavoro; in breve
era privato della libertà di opinione che serve a mostrare chi si è, a essere
visti e ascoltati dagli altri.
Annah Arendt
Il
discorso filosofico che la Arendt intraprende è analogo all’artista che usa il
fuoco della prospettiva per illuminare la densa profondità e la consistenza di
ciò che fino allora è rimasto nascosto. Diventiamo consapevoli di essere
soggetti di diritto ‘ad avere diritti (ciò significa vivere in una struttura
sociale in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni, nota mia) solo
quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso [...]’. Questo
meccanismo di cancellazione di diritti sorge e funziona laddove l’umanità ha
cominciato ad organizzarsi scientemente in stati, poi nazioni (con la deriva
nazionalistica), poi in imperi, oggi in stati democratici il che evidenzia un
denominatore comune: il criterio politico e securitario che fa del non
riconoscimento, dell’espulsione, della persecuzione la propria ragione
d’essere. L’epifania di tutte quelle organizzazioni statuali e giuridiche
conservano in sé un vulnus, un cortocircuito tra norme organizzative
(che possono alimentare ideologie e terrore) legittimanti tutti quei complessi
statuali e la realtà quotidiana degli individui; ciò che l’analisi arendtiana
illumina, è niente meno ‘la perdita della patria e dello status politico’
manifestantesi con l’espulsione dall’umanità stessa. Laddove poi, secondo
Waquant, in “Parola d’ordine: tolleranza zero” in cui sostiene la
riconversione dello stato assistenzialista “maternalista” - perciò non la
scomparsa del walfare ma la sua riconversione appunto in stato
punitivo “paternalista” - quella espulsione è prassi politica ideologica che
cementifica morale e politica contribuendo all'espansione costante dello stato
penale che criminalizza gli apolidi.
Arendt
sembra alludere al fatto che più l’umanità nel corso della sua geneaologia sia
stata identificata con forme statuali organizzate più corra il rischia di
perdere la propria umanità. E ciò si può verificare laddove parte dell'umanità
organizzata e avvinta in un nucleo politico solidificato e in uno status
normalizzato non si accorga, non veda che esiste un enorme e sempre crescente resto
di umanità che è stato espulso dall'umanità stessa. E la prima si riduca a
vivere alla difesa securitaria del proprio mondo (è esattamente questa la
reazione della comunità di Villa Verucchio, credere nei programmi politici
securitari). Programmi peraltro che vanno analizzati e smembrati sotto la lente
sociologica per cui “l’insicurezza che proviene dalla criminalità è solo un’esca atta a
distogliere lo sguardo collettivo da ciò che è in gioco realmente, ossia la
ridefinizione del perimetro e delle missioni dello Stato nel suo affrontare il
Moloch del mercato” (Loic Waquant, Il corpo, il ghetto e lo stato penale,
intervista 2007). Per
sinossi, Arendt molto similmente afferma che il fatto comune intorno a cui
ruota la propaganda secondo cui“l’istituzione (penale) è destinata agli
elementi asociali”, viene sconfessata da un dato fattuale: “è più difficile
uccidere la personalità giuridica in un uomo colpevole di qualche crimine che
in una persona completamente innocente”. Ilcriminale rimane sempre protetto
dalla legge, l’uomo senza più anima anche quella giuridica rimane alla mercé di
tutto, di tutti, di ogni paranoia di promulgare “ordine e legge”. La filosofa
si spinge ben più là quando parla di proscrizione di tutta la popolazione
laddove questo sistema di spoliazione dell’uomo avviene. Questi fenomeni
sociali non toccano solo quell’uomo bensì tutti gli uomini. È l’esacerbazione
che la Arendt rileva nella moderna praxis politica di organizzazione
statuale quando espressamente dice ‘uno degli aspetti più sorprendenti
dell'esperienza moderna è che è manifestatamente più facile privare della
capacità giuridica una persona completamente innocente che l'autore di un reato’.
C’è bisogno di sicurezza sociale, non di sicurezza
Da un lato, seguendo la lezione arendtiana, etica e politica devono
confliggere. Dall’altro, sicurezza significa giustificare le cause neoliberiste
dell’attuale stato penale (“l’attuale fase di espansione dell’intervento
punitivo dello stato è da attribuire esclusivamente alla contrazione del suo
intervento sociale ed assistenziale” sostiene perentoriamente il sociologo
francese Waquant) di contro a sicurezza sociale che intenderebbe “l’attribuzione
di nuovi diritti di cittadinanza, che favoriscano l’integrazione sociale e
permettano di evitare quel circolo vizioso che porta il trattamento carcerario
della miseria ad alimentare incessabilmente le condizioni della propria
espansione”. Non
secondaria rimane la constatazione che caratteristica di questa espulsione, di
questo annientamento contro cui si richiama il diritto dell’uomo, esige un
fattore dirimente: la perdita di linguaggio quale forza di convivenza che
permette all’uomo, tramite la parola e il pensiero, di vivere e riunirsi in
forme di convivenza quale capacità di autoregolarsi e di regolare la sfera
individuale e quella pubblica. Il
coltello nelle mani di uno sventurato come Mohammad era l’ultimo brandello per
urlare la propria condizione di perdita di una comunità quale garanzia di ogni
diritto e di innocenza quale assoluta mancanza di responsabilità. Certo, la
Magistratura farà il suo corso e da quanto ne so Mohammad era già segnalato
come “violento”. Mentre il piano del discorso che sto costruendo mette la
condizione di Mohammad sotto prospettive assai diverse da quella della legge
quando si identifica con la pena. Mohammad viveva in “un’imponente solitudine”
frutto di leggi e pratiche poliziesche da cui non può che scaturire un isolamento
annientante. Quando uomo non viene più reclamato, riconosciuto, desiderato da
una comunità quell’uomo viene trasformato in oggetto di cui disporre a
piacimento: ecco perché l’uccisione di Mohammad, differentemente dalle
circostanze della morte del giovane Ramy a Milano, non ha suscitato il medesimo
sgomento né reazione pubblica.
Muhammad
alla luce di tutto quanto ho cercato di descrivere era innocente. Non
poteva più dirsi uomo perlopiù in una lingua non sua; siamo noi i colpevoli a
non avere compreso e protetto il suo grido di dignità. Quelle pallottole
avrebbero dovute essere rivolte alla ferrea sicumera di gran parte della
società italiana e della sua idea di comunità. Era innocente perché reso
“schiuma della terra” e come tale alla mercé di chiunque, dello sgherro come
del fariseo politico. Anche i tedeschi che vedevano passare i treni della morte
si chiedevano quale colpa avessero avuta le persone lì rinchiuse. Un
ultimo scolio: non è un’iperbolela definizione schiuma della terra
(superfluità cui l’essere umano è ridotto), è l’espressione di un
fare filosofia socratico, “di attrito”, “d’urto”, riflessivo che ha un sapore
antiplatonico a cui la Arendt era particolarmente affezionata. È espressione
che deriva dalla sua filosofia engagè idiosincratica nei confronti della
filosofia chiusa nella sua rassicurante teoresi che produce un soggetto
monadico e pienamente convinto di sé. Analisi filosofica e umana quasi del
tutto scomparsa insieme alla sua capacità empirica e analitica di denunciare,
di saper dire no, di disciplinare il ragionamento in senso non autoritaristico,
di svelare e trascendere il reale; per persuadere gli uomini incatenati alle
immagini, agli idoli, alle ideologie, alla propaganda che fanno della caverna
luogo di consolazione e fascino a rivolgersi verso la liberazione.Questo vuoto di giudizio
riflettente permette che un uomo venga ucciso come se niente fosse accaduto.