PAREGGIO DI BILANCIO E COSTITUZIONE di Alfonso Gianni
Schwarze
Null Auf Widersehen I venti di guerra, in Europa e nel
mondo, sono talmente forti che travolgono facilmente quelle che erano ritenute
essere le pietre miliari su cui si fondava il credo neoliberista in tempi di austerity. Così può avvenire che la
Germania decida, con rapidità degna di miglior causa, di eliminare il cosiddetto
“freno al debito” inserito nel 2009 in Costituzione - come reazione alla grande
crisi economico-finanziaria iniziata a fine 2007 - che obbligava lo Stato
tedesco a mantenere il pareggio di bilancio. Così non si è aspettato che si
convocasse il nuovo parlamento, il Bundestag,
emerso dagli esiti del voto del 23 febbraio scorso, ma si è fatta passare la
modifica costituzionale nel vecchio parlamento, in modo da essere sicuri di
avere la maggioranza qualificata dei due terzi. Si è trattato di una fin troppo
evidente forzatura istituzionale, contro la quale l’opposizione di sinistra e
di destra - ovviamente con motivazioni diverse e discordanti - ha elevato
grandi proteste che però non hanno scosso la Corte Costituzionale di Karlsruhe
che ha ratificato l’astuzia della vecchia maggioranza considerandola del tutto
legale. Se la votazione fosse avvenuta nel nuovo parlamento non ci sarebbe
stata possibilità di fare passare il provvedimento, voluto fortemente dal
vincitore delle elezioni Friedrich Merz, sostenuto dalla Spd e dai sempre più
scoloriti Verdi, per il quale era necessaria la maggioranza dei due terzi, visto
l’incremento dei deputati della Linke e dei fascisti dell’Afd, malgrado che sia
venuta meno la presenza dei liberali e dei seguaci di Sahra Wagenect (questi
ultimi comunque contrari alla mossa della maggioranza). Pochi giorni dopo il Bundestrat - la camera alta che
raccoglie i rappresentati dei 16 lander
- ha reso definitiva la modifica costituzionale, con un voto che un tempo si
sarebbe detto (quasi) bulgaro. La vecchia norma, entrata in vigore durante uno dei governi di
Angela Merkel, prevedeva che il debito pubblico tedesco non potesse eccedere lo
0,35% del Pil ogni anno, tranne che in situazioni del tutto eccezionali, quale
fu la pandemia di Covid-19. Era un vincolo molto rigido che in diversi
criticavano, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di cercare di modificare,
malgrado che l’economia tedesca fosse entrata in recessione da almeno due anni
e che il debito pubblico non fosse certamente tra i più elevati in Europa. Per
la precisione il debito pubblico lordo tedesco in rapporto al Pil era, alla
fine del primo trimestre del 2024, pari al 63,4%, mentre nella media dei paesi
dell’eurozona tale valore si situava all’88,7% (in Italia ci trovavamo al
137,3% e in Francia al 110,8%). D’altro canto il rapporto tra deficit e Pil in
Germania era pari al 2,8% alla fine del 2024, in crescita non travolgente sui
valori dell’anno precedente.
Ma il sistema di guerra, nel quale la Ue è
ormai profondamente immersa, ha fatto saltare ogni mantra e ogni titubanza. Metz
ha cercato di mettere qualche foglia di fico sul suo piano, ma la spesa
militare è assolutamente prevalente. Si tratta di 500 miliardi di euro per
“implementare la difesa militare e le infrastrutture civili” e altri 100 per
finanziare ciò che resta della svolta ecologica varata dalla precedente
coalizione (detta Semaforo), per fornire una qualche giustificazione ai Verdi.
Inoltre la leva del debito permetterà al paese di contrarre prestiti per oltre
mille miliardi di euro. Le spese militari potranno così superare l’1% del Pil
all’anno, quindi circa 45 miliardi di euro. Come si vede lo spostamento di
risorse a fini bellici è ingente. Il piano di riarmo europeo, che ha cambiato
nome per il maquillage richiesto e
ottenuto da Giorgia Meloni, e che ora si chiama Readiness (Prontezza) 2030 non poteva che basarsi su questa svolta
storica di uno dei due maggiori contraenti il patto che ha originato la Ue,
cioè la Germania, dal momento che la Francia non aveva remore in questo campo
ed anzi era ed è già pronta ad offrire il proprio “ombrello nucleare” per
rispolverare in chiave bellica la sua grandeur,
negli ultimi anni piuttosto opacizzata. In altri termini il voto del parlamento
tedesco è in linea con l’intento espresso a chiare lettere dalla Commissione
europea di essere pronti alla guerra entro il 2030, visto che analisti di
provata fede atlantista stimano per quella data un attacco russo ai paesi della
Ue. Importa poco - a loro - che tale ipotesi non trovi conferma tra chi ha più
seriamente studiato l’evoluzione e l’involuzione della Russia ed i suoi
comportamenti concreti sullo scacchiere internazionale. L’idea che l’invasione
dell’Ucraina sia la pista di lancio per un attacco generalizzato all’Occidente,
corrisponde più a una giustificazione per alimentare una guerra per procura,
che non ad una previsione realistica.
Ma la decisione del parlamento tedesco ci
porta a considerazioni non solo negative. In sostanza l’interrogativo è il
seguente: è possibile trarre da una cosa pessima - il riarmo della Germania - un
insegnamento positivo? Trasformare una sciagura in un’occasione? Ovvero, più
precisamente, volgere il keynesismo bastardo (copyright Joan Robinson), in
questo caso militare, in un keynesismo che consista nell’allargare i freni
della borsa fino a prevedere una spesa in deficit finalizzata a un intervento
pubblico per un diverso modello di sviluppo sociale ed economico, in primo
luogo per difendere e ricostruire un welfare
bersagliato da una privatizzazione ormai totalizzante? Non può infatti sfuggire
che l’abbattimento del vincolo costituzionale sulla parità di bilancio potrebbe
essere utilizzato - in teoria - in modo ben diverso, anzi alternativo, a quello
dell’incremento della spesa bellica. Per quanto il passaggio dalla teoria alla
pratica sia assai arduo - lo era anche prima di entrare in un sistema di guerra
- mi pare non solo utile, ma necessario riaprire la discussione su questo
punto. In effetti già ci avevamo tentato in un tempo che, visto tutto quello
che ci è passato in mezzo, ci appare oggi persino lontano. Ma non dimenticato.
Nel nostro paese la legge costituzionale n.1 del 2012 ha introdotto nella Carta
costituzionale il principio del pareggio di bilancio (pudicamente chiamato
“equilibrio tra le entrate e le spese”). La riforma dell’articolo 81 Cost., che
conteneva questa norma, passò con la maggioranza dei due terzi in entrambi i
rami del parlamento alla seconda lettura. Quindi in base all’articolo 138 Cost.
non era possibile promuovere alcun referendum abrogativo. Nelle ultime battute
del dibattito parlamentare si chiese ai dirigenti del gruppo parlamentare del
Pd al Senato almeno di non partecipare al voto finale sulla legge di modifica
costituzionale, in modo da fare mancare il quorum dei due terzi e di rendere
così possibile il referendum che avrebbe quanto meno permesso di portare la
discussione al livello del paese, strappandola al chiuso delle aule
parlamentari. La risposta fu seccamente negativa. Si tentò allora la strada di
una legge di iniziativa popolare di modifica costituzionale, ma, al di là delle
parole, mancò poi la capacità - e più probabilmente la convinzione da parte di
alcuni - di raccogliere il numero sufficiente di firme nei tempi dettati dalle
norme che regolano la materia. Allora non c’era la possibilità, oggi invece
esistente, di raccogliere le firme anche online e neppure l’obbligo - anche se
per ora vale solo per il Senato in base al suo regolamento - di discutere e
decidere su una proposta di legge di iniziativa popolare entro un determinato
periodo dalla sua ricezione.
La necessità di evitare la
costituzionalizzazione del pareggio di bilancio non riguardava solamente
questioni di principio pur tutt’altro che secondarie, come quella che non
poteva essere preclusa in Costituzione una strada di politica economica -
peraltro già sperimentata nella storia in altri paesi - basata su un deficit di
bilancio che poteva finanziarsi non solo in base al ricorso al debito ma
soprattutto con l’incremento di Pil messo in atto dagli investimenti economici
e sociali di carattere pubblico. Cosa necessaria visto che le condizioni della
nostra economia e dell’occupazione all’inizio degli anni dieci erano in cattive
condizioni. D’altro canto neppure i vincoli europei erano tali da rendere
inevitabile la scelta del revisore costituzionale italiano. Le politiche di
austerità erano già cominciate e i documenti che venivano prodotti a livello
della Ue portavano tutti l’impronta del rigore. In questo quadro si collocavano
nuovi vincoli introdotti in quegli anni direttamente nella normativa europea e
in quella collaterale (Patto Euro plus e Six Pack del 2011, Fiscal Compact del
2012, Two Pack del 2013), ma da nessuno di questi atti si poteva meccanicamente
dedurre la indispensabilità di una modifica costituzionale nei Paesi soggetti
alla normativa europea. Lo stesso Fiscal compact si limita a una semplice indicazione
di “preferenza” della collocazione in Costituzione di “disposizioni vincolanti
e di natura permanente” sulle politiche di bilancio. Insomma, un conto è
praticare politiche di bilancio regressive, rigoriste, votate all’austerità,
anche per un non breve periodo, un altro conto è fissarle nel dettato
costituzionale al quale sono tenute ad obbedire le maggioranze politiche di
governo qualunque sia il loro colore politico. La responsabilità della modifica
negativa dell’art. 81 Cost ricade quindi sulle forze politiche italiane che
l’hanno votata.Il “ce lo chiede
l’Europa” era una fola. Del resto basta leggere - e capire - la nostra Costituzione.
Particolarmente nei suoi principi fondamentali che concernono i diritti. Questi
diritti, che nell’art.2 Cost sono dichiarati “inviolabili” sono collegati allo
sviluppo della personalità e richiedono in ogni caso “l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Una tutela che non
può essere abbandonata a seconda delle contingenze economiche. Tantomeno in
nome di quella guerra che l’Art.11 Cost. non solo “ripudia” come strumento di
offesa ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per
queste ragioni di fondo il vincolo del pareggio di bilancio non ha ragione di
stare in Costituzione. Riaprire la discussione e l’iniziativa su questo tema
non solo è ancora più necessario di prima, ma possibile una volta che il totem
del pareggio di bilancio, dello Schwarze
Null è crollato in mille pezzi.