APOGEO E DECLINO DEL
SISTEMA DEI PARTITI
di Franco Astengo
1975 - 1976 - 1978
Nel momento in
cui l’esito referendario dello scorso 8-9 giugno ha riaperto la discussione
sulla partecipazione elettorale intesa quale elemento non secondario della
periclante qualità della democrazia mi permetto un ricordo, a 49 anni di
distanza dal 20 giugno 1976 quando il “bipartitismo
imperfetto” raggiunse il suo culmine (DC e PCI assommarono all’incirca
il 73% dei voti validi) e si avviò il declino di quella che Pietro Scoppola
definì “Repubblica dei Partiti”.
In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di
giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall'esito
"critico" , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il
progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10
giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti
dell'Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura
nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che
fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo
stesso intensissimo dato di presenza alle urne. È
stato nell'arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si
consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti
nella versione egemone del "partito a integrazione di massa" e
dell'inizio dell'irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi,
concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un
drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi
suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle
elezioni amministrative (con l'elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le
elezioni politiche con l'adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il
75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 - 20
giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella
nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario,
nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le "sfasature"
nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori
erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la
prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero
e proprio terremoto: non a caso l'Unità titolò (e a ragione) "L'Italia è cambiata davvero".
Il PCI fece
registrare un'avanzata impetuosa: con una partecipazione al voto superiore al
90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria
(38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche
(36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali
città sia del centro - nord sia al Sud (mancavano all'appello Genova e Roma dove
le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976). Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro
dell'epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l'elaborazione del suo segretario
Enrico Berlinguer, la proposta di "compromesso storico" che partiva
dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno
alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma
servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto
attraverso un'operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura
popolare. La DC, principale interlocutrice
della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della "terza
fase" mentre, proprio all'indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia
italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la
funzione "pivotale".
In quel 15 giugno il
PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma
soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato
con il "boom economico" e la formazione dei governi di centro -
sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni
esplicitatesi con l'affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice
fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da
impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta
armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica
dell'impegno sociale cattolico. Quel processo di
avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di
saldatura: quello dell'esponenziale crescita del peso sindacale confederale
all'interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi
concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel
settore manifatturiero di beni di consumo (con l'egemonia dell'auto) con un
grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei
diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio "momento magico"
il 13 maggio 1974 con l'esito del referendum che approvava la legge sul
divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L'esito elettorale del 13
maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle
masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza,
della DC.
L'esito del 15 giugno
1975 fornì però un'altra indicazione che risultò in allora considerata
secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di
sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva
conservato una quota rilevante di voti) manteneva un'opzione privilegiata
superando il cosiddetto "preambolo Forlani", si verificarono
spostamenti verso sinistra da parte di settori dell'area socialdemocratica e perfino
liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande
importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l'anno successivo. Anche a Napoli si
formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
Questi due elementi:
lo smottamento dell'area cattolica con la crescita di un forte movimento di
dissenso e i fermenti nell'area laica non causarono alcuna flessione
dall'impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso
storico e dalla DC sulla base dell'unità politica dei cattolici e della diga
anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori
del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione
di sostegno al partito democristiano). L'esito,
inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle
elezioni legislative generali anticipate: "il casus belli" fu dovuto
ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull'Avanti il
31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare,
in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in
carica il governo Moro - La Malfa imperniato sull'alleanza tra DC e PRI poi
sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un
monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro - sinistra organico).
L'articolo di De
Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di "escamotage":
in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di
rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto,
dall'esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al
voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali
forze politiche delineasse un'alternativa al quadro fissato, da un lato dal
"compromesso storico" e dall'altro delle necessità di far fronte
attorno alla DC come "diga anticomunista" (una posizione questa
emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli
che, dalle colonne del "Giornale" proclamò: "Turatevi il naso e
votate DC").
Il risultato di
quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell'estensione del sistema
dei partiti nella storia repubblicana e l'esaltazione dello schema del
"bipolarismo imperfetto" coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a
distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la
partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti
validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di
26.824.159 (con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che
assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi). Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici
risultarono prosciugati dall'appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra
PSDI, PRI, PLI con quest'ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in
controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia
minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria
(comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del
dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale
arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi. Nelle
settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva
dell'incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali
d'alternativa, anzi dall'area laico - socialista partì in allora un movimento
verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu
allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad
incrinarsi mentre l'idea del "governo della sinistra" presentata (con
forti differenziazioni interne) dal Pdup all'interno del cartello di DP risultò
elaborata in misura del tutto insufficiente. L'esito di quella stagione fu un
monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l'ombra pesante
della massoneria segreta e con l'astensione di tutti gli altri partiti, tranne
il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che
sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da
destra e andreottiana per un ingresso nell'area di governo che avrebbe poi
provocato l'effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.
Ben prima del
rapimento e dell'uccisione di Moro il "compromesso storico" era stato
così declinato in una forma spuria di "solidarietà nazionale" al di
là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la
politica economica dei "due tempi" adottata dal sindacato con la
cosiddetta "Linea dell'EUR" e anche verso il fermento portato avanti
dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal
ministro Stammati (iscritto alla P2). Sicuramente
furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio
sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull'aborto
che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo
PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur
molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo
alternativo. È nota a tutti la situazione che
si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di
particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si
apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti
superando il quadro delle "astensioni" ma la DC aveva già replicato
conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun
segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per
dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della
situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la
fiducia.
Il sistema imperniato
sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell'esito
drammatico dei 55 giorni che seguirono, nel corso dei quali si determinò una
"faglia" politica di grande importanza per gli anni a venire: quella
tra "fermezza" e "trattativa" attraverso la quale il nuovo
segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da
quella precedente. A ricostruire un
disegno di equilibrio non servì neppure l'elezione di Pertini, principale
riferimento morale del "partito della fermezza", a Presidente della
Repubblica. Concludo con alcune cifre che
dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva
spedita.
L'11 giugno 1978 si
svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali
di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia
Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel
1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai "pretori
d'assalto" di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal
segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i
quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a
elettrici ed elettori di votare No allo scopo di mantenere inalterato il quadro
legislativo esistente. Prima di tutto si
registrò un forte calo nell'afflusso alle urne: andarono al voto poco meno di
33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori
rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell'81,19%. Si
tenga conto che nell'occasione del referendum sul divorzio del 1974 la
percentuale dei votanti era stata dell'87,72%. In
secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all'indicazione
del voto data dai maggiori partiti. Nel computo
dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619
votanti si pronunciarono per l'abrogazione della legge mentre soltanto il
cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o
meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976). Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria
al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l'intera area della
maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900
elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del
sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte
tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l'esito di
quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico
"sindrome di Castellamare" per indicare, con preciso riferimento al
PCI, l'espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa
circa l'esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti,
sembrava essersi davvero esaurita una "spinta propulsiva").
Si era avviata così
la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in
"antipolitica" nel corso della cui fase di espansione si svilupparono
via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della
volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della
crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in "partiti
pigliatutto" poi in partiti "azienda" o "personali"
fino all'approdo alla democrazia recitativa all'interno delle cui coordinate ci
stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza
politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento
(inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all'esecutivo e
al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato
il fenomeno della cessione di sovranità dello "Stato - Nazione". Al frantumarsi della società in isole corporative e
nell'egemonia assunta dal fenomeno dell'individualismo competitivo i nuovi
partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno
risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose
per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per
fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e
proprie "avventure dell'effimero" rappresentate dalla meteore M5S e
Lega nella versione Salvini . Il fenomeno del
populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l'intero
arco istituzionale causando danni all'apparenza irreversibili. Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno
concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l'economia del discorso
non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono
oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si
può utilmente rimandare.
Lo scopo di questa
nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di
giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in
cui si consumò la storia dell'egemonia dei grandi partiti di massa che in
Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la
quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d'Azione, l'idea di
una forma politica "d'opinione" che avrebbe potuto essere espressa da
quella che poi sarebbe stata definita "borghesia riflessiva" e che in
quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l'esito
delle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre
grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi,
mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo
radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel
riequilibrio tra i due partiti PCI e PSI
verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18
aprile 1948.