A proposito di Davis dei
fratelli Coen - L’eterno ritorno della sconfitta. Un palco. Luce di
riflettore su un volto giovane e già piegato. Barba incolta, ricci capelli
scombinati. Oscar Isaac, ossia Llewyin Davis, ispirato alla figura mitica del
musicista folk Dave Van Ronk, canta Hang me, Oh, Hang Me col dissapore
di chi, iniziando, sa già di aver finito. Dopo l’esibizione, infatti, nel retro
del locale che ospita le esibizioni, Davis viene picchiato a sangue da un
misterioso uomo di cui non discerniamo il volto ma solo il cappello a tesa
larga che porta in testa. E ci immergiamo nella depressione funzionale di un
altro freak della letteratura dei fratelli Coen. A proposito di Davis è un film
ambientato nel mondo della musica, precisamente la scena folk degli anni
Sessanta newyorkesi. Lo spettro di Dylan, che vedremo, incombe; ma non è ancora
il suo momento. L’eroe dei Coen è l’uomo che fallisce e che, nel fallire
nuovamente, e nuovamente ogni giorno, fallisce meglio. Opera che sintetizza la
poetica del perdente che attraversa Il grande Lebowski, passa per Fargo
e raggiunge il bianco e nero de L’uomo che non c’era, fino al
grottesco protagonista di A serious man, A proposito di Davis propone
un viaggio spiraliforme nella settimana tipo del protagonista. Che un posto per
dormire non ce l’ha. Dopo la primissima esibizione - e il pestaggio - lo
troviamo che si cucina uova in una casa che non è la sua, e che spia, che abita
da straniero, perché Davis è straniero, e lo è in ogni luogo si immetta. Il
gatto degli ospiti corre fuori, sul pianerottolo, quando Davis si è chiuso la
porta alle spalle. Davis dovrà tenerlo con sé, il micio.
Llewyin has the cat, dirà
Davis alla segretaria del professore, amico ospite di Davis. Che, sbagliando,
ripeterà Llewyin is the cat. Llewyin è il gatto senza nome che, passo
felpato, si aggira nella metropoli alla ricerca di un pasto caldo e di un modo
per realizzarsi. Ma la casa discografica - amministrata da un grottesco uomo
che, anziché denaro, vuole pagare Llewyin con il suo cappotto - non se la passa
bene; e il disco di Davis non vende. Eppure, per tutta la durata del film,
Davis ripeterà, sebbene non sia vero (ma forse è vero) che la musica è ciò che
fa per vivere, è ciò con cui si paga l’affitto. Pertanto, quando, ritrovato il
gatto in strada, tornerà dalla coppia ospite, sbraiterà nel sentirsi chiedere
di esibirsi, come se fosse un pupazzetto. Anche perché, mentre canta, la moglie
ospitante esegue la parte di Mark. L’altra parte del duo. Morta suicida.
Gettatasi dal Washington Bridge. Davis ha due amici: Jim e Jean, felice coppietta.
Non troppo felice, forse: Davis è perdutamente innamorato di Jean, con cui ha
avuto una storia e che di recente ha messo incinta.
Oltre alla sopravvivenza,
oltre alla necessità di trovare un posto caldo dove riposare, perché una casa
non ce l’ha, il nostro, Davis deve anche risolvere il problema dell’aborto. Il
fallimento è esistenziale, è un connotato quasi ontologico, una qualità
esistentiva dell’ente, per i fratelli Coen, ossessionati da figure che si
muovono a stento nel mondo, che dal mondo sono divorziati a causa della loro
bizzarria, delle loro velleità, che li rendono emarginati, creature di
frontiera in qualunque casa cerchino di stabilirsi. Il loser, per
natura, non ha luogo dove sedere; così il nostro Davis. Indicativo è anche, nel
testo dei Coen, il fatto che Davis sia un tutto tagliato a metà dal suicidio
tremendo del presente-assente Mark. Dunque: il disco non vende; Jean deve
abortire; le esibizioni non vanno bene; Davis non ha luogo dove dormire. E il
gatto? Llewyin ha ritrovato il gatto sbagliato. Mentre prendeva un caffè con
Jean, ha visto passare un sosia del felino, e l’ha preso. Ma è una femmina; il
gatto fuggito, che Davis si è portato in braccio finché la bestiolina non è
scappata dalla finestra di Jean, che ha ospitato Davis, ecco, il gatto fuggito
è un maschio. Quello che Davis ha portato alla coppia ospite è una femmina. Where
is his scroto? E si chiude così la prima parte del fallimento spiraliforme
di Davis. Che, continua a dire, di musica ci vive. Anche se non è vero, anche se
forse è solo una velleità che si è portato appresso dalla gioventù, a cui si è
affezionato tanto da non liberarsene al momento opportuno, facendo sì che la
musica diventasse interesse assorbente e condanna, roccia di Sisifo senza
speranza di realizzazione.
Sebbene Davis le tenti tutte, compreso un provino a
Chicago, dove si reca in autostop, in macchina con John Goodman e il suo
valletto, un poeta beat che cita a memoria Peter Orlovsky, tra eroina e
sigarette che, malgrado la richiesta, a Davis non vengono offerte. E quando
Davis si esibisce, così si esprime il produttore: I don’t see a lot of money
here. Forse, dice il produttore, Davis dovrebbe tagliarsi la barba. Ha
sempre suonato da solo? No, dice Davis, infreddolito, rattrappito, di cui
sentiamo l’essenza, che è l’essenza dei cani smagriti in inverno, abbandonati
sul ciglio dell’autostrada. No, dice Davis, avevo un partner. E il produttore: Ti
do un consiglio. Tornate insieme. Ironia dei Coen, che è quella di Beckett:
niente di più buffo, è Beckett in Finale di partita, dell’infelicità; ma
è come quella barzelletta che ci hanno raccontato tante di quelle volte che
adesso non ci fa più ridere.
Altra ironia: il medico che dovrebbe far
abortire Jean non fa pagare un soldo a Davis. Perché? chiede Davis. Lavora pro
bono? No, è che l’ultima volta non ha fatto niente, e Davis ha pagato a vuoto.
Ebbene, Davis ha anche un figlio. Ma prima ritorna dal padre, in RSA, presso
cui si esibisce. Ma il padre è un corpo che secerne saliva e che, al termine
della canzone Shoals of herring, libera l’intestino. E vano è il
tentativo, per via di debiti accumulati, di mollare tutto e imbarcarsi. La vita è questa? sembra chiedere Davis, con
gli occhi, a un Dio silente. La vita è veramente, come diceva Céline,
inchinarsi ogni giorno alla stessa muraglia? Non può essere così fallimentare
qualunque cosa faccia? Sto venendo punito? Perché Dio non mi restituisce nulla
in cambio del sudore che impiego affinché ciò che faccio (per vivere!) abbia un
valore, in un mondo che premia solo chi è in grado di fare politica, di adulare
i potenti e di produrre merce commercialmente valida e vacua artisticamente? La
vita è una grande ciotola di merda, ha detto John Goodman in auto, e non
ti ricordi di averne cagata così tanta, ha detto per poi sprofondare nel
sonno dell’eroina.
Un’ultima esibizione prima della fine. E il palco, dopo che Davis ha cantato, è
occupato da un profilo che conosciamo tutti: quello del menestrello di Duluth,
Bob Dylan. Davis esce e, di nuovo, viene picchiato a
sangue dall’uomo nell’ombra, dall’uomo nell’ombra col cappello a tesa larga.
Arranca, Davis, e vede l’aggressore perdersi nel traffico. E, nell’ultima
scena, si rivolge a lui e vediamo Davis fare il saluto militare e dire: Au
revoir. Composizione ad anello. Chiusura del racconto
a spirale, quasi bernhardiano, che ruota su se stesso, nel quale l’inizio
coincide con la fine, nel quale l’inizio dà avvio a un paesaggio identico a
quello di ieri, e identico a quello di domani. Perché domani sarà uguale,
ritorneranno le stesse fitte ai reni, ritorneranno le stesse botte, nell’eterno
ritorno del fallire, il fallire di chi ha investito il sangue nelle sue
velleità, e che adesso soffre il freddo perché di velleità non si può vivere.
Ma in qualche modo, facendosi ospitare, scroccando, intrufolandosi, creando
brecce di sopravvivenza laddove nessun vincitore riuscirebbe a crearle, perché
troppo abituato, il vincitore, all’opulenza, ecco, in qualche modo si farà. E si fallirà di nuovo, come dice Beckett, e
si fallirà meglio.