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giovedì 12 giugno 2025

MONUMENTO A KOLBE
di Angelo Gaccione


 
 
Non entravo non so più da quanto tempo in questa gigantesca chiesa di viale Corsica al numero 68 consacrata negli anni Quaranta del secolo scorso dall’arcivescovo Alfredo Ildefonso Schuster dedicata alla Beata Vergine Immacolata e nel contempo a S. Antonio. Queste chiese nate in anni a noi più vicini devono custodire qualcosa di particolare per suscitare l’interesse dei visitatori, e così capita anche a me. Ci sono tornato nel pomeriggio di una recente domenica attratto da un concerto lirico sinfonico promosso dal Centro Culturale Antonianum e dalla presenza di due cori milanesi: l’Elysium Chorus diretto dal maestro Gianfranco Messina e il Coro Murialdo diretto da maestro Adriano Bianchi. Su un lato dell’ingresso ho notato una statua di bronzo che non ricordavo di aver visto; si tratta di una statua che raffigura il presbitero polacco Rajmund Kolbe, a noi più noto col nome di padre Massimiliano Maria Kolbe. A lui è dedicato l’oratorio della parrocchia e a lui è dedicata la frontale via Kolbe che corre sul fianco della chiesa. Aveva 47 anni quando si spense nel campo di concentramento nazista di Auschwitz, dove lo avevano immatricolato col numero identificativo 16670, e dove lo avevano costretto a lavori umilianti, e sottoposto ad angherie e a percosse. 



L’artista che lo ha effigiato, Sergio Pistoia, lo ha rappresentato macilento (conosciamo come fossero denutriti i prigionieri del lager) e con la riproduzione del numero inciso sulla misera camicia a strisce dei detenuti. È morto da martire cristiano, Massimiliano Kolbe, “martire dell’amore” lo aveva definito Papa Wojtyla, polacco come lui che lo ha elevato alla gloria dei santi. E in effetti il gesto luminoso compiuto da questo religioso, per la sua straordinaria umanità si ricollega allo “scandalo” del messaggio di carità e compassione del suo Cristo e all’insegnamento del Vangelo. Si era immolato come vittima sacrificale al posto di un altro sventurato detenuto, Franciskez Gaiowniczek, scelto assieme ad altri per punire con la rappresaglia la fuga di uno di loro. Era un padre di famiglia Franciszek, e Kolbe non esitò a farsi uccidere al suo posto per salvargli la vita. Gli iniettarono dell’acido fenico nelle vene un paio di settimane dopo: era già provato nel corpo nel “bunker della fame” dove altri suoi compagni erano morti privati di acqua e di cibo, ma non piegarono il suo spirito. Una lezione grande il suo esempio, una lezione immensa e da meditare.