Non
entravo non so più da quanto tempo in questa gigantesca chiesa di viale Corsica
al numero 68 consacrata negli anni Quaranta del secolo scorso dall’arcivescovo Alfredo Ildefonso Schuster dedicata alla
Beata Vergine Immacolata e nel contempo a S. Antonio. Queste chiese nate in
anni a noi più vicini devono custodire qualcosa di particolare per suscitare
l’interesse dei visitatori, e così capita anche a me. Ci sono tornato nel
pomeriggio di una recente domenica attratto da un concerto lirico sinfonico
promosso dal Centro Culturale Antonianum e dalla presenza di due cori milanesi:
l’Elysium Chorus diretto dal maestro Gianfranco Messina e il Coro Murialdo
diretto da maestro Adriano Bianchi. Su un lato dell’ingresso ho notato una
statua di bronzo che non ricordavo di aver visto; si tratta di una statua che
raffigura il presbitero polacco Rajmund Kolbe, a noi più noto col nome di padre
Massimiliano Maria Kolbe. A lui è dedicato l’oratorio della parrocchia e a lui
è dedicata la frontale via Kolbe che corre sul fianco della chiesa. Aveva 47
anni quando si spense nel campo di concentramento nazista di Auschwitz, dove lo
avevano immatricolato col numero identificativo 16670,
e dove lo avevano costretto a lavori umilianti, e sottoposto ad angherie e a percosse.
L’artista che lo ha effigiato, Sergio Pistoia, lo ha rappresentato macilento
(conosciamo come fossero denutriti i prigionieri del lager) e con la
riproduzione del numero inciso sulla misera camicia a strisce dei detenuti. È
morto da martire cristiano, Massimiliano Kolbe, “martire dell’amore” lo aveva
definito Papa Wojtyla, polacco come lui che lo ha elevato alla gloria dei
santi. E in effetti il gesto luminoso compiuto da questo religioso, per la sua
straordinaria umanità si ricollega allo “scandalo” del messaggio di carità e compassione
del suo Cristo e all’insegnamento del Vangelo. Si era immolato come vittima
sacrificale al posto di un altro sventurato detenuto, Franciskez Gaiowniczek,
scelto assieme ad altri per punire con la rappresaglia la fuga di uno di loro.
Era un padre di famiglia Franciszek, e Kolbe non esitò a farsi uccidere al suo
posto per salvargli la vita. Gli iniettarono dell’acido fenico nelle vene un
paio di settimane dopo: era già provato nel corpo nel “bunker della fame” dove
altri suoi compagni erano morti privati di acqua e di cibo, ma non piegarono il
suo spirito. Una lezione grande il suo esempio, una lezione immensa e da
meditare.