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giovedì 17 luglio 2025

IL PIO ALBERGO TRIVULZIO E LA GRANDE GUERRA
di Angelo Gaccione


Egon Schiele 
La catastrofe dimenticata
 
Figli della guerra, animali e madri vergognose e dolenti.
 
Sui milioni di morti dovuti alle due guerre mondiali un conteggio più o meno preciso lo abbiamo, perlomeno in Europa. Meno preciso è il conteggio sulla distruzione di milioni di case e di edifici. Sulle case, solo in parte danneggiate, la stima è ancora più vaga. Quel che c’era nelle abitazioni ed è andato irrimediabilmente distrutto, non riesce a quantificarlo nessuno; e nessuno riesce a quantificare il danno di ciò che ci era appartenuto in termini di affetti, di memorie, di sentimenti, di legami profondi. Non si mette mai in conto questo prezzo. È un prezzo salato, ma facciamo finta che non ci sia stato. Quanti alberi sono stati abbattuti o inceneriti? Quanti animali di compagnia hanno perso la vita? Due semplici esempi che la conta e la statistica ignorano. E i danni collaterali in termini di devastazione psichica, di disadattamento sociale, di perdita del sonno, di tic e patologie non del tutto marginali (mutazione del carattere, mutismo, tremori agli arti, apatia, indifferenza, perdita di speranza…) a quanto ammonta in cifre tutto questo? Lo si può misurare? A proposito di danni collaterali prodotti dalla Prima guerra mondiale, per l’epidemia di spagnola si parla di 600.000 morti solo in Italia. Le stime (per difetto) in tutta Europa fanno rabbrividire: oscillano dai 21 ai 25 milioni di morti. E di violenze sulle donne quante ce ne sono state? E di morti dovute agli stupri di guerra, ai suicidi procurati? Un’esposizione ricchissima di immagini, di fotografie, di dati riprodotti su giganteschi pannelli disposta lungo il vasto corridoio a piano terra del Pio Albergo Trivulzio, ne dà conto e ampiamente lo documenta. Si tratta di un’esposizione documentaria e fotografica permanente, dunque a monito di ciascuno di noi, intenta a “ricostruire la storia dell’edificio dal 1915 al 1921, del servizio dei dipendenti nella struttura e al fronte e le vite degli ex allievi dell’orfanotrofio Martinitt che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale”. In verità, partecipato è un verbo falso, bisognava scrivere più correttamente: sono stati costretti a subire.


Epidemia di spagnola

Una Commissione di inchiesta istituita nel 1919 rilevò 735 denunce, 53 omicidi avvenuti dopo uno stupro, e una quarantina di morti “nei giorni e nei mesi successivi”. Chi poteva denunciare in tempo di guerra e chi avrebbe provveduto? Le donne stuprate e rimaste incinte venivano rifiutate dalle famiglie e spesso l’alternativa era il suicidio o la prostituzione. Impossibile conoscere anche il numero dei “bambini del crimine”, così la Commissione d’inchiesta definì i nati dagli stupri; e ci vorrà don Celso Costantini con il suo Istituto San Filippo Neri creato a Portogruaro per accogliere le povere derelitte, “le madri vergognose e dolenti”, assieme ad altri luoghi caritatevoli come questo, perché si riconoscesse anche linguisticamente che si trattava di figli della guerra. Abbiamo accennato alla prostituzione. Prostituzione e miseria sono due delle conseguenze più dirette della guerra. Nemmeno su queste sventurate si hanno cifre certe. Miseria e guerra obbligano spesso i ceti più poveri a scelte tremende per portare a casa un pezzo di pane. In qualche modo occorre sopravvivere. Il fronte, per lo svago dei soldati, incrementerà il fenomeno che sarà incoraggiato e favorito. Alcool e bordelli prosperavano e chi esercitava il mestiere poteva sostenere fino a 20-30 rapporti sessuali al giorno, ma si poteva arrivare fino ad 80 addirittura; una lira e 50 centesimi era il prezzo calcolato per una decina di minuti di piacere, ma c’era un altro prezzo da pagare: quello della sifilide. Negli anni della guerra questa malattia si portò via circa 2000 soldati all’anno, creando molti problemi anche alle loro famiglie. Sulle donne morte per questa malattia, non ci si è presa nemmeno la briga di censirne una. Se persino gli alti comandi francesi mandavano in missione in Italia per copiare le case di tolleranza, si capisce bene quanto fosse organizzata e diffusa tale pratica.



E degli animali che ne è stato? L’istinto belluino della guerra e la malvagità degli uomini che l’hanno alimentata, non si sono fatti molti scrupoli per impiegarli ed assoggettarli al loro scopo di morte. Quella che sui libri di storia viene definita pomposamente Grande Guerra, si è servita di compagni utili e fedeli, scrivono gli autori dell’esposizione del Trivulzio. Questi “compagni utili e fedeli” erano animali di lavoro e domestici: buoni, miti, preziosi, utili alla vita, al lavoro dei campi, e spietatamente piegati alla schiavitù più disumana ed esposti alla morte. Erano asini, muli, buoi, cavalli, cani, colombi. Trasportavano ogni genere di materiale bellico, derrate alimentari, morti e feriti lungo sentieri di campagna e operavano sia nei pressi del fronte, che nelle retrovie. Di asini, buoi, cavalli e muli nel 1915 ne vennero impiegati 806, nel 1918 circa 18.000. Dell’impiego dei cani al fronte sappiamo solo le cifre dell’anno 1916: 478. Più veloci, più duttili, più difficile da prendere di mira per la loro mobilità, erano anche resistenti e potevano portare fino a 60 chili. I cani da slitta e da montagna anche di più. I colombi vennero adoperati soprattutto nel 1917, sull’esempio degli altri eserciti europei; servivano ad inviare messaggi a distanza, i famosi colombigrammi che venivano vergati su carta velina e legati alle zampe dei volatili. Resistevano in volo per almeno 100 chilometri raggiungendo una velocità pari a 40 chilometri all’ora. Difficile da intercettare, se la cavarono meglio dei quadrupedi: su 855 esemplari messi in attività dalla Seconda Armata italiana, ne morirono solo 17. Complessivamente si parla dell’utilizzo di 11 milioni di cavalli, 100.000 cani e altrettanti muli, 200.000 piccioni e colombi “che condivisero la triste vita del fronte con 60 milioni di soldati in tutta Europa”. Quanti furono quelli crepati di fatica, gli sventrati, gli agonizzanti, quelli con gli arti spezzati, quelli finiti con il colpo di grazia? Non lo sappiamo: erano carne da cannone come i soldati prelevati dalle campagne e dalle fabbriche, per una guerra che non sentivano e non avrebbero voluto. Come oggi.


Veduta del Pio Albergo Trivulzio
 

L’attuale edificio di via Trivulzio, voluto nel Settecento dal principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, non è quello realizzato in origine nella Contrada della Signora. Questo, edificato lungo la via per Baggio (da qui la denominazione di Baggina con cui lo indicano i milanesi), risale al primo decennio del Novecento. Esigenze di migliorare le condizioni igieniche e soprattutto di accogliere un numero maggiore di ospiti, hanno reso necessario costruire dei padiglioni sanitari più consoni e funzionali per i ricoveri e le cure, senza trascurare gli aspetti più gradevoli e confortevoli al soggiorno. 


Antonio Tolomeo Trivulzio

Al nobile filantropo che lo aveva ideato e voluto durante la sua vita, è stata giustamente dedicata la via dove ora la casa di cura è ubicata. Da un po’ di anni una piccola, ma preziosità biblioteca, vi accoglie sul lato destro della galleria. Fu creata con una serie di donazioni di libri da parte di privati, mentre nell’ottobre del 1985 il Lions Club “Carlo Porta” ha arredato il soggiorno, come si evince da una targa che vi è stata apposta. 


Il bibliotecario
Rosario Undiemi
e la signora Cinzia Cester

Uno spazio di confronto e di pace rassicurante, come sono sempre le biblioteche e i libri, e di cui gli ospiti possono liberamente usufruire. Vi sono stato accolto bene nei giorni che ho avuto modo di frequentare l’Istituto: nelle biblioteche mi trovo quasi sempre bene, ma in questa mi sono sentito a casa grazie alla squisita disponibilità e gentilezza del bibliotecario e animatore Rosario Undiemi che se ne prende cura, e della signora Cinzia Cester.