IL SUMMIT DI RIO DE JANEIRO DEI BRICS+ di Alfonso Gianni
Preceduto
dalla riunione a Rio de Janeiro dei rispettivi ministri degli esteri, si è
tenuto tra il 6 e7 luglio scorsi, sempre nella capitale brasiliana, con la
presidenza di Lula da Silva, il 17° Summit dei paesi Brics+. Come al solito
l’attenzione dei mass-media italiani,
del filone mainstream, non si può certamente
dire che sia stata di particolare riguardo, con l’eccezione, non a caso e che
quindi va segnalata, de ‘Il Sole 24 Ore’.
Anzi abbiamo letto e assistito a commenti peggio che riduttivi, poiché
l’attenzione è stata posta prevalentemente sulle assenze di alcuni leader e sul
tentativo di fornirne la spiegazione. Se quella di Putin è facilmente
comprensibile, visto il mandato di cattura che pende sulla sua persona emesso
dalla Corte penale internazionale - che il Brasile essendo firmatario dello
Statuto di Roma, avrebbe dovuto in teoria eseguire -, come pure non appare
difficile scusare l’assenza di Pezeshkian, visto che gli attacchi recentemente
subiti dal suo paese da parte di Usa e Israele lo tengono impegnato in patria,
l’attenzione dei nostri mass-media si
è concentrata sull’assenza di Xi Jimping intorno alla quale si sono sbizzarrite
diverse ipotesi. Da quella che imputava al leader cinese l’intenzione di non
compromettere presunte relazioni future con Trump, a quella che lo vedeva
geloso dell’accoglienza riservata da Lula a Modi, il primo ministro indiano,
che assumerà il prossimo anno la presidenza dei Brics+ com’era del resto
previsto, fino alla più ridicola ricostruzione basata sul fatto che la moglie
di Lula, durante la sua visita a Pechino, avrebbe rivolto critiche sgradite a
TikTok. Insomma il gossip non è
mancato neppure in questa occasione. Tutto ciò corrisponde esattamente alla
tendenza a guardare il mondo dal buco della serratura, non cogliendo
l’essenziale di questo incontro internazionale. L’altra tecnica usata per
trascurarlo è stata quella, già usata del resto in occasione della riunione dei
ministri economici, di considerare l’appuntamento deludente rispetto alle
attese, ovvero un flop o giù di
lì.Infine si è tentato di derubricare
l’importanza della dichiarazione finale in 126 punti che toccano, si può dire,
tutto lo scibile umano e tutte le questioni politiche, sociali, economiche e
culturali che abbiamo di fronte in questo mondo squassato dalle guerre. In
realtà la dichiarazione finale riprende il filo già tessuto nel precedente
Summit di Kazan del 21-24 ottobre 2024, alla luce dei nuovi accadimenti ed
ampliando il quadro delle tematiche prese in considerazione. Come già in quella
dichiarazione il linguaggio è coerente con la sede internazionale nella quale è
stato elaborato il documento, che deve tenere conto delle diverse condizioni e
sensibilità in cui si trovano i rappresentanti dei vari paesi.
Ci ha
pensato il presidente Lula a tagliare alla radice ogni possibilità di letture
artatamente minimaliste, aprendo l’incontro con un discorso dai toni assai
netti sulle questioni più dolorose in campo, accusando la Nato di “investire
nella guerra piuttosto che nella pace”, ribadendo, non senza avere prima
condannato l’azione di Hamas del 7 ottobre, che è impossibile “rimanere
indifferenti al genocidio perpetrato da Israele a Gaza, all’uccisione
indiscriminata di civili innocenti e all’uso della fame come arma di guerra” e
denunciando “le violazioni dell’integrità territoriale dell’Iran”, cosa che il
governo brasiliano aveva già fatto nei confronti del conflitto russo-ucraino e
quindi auspicando il cessate il fuoco e una pace duratura anche in questa parte
del mondo. A conti fatti il Summit di
Rio de Janeiro è stato tutt’altro che una occasione fallita o un brusco
ridimensionamento. Anzi. La riunione ha consolidato quanto già si era venuto
costruendo nei precedenti vertici ed ha aperto nuove possibilità di adesione.
L’ultimo punto della dichiarazione finale saluta l’ingresso tra i Brics+
dell’Indonesia, e contemporaneamente ha accolto altri nuovi paesi come partner
con l’impegno di integrare da subito la loro partecipazione nei lavori del
gruppo. Si tratta di Bielorussia, Bolivia, Kazakistan, Cuba, Nigeria, Malesia,
Thailandia, Vietnam, Uganda,Uzbekistan. In questo modo i Brics, tra membri (ai
cinque fondatori si sono aggiunti Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti e appunto
Indonesia) e partner, rappresentano il 41% del pil globale, se calcolato in
parità di potere d’acquisto (ppa), il 37% del commercio mondiale e oltre il 50%
della capacità energetica totale. Ma non si tratta di fermarsi solo alla
misurazione delle quantità. Infatti il presidente Lula ha dichiarato che “abbiamo minerali strategici che sono
essenziali per la transizione energetica. I Brics concentrano l'84% delle
riserve mondiali di terre rare, il 66% del manganese e il 63% della grafite”.
Non poco e non poca cosa, come si vede. Inoltre altri 30 paesi del Sud del
mondo hanno già fatto richiesta di diventare membri. Soltanto per un veloce
raffronto si tenga conto che gli Usa, sempre a parità di potere d’acquisto, rappresentano
il 15,5% del pil globale e il G7 il 29%. In forte declino rispetto al 52%
registrato nel 1990. In altre parole se si guarda il mondo non con l’occhio
rivolto al “mitico” Occidente ma in direzione dell’Oriente e di quello che si è
in uso chiamare il Global South se ne
ha un’altra visione. Quella di una parte del globo che diventa sempre più
consistente dal punto di vista del numero e della rilevanza dei Paesi che la
compongono, dell’incremento demografico in corso, della capacità produttiva,
dell’innovazione tecnologica e persino di un “uso pacifico dello spazio extra-atmosferico”,
come si legge in uno dei punti del lungo documento finale, che è opportuno
ricordare, seppure in estrema sintesi per dare conto dell’ampiezza delle
tematiche affrontate.
I leader dei vari paesi presenti hanno riaffermato lo spirito
del Brics, fondato su rispetto reciproco, solidarietà e inclusione, impegnandosi
nei tre pilastri: politico-sicurezza, economico-finanziario e culturale. Con
l’obiettivo principale di costruire un ordine internazionale più
rappresentativo e giusto. Si è
sottolineata la necessità di riformare la governance
globale, in particolare l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Organizzazione
mondiale del commercio, puntando in particolare a garantire maggiore
legittimità e rappresentanza per i paesi in via di sviluppo. È stata sviluppata
una forte critica alle misure coercitive unilaterali e forte sostegno a un
sistema commerciale equo e multilaterale. È stata
ribadita la richiesta di una riforma dell’Onu, in particolare di un Consiglio
di sicurezza più rappresentativo, con seggi per Brasile e India. La
Dichiarazione sui finanziamenti climatici invita i paesi sviluppati a offrire
risorse e protezione delle foreste tropicali (con creazione del fondo “Tropical ForestsForever”).
È stata adottata
una dichiarazione specifica sulla governance
globale dell’Intelligenza artificiale, affidata all’Onu, ed è stato costituito
un gruppo di lavoro per la sicurezza Ict (Information and Communications
Technology), promuovendo norme e cooperazione tra le nazioni. L’impegno
per la pace è stato sottolineato anche dalla ripresa del tema del disarmo
nucleare, oltre che dalla richiesta del cessate il fuoco nei conflitti in corso,
mentre è stata rivolta una forte critica all’uso delle sanzioni come strumenti
unilaterali. È stato chiesto il rafforzamento del ruolo dell’Oms e l’impegno
nel trattato pandemico globale, per garantire accesso equo a farmaci, vaccini e
servizi sanitari. Con particolare forza è stato ribadito l’impegno contro
discriminazioni, razzismo, in favore dei diritti delle donne, delle persone con
disabilità e delle generazioni future. Infine è stato approvato il Piano
economico Brics 2025 - 2030 per rafforzare il commercio, la digitalizzazione,
la finanza e lo sviluppo; ed è stato assicurato il sostegno alla presidenza
brasiliana del 2025 e l’appoggio a quella indiana del 2026. In conclusione la Dichiarazione
finale del Brics 2025 riflette un impegno strategico del blocco: rafforzare il
Sud Globale, promuovere riforme multilaterali, impegnarsi per la sostenibilità
climatica, garantire sicurezza tecnologica e sanitaria, difendere i diritti
umani ed espandere la cooperazione economica e culturale, nella ricerca
costante della pace.
A nessuno
può sfuggire naturalmente la eterogeneità dei paesi facenti parte dei Brics+ e
dei partners in attesa di un totale
coinvolgimento. Abbiamo repubbliche come monarchie, paesi di diversissima
struttura sociale, paesi le cui istituzioni democratiche sono a dir poco
fragili. Queste diversità spingono esponenti e commentatori del filone mainstream persino a negare l’esistenza
del blocco in quanto tale dal punto di vista geopolitico. Ma non tutti la
pensano allo stesso modo. Ad esempio Giuliano Noci, editorialista su ‘Il Sole24
Ore’, scrive, si potrebbe dire
persino con enfasi, che “l’assenza di unanimità [fra i Brics] non ne
indebolisce il peso: il solo fatto che esista un blocco alternativo, capace di
generare proposte strutturali è già rivoluzionario”. Ed è infatti così che
dobbiamo guardare all’esistenza dei Brics e al loro allargamento. Se si pensasse
di paragonarli al movimento dei non allineati, sorto nella conferenza di
Bandung del 1955 o addirittura di considerarli una loro tardiva propaggine, si
andrebbe fuori strada. Il testo e il contesto nel quale si sono sviluppate
queste due importanti esperienze internazionali sono troppo diversi. Negli anni
cinquanta il mondo usciva dalla Seconda guerra mondiale, era rigidamente diviso
in blocchi. Da un lato gli Usa dall’altro l’Unione sovietica, con i rispettivi
campi. Il movimento dei non allineati voleva rompere la logica dei due blocchi
stabilendo indipendenza e distanza da entrambi. Il che si accentuò con la
critica radicale del Partito comunista cinese al sistema sovietico, giunto ad
identificarlo come una forma di socialimperialismo. Ed era evidente che la
spinta del processo rivoluzionario di decolonizzazione diventava il perno e il
riferimento di fondo di quella forma di aggregazione. Ora il mondo è mutato.
Assistiamo, con tutti suoi contorcimenti e colpi di coda, al declino del secolo
americano e al contempo alla crescita della Cina e dell’India con modalità del
tutto diverse rispetto a quelle che si erano manifestate nel corso di altre
transizioni egemoniche, ad esempio con guerre mondiali come fu nel novecento il
passaggio dello “scettro” dal Regno Unito agli Usa. Il problema che oggi si
pone è dunque duplice, da un lato come evitare che questo passaggio egemonico
in corso ormai da anni, ma affrettato dalla crisi delle magnifiche sorti e
progressive della globalizzazione finanziaria capitalista, possa avvenire senza
trascinare il mondo intero in una nuova guerra mondiale dal potenziale
distruttivo incalcolabile; dall’altro lato come si possa evitare che
all’unipolarismo se ne sostituisca un altro, seppure di diverso segno e
posizionamento geografico.
E qui
incontriamo il grande tema della de-dollarizzazione e di come e con cosa
sostituire il primato del dollaro. Pretendere la nascita di una nuova moneta
per il commercio internazionale che rifletta un paniere di divise monetarie dei
Brics resta un obiettivo, ma la sua realizzazione è ancora prematura. Intanto
però, come si è visto anche in questa conferenza, si rafforzano le tendenze a
stabilire relazioni commerciali e a regolare i relativi pagamenti
internazionali attraverso lo scambio di monete locali, ovvero evitando
l’ingombrante presenza del dollaro. È un passo in avanti, non è ancora la
soluzione del problema. Ma sapevamo che la strada verso la grande utopia di
John Maynard Keynes, sconfitta a Bretton Woods, la creazione di una moneta che
aveva chiamato bancor, è ancora
lunga. Ma l’importante è che il cammino sia concretamente iniziato. Trump
stesso pare averlo capito: infatti ha iscritto il Brasile tra i cattivi e minaccia
sanzioni a non finire, sia primarie che secondarie, nei confronti dei Brics+.