Quando Godot
è arrivato, non l’abbiamo riconosciuto. Anomalisa di Charlie Kaufman. Il cinema di Charlie Kaufman è indagine sulla
stortura del postmodernismo. Studiare il trauma dell’individuo d’oggi è,
innanzitutto, formulare una teoria linguistica. Nell’impossibilità di
esprimere, chiese un intervistatore a Samuel Beckett, cosa resta all’artista?
Il dovere di esprimere, rispose l’autore. Ma come? Joyce ci aveva già pensato.
Studiare ciò che turba l’individuo contemporaneo è elaborare un registro, un
tessuto, un discorso che sia all’altezza della complessità. Franto com’è l’individuo,
il contenitore in cui viene immesso artisticamente non può che essere
frantumato altrettanto. Un linguaggio lineare - già lo aveva intuito Joyce - è
insufficiente. Così come si spezza l’individuo (diciamo il contenuto) si spezza
(si deve spezzare) la forma. David Lynch lo sapeva; lo sa Kaufman.
Charlie Kaufman
L’alterità e
la penuria esistenziale (Essere John Malkovich); la fragilità del
soggetto spossessato (Il ladro di orchidee); l’apres-coup lacaniano e
l’impossibilità di dirsi (Synecdoche New York) e, nel film qui trattato,
Anomalisa, la solitudine. Atipico film
di animazione girato in stop-motion, Anomalisa si apre col buio e con
voci sovrapposte, un chiacchiericcio insignificante, il trambusto delle genti,
il “si” heideggeriano. E poi lo svelamento. Siamo in un mondo di burattini, è
un film animato. Michael, il protagonista, sta recandosi a Cincinnati per
tenere una conferenza, fresco del successo del suo manuale su come incrementare
la produttività dei servizi clienti.
Depressione
urbana, urbana nevrosi. La prima sezione di Anomalisa è quasi
completamente ironia, di quella aspra che ricorda il Woody Allen degli anni
Settanta. È un umorismo di goffaggine kafkiana, beckettiana, di impedimenti, di
burocrazia, di incomunicabilità, di impossibilità nel costruire ponti
comunicativi (per esempio col tassinaro). Echi, pure, dei Coen, in particolare A
serious man. L’incepparsi delle relazioni, il ridicolo, il grottesco. Si
profila la melancolia, ma Kaufman
si mantiene su un registro ironico, per introdurci in un mondo di strutturali
insufficienze. Dopo il taxi
(“Si può fumare?” chiede Michael. “Non vede il cartello?” è il tassinaro. HO
L’ASMA, cita il cartello) e dopo l’hotel (conversazioni altrettanto goffe),
Michael siede, stravolto non già dal viaggio ma dal pensiero ricorsivo della
sua vecchia amante Bella, che gli compare alla stregua di Banqo, e che vive a
Cincinnati. La pensa spesso, ultimamente, le dice al telefono, dopo che non le
ha inviato, in undici anni, una cartolina che fosse una e - soprattutto - dopo
essersi costruito una famiglia. Sì, perché il nostro burattino Michael è
sposato e ha un figlio. Ma non è uno che si faccia pagare per tradire. Perché
l’animazione? Perché i modellini, i fantocci? Perché i fantocci non hanno
(hanno perso) l’anima. Bella e Michael al bar dell’hotel, poi. Bevono, brindano.
E Michael la invita in camera sua. Bella è scioccata: undici anni di niente, e
poi vuole scopare? Il primo cedimento di Michael: “Potrei avere dei problemi
psicologici!” urla. Ce li ha. È la depressione, è l’ansia, il respiro ansante,
l’affanno di questo tempo. Poco prima, Michael si è specchiato e ha notato che
il suo volto è fatto di plastica, che non è carne: si è proprio tolto la
mascella, a svelare ingranaggi meccanici. Ecco il soggetto, ecco il motivo
dell’animazione: il soggetto scopre di non esserci più. Il soggetto postmoderno
- qui la differenza con Joyce - non è agente neppure nella dimensione del
pensiero; è un contenitore, il soggetto postmoderno, è il bersaglio del
costante assedio del mondo, assedio di dati, informazioni, colori, suoni che
nulla dicono (“sound and fury signifying nothing”, come diceva Macbeth). Non è
soggetto, è vetro che assorbe sole, e i raggi del sole di oggi sono scorie di
un mondo ipersaturo.
E, ubriaco,
Michael si reca a comprare un giocattolo per il figlio. Poco importa che sia
una bambola sessuale che spruzza sperma. È la sbronza, la sbronza ci induce
all’errore. “Mi sento
maledettamente solo”, così Michael. Lo è, maledettamente,
completamente. Lisa è
un’ammiratrice del lavoro di Michael. Bruttina, goffa, infelice, bambinesca nel
suo entusiasmo per le piccolezze. Finiscono a letto. Lisa ha una cicatrice sul
volto, che nasconde con i lunghi capelli. Invidia, Lisa, tutti coloro che
riescono ad essere se stessi. Buon per loro. Ma Michael direbbe a Lisa: Buon
per te, com’è Michael incerto sul suo sé. Timidezza,
pudore sacro, direbbe Cioran. È la fragilità di Lisa che fa pensare a Michael
di aver trovato qualcosa di pulito, la pace, un rapporto veramente
significativo, un antidoto alla penuria. Quanto condividono i due! Il desiderio
di svegliarsi ed essere qualcun altro; l’identità fratturata. Anomalisa. Ecco
la crasi. Perché lo è, Lisa, un’anomalia: Michael - tempo una notte di sesso -
si convince che Lisa possa farlo evadere dalla macchina, dalla catena di
montaggio relazionale di deleuziana memoria.
Nell’incubo,
Michael scopriva i macchinari dietro la pelle sua e degli abitanti del suo
mondo. Incubo epifanico, ma subito a incubo liquidato una volta che si è fatto
giorno. E poi, qualcosa si rompe. L’incanto della notte muore. Fastidio, per
Michael. Perché la quotidianità non eguaglia lo splendore di una notte
estatica. E parlare con la bocca aperta, Lisa, fa proprio schifo. Si conoscono
da un giorno, vogliono scappare insieme, e già il nostro - perfettamente uomo,
o meglio, maschio - la mortifica. Durante la
conferenza, Michael crolla. E non parla del servizio clienti; parla della sua
solitudine. La macchina della depressione ha soverchiato tutto e ogni slancio
ha soppresso. Non si sfugge, così Deleuze, alla macchina. In conferenza,
Michael si lancia anche in un’invettiva contro l’America.
Sì, crollo
nervoso. Nel finale,
Michael rincasa. Di nuovo la stessa muraglia cui inchinarsi (Céline). E Lisa
che scrive una lettera: è grata del tempo speso insieme. Sa, Michael, cosa
significa “Anomalisa”? Divinità dei cieli, significa. Film sociale
che analizza il singolo per dire di noi tutti, per tradurci le nevrosi, l’opera
animata di Kaufman finisce con l’attesa di un (God)ot che arriva. Anzi, è
arrivato, era Lisa. Godot era
lì, ma non siamo stati in grado - compressi com’eravamo dagli ingranaggi della
macchina - di vederlo, di riconoscerlo, di volergli bene.