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domenica 3 agosto 2025

POETI E TERRA
di Anna Rutigliano


Fadwà Tuqan
 
Testimone della Nakba (النكبة), la Catastrofe palestinese del 1948, che causò drammaticamente l’espropriazione forzata di abitazioni di circa 700,000 residenti e devastazioni di villaggi completamente rasi al suolo, a seguito della risoluzione ONU 181 sulla partizione della Palestina e della dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele, da sempre, attivista impegnata, partecipando in prima linea , circa vent’anni dopo, alla Guerra dei sei giorni, nota come Naksa (النكسة), la Ricaduta, Fadwà Tūqān ( طوقا فدوى) rappresenta una delle voci femminili più influenti, nel panorama internazionale della poesia contemporanea, sul conflitto arabo-palestinese, le cui liriche impregnate di denso amore verso la propria patria, Nablus, grande polo commerciale della Cisgiordania, le valsero l’epiteto di “Madre della poesia palestinese” da parte di un altrettanto importante poeta, suo connazionale, Mahmoud Darwish (محمود درويش). Persino il poeta di Modica, Salvatore Quasimodo, in un incontro durante la Conferenza Internazionale sulla Pace, tenutasi a Stoccolma nel 1959, non poté resistere alla bellezza della profondità e della luce che gli occhi della Tūqān sapevano profondere.  Di rimando, la poetessa gli dedicò una lirica in cui ribadiva il suo attaccamento alle radici palestinesi: “Io, poeta mio, ho nella mia cara patria un innamorato che attende il mio ritorno…Perdona o caro, l’orgoglio del mio cuore al sentirti bisbigliare dolcemente: i tuoi occhi sono profondi e tu sei bella”. Ma Fadwà Tūqān è anche la voce di protesta e resistenza di tutte le donne oppresse dalle regole di una società rigidamente conservatrice, lei che aveva patito l’austera educazione di suo padre costringendola ad abbandonare gli studi: suo fratello Ibrahim la inizierà alla poesia quale spazio di riscatto intellettuale raggiungendo e scuotendo i cuori di ogni angolo terrestre. Ed è proprio la terra l’emblema principale dei versi liberi della lirica “Mi basta rimanere nell’abbraccio” (كفاني أظل بحضنها), di cui vi riporto la personale interpretazione, avendo attinto dal testo fonte in lingua araba e avendolo comparato con la versione in inglese pubblicata dal giornale libero Palestine Today, Free Journal and Lokesh Tripathi. Tutta l’umiltà della poetessa di Nablus è racchiusa nella duplice reiterazione del “mi basta” con cui si apre e si chiude la lirica; il suo è un dolore disteso, umile, nonostante la dignità violata in quanto essere umano appartenente al popolo palestinese; una umiltà che germoglia dalle radici stesse del suolo e che desidera tramutarsi in semplice fiore, radicato alla propria terra in un eterno abbraccio.


 
Mi basta rimanere nell’abbraccio

Mi basta morire sulla mia terra
esservi lì sepolta,
impastarmi e perire nel suo suolo fecondo,
per poi rinascere erba sulla mia terra,
per poi rinascere fiore
sgualcito dal palmo infantile di un bimbo lì cresciuto.
Mi basta rimanere nell’abbraccio del mio paese
Polvere
Erba
Fiore
 
È proprio nella scrittura poetica che Fadwà Tūqān riscopre il luogo intimo e incontaminato di realizzazione dell’affetto paterno negato, incarnato nell’immagine della patria e del fiore in essa germogliato, simile alla ginestra leopardiana, simbolo di delicata speranza in grado di sopravvivere alle rovine naturali e artificiali.
In ultima analisi, durante l’atto traduttivo, mi ha destato stupore l’assonanza linguistica fra la parola araba ard (أرض ) e quella inglese earth, a voler ribadire sul piano semantico, quanto da Oriente ad Occidente e viceversa, la terra sia un diritto di tutti da non violarsi assolutamente, come sancito, settantasette anni fa, nell’articolo 11  della risoluzione ONU 194.
A tal proposito si fanno quanto mai attuali e urgenti i versi del nostro amico poeta Zaccaria Gallo, tratti dalla raccolta: Come lumaca amante di ferula: “purché una piccola parola spoglia da una pena ci tolga con sollievo il sangue nel deserto…” (la Pace!).