Testimone
della Nakba (النكبة), la Catastrofe palestinese del 1948, che causò
drammaticamente l’espropriazione forzata di abitazioni di circa 700,000 residenti
e devastazioni di villaggi completamente rasi al suolo, a seguito della risoluzione
ONU 181 sulla partizione della Palestina e della dichiarazione d’indipendenza
dello Stato di Israele, da sempre, attivista impegnata, partecipando in prima
linea , circa vent’anni dopo, alla Guerra dei sei giorni, nota come Naksa
(النكسة), la Ricaduta, Fadwà Tūqān
(طوقافدوى)rappresenta
una delle voci femminili più influenti, nel panorama internazionale della poesia
contemporanea, sul conflitto arabo-palestinese, le cui liriche impregnate di denso
amore verso la propria patria, Nablus, grande polo commerciale della
Cisgiordania, le valsero l’epiteto di “Madre della poesia palestinese” da parte
di un altrettanto importante poeta, suo connazionale, Mahmoud Darwish (محمود درويش). Persino il poeta
di Modica, Salvatore Quasimodo, in un incontro durante la Conferenza
Internazionale sulla Pace, tenutasi a Stoccolma nel 1959, non poté resistere
alla bellezza della profondità e della luce che gli occhi dellaTūqān sapevano
profondere. Di rimando, la poetessa gli
dedicò una lirica in cui ribadiva il suo attaccamento alle radici palestinesi:
“Io, poeta mio, ho nella mia cara patria un innamorato che attende il mio
ritorno…Perdona o caro, l’orgoglio del mio cuore al sentirti bisbigliare
dolcemente: i tuoi occhi sono profondi e tu sei bella”. Ma Fadwà Tūqān
è anche la voce di protesta e resistenza di tutte le donne oppresse dalle
regole di una società rigidamente conservatrice, lei che aveva patito l’austera
educazione di suo padre costringendola ad abbandonare gli studi: suo fratello
Ibrahim la inizierà alla poesia quale spazio di riscatto intellettuale raggiungendo
e scuotendo i cuori di ogni angolo terrestre. Ed è proprio la terra l’emblema
principale dei versi liberi della lirica “Mi bastarimanere
nell’abbraccio” (كفاني أظل بحضنها), di cui
vi riporto la personale interpretazione, avendo attinto dal testo fonte in
lingua araba e avendolo comparato con la versione in inglese pubblicata dal giornale libero Palestine Today,
Free Journal and Lokesh Tripathi. Tutta l’umiltà della poetessa di Nablus è
racchiusa nella duplice reiterazione del “mi basta” con cui si apre e si
chiude la lirica; il suo è un dolore disteso, umile, nonostante la dignità violata
in quanto essere umano appartenente al popolo palestinese; una umiltà che
germoglia dalle radici stesse del suolo e che desidera tramutarsi in semplice
fiore, radicato alla propria terra in un eterno abbraccio.
Mi
basta rimanere nell’abbraccio
Mi
basta morire sulla mia terra esservi
lì sepolta, impastarmi
e perire nel suo suolo fecondo, per
poi rinascere erba sulla mia terra, per
poi rinascere fiore sgualcito
dal palmo infantile di un bimbo lì cresciuto. Mi
basta rimanere nell’abbraccio del mio paese Polvere Erba Fiore È
proprio nella scrittura poetica che Fadwà Tūqān riscopre il luogo intimo e
incontaminato di realizzazione dell’affetto paterno negato, incarnato
nell’immagine della patria e del fiore in essa germogliato, simile alla
ginestra leopardiana, simbolo di delicata speranza in grado di sopravvivere alle
rovine naturali e artificiali. In
ultima analisi, durante l’atto traduttivo, mi ha destato stupore l’assonanza
linguistica fra la parola araba ard (أرض ) e quella inglese earth, a voler ribadire
sul piano semantico, quanto da Oriente ad Occidente e viceversa, la terra sia
un diritto di tutti da non violarsi assolutamente, come sancito, settantasette
anni fa, nell’articolo 11 della
risoluzione ONU 194. A
tal proposito si fanno quanto mai attuali e urgenti i versi del nostro amico
poeta Zaccaria Gallo, tratti dalla raccolta: Come lumaca amante di ferula:
“purché una piccola parola spoglia da una pena ci tolga con sollievo il
sangue nel deserto…” (la Pace!).