Parthenope
di Paolo Sorrentino – Sul concetto di trama
Davvero
un testo filmico non è in grado di sostenersi con la pura forma, col puro
segno? Pensiamo a T. Malick o a B. Tarr, ma anche a Lav Diaz. Lunghi film che
aboliscono l’intreccio in virtù della pura estetica. La forma, nei film di
Diaz, è contenuto, così come nell’opera magna di Tarr, Satantango. Sono,
questi, film “difficili”. A dire: inaccessibili se in un film si cerca
l’intreccio, la trama. Ma perfettamente godibili se si ammette che il testo
possa basarsi unicamente sulla bellezza delle immagini. L’ibrido è il problema. E
veniamo a Parthenope di Paolo Sorrentino (2024, presentato a Cannes).
Sorrentino pecca perché non radicalizza – come invece fanno i sopracitati. Parthenope
sarebbe stato altro (leggasi “meglio”) se Sorrentino avesse deciso di prescindere
da qualsivoglia forma di storytelling. La mancata radicalizzazione produce,
ripeto, un ibrido malfunzionante, che ora vuole essere pura forma, ora vuole narrare.
Ed è qui l’incertezza di uno dei più grandi registi nostrani. La tendenza a
produrre film senza trama (e vivaddio) che, però, volendo anche raccontare (come
se il cinema avesse ancora bisogno di storie), falliscono. Mi spiegherò meglio
più avanti.
Nata
dal/nel mare, Parthenope è bella e ha la risposta pronta: qui si esaurisce la caratterizzazione.
Ed è un problema. D’Antonio, (non più Luca Bigazzi) illumina scene e corpi e
luoghi estremamente suggestivi, che in certi momenti sembrano far virare il
film verso la videoarte. Magari fosse videoarte. E invece, dopo uno splendido
ballo a tre con Cocciante di fondo, si torna allo storytelling. Di per sé non
sarebbe brutto. Il cinema di Fellini si basa su questo: la storia è portata
avanti da infinite divagazioni (un cinema rizomatico), le scene godono di
autonomia, l’elemento onirico fa da padrone e l’intreccio è abolito. Cosa manca
a Sorrentino? Forse un Flaiano o un Guerra a co-sceneggiare. Parthenope
è solo, soltanto ed esclusivamente un bel corpo che attraversa bei paesaggi. La
sua essenza fantasmatica (mitologica, come il titolo dichiara) funzionerebbe se
fosse – la ragazza interpretata da Celeste Dalla Porta – personaggio vettore;
come protagonista non funziona. In quantoprotagonista, l’essenza fantasmatica è
solo vuotezza e mancata caratterizzazione in fase di script. I film a episodi
di Fellini (il paragone è naturale, e non è il becero discorso sul presunto
“furto” o “plagio”; è ascendenza – cosa legittima ove non doverosa), ecco, i
film a episodi di Fellini funzionavano perché il protagonista, anche quando
circondato non da personaggi ma da archetipi, era adeguatamente caratterizzato,
abbastanza caratterizzato perché il pubblico ci si affezionasse. E Sorrentino è
spesso (non sempre) riuscito in questo. Accetto che Jep Gambardella (La
grande bellezza) sputi sentenze e si muova senza meta tra paesaggi
autonomi. Perché? Perché è un personaggio davvero scritto. Non posso
accettare le sentenze di Parthenope, né il suo vagabondare. Perché Parthenope
non esiste, non è scritta; di lei – ripeto – si sa solo la bellezza. E non
basta. I film a episodi funzionano solo se il nucleo è solido. Guido Anselmi di
8 ½ , Gelsomina de La Strada o Marcello de La dolce vita.
Personaggi fortissimi (diciamo indimenticabili) che non sono mossi dai modelli
campbelliani o vogleriani di viaggi dell’eroe e altre capsule storytellari, ma
che sono così forti – così sinceri – da farsi seguire nel loro andare senza
destinazione.
Parthenope
funziona
quanto a ritmo, a mio avviso. Dovremmo isolarlo dal coacervo di futilità per
coglierlo; facciamolo. Parthenope ha l’andamento di una sinfonia. In
questo è un grande testo: nella gestione del ritmo (l’ambizione
schopenhaueriana, propria a tutte le arti, di eguagliare la musica). Il ritmo
languente restituisce il nucleo tematico della transitorietà,
dell’impermanenza. Funziona il Cheever di Gary Oldman: goffo, comico,
disperato, tragico, che non si regge in piedi. Sempre funziona Sorrentino
quando si concede alla commedia. Basti ricordare quel gioco melò e grottesco
tra il protagonista de L’amico di famiglia e la madre che defeca in una
bacinella ai piedi del letto. Funziona meno (e dispiace, vista la prossimità di
film attuali come Povere Creature! di Lanthimos) l’assenza di figure
femminili tridimensionali, drammaticizzate: Isabella Ferrari e Luisa Ranieri servono
solo alla fauna grottesca di Sorrentino. E Parthenope è un bellissimo
involucro che non contiene altro che sentenze. Non si chiede (tutt’altro)
classicità, ma un artista che desideri fare più di una trama deve saper creare
nuovi baricentri, solidi tanto quanto il Vogler. Manca, in senso di Duchamp,
un’idea di progetto, un nucleo che, in autori “non convenzionali”, sostituisce
– e fa qualcosa di migliore – della linearità che, se percorsa, e qui
Sorrentino ha ragione, è noiosa e mendace. Le
Filippine per Diaz, il mondo rurale per Tarr, la guerra per Malick. In Parthenope,
una ragazza ridotta alla sua straordinaria bellezza e ad aforismi che,
innaturali, fanno emergere non la voce del personaggio ma quella dell’autore,
il cui vero difetto non è stato imbarocchirsi, ma non radicalizzarsi a
sufficienza.