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martedì 23 settembre 2025

ECONOMIA E INDUSTRIA
di Franco Astengo
 


Riportiamo dall'inserto economia del "Corriere della Sera" (22 settembre 2025), la parte iniziale di un articolo che illustra la classifica delle prime 500 aziende a livello globale secondo l'analisi di Kpmg sui fatturati:
"Prendiamo l'Italia. Le uniche cinque imprese nella classifica dei 500 big mondiali esprimono due settori, energia e servizi finanziari e vengono dopo centinaia di altre aziende d'altra geografia".
Constatato che le due aziende energetiche rappresentano derivati delle antiche nazionalizzazioni facciamo un salto all'indietro di 25 anni: all'epoca le presenze italiane nelle prime 500 posizioni erano 10 e fra queste 4 rappresentanti di settori industriali strategici (Fiat, Olivetti, Iri, Montedison: auto, elettronica, siderurgia, chimica) e due nel campo energetico (sempre Enel ed Eni) mentre le aziende di servizi finanziari si trovavano in ben altra posizione di classifica (nel corso di questi 25 anni Generali è scesa dal 35° posto al 104°).
Nel frattempo il fenomeno si è ripercosso a livello mondiale: il primato infatti è passato dalla General Motor a Walmart (distribuzione) seguita da Amazon, State Grid Corporation China (la più grande distributrice di elettricità nel mondo) e Saudi Aramco (petrolio).



Le ragioni di questo mutamento sono dovute sia al fattore finanziarizzazione dell'economia (protagonista della grande crisi 2007-2008) sia al fattore "energivoro" reso sempre più strategico nella transizione digitale (non sviluppiamo qui, per ragioni di economia del discorso, la riflessione sulle esigenze idriche che saranno moltiplicate dall'avanzata dell'IA).
L'Italia con l'UE si trova ormai ai margini dell'economia globale: altro che "pranzo della domenica" e "made in Italy", anche il "militare" dalle tecnologie più sofisticate ormai è compreso all'interno di intese con Stati a democrazia limitata come la Turchia (succede con evidenza nell'industria militare ligure e a livello strategico nelle principali reti di relazione stabilite da Leonardo).
In questi 25 anni abbiamo vissuto la vera e propria tragedia della privatizzazione della siderurgia, la completa sparizione degli altri settori dell’industria di base ad alta concentrazione di mano d’opera dalla chimica all’elettromeccanica all’elettronica. Appare ormai completo il depauperamento di una realtà che era fatta di produzione, know-how, ricerca. Pensiamo soltanto alla proprietà della rete digitale, con il passaggio alla KKR della maggioranza nella rete TIM (KKR è un fondo di investimento USA).



È interamente vincolato dall'esportazione (e quindi oggetto la cui stabilità deriva dalle impennate daziarie) il “secondo modello” della nostra produzione industriale: quello geograficamente concentrato sulla dorsale adriatica e nel Nord-Est, fatto di medie aziende, di prodotti manifatturieri finiti, di marchi di grandissimo prestigio.
È la fine di un modello sul quale  da più parti, nella politica come nel sindacato, si era molto forzato  fin dagli anni’80: quello dei “distretti”, della specializzazione, dell’intensificazione esasperata dello sfruttamento operaio, tragicamente beffato  con “chiusure” meramente speculative e “delocalizzazioni”  (anche fatte alla chetichella, di notte, trasferendo i macchinari in condizioni analoghe alla fuga della Casa Reale a Brindisi dopo l’8 Settembre).



Da Natuzzi a Berloni a Ideal-Standard, a tantissimi altri, le nuove condizioni di competitività internazionale e la complessità della crisi colpiscono il lavoro operaio risparmiando soltanto la voglia di profitto dei soliti “padroni del vapore”. L’attenzione su questi fatti è intenzionalmente resa minima, del tutto insufficiente rispetto alla loro gravità: l'establishment al comando della politica e dell'economia sembra proprio non avere la capacità di vedere le grandi questioni nella loro interezza, nella loro prospettiva nazionale e internazionale nel frattempo resa ancora più complessa dalla crescita dei pericoli di guerra in un quadro complessivo di vera e propria tragedia ancora sul piano umanitario
Premessa la necessità di un quadro di riferimento a livello europeo potrebbe apparire velleitario proporre una "Vertenza Industria" fondata su di un ruolo diverso dello Stato attraverso una ripresa "forte" di capacità di coerente programmazione prioritariamente rivolta alle infrastrutture, all'utilizzo delle aree industriali, all'innovazione tecnologica, alla competitività di settori strategici nei quali la mano pubblica svolga davvero una funzione di regia e di propulsione produttiva?