“Essere
di fronte alla natura e non agli uomini, è la sola disciplina. Dipendere da una
volontà estranea vuol dire essere schiavi. Ora, è questa la sorte di tutti gli
uomini. Lo schiavo dipende dal signore e il signore dallo schiavo. Al
contrario, di fronte alla materia inerte non vi è altra risorsa che pensare”. Così
scriveva Simone Weil nel primo Quaderno, le cui prime annotazioni risalgono al
1933-34 quando Hitler era già salito al potere e si toccava con mano la deriva
autoritaria che pervadeva l’Europa. Mi pare che sia un pensiero quanto mai
attuale, che possa aiutarci ad affrontare i momenti terribili che stiamo
vivendo. Il volto totalitario dell’occidente dall’Europa sta a gran passi
invadendo ogni Paese e anche il nostro con divieti, decreti legge, tesi a
limitare ogni libertà a cui eravamo abituati. Questa è la realtà
incontrovertibile che abbiamo di fronte, ma ancora dibattiamo se sia vera o
meno questa visione, dubitiamo che una tal legge passi, parliamo di incostituzionalità
di certi decreti e firmiamo petizioni, in cui si chiede all’Unione Europea o
alla Meloni o a Mattarella che rompano le relazioni commerciali con Israele o
che rispettino i diritti democratici. Stiamo solo perdendo il nostro tempo
perché la realtà è che la grande bestia che pensavamo di cavalcare, di poter
domare, ci ha disarcionati e mena colpi in tutte le direzioni, distrugge il sud
del mondo e ora affamato viene anche qui a prendere il cibo di cui abbisogna.
Chiedere qualcosa alle nostre istituzioni significa oggi chiedere al boia di
avere pietà di noi. Essere schiavi significa dipendere da tale potere, che si
può manifestare come dedizione ad esso, come sottovalutazione del pericolo o
come scontro frontale.
La schiavitù dipende dall’infanzia
sociale, dal nostro considerarci sempre come figli rispetto al potere
interpretato come Padre o come Dio. Se il potere è Padre o Dio allora il suo
operato è inconoscibile, è immerso nel segreto, non vale a nulla il nostro no,
perché il Padre ci sovrasta, la sua superiorità ci impedisce qualsiasi via di
fuga, può punirci a suo piacimento tenendo in una mano il diritto e nell’altra
la violenza. E se nel tempo di pace che abbiamo vissuto l’ombra del padre si
era affievolita, coperta da una legge che appariva certa, quasi fossimo usciti
dalla nostra infanzia, ora torna il tempo mitico e il Padre vuole bandiere,
parla di Patria e di orgoglio nazionale, ci indica il nemico, ci racconta
favole che atterriscono, ci intima il silenzio, l’ordine e il rigore per
sopravvivere al pericolo che ci invade mentre non aspetta altro che i fumi
degli olocausti, il profumo di carne bruciata. Il padre vuole il sacrificio dei
figli per poter rimanere Padre, ci dice che vuole i campi coperti di sangue
oggi per assicurare in futuro messi abbondanti, è Crono che mangia i suoi
figli, è il Dio che chiede il sacrificio di Isacco o di Ifigenia o di qualunque
giovane per rinsaldare la comunità.
I figli mitici hanno
risposto alla violenza del Padre o bruciandosi le ali, tentando di superare i
limiti imposti dal padre alla ricerca di una liberazione effimera, ma il più
delle volte reagendo con la stessa violenza subìta e poi passando il testimone
al mondo degli uomini dove di genitore in figlio la violenza è il filo di spada
che trapassa tutti, e che si tramanda di generazione in generazione. Il figlio
subisce violenza e ne sente la colpa fin nelle viscere: se il genitore mi
punisce devo aver commesso qualcosa di male e con questa frase scolpita nella
carne fa proprio il male paterno trasformandolo in violenza che agirà di nuovo
o nella sottomissione continua ad essa. Così accade nel Vangelo quando Pilato
di fronte ad una folla sobillata e inferocita mostra Gesù, il figlio dell’Uomo
e Barabba, il figlio del padre, l’omicida: Barabba viene liberato, la massa
preferisce la violenza che conosce piuttosto che la Parola nuova. Cosa
significa Figlio dell’Uomo se non il Dio che rinuncia al proprio potere per
farsi carne, nuda vita che può essere messa a morte, Dio che si fa completa
fragilità? E forse sta proprio qui la risposta: spezzare la catena violenta
della storia può avvenire solo quando l’uomo violentato non nasconderà più la
macchia sotto la corazza di un’ulteriore violenza, non la renderà una propria
colpa, ma la accetterà come fragilità estrema, la affronterà come dolore che ci
unisce, la offrirà agli altri come comunione. Solo allora potremo stare di
fronte al potere come uomini liberi, non saremo più soggiogati dalle parole
d’ordine, dai rumori di guerra, ma saremo capaci di parole nuove, di parole
semplici e non ci piegheremo più di fronte agli altri uomini come schiavi e la
loro violenza sarà tempesta o tsunami o comunque natura inerte che ci viene
contro e che affronteremo senza colpa.