Pagine

lunedì 10 novembre 2025

L’INCENDIO DI ROCCABRUNA
di Francesca Mezzadri


Gaccione (Foto: Di Poce)

 
Uno dei libri più intensi e visionari della narrativa meridionale.
 
Perché un buon libro possa vivere nel tempo ha bisogno di incontrare lettori esigenti e critici attenti e appassionati. L’incendio di Roccabruna continua ad avere questa fortuna, come dimostra questo scritto di Francesca Mazzadri apparso su ‘Satisfiction’ di venerdì 7 novembre. A distanza di tanti anni, la materia e lo stile di questi racconti esercitano la loro presa e il loro fascino. E, soprattutto, non lasciano indifferenti chi vi si accosta.
 
Con L’incendio di Roccabruna (Di Felice Editore, 2019 pagg. 118 € 12, introduzione di Vincenzo Consolo, postfazione di Giuseppe Bonura), Angelo Gaccione costruisce uno dei libri più intensi e visionari della narrativa meridionale contemporanea. Roccabruna non è un paese, ma un mito: una Calabria arcaica e simbolica, una “patria morale” dove storia e leggenda si intrecciano, e ogni racconto diventa un frammento del lungo martirio di un popolo dimenticato. Nella sua introduzione, Vincenzo Consolo parla di una “realtà così atroce da sembrare inverosimile”: è la chiave dell’intera opera. Gaccione scrive da cronista e da moralista, da cantastorie e da testimone, oscillando costantemente tra realismo documentario e allucinazione etica.


Un universo chiuso dal dolore e dalla memoria
Roccabruna è la Calabria interiore, ma anche un microcosmo dell’umanità. Qui tutto nasce dal sangue e tutto nel sangue ritorna. I racconti si dipanano come canti di un’unica tragedia collettiva, dove le leggi dello Stato non arrivano e la giustizia è affidata alla memoria e alla vendetta. “Sine effusione sanguinis non fit remissio” - senza spargimento di sangue non c’è remissione: la frase latina che percorre il libro è insieme motto e maledizione.
In Il delitto di Santo Stefano, un pastore umiliato e affamato diventa simbolo della giustizia selvaggia: la vendetta come risposta alla fame, la violenza come linguaggio primordiale di chi non ha voce. In Il sacrilegio, la folla in rivolta contro la siccità bestemmia Dio e porta i santi in processione rovesciata: non c’è empietà, ma disperazione. Quando infine arriva la pioggia, non sappiamo se sia miracolo o castigo: il dubbio è il giudizio.
Ne La faida, infine, la colpa si eredita come il sangue: famiglie nemiche, bambini battezzati in casa, funerali interrotti dai fucili. Tutto si ripete da generazioni, come in un rito che non conosce perdono.
Il tempo di Roccabruna è ciclico, mitico: “da sempre” e “ogni anno” sono i ritornelli di un’eternità senza riscatto. Non c’è progresso, solo ritorno. Ogni delitto sembra già accaduto, ogni punizione già scritta.


Gaccione (Foto: Di Poce)

La lingua del sangue
Gaccione adotta una prosa che unisce la solennità biblica alla durezza contadina. La sua lingua è al tempo stesso arcaica e vivissima: ricca di proverbi, ritmata come un canto funebre. L’italiano letterario si mescola alle inflessioni dialettali, alla musicalità della parlata calabrese, costruendo un impasto denso e inconfondibile. Il risultato è una prosa che sembra raccontata più che scritta, come se fosse pronunciata accanto a un fuoco, davanti al paese intero. Le chiusure in prima persona (“Io che sono di qui…”) hanno una forza poetica e morale straordinaria. Riportano l’autore dentro la sua comunità, trasformando la letteratura in un atto di sopravvivenza scritta. Citando Consolo, “la memoria è la forma della pietà”: e in questo libro la pietà diventa la sola forma possibile di giustizia.


Il supplizio e i giustizieri: la storia come ferita
Nella seconda sezione, Gaccione torna indietro nel tempo, al 1462, quando gli Aragonesi radono al suolo Roccabruna. Il supplizio racconta con lingua cronachistica e pathos epico la caduta della città, la morte eroica di Niccolò Clancioffo, la ferocia del potere che punisce per spaventare. La storia militare si trasforma in parabola morale: la crudeltà dei vincitori contro la dignità dei vinti.
Quattro secoli dopo, in I giustizieri, la violenza muta volto ma non sostanza: i briganti che combattevano per il popolo diventano i suoi aguzzini. Domenico Serra e la sua banda, corrotti dal potere, incendiano, uccidono, devastano. E il popolo, tradito, si prepara alla vendetta.

In I due furfanti, l’eco di quella giustizia popolare diventa spettacolo: due briganti catturati, la folla che accorre, l’esecuzione pubblica. La morte come rito espiatorio e morale.
In tutti i racconti, la violenza non è solo un fatto ma un linguaggio: un modo in cui la comunità ristabilisce il proprio ordine. È una giustizia arcaica, spaventosa, ma l’unica possibile in un mondo senza legge.


I Cannibali e Sepolta viva: fame e vergogna come condanna
Tra i racconti più forti della raccolta, I Cannibali e Sepolta viva sono due vertici speculari della poetica di Gaccione. Nel primo, la fame trasforma gli uomini in belve. Non è crudeltà naturale, ma sociale: il risultato di una miseria che divora anche l’anima. Il narratore si chiede “che sangue mi scorre nelle vene”: il male è eredità, non scelta. In Sepolta viva, invece, la condanna nasce dal giudizio collettivo: Donna Clorinda, simbolo di libertà e sensualità, è colpita da morte apparente, ma viene sepolta viva dal pettegolezzo e dalla paura. Dove non arriva la fame, arriva la vergogna. In entrambi i casi, Roccabruna è la comunità colpevole: prima urla, poi tace, ma sempre partecipa. Il popolo è carnefice e vittima, mai innocente.


Il veleno: l’amore come peste
Tra i racconti più cupi, Il veleno porta la tragedia dentro le mura domestiche. Due famiglie “onorate”, i Greco e i Tancredi, sono distrutte da una passione proibita. Il desiderio, qui, non è salvezza ma contagio. “Mai avvicinare la paglia al fuoco”: la sentenza iniziale è profezia. Con uno stile secco, orale, quasi da cronaca nera, Gaccione racconta la disgregazione morale di un mondo dove l’onore vale più della vita. Non c’è redenzione: solo silenzio e morte. È forse il racconto più disturbante della raccolta, e anche il più contemporaneo nella sua crudeltà psicologica.


Gaccione (Foto: Di Poce)

Fuoco, sangue, parola: le tre vie della memoria
Il titolo L’incendio di Roccabruna non allude solo a un evento, ma a una metafora: il fuoco è insieme distruzione e purificazione, memoria che arde per non spegnersi. In Gaccione il fuoco è l’elemento fondativo della civiltà e della colpa, il luogo dove la parola si trasforma in testimonianza. Il libro nel suo insieme è un trittico del sacrificio umano: il supplizio, la vendetta, la memoria. È un’opera che non giudica, ma ricorda. Non assolve, ma comprende. Gaccione si pone nel solco di un filone che va da Alvaro a Consolo, ma la sua voce è autonoma: più asciutta, più tragica, più civile. Dove altri raccontano il Sud per nostalgia o denuncia, lui lo racconta come destino.


Un Sud che arde dentro
Con L’incendio di Roccabruna, Gaccione consegna al lettore una sorta di Vangelo laico del Sud, scritto nel linguaggio del sangue e della pietà. Ogni racconto è una stazione di un calvario collettivo, dove il male non è eccezione ma condizione. Ma dietro la crudeltà, si avverte una tensione morale profonda: la volontà di dare dignità al dolore, di trasformare la violenza in memoria. È un libro duro, necessario, scritto con la lingua della terra e la coscienza dell’uomo. Perché in fondo sembra dirci Gaccione - finché si racconta, Roccabruna non muore. E noi, con lei, impariamo a non dimenticare.


La copertina del libro

Angelo Gaccione
L’incendio di Roccabruna
Introduzione di Vincenzo Consolo
Postfazione di Giuseppe Bonura
Di Felice Ed. ristampa - 2019
Pagg. 120 € 12