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domenica 7 dicembre 2025

PAROLE
di Anna Rutigliano



Le parole possono allontanare, creare squarci di ferite all’anima, insanabili, al pari dei silenzi, generatori di distanze; ma è nell’impalpabile spazio di assenza di parole, che è possibile ritrovare il punto di connessione con il nostro Io più profondo, facendole emergere autenticamente per gettare ponti relazionali: sono quelle parole che fanno avanzare nuovi orizzonti, come nell’illuminante intuizione poetica di Nelly Sachs, la quale, nell’ultima strofa della sua lirica Völker der Erde (Popoli della Terra), invitava tutti i popoli a toccare con il proprio spirito la fonte delle parole, pur essendo un percorso doloroso, per creare un punto di incontro con l’immensità del Cielo, a cui noi mortali indistintamente apparteniamo e da cui siamo protetti: Völker der Erde, lasset die Worte an ihrer Quelle, denn sie sind es, die die Horizonte in die wahren Himmel rücken können. (Popoli della Terra, lasciate le parole alla propria fonte, giacché grazie ad esse gli orizzonti possono far ritorno all’autentico Cielo), come nel lieve sfiorarsi fra Adamo e Dio nell’affresco michelangiolesco della Cappella Sistina.
Le parole possono essere foriere di mondi alternativi, quando alla loro fonte risiede la ricerca della Bellezza in ogni dove, persino a Damla, il piccolo villaggio di appena duecento anime del Turkmenistan, in cui la resiliente adolescente Ogulnar, protagonista del nuovo romanzo di Luciana De Palma, cui dà il nome (Les Flâneurs Edizioni), scopre, nei ritmi monotoni che scandiscono i doveri e le azioni quotidiane della comunità, di poter attraversare mondi nuovi e possibili, per mezzo della forza misteriosa e magica delle parole, componendo segretamente poesie, nate nel silenzio della propria anima, con lo sguardo rivolto al cielo blu cobalto, nell’avvicendarsi delle torride e glaciali notti del deserto del Karakum. 


Per mezzo delle poesie, Ogulnar può curare un bambino in fin di vita, sfidando sia il ruolo prestigioso della nonna, considerata dagli abitanti una maga per gli intrugli di erbe magiche con cui è capace di guarire i malati, che però, risultano fallimentari nel salvare il piccolo ad un passo dalla morte, guarigione che, invece, è affidata alla nipote, sia le rigide tradizioni custodite dai sei uomini del villaggio, creduti saggi e depositari di verità inconfutabili da millenni.
Se provassimo per un istante a lambire dolcemente alla fonte la parola “dialogo”, quasi accarezzandola con la nostra anima, scopriremmo, nella sua etimologia  greca di Διά-λογος, quanto le parole possano muoversi rincorrendosi l’un l’altra in una traiettoria la cui meta finale è la consapevole e reciproca comprensione dei parlanti. È stato il fisico David Bohm, amico di Einstein e allievo di Oppenheimer, a sostenere l’importanza di adottare la pratica dialogica, quale prassi a fondamento del campo epistemologico, atta a ricreare nuovi contesti significativi sia a livello micro che macro-concettuali, nell’ottica di universale giustizia e pacifica convivenza, quale metodo euristico indispensabile e applicabile a qualunque società si consideri civile. Si tratta di una pratica che richiede tempi di ascolto piuttosto lenti, che cozzano con la velocità con cui oggi siamo abituati a dialogare al ritmo di algoritmi nel mondo Onlife, nell’attuale era della comunicazione digitale, per dirla in gergo informatico, mutuato dal filosofo Luciano Floridi, per la quale, tuttavia, Floridi ravvisa un’etica dell’informazione incentrata sugli aspetti significativamente qualitativi della comunicazione.
Senza entrare nello specifico della fisica quantistica, che esige particolari competenze scientifiche, sono interessanti gli sforzi di Bohm di applicare il concetto di coerenza del laser, che genera una energia straordinaria rispetto a quella della lampadina, dal canto suo incoerente, creando un’analogia nel mondo sociale. 


Nel suo saggio On Dialogue (Sul Dialogo), pubblicato nel 1990, Bohm sostiene che perché una società funzioni, è fondamentale che il pensiero emerga dal “piano tacito condiviso”: nell’incontro dialogico fra parlanti, l’esistenza di visioni multiple deve potersi fondare sulla sospensione dei giudizi  e sull’abbandono dei propri assunti, sul non ancorarsi a convinzioni e opinioni personali generando flussi di significato coerenti al fine di vivere in modo più pacifico nella collettività;  diversamente si incorrerebbe in significati incoerenti su larga scala e  sulla non comprensione.
Il pensiero dialogico bohmiano incontra negli anni ottanta quello del filosofo indiano Krishnamurti, una delle menti più influenti del ventesimo secolo. Dalle loro conversazioni improntate sulla fisica e sulla filosofia nascono successivamente una serie di dialoghi illuminanti dal titolo The Ending of Time: Where Philosophy and Physics meet (La fine del tempo: quando la Filosofia e la Fisica si incontrano): entrambi gli studiosi concordano nel sostenere l’esistenza di una forma di intelligenza diversa da quella ordinaria, definita come “abilità del pensiero” associata all’amore, in grado di abbattere le barriere e gli schemi mentali. Non resta allora per l’animale semiotico, quale è l’uomo, che impegnarsi ed esercitarsi nella pratica dialogica, nel senso che ne dà Bohm, di guardare alle cose con amore, nell’ottica meditativa e spirituale di Krishnamurti e di non smettere mai di guardare al Cielo, come la piccola adolescente Ogulnar del villaggio di Damla, nell’omonimo romanzo di Luciana De Palma.