Le parole
possono allontanare, creare squarci di ferite all’anima, insanabili, al pari dei
silenzi, generatori di distanze; ma è nell’impalpabile spazio di assenza di parole,
che è possibile ritrovare il punto di connessione con il nostro Io più profondo,
facendole emergere autenticamente per gettare ponti relazionali: sono quelle
parole che fanno avanzare nuovi orizzonti, come nell’illuminante intuizione
poetica di Nelly Sachs, la quale, nell’ultima strofa della sua lirica Völker
der Erde (Popoli della Terra), invitava tutti i popoli a toccare con
il proprio spirito la fonte delle parole, pur essendo un percorso doloroso, per
creare un punto di incontro con l’immensità del Cielo, a cui noi mortali indistintamente
apparteniamo e da cui siamo protetti: Völker der Erde, lasset die Worte an
ihrer Quelle, denn sie sind es, die die Horizonte in die wahren Himmel rücken können. (Popoli della Terra, lasciate le parole alla propria fonte,
giacché grazie ad esse gli orizzonti possono far ritorno all’autentico Cielo),
come nel lieve sfiorarsi fra Adamo e Dio nell’affresco michelangiolesco della
Cappella Sistina. Le parole possono essere foriere
di mondi alternativi, quando alla loro fonte risiede la ricerca della Bellezza
in ogni dove, persino a Damla, il piccolo villaggio di appena duecento anime
del Turkmenistan, in cui la resiliente adolescente Ogulnar, protagonista del nuovo
romanzo di Luciana De Palma, cui dà il nome (Les Flâneurs Edizioni), scopre,
nei ritmi monotoni che scandiscono i doveri e le azioni quotidiane della
comunità, di poter attraversare mondi nuovi e possibili, per mezzo della forza
misteriosa e magica delle parole, componendo segretamente poesie, nate nel
silenzio della propria anima, con lo sguardo rivolto al cielo blu cobalto, nell’avvicendarsi
delle torride e glaciali notti del deserto del Karakum.
Per mezzo delle poesie,
Ogulnar può curare un bambino in fin di vita, sfidando sia il ruolo prestigioso
della nonna, considerata dagli abitanti una maga per gli intrugli di erbe magiche
con cui è capace di guarire i malati, che però, risultano fallimentari nel
salvare il piccolo ad un passo dalla morte, guarigione che, invece, è affidata
alla nipote, sia le rigide tradizioni custodite dai sei uomini del villaggio,
creduti saggi e depositari di verità inconfutabili da millenni. Se provassimo per un istante a
lambire dolcemente alla fonte la parola “dialogo”, quasi accarezzandola con la
nostra anima, scopriremmo, nella sua etimologiagreca di Διά-λογος, quanto le parole possano muoversi
rincorrendosi l’un l’altra in una traiettoria la cui meta finale è la
consapevole e reciproca comprensione dei parlanti. È stato il fisico David Bohm,
amico di Einstein e allievo di Oppenheimer, a sostenere l’importanza di
adottare la pratica dialogica, quale prassi a fondamento del campo
epistemologico, atta a ricreare nuovi contesti significativi sia a livello
micro che macro-concettuali, nell’ottica di universale giustizia e pacifica
convivenza, quale metodo euristico indispensabile e applicabile a qualunque
società si consideri civile. Si tratta di una pratica che richiede tempi di
ascolto piuttosto lenti, che cozzano con la velocità con cui oggi siamo
abituati a dialogare al ritmo di algoritmi nel mondo Onlife, nell’attuale
era della comunicazione digitale, per dirla in gergo informatico, mutuato dal
filosofo Luciano Floridi, per la quale, tuttavia, Floridi ravvisa un’etica
dell’informazione incentrata sugli aspetti significativamente qualitativi della
comunicazione. Senza entrare nello specifico
della fisica quantistica, che esige particolari competenze scientifiche, sono
interessanti gli sforzi di Bohm di applicare il concetto di coerenza del laser,
che genera una energia straordinaria rispetto a quella della lampadina, dal
canto suo incoerente, creando un’analogia nel mondo sociale.
Nel suo saggio
On Dialogue (Sul Dialogo),pubblicato nel 1990, Bohm sostiene
che perché una società funzioni, è fondamentale che il pensiero emerga dal
“piano tacito condiviso”: nell’incontro dialogico fra parlanti, l’esistenza di
visioni multiple deve potersi fondare sulla sospensione dei giudizi e sull’abbandono dei propri assunti, sul non
ancorarsi a convinzioni e opinioni personali generando flussi di significato
coerenti al fine di vivere in modo più pacifico nella collettività; diversamente si incorrerebbe in significati
incoerenti su larga scala esulla non
comprensione. Il pensiero dialogico bohmiano
incontra negli anni ottanta quello del filosofo indiano Krishnamurti, una delle
menti più influenti del ventesimo secolo. Dalle loro conversazioni improntate
sulla fisica e sulla filosofia nascono successivamente una serie di dialoghi illuminanti
dal titolo The Ending of Time: Where Philosophy and Physics meet (La
fine del tempo: quando la Filosofia e la Fisica si incontrano):entrambi
gli studiosi concordano nel sostenere l’esistenza di una forma di intelligenza
diversa da quella ordinaria, definita come “abilità del pensiero” associata
all’amore, in grado di abbattere le barriere e gli schemi mentali. Non resta
allora per l’animale semiotico, quale è l’uomo, che impegnarsi ed esercitarsi
nella pratica dialogica, nel senso che ne dà Bohm, di guardare alle cose con amore,
nell’ottica meditativa e spirituale di Krishnamurti e di non smettere mai di
guardare al Cielo, come la piccola adolescente Ogulnar del villaggio di
Damla, nell’omonimo romanzo di Luciana De Palma.