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Destino e desiderio nel ritorno di Odisseo.
di Fulvio Papi

Ulisse

Un buon filosofo avrebbe dato ad ogni parola che ho letto nell’Odissea il suo tempo. Un percorso straordinario nella poesia dell’ottavo-settimo secolo, prima che si trasformassero le poleis greche con le loro forme di legittimazione politica, e, alla narrazione epica, subentrassero nuove forme poetiche di natura lirica. Un qualsiasi lettore contemporaneo è invece necessariamente prigioniero di quel “realismo” che costituisce il romanzesco. Un principio di deformazione (che è comprensione) il quale, in modo più o meno rilevante, investe ogni classico. Queste poche righe desiderano essere l’ovvio preludio alla mia lettura, qualcosa che, nella sua più che modesta proporzione, può richiamare una certa somiglianza con una “ouverture” di un’opera musicale che prepara l’ascolto dell’edificio melodrammatico[1].

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La vicenda di Odisseo sulla via del ritorno a Itaca dopo la distruzione di Troia, è dominata, come ogni altra storia, dal destino che segna sempre, anche attraverso l’intervento degli Dei, l’accadere delle circostanze, l’obbedienza quanto l’infrazione, e quindi l’epilogo, come finalità, di ogni evento.
Il protagonista agisce secondo il disegno del suo desiderio, nel quale riconosce la sua identità (diremmo noi) anche in coincidenza con le norme riconosciute dal costume sociale e politico. La nostra “responsabilità”, priva com’è della sua normativa ideale, è da capire come la propria pertinenza con il quadro valoriale del costume che si manifesta sempre nella dimensione desiderante: ma il teatro mondano è pur sempre dipendente dalle trame del destino che rendono inevitabili le azioni degli uomini, individuali o collettive, grate o miserevoli. Questa connessione tra destino e forma del desiderio, può essere favorita od ostacolata dall’intervento degli Dei sino a provocare quella che è la storia individuale di ognuno. In questo parallelismo vi è l’abolizione del caso, come della mitologia filosofica dell’assoluta libertà individuale. Questa considerazione vale per ogni circostanza antropologica, ma è anche in relazione con la decisione di una divinità, nella trama che interviene, nel tessuto dell’esistenza. Il destino: il cielo che copre tutta l’estensione della vita e dei suoi eventi. L’essere nati vuol dire partecipare a un destino che disegna le proprie strade, determinate come le finalità, i desideri, le prove dell’esistenza. È l’accadere concreto che mostra questo retroscena, ma, nella narrazione, ciascuno agisce con la sua forza, il suo carattere, il suo fine, e pure appartiene ad una storia destinale.
Il destino impedisce che si manifesti una contraddizione insolubile tra legge e desiderio, poiché la legge non scritta si manifesta tuttavia e sempre come sentimento dell’oggettività del costume. La “scelta” non avviene nell’ostile antinomia tra legge e desiderio, ma tra due opzioni del desiderio. Nel caso di Odisseo nell’isola lontana di Calipso, la prima è il piacere di vivere con la ninfa che declina con il tempo, l’altra, che nasce, irresistibile, come desiderio del ritorno. Ed è in questo squilibrio del desiderio che è leggibile l’insuperabilità della trama del destino.
Il destino, attraverso qualsiasi selezione, si mostra come il colore dominante, dell’esistenza, una recita inevitabile con tutte le passioni, le controversie, gli stili, le memorie che costituiscono i sensi dell’esistenza, così da poterne costituire la continuità di una propria vicenda. Ma, nel profondo, la forza della vita e i casi della morte appartengono all’aura misteriosa del destino, questo sfondo di ogni vicenda antropologica forma la consapevolezza degli uomini, e anche degli Dei, nell’equilibrio dei propri poteri, del limite di ogni “poter fare”, ogni azione porta con sé la sua contingenza e il suo destino; il che ha la sua importanza nel giudizio che essa provoca, nella stessa elaborazione del suo senso. Menelao riprende felice la fuggitiva Elena, Odisseo farà una strage dei pretendenti di Penelope che devastano i suoi beni, la “nostra” Calipso, quand’è deciso che Odisseo dovrà riprendere il mare, non ne fa il caso della sua infelicità.
Quando Odisseo, dopo la felice sosta presso i Feaci che ne fa risaltare le sue qualità eroiche, parte, allora Nausicaa che, per prima, l’aveva soccorso e introdotto nel suo mondo regale, gli dice “ricordati di me”, ed è la richiesta di una nota affettiva che permanga nella vita dell’eroe come custodia di una immaginazione, forza di un desiderio perduto secondo il destino. Il ricordo diviene il resto, improbabile, del destino. L’imperativo della proposizione è dunque simile a un fiore gettato nel vuoto.
Calipso non ha nessuna parola di addio perché sa, pur protestando contro la volontà degli Dei (come vedremo), che è in atto la inevitabilità del destino che pure attenderà Odisseo ad altre sciagure, come il naufragio provocato dall’irriducibile Poseidone poté ostacolare ancora il ritorno di Odisseo, ma non rendere impossibile il suo destino.

Omero

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Il nostro racconto inizia con l’orazione di Athena al consiglio degli Dei, la quale chiede sia restituita a Odisseo la via del ritorno. Agli Dei ricorda le molte pene sofferte dall’eroe, che non è solo una notizia, ma una narrazione che interpreta anche il sentimento di Athena: “poiché le doleva che fosse presso la ninfa”. Non sono in grado di comprendere perché questo soggiorno di Odisseo dovesse recarle dolore. Forse perché era costume - come vedremo dalle proteste di Calipso - che le dee non dovessero aver per compagni di vita dei nati mortali. Forse perché Athena, dea di infinite azioni mondane, desiderava ridare al suo eroe il destino che aveva consentito la sua storia, e una sosta infinita nell’isola di Calipso contraddiceva proprio quel destino che ora appariva nella tristezza di Odisseo; forse infine, perché vergine, non tollerava il connubio della ninfa e dell’eroe. Forse ogni cosa e l’altra. In ogni caso Zeus condivide il desiderio di Athena e manda il messaggero Mercurio a rendere nota la sua volontà a Calipso, dalle belle trecce, che, cantando nella sua grotta, tesseva con una spola d’oro.
Il luogo dove vive Calipso sembra una natura che si specchi nell’incanto con se stessa: prati fioriti, polle d’acqua purissima, alberi generosi, un luogo lontano dalle forme di vita di una vita sociale. È la perfezione di un mondo naturale toccato dalla ripetizione dell’eternità. Ermete trasmette a Calipso l’ordine di Zeus, e, in questa divina solitudine, si sente la voce della ninfa che protesta per questa decisione degli Dei maligni: “Maligni siate o Dei, e invidiosi oltremodo, voi che invidiate alle dee di stendersi accanto a mortali, palesemente se uno si trova un caro marito. Così quando Aurora, dita rosate, Orione scelse, voi vi adiraste, finché Artemide (estranea all’amore e votata alla verginità)”, trono d’oro, la casta, con le sue frecce lo raggiunse “e lo uccise”. Le dee nella loro immortalità possono amare loro pari, più o meno casualmente, ma non devono entrare in rapporti amorosi con uomini mortali, il cui amore confina con la morte; con il rintocco del tempo vi è un altro ordine della felicità rispetto all’essere perfetti nella propria immortale condizione.
Il mortale ha sue misure dell’esistenza, costruisce un suo mondo caduco e amato, quivi nascono le sue passioni e le sue norme. È in questa misura che accade il mistero del destino.
È il caso di Odisseo che si allontana dalla definitiva ospitalità, priva di morte, di Calipso, perché nella sua mente ormai è tornato il desiderio del ritorno. Il ritorno significa la restaurazione in sé stesso, il ricordare, delle condizioni del vivere mortale, dove la morte segna il confine di ogni possibile. Ma è anche la felice precarietà della casa, della terra, della compagna della vita, dei beni, del potere politico, e, infine, della discendenza che rendono possibile la certezza di se stessi. Un amore immortale è il silenzio, il vuoto, la perdita del desiderio stesso, la felicità senza tempo.
Non è il proprio corpo che può raggiungere l’immortalità, è solo la fama del proprio nome, la narrazione poetica delle sue azioni. La vita mortale si trasfigura in una narrazione che si ripete nei luoghi e nel tempo, tramite la voce che si trasmette. Senza ritorno non c’è memoria, senza memoria solo l’infinito silenzio, una felicità senza le sue crisi, la sua nascita imperfetta.
Sono questi gli elementi che in Odisseo chiamano il tormento e il desiderio del ritorno: la terra, quel cielo, quel mare, Penelope, il padre vecchio e solitario, il figlio che apre la vita gloriosa al futuro, i servitori fedeli, il richiamo della casa che materialmente concilia i tempi, il richiamo che ogni oggetto esercita su un altro. È il tessuto di senso che il tempo non ha mai distrutto, sì che si può dire che il ritorno, è come il ritorno a sé stesso dopo la donazione del proprio eroismo alla guerra e la sottomissione al destino che domina le sue vicende, e mostra nel coraggio, la sua fragilità nei confronti della divinità avversa, il rischio della perdita di sé stesso, tramite una metamorfosi inconscia.
Nel tema di tutte le motivazioni che sollecitano il desiderio del ritorno è anche l’infelicità della permanenza presso Calipso; nel testo vi è un verbo - “andano” - che, tradotto, entra in questa proposizione: “Perché non gli piaceva la ninfa”. Nel desiderio di abbandono dell’isola e del ritorno si inserisce un elemento psicologico e sentimentale: è caduto il desiderio nei confronti della ninfa.
(Poiché l’apertura di questa prospettiva non era affatto indifferente, ho controllato in un celebre glossario omerico l’attendibilità del senso del verbo: ripetuto in una serie di luoghi dell’Odissea esso mantiene il significato che la traduzione italiana conferisce in modo esemplare.)
È possibile spiegare questo sentimento, se si tiene conto di due elementi. L’uno che Odisseo fu affascinato dalla bellezza incomparabile di Calipso, l’altro che il desiderio chiuso in sé stesso decade nel tempo, e, nell’economia emotiva dell’eroe, crea uno spazio ulteriore per il compimento del destino.
Si spegne il desiderio che “fonda” la ragione della sua sosta per sette anni presso Calipso, e la seduzione della bellezza femminile non è più un incanto del desiderio, ma con il tempo mostra di appartenere all’insieme di elementi che ricompongono l’unità di misura di una esistenza. Non si afferma più alcuna forma della bellezza e della seduzione che, nella disperazione di Odisseo, possa contrastare il desiderio di ritrovare il “se stesso” in tutti gli elementi vitali che, nel passato, lo hanno costruito nel modo che solo il ritorno potrebbe ridare.
Nel conflitto di due forme del desiderio sovrasta definitivamente quella che deriva dalla più profonda identità, il risveglio consapevole che essa, implicitamente, è la valorizzazione della morte come condizione della determinazione mondana del senso.
Il piacere che si sottrae a questa condizione, pari alla promessa di immortalità, costa la perdita dell’identità che Odisseo può riconoscere solo nell’immagine del ritorno. Questo è il clima emotivo “fondante” per cui la ninfa “non gli piace più”: è terminato il tempo della seduzione. Calipso gioca quello che anche a una dea appare come l’estrema risorsa: io, Calipso, non sono solo dispensatrice di immortalità (che è un desiderio di un’occasione emotiva “decisiva” a livello antropologico, basta ricordare il discorso di Achille nell’Ade), ma “come corpo e figura sono certamente superiore a Penelope”. Ma è una certezza falsa anche per una dea.
Il problema non è il confronto delle apparenze seduttive, la sollecitazione di un desiderio privo di memoria, ma la differenza di senso. Il desiderio e il suo oggetto appartengono al mondo che l’eroe ha costruito come sua identità, al destino stesso della sua esistenza. Da qui il desiderio del ritorno, il ricordo interiore dell’insieme delle vicende, diviene la ragione per cui la ninfa non piace più a Odisseo. Ogni particolare si trova ormai nel silenzio del destino, e Calipso aiuterà in ogni modo Odisseo alla costruzione della sua zattera, il solo modo per riprendere la via del mare. Calipso promette, inoltre, che lo aiuterà con il soffio del vento, ma ricorderà anche all’eroe che le sue tragiche avventure non sono affatto terminate.



Nel quinto giorno della costruzione della zattera con i più abili artifici possibili, Odisseo riprenderà a navigare. Ma Poseidone, che non era presente al concilio degli Dei, fa di nuovo valere l’irriducibilità della sua collera. E Odisseo, una volta di più, conoscerà il rischio di un naufragio. Lo salva Ino, figlia di Cadmo, dea delle profondità marine, restauratrice, di fatto, dell’ordine del destino. Sarà Ino a sostenerlo tra i flutti prima che Odisseo possa trovare un accesso tra la riva scogliosa.
L’eroe esausto sulla spiaggia verrà ritrovato dalla fanciulla Nausicaa, figlia del Re dei Feaci, che lo guiderà alla reggia dove, prima della partenza per Itaca, l’ultimo tratto di mare del ritorno, avrà una vita stimata e gloriosa presso i fortunati Feaci. Quivi sarà Odisseo stesso l’aedo - al posto di Demodoco - che narra la propria storia, dalle rovine di Troia attraverso il mare e le avventure simili ad una drammatica conoscenza del mondo; questa narrazione è la storia del senso dell’eroe, la sua autobiografia destinale, la roccia dove è destinato ad infrangersi ogni ondivago desiderio. Quando un filosofo - Schopenhauer - disse che fu più nobile partire che ritrovarsi in una possibile vicenda d’amore con la fanciulla Nausicaa (cui il padre era persino favorevole), dice una mezza verità. La nobiltà apparteneva tutta, ormai, al compimento del destino.
Quando Odisseo prenderà di nuovo il mare, nella coincidenza di desiderio e destino, Nausicaa - come ho già mostrato - gli griderà: “Ricordati di me che per prima ti ho salvato”. Con Calipso, alla partenza, non c’era stata nessuna forma di “addio”, entrambi, la dea e l’eroe, consapevoli se pure in forma diversa, che era il compimento del destino, rinato nel cuore di Odisseo, ragione delle sue solitarie lacrime. Nausicaa, nel compimento del destino, il solo modo che ha per sopravvivere nella vita dell’eroe è nel ricordo, tenterà il suo spazio in una narrazione: poiché, inconsciamente, il suo animo appartiene al circuito della morte, al di qua dell’immortale presente che imprigiona Calipso.
Che cosa la dea dell’isola di Ogigia potrebbe raccontare di sé? Noi sappiamo invece che Odisseo nel suo ritorno, nel riconoscimento di chi mai lo aveva dimenticato, dal porcaro a Penelope, tremendo nella vendetta con una feroce felicità, nella sintesi di identità, giustizia e destino, non parlerà mai più di Nausicaa, un insignificante lembo di cielo che scompare all’orizzonte.

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Quello che noi sappiamo di Odisseo è nel racconto del suo periglioso viaggio che l’eroe ricorda ad Arète regina dei Feaci quando, dopo il naufragio, con l’aiuto di Athena, poté presentarsi alla reggia. Odisseo racconta di essere capitato nell’isola di Ogigia, dove era la figlia di Atlante, Calipso, “ricca di inganni”, “dea tremenda” con la quale non si unisce alcuno degli dei, né negli uomini. “Me misero al suo focolare un demone spinse”, nel naufragio tutti perirono, ma, narra Odisseo, “nella decima notte dopo il naufragio arrivai all’isola di Ogigia”. Qui il racconto merita una certa attenzione. Calipso lo accolse, l’ospitò di cuore, lo nutriva e voleva farlo immortale. Ma - narra Odisseo - “il mio cuore nel petto non poté mai persuadere”, e così continua: “Lì sette anni restai prigioniero, e sempre le vesti bagnavo di lacrime. Ma quando l’ottavo arrivò […] allora mi comandò con premura di andarmene per comando di Zeus, o forse cambiò la sua mente”: e mi fece partire su una zattera dai molti legami, molto mi diede […]”.
Questo è il racconto che Odisseo fa alla regina per presentarsi nella maniera più attendibile all’immagine dell’eroe e, quindi, con il massimo onore. Ma è un racconto abile che unisce notizie vere con interpretazioni che lasciano molti ragionevoli dubbi sul soggiorno di Odisseo a Ogigia.
Odisseo è preoccupato di spiegare a suo modo il lungo periodo di permanenza “maritale” con Calipso.
Perché mai un “demone” lo spinse verso il focolare di Calipso? Quando il salvataggio di Odisseo fu invece del tutto naturale. Il narratore vuol mostrare che quanto accaduto è un “destino” estraneo alla sua volontà, e questa spiegazione deve reggere la narrazione successiva. Il soggiorno a Ogigia durò ben sette anni e per sette anni fu “prigioniero” e “sempre le vesti bagnavo di lacrime”. Ma noi sappiamo che ad Ogigia Odisseo aveva cura di sé, il che è poco compatibile con una tristezza quotidiana.
La prigionia sembra giustificata dall’affermazione che a Calipso non si univano mai né uomini né dèi, e l’arrivo di Odisseo doveva essere un’occasione inaspettata dovuta a un demone che aveva gettato l’eroe nella sua isola. Ma è credibile che questa situazione si potesse prolungare per sette anni: che amante o marito fosse uno che piangeva tutto il giorno? Perché Athena aspettò sette anni per intervenire a favore del ritorno di Odisseo quando secondo il racconto dell’eroe, la disperazione era uguale in ogni momento e il soggiorno sempre una prigionia?
È vero che la partenza avvenne nella coincidenza tra la sua (di Odisseo) mestizia e la decisione degli Dei, ma nel racconto alla regina dei Feaci, Odisseo aggiunge a proposito di Calipso: “O forse cambiò la sua mente”. E questo è completamente falso. Anzi, il cambiamento della mente, attribuito a Calipso, è invece proprio il cambiamento della mente di Odisseo, la fine del suo desiderio durato sette anni e quindi la rinascita nel suo animo del proposito di tornare a Itaca. Il tramonto dell’amore per Calipso coincide con la disperazione di non poter assecondare il nuovo desiderio del “ritorno”, che altro non era che il ritorno alla sua identità di eroe, padre, marito, Re di Itaca, fedele alla propria storia, tutti legami importanti che il silenzioso connubio della vita con Calipso aveva occultato.
Telemaco cercava notizie del padre laddove era noto il senso della vita eroica di Odisseo, non avrebbe mai potuto cercarlo nella lontana (anche questa locazione geografica concorda con il senso di Calipso) isola di Ogigia.
Il racconto di Odisseo alla regina dei Feaci narra ma in parte nasconde, come tutta la narrazione che l’eroe offre ai suoi ospiti al posto dell’aedo Demodoco. È un racconto che consente agli atti eroici e alle sventure di diventare un sapere glorioso. Il segreto del tempo del desiderio invece non fa storia.
La vicenda di Circe conferma che il desiderio privo della misura del tempo non fa narrazione, è privo di narrazione, non è mai sapere collettivo.
Odisseo manda a esplorare Euriloco con altri ventidue compagni. L’entrata nella dimora di Circe è fatale per i compagni di Euriloco: un farmaco crudele li trasforma in porci. Euriloco solo non era entrato e questa prudenza gli consentirà di tornare alla nave e di raccontare la sciagura. Odisseo vuole andare a vedere che cosa fosse successo, ma il rischio fatale gli fu evitato da Ermete che gli diede un’erba capace di neutralizzare i veleni di Circe. La maga - dice Ermete - cercherà di farti bere il suo intruglio, ma tu balzale addosso come per ucciderla. Essa per difendersi “l’inviterà nel suo letto”.
La storia prosegue con la resa di Circe che giura a Odisseo di non usare magie malefiche. Circe: “Nel fodero la spada riponi e noi ora saliamo sul letto uniti che uniti di letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda”. Ma l’amore di Circe non basta a Odisseo che ricorda i compagni ridotti in porci. Circe libererà questi compagni di Odisseo dando loro cibo, vino e “spirito” in petto. “E là tutti i giorni, fino al compiersi di un anno sedevamo a godersi carne infinita e buon vino. E saranno proprio questi compagni “quando i giorni si fecero lunghi” a ricordare a Odisseo il ritorno. “Se pure è destino che ci salviamo e arriviamo alla solita casa e alla terra dei padri”.
È questo richiamo che sollecita Odisseo a chiedere a Circe di aiutarli a ritornare. Sono dunque i compagni a ricordare l’impegno del ritorno, anche qui perché la vita felice come ripetizione è infine un vuoto che richiama il desiderio di esistere al di là del piacere stesso.



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Quando finalmente il sospettoso e difficile riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope divenne del tutto persuasivo, l’eroe può dire alla sposa ritrovata: “Ora vieni, andiamo a letto donna e godiamo finalmente di stendersi, vinti dal sonno soave.” E Penelope: “Il letto tuo sarà ormai pronto ogni volta che tu lo vorrai”. Ma i due, quand’ebbero goduto l’amore soave, godettero di parlarsi […] lei ricorderà di quanto in casa soffrì […] e lui, il divino Odisseo, quante pene inflisse ai nemici e quante sventure dovette subire.
Odisseo in poche parole ricorda la guerra di Troia, ma fondamentalmente si sofferma sul suo ritorno, che è interessante rileggere: “Narrò come in principio vinse i Ciconi, e poi come arrivò nella terra feconda dei mangiatori di loto; e quello che fece al Ciclope, e come la paura piegò dei gagliardi compagni che divorava senza pietà; di come ad Eolo venne che l’accoglieva benigno e gli dava il ritorno, ma fato ancora non era che in patria arrivasse, anzi di nuovo questi afferrandolo, la procella dei venti per il mare pescoso lo trascinava, con grave suo gemito: e come a Telepilo, città dei Lestrigoni giunse, e questi le navi distrussero e i suoi compagni robusti schinieri tutti quanti; Odisseo solo fuggì con la nave nera. Poi di Circe narrò l’inganno e la grande astuzia, come scese nelle case putrescenti dell’Ade, ad interrogare l’anima del tebano Tiresia, con la sua nave dai molti banchi e vide tutti gli amici e la madre che lo partorì e nutriva bambino. E come delle armoniose Sirene ascoltava la voce, come giunse alle Rupi erranti e all’orrenda Cariddi e a Scilla, da cui mai uomini sfuggirono incolumi; come del Sole uccisero le vacche i compagni; e come con la fremente folgore l’agile nave colpì Zeus che in alto rimbomba, e perirono i bravi compagni, tutti insieme, lui solo le male Chere evitò; come arrivò all’isola Ogigia della ninfa Calipso, ed essa lo tratteneva bramando che le fosse marito nelle cupe spelonche, e lo nutriva e diceva che lo farebbe immortale, immune da vecchiezza per sempre, mai, però, persuase nel petto il suo cuore e come ai Feaci arrivò, dopo molto soffrire, ed essi di cuore come un dio l’onorarono e per nave lo accompagnarono alla terra dei padri […]”.
Il racconto è sostanzialmente preciso quanto ai luoghi degli eventi. Non fa invece alcun riferimento al tempo di questo accadere. La ripetizione del desiderio senza uno sfondo “civile”, dai ruoli, ai compiti, ai sentimenti, alla giustizia, è privo di tempo. È un destino che ferma il proprio corso, la narrazione decade, il senso dell’eroe svanisce.
Penelope condivide il senso del racconto dove prevale sempre il proposito costante del ritorno. Quanto detto da Odisseo costituisce ormai una sapienza oggettiva. Non esiste una domanda di verità che vada oltre la narrazione.
Siamo certi che l’intento di Athena che riporta Odisseo sulla via di Itaca coincide con la tristezza dell’eroe per il ritorno sempre rinviato, ma sappiamo anche che la ninfa non gli piace più: la seduzione che seleziona e condiziona il desiderio non può più sopraffare la memoria profonda delle forme di vita che appartengono all’identità dell’eroe. Il tempo di Circe è molto più breve, ma con un’ombra di fatalità del desiderio che solo i compagni della lunga ventura possono contrastare e vincere. Segno che le vie del destino possono non coincidere con i tempi del desiderio dell’eroe, il quale può anche dimenticare.
Ma infine il destino che coincide con la figura dell’eroe, restituisce la narrazione. Non c’è mai l’ombra della colpa, piuttosto del caso favorito dagli Dei, come accade con Elena che tornerà onorata nella reggia di Menelao.
Il desiderio non appartiene mai a una nuova immaginazione della vita, può essere piuttosto un inganno. Il piacere non entra nel ciclo del tempo. Ogni piacere estraneo all’alone “etico” che costituisce l’unità dell’eroe è come un ingresso passivo, ma esistente, nel tessuto della storia.
Il suo senso etico si manifesta nella considerazione decisiva dei figli, ma può diventare, come nel caso di Calipso e Circe, un delizioso sonno del compimento del destino, privo di eventi, silenzioso, lontano persino dalla ricchezza del linguaggio. Ritornare quindi vuol dire ritornare ad essere, ritrovare, al di là di ogni innocenza, il compito che è assegnato all’eroe, il quale vuole ristabilire diritti che gli siano propri, degni di vendetta e di morte.

Nota
[1] Il testo dell’Odissea è la traduzione (ed. Einaudi) dell’edizione a cura di Thomas W. Allen.

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SULL’ESSERE CRISTIANI
di Fulvio Papi



Dirsi cristiani è così facile al punto che Croce, a suo tempo in un saggio molto spesso citato, affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Non possiamo sottrarci ad un ethos che, pure in forme differenti e con numerose contaminazioni, ha pure mantenuto e trasmesso un suo nucleo essenziale nel volgere dei secoli. È questo sfondo che costituisce la facilità con cui ci si può riconoscere come cristiani, se pure in un orizzonte simbolico che, nella prassi comune, non diviene il proprio criterio univoco di identità.
Spontaneamente ci troviamo in un meticciato storico che ha le sue prevalenze e le sue forme memoriali. Questa è la ragione per cui è sempre difficile e futile, residuo intellettuale di contingenti ideologie, il voler definire univocamente le strutture dominanti della nostra modalità culturale come se in essa non si manifestino diversi equilibri. Credo abbia senso dire che da tempo è in atto un processo di mercificazione dei comportamenti collettivi, ma non si può ignorare che, con forti motivazioni, vi sono molte tendenze morali contrarie, religiose e laiche, le quali, in generale, non hanno però una loro rappresentatività nelle forme dei poteri, quale è, invece, propria del processo di mercificazione e dei “valori” diffusi che essa provoca, spesso in una connessione con alcuni temi classici della modernità.
Tenuto conto di tutte le variabili possibili, ecologiche, sociali, tecnologiche, è difficile - e forse anche futile - affidarsi a previsioni deterministiche, mentre invece l’incertezza dei tempi, pone ancora più forte il problema dell’assunzione nello spazio del proprio presente, nel mondo che c’è e nelle forme in cui si manifesta nella propria vita, una soluzione molto consapevole della propria identità. Le opzioni talora sono complesse, ma è certo che è fondamentale abbandonare un’idea futile di verità come esercizio di una intelligenza priva della sua appartenenza a un corpo vivente, contingente, mortale.
È in questo spazio e in questo tempo che può porsi il problema di essere cristiani. E qui non è questione di adesione a un generico quadro etico o a una partecipazione cerimoniale, ma è in gioco la selezione della propria forma di esistenza, vissuta di giorno in giorno nel mondo che c’è. È una “chiamata” che si rivolge al singolo individuo, concepita però non come una devozione solitaria, ma come una esistenza testimoniale che si ritrova in una ampia soggettività aperta, come dicevo, nel mondo che c’è, il solo del quale possiamo avere esperienza. Questo modo di essere cristiani mi pare sia stato evocato molto bene assumendo la lingua di Paolo come nostro contemporaneo in un saggio di Isabella Guanzini, “Vita e pensiero” (maggio-giugno 2019): la verità di una vita cristiana liberata da condizionamenti assoluti e radicalizzanti e conflittuali, quali da una parte, la legge, e dall’altro il suo opposto, il desiderio.
Paolo, nella forma della sua testimonianza ci mostrava riconoscimento come soggettività in cui il desiderio, la forma sensibile e ineludibile dell’esistenza, elabora la propria assunzione della legge. In questa esperienza, l’esperienza dà a sé stessa una forma propria centralità al di là di ogni oggettivazione assoluta. Nella tradizione contemporanea del cristianesimo è una posizione che ritroviamo nei tratti essenziali della teologia che, proprio nella valorizzazione dell’opera di Paolo, colloca il valore cristiano nella sua testimonianza a livello della mondanità esistenziale, dei suoi valori e dei suoi poteri. In un’intervista a Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico di Anatolia, trovo una posizione che mi pare per lo meno simile: “Io penso che il Vangelo avrebbe molte cose da dirci, però bisogna ricordare che Gesù Cristo era un laico, non era un prete, che per trent’anni ha fatto il carpentiere, che non si è identificato con i “religiosi” e che è stato messo a morte da una alleanza tra “religiosi” e “politici”. È questo Cristo la figura di cui acquista significato pieno l’esperienza di Paolo”.
Nel saggio di Isabella Guanzini vi è una connessione dell’interpretazione di Paolo con motivi che derivano dalla psicoanalisi lacaniana, per cui è utile riferirne i tratti più importanti. L’autrice ripensa la lezione di Paolo attraverso Lacan secondo cui il “trauma” è la fine dell’ordine valoriale che aveva strutturato il senso dominante del soggetto nel mondo, e in questa prospettiva riprende l’analisi del senso che ha la figura di Paolo nella tradizione cristiana.
Paolo non può non testimoniare l’insegnamento di Cristo poiché il suo “trauma”, cioè la sua conversione, diventa il suo stesso valore identitario, la sua legge, senza la quale non c’è più vita. Fino al punto - ricorda Isabella Guanzini - che nelle lettere ai Galati giunge a dire: “non vivo più io ma Cristo vive in me”. In modo ancora più radicale si esprime nella lettera ai Filippesi: “Per me vivere è Cristo”.
Sempre pensando a Lacan, l’autrice riprende il tema fondamentale secondo cui la legge assoluta produce, come risposta, un desiderio assoluto, anarchico, rivendicativo e violento. Vale, sempre in Lacan, il rapporto di complementarietà tra Kant e Sade. Il problema è riuscire a sottrarsi a questa opposizione, che in un pensiero diffuso può trovarsi nella equilibrata moderazione della felicità secondo il modello dell’Etica nicomachea di Aristotele, dove manca del tutto il tema della relazione all’alterità secondo un’idea collettiva di bene.
Altra è la via di Paolo, il cui problema è il rapporto vivente tra desiderio vitale e legge, dove l’insegnamento, la testimonianza cristiana è una nuova elaborazione nel senso sia della legge che del desiderio. Il dominio pervasivo della legge che provoca il proprio opposto va del tutto trasformato in modo che la legge stessa non sia rappresentativa della mondanizzazione delle opere, ma sia “intesa come legge di Cristo”, e allora la legge si riassume nel comandamento di amare il prossimo. Senza questa dimensione dell’amore, e il comando di una disposizione del sentimento, tutto l’apparato intellettuale che costituisce la narrazione del Cristianesimo, rimane un’astrazione intellettuale. In questo caso l’altro viene interpretato solo attraverso l’amore narcisistico di sé stessi.
Trovare l’altro fuori dalla ripetizione di questa prospettiva è possibile solo attraverso una nuova legge: quella del credente fermo nel suo limite e tuttavia non accetta un fondamento nel reticolo del mondo, ma apre una nuova potenzialità dell’esistenza che non si annulla in una qualsiasi forma di ascesi, ma stabilisce un rapporto (l’autrice dice “tensione”) tra il mondo che c’è e una soggettività non narcisistica. In questa forma dell’esperienza l’uno e l’altra trovano la loro relatività, il proprio “non tutto”.
L’essere in Cristo di Paolo ha questa dimensione fondante in uno spazio che non si costituisce come opposto al mondo (ascesi), ma in un proprio modo di “essere nel mondo”. Paolo ha compreso il senso di vivere dopo Cristo come un’irruzione dell’eskaton nel tempo, il tempo messianico che si sostituisce al tempo uniforme della legge. La sua realtà testimoniale, il suo desiderio di assumere questo ruolo come apertura di un tempo messianico è tutto compreso nella sua possibilità di linguaggio, nella tradizione filosofica come prevalenza della retorica sulla metafisica, ma una retorica testimoniale della legge intesa come relazione d’amore verso l’altro, sottratto ai limiti aggressivi del proprio costitutivo narcisismo.
Per stare in questa posizione è perciò necessario ripetere (o, meglio, impegnarsi a ripetere) l’esperienza di Paolo intesa come vita in Cristo, come trauma: un radicalismo totale, un atto d’amore verso Cristo che è destinato a mutare la propria vita. Ripetere dunque la “via di Damasco” attraverso l’essenziale del nostro desiderio, e cioè della nostra relatività, assumere l’insegnamento di un tempo messianico. Qui si è destinati ad incontrare la tragedia del rapporto tra il discorso e le forme dominanti della comunicazione, nonché con la pratica del diritto all’individuale e narcisistico consenso del mondo.
Paolo, in questa lettura, diviene un modello che concilia la legge con quella del desiderio nella forma di una soggettività determinata: è nel rapporto con il prossimo che questa soggettività può emergere, in una prassi in cui nell’amore per il prossimo si conciliano legge e desiderio, abbandonando quella forma assoluta, nell’opposizione tra terra e cielo, che fa di entrambi opposizione tra inconciliabili polarità; e apre per tutti i cristiani un compito che deve vivere in un tempo testimoniale e messianico, un inizio in ogni forma del mondo, un compito comunque sempre aperto, il contrario di un sapere dogmatico che nella vita sociale si rappresenta come un potere fondato sulla propria assolutezza.
L’essere cristiani significa poter ripetere nella propria soggettività e in relazione al mondo che c’è, alla diffusa temporalità qualitativa, la forma di una rivelazione che è stata il destino di Paolo: “io vivo in Cristo”. È necessario, attraverso la testimonianza di Paolo della parola di Cristo, una rinascita di Cristo in noi.
Attraverso la testimonianza di Paolo della parola di Cristo, l’orizzonte che attende il cristiano è dunque una rinascita in sé dell’insegnamento di Cristo che, mi pare, possa esistere soltanto con la certezza di un proprio linguaggio che simboleggia la relazione con il mondo. Così appare oggi la rinascita di Paolo in uno spirito cristiano, la sua contemporaneità.

Certamente l’autrice e il suo ripetitore sanno quanti temi fondamentali di Paolo sono qui in totale ombra. È quello che accade sempre qualora vi sia il proposito selettivo della contemporaneità: è un modo d’essere del tempo, che illumina e insieme oscura.


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Lo scrittore e l’altro
(Kertész e l’Olocausto)
di Fulvio Papi


Imre Kertész


Il vessillo britannico del premio Nobel ungherese Imre Kertész è un’opera formata da tre racconti scritti tra il 1975 e il 1991, date che corrispondono a due differenti epoche politiche dell’Ungheria. La prima data appartiene al periodo in cui l’Ungheria era uno stato satellite dell’URSS e ne riproduceva, nel “socialismo reale”, il sistema autoritario, ideologico, politico dominato dal potere nel Partito Comunista. La seconda data, dopo la caduta del muro di Berlino, appartiene al momento in cui l’Ungheria è stata assimilata al sistema economico e politico dei paesi occidentali, nell’ordine liberaldemocratico. Poiché nella valutazione di queste vicende comunemente si usa l’opposizione tra dittatura e libertà, è necessario osservare che per Kertész questa interpretazione non è valida: in entrambi i casi politici grava sulla persona comune come sullo scrittore la forza impositiva del potere. Per lo scrittore non esiste alcuna forma di libertà oggettivamente costruita da un potere giuridico che possa garantire l’iniziativa libera che ognuno può assumere per garantire il suo senso: si potrà considerare con maggiore chiarezza questa posizione quando prenderemo in considerazione il giudizio negativo che lo scrittore dà all’epoca contemporanea dove l’umanità è ormai prigioniera nella sua prassi, nei suoi desideri e nel suo stesso pensiero di pragmatismo di basso valore fondato tutto sullo scambio economico, nel dominio del mercato, sulla infinita potenzialità del denaro. In queste condizioni una autobiografia non può che essere priva di qualsiasi continuità di senso, essa decade piuttosto in quella strategia necessaria al singolo individuo inglobato in una identità collettiva, quale che sia il suo timbro ideologico. La generalizzazione ideologica, quale che sia il suo lessico, il suo rapporto con un sistema di fini e di valori, provoca necessariamente una obiettivazione in forme di regole, obblighi, estimazioni che sono la sconfitta, in ogni caso, la repressione del livello spirituale che ogni singolo individuo può dare a se stesso quando viva il suo tempo come un tratto immanente al rapporto tra la vita e la morte. Appare così uno spazio intellettuale che contamina in una forma inedita la singolarità di Nietzsche con l’universalità cristiana: una sottrazione alle composizioni dell’esistenza che sono proprie del mondo contemporaneo. Un linguaggio appartiene certamente a una storicità che ripete se stessa e quindi replica le risorse vitali che assumono forme collettive costruite da una generale e paradossale estraneità di ogni individuo rispetto all’altro. Non è un concetto che può spezzare questa uniformità che va dal mercato alla letteratura, ma un gesto emotivo che si sottrae per la sua natura alla uniformità ripetitiva. Così “il vessillo britannico” è un’icona infantile in cui, nella sua semplicità, è depositata una dimensione emozionale di senso che non va considerata a livello di un simbolo storico, ma come un segno incancellabile nel processo di un’esistenza, il limite e la certezza di una vita alla ricerca del proprio destino.
Nel primo racconto troviamo in una storia che ripete i tempi tradizionali di una narrazione, l’attesa comune di un destinatario che può essere lo stesso autore impegnato nel difficile intrigo di un’autocomprensione. La domanda fondamentale per uno scrittore che ha una visione personale e non storica della coscienza, è questa: “Che cosa guarderà il mondo con il nostro sguardo?” Lo sguardo appartiene sempre ad una scelta che riguarda piani di oggettività, ma anche quei ricordi che circoscrivono un’esistenza come una inviolabile prigionia che, invulnerabile, scrive e riscrive i lasciti della memoria. È solo dominando con la scrittura la apparenza di queste selettive ricordanze l’autore diventa uno scrittore, un compito che ha un potere straordinario affinché il passato non vada definitivamente dissolto nell’immenso vuoto dei ricordi divenuti la maschera ormai invisibile del mondo. Uno scrittore costruito in una forma particolare di autobiografia che non è la rappresentazione tramite lo schermo individuale di un fatto e del suo senso secondo un valore storico, quindi non può mai assumere una tonalità magistrale, una forma intersoggettiva di educazione. È piuttosto costretto ad un pudore del “se stesso”, anche quando l’opinione pubblica (gli editori e gli esperti) stabiliscono la tradizionale relazione tra l’autore e la forma di “spirito oggettivo” che la sua opera dona come patrimonio culturale collettivo. Un simile autore, chiamato con conferenze a testimoniare questo suo valore per la collettività, si trova ad ascoltare la sua parola come il discorso di un altro, e quindi sopporta il disagio dell’assunzione oggettiva di una maschera costruita dagli esperti e attesa dalla cerimonialità del pubblico. E, diciamo noi, questa soggettività insuperabile, questa certezza di una maschera pubblica, non appaiono come un’eco di una classica riflessione di Nietzsche?
La storia narrata incontra il suo primo episodio proprio nella forma esemplare di un compimento sociale dominato da un potere ideologico, politico e burocratico: l’Ungheria e le sue istituzioni nell’epoca staliniana. L’autore, per qualche ragione che non sappiamo, si trova giovanissimo a lavorare per un giornale per un periodo che durò quattro anni. [Che cosa è un giornale in uno stato autoritario?] È molto facile immaginare che il foglio quotidiano sia la diffusione propagandistica delle imprese del regime, della sua cultura, dei benefici sociali, della formazione collettiva, degli errori e delle immaginazioni che contravvengono a questa direttiva storica. Per il nostro autore il giornale dovrebbe essere tutto il contrario: la silloge delle scoperte sociali in vari settori della vita pubblica, delle aspirazioni collettive che appaiono dal lavoro di scoperta del giornalista. Un’aspirazione non molto diversa da quella istruzione che Gramsci prevedeva per un giovane giornalista: scoprire e illustrare al pubblico come funziona il mercato del pesce. Il giovane Kertész al giornale propagandistico del potere politico risponde con un conformismo (la parola è mia) operativo e con un amore e una dedizione emotiva e segreta alle opere di Goethe e di Tolstoj. Quale relazione può esistere tra un lavoro giornalistico necessariamente burocratico e la cognizione delle pagine dei due grandi, quello tedesco e quello russo? L’equilibrio personale può essere dato solo da una pratica di occultamento di sé, da una segretezza che nasconde la sua passione, incontenibile, per La Valchiria di Wagner. La vita, per usare termini astratti, diviene dipendente da uno stile che frattura necessariamente la coscienza: e i luoghi, il giornale, e l’alloggio, possono apparire come i simboli di questa frattura. Conscio e inconscio non c’entrano per nulla. Qui si che troviamo di queste una abitudine alla falsificazione pubblica e la emozione personale che costruisce una forma di vita. Del resto persino il conformismo può scivolare nella colpa nei confronti del potere politico e, anzi il suo attento diffusore, un giorno trova la sua disgrazia politica e da meritevole militante del partito decade al ruolo del traditore, e quindi del colpevole. Il potere si presta a fini interpretazioni che sono tutte nelle mani di chi dirige il paese. È una specie di regime politico che può essere compreso in una dimensione che è propria di Kafka, autore prediletto di Kertész, dove non è mai possibile descrivere in modo razionale la forma e la ragione nella colpa. L’atteggiamento passivo dello scrittore viene però alla fine decriptato e viene cercato dal giornale e avviato a “scegliere” un nuovo lavoro, che all’inizio lo colloca nel processo produttivo di una fabbrica. Ma il modo in cui divenne giornalista è da ricordare perché è la forma di narrazione che lo scrittore fa propria nel racconto ai suoi allievi. Il divenire giornalista fu l’imitazione della figura del giornalista che appare in un libro di Ernő Szép che da scrittore di rilievo era divenuto un servo del regime. Tuttavia, anche nel libro precedente, prima che il paese precipitasse nel sistema staliniano, la figura del giornalista era una invenzione letteraria in armonia con il resto dell’opera. Il che, indipendentemente, dall’effetto falso che quelle pagine ebbero sul nostro scrittore, pone il problema del rapporto tra letteratura e vita, dove spesso il tessuto letterario trasfigurava l’obiettività dell’esistenza il che era diventato un problema tecnico per Kertész. Allora non fu altro che un caso della considerazione secondo cui “la gente reperisce la menzogna con la medesima precisione e ineluttabilità con cui può procurarsi anche la verità”.
Il rischio sempre immanente è quello di trovare per se stessi una “vita muta” incapace di trovare una definizione di sé che non fosse quella costruita da un sistema di potere e dalle sue finalità. Il rischio di “perdersi” è sempre presente: l’essere umano è come argilla che prende la forma che l’ordine politico comanda: all’interno degli effetti di questo comando si configurano le possibilità umane, i riconoscimenti del proprio valore. Questo vale per la letteratura e, a livello più comune, per ogni persona: lo scambio sociale e la valorizzazione avviene nel reciproco riconoscimento delle proprie maschere.
La salvezza da questa caduta personale nell’insensato “tutto”, fu per il nostro scrittore, come ho già ricordato, l’ascolto della Valchiria di Wagner e la vana ricerca del libretto, poiché il grande musicista apparteneva alla cultura “indesiderata”. Nella personalità del marmoreo giornalista di regime, prendeva spazio un sapere segreto, una costruzione di se stesso che fruiva di una possibilità che non andava oltre lo specchio di sé. Non credo, e probabilmente non lo credeva nemmeno Kertész, che il feroce individualismo che costruisce la sua forma di vita, sia totalmente generato da una oggettività autoritaria che consente un solo rifugio, esso mi appare come un epilogo che viene rafforzato dalla formazione precedente della propria vita. Questa considerazione su un totale rischio può essere avvalorata dal modo in cui il nostro autore reagisce all’insurrezione ungherese del ’56, e precedentemente, elabora il senso dell’Olocausto. Vedremo da vicino questa circostanza che ne fa un interprete - lui ebreo - del tutto isolato rispetto alle testimonianze dei sopravvissuti alla catastrofe epocale del nostro tempo. In queste pagine non è possibile rievocare i significati più o meno palesi della coraggiosa, eroica resistenza dell’alleanza tra operai e studenti contro l’invasione sovietica con centinaia di carri armati. Ripeto solo che la rivolta non fu contro il proposito di una gestione socialista della società, ma contro l’oltraggiosa interpretazione autoritaria e burocratica, violenta, poliziesca, negatrice di ogni forma di libertà, che un vertice politico aveva imposto al paese. L’eco della rivoluzione in Kertész era piuttosto una accentuata valorizzazione nel proprio spazio interiore dell’espressione spirituale di Tolstoj e di Goethe.
Temi come la libertà politica, la giustizia nei rapporti sociali, la riforma di tutto il sistema di potere, la restituzione agli operai e alla cultura il possibile valore storico della loro alleanza sono estranee alla sensibilità dello scrittore che “scrive” e forse “vede” - l’apparizione di una jeep con il vessillo britannico - episodi dell’insurrezione, ma pregiudizialmente essi appartengono nel silenzio dell’autore a quella contesa per il potere, detto in maniera un poco grossolana, appare come una guerra tra il bene e il male. [In uno scrittore laico si ripeteva, tramite una tonalità esistenzialistica alla Camus, il valore religioso dell’individuo (di fronte a Dio) che era proprio della riflessione filosofico-teologica di Kierkegaard.] Dopo la cacciata dal giornale, Kertész usa l’astuzia, oltre alle sue reali condizioni precarie di salute per riuscire a sopravvivere, bocciolo senza fioritura, nel sistema politico staliniano. Condurre, all’ombra del potere, una vita da intellettuale, era perdere se stesso, né avrebbe dovuto (o potuto) vivere il futuro come un’apertura del mondo pieno di positive promesse. Cade così la domanda propria di una gloriosa e deprimente retorica: “Chi guarderà il mondo con il nostro sguardo?”  A voler essere concreti bisogna dire che “il mondo” non è affatto la dimensione totalizzante, ma è piuttosto lo spazio, la visione che è consentita dalla passione del proprio sguardo. L’oggettività può essere pubblicizzata, ma la sua trasfigurazione dello sguardo rimane solitaria, destinata a scomparire nell’abisso dei ricordi. Questo per la sensibilità di una persona qualsiasi, ma per il talento straordinario di uno scrittore? Lo sguardo è il rapporto tra letteratura e testimonianza, dove la letteratura non deve riflettere passivamente, nella sua composizione, la vita, e la testimonianza non deve interpretare gli eventi mondani nella gabbia intellettuale della storicità. Resta la forza di un allucinato realismo, dove ogni evento ha una sua plausibilità in un insieme simile alla malignità di una favola ostile. Nella letteratura contemporanea il maestro di questa scrittura è certamente Kafka come appare nel lungo racconto “Il cercatore di tracce”. Il tema allude al sistema poliziesco della dittatura, ma la narrazione all’invenzione propria del valore letterario. Kertész ha salvato così la sua vocazione di scrittore, quale che sia l’anno della scrittura del suo straordinario lavoro.
L’opera di Kertész più nota è certamente Essere senza destino scritta quando l’Ungheria era ancora un paese satellite dell’URSS, probabilmente passò senza difficoltà la censura politica perché, nel genere, era assimilata alle testimonianze che rinnovano la memoria della catastrofe epocale dei campi di sterminio nazisti nei quali furono uccisi milioni di ebrei. Kertész dirà più tardi che Essere senza destino è stato addirittura un libro collaborazionista con il regime. C’è tuttavia testimonianza e testimonianza, e ogni scrittore, se è consentita la metafora, ha una parte di cielo in cui può brillare la stella della tragedia, un modo diverso di memorizzare la Shoah, quasi sempre un sospetto che le parole seguano, quasi necessariamente, una trascrizione insufficiente, parziale, che obbedisce alla forma della rappresentazione, lasciando sullo sfondo l’esperienza dello sterminio che non può trovare una trascrizione dell’esperienza. Scrivere intorno a qualsiasi evento vuol dire accettare, magari inconsciamente, un genere di scrittura, il romanzo da una parte, il giudizio storico dall’altra, e poi la deriva dei frammenti per lo più consapevoli, di provocazione, nella loro nefasta armonia, il senso dell’orrore. La Shoah ha tuttavia sempre il residuo di un silenzio che la forma di distruzione di ogni tessitura umana, porta quasi necessariamente con sé. La letteratura che sempre attende con i suoi passi, le prove dello scrivere, svela, nel caso dell’Olocausto, il suo destino di finzione, una normalità che l’oggetto, la catastrofe dai volti infinitamente maligni, rifiuta per sé, e crea in ogni narrazione o il sospetto di un involontario falso, o di una nobile finalità, di un abisso emotivo che appartengono alla riflessione di chi scrive. Non è qui il caso di evocare esempi: per quanto mi riguarda ho l’impressione che la straordinaria e dolorosa avventura scrittoria di Primo Levi, abbia attraversato tutti e tre i casi che ho nominato, concludendo con la morte l’impossibilità di una trasformazione nella verità (che è sempre una “consolazione”) un’esperienza reale, inafferrabile nel suo orrore.
Il caso di Kertész mi pare profondamente diverso, se non addirittura il contrario. Tutta l’opera testimonia questa prospettiva, eppure per restare ai sintomi letterari, credo non sia indifferente osservare che nelle prime cinquanta pagine che sono il preludio dell’internamento del ragazzo Kertész (15 anni) ad Auschwitz e poi a Buchenwald, appare con un suo dominio, il verbo “osservare”. Forse non sbaglio se affermo che tutto l’anno di vita concentrazionario, pur configurato con una prevalente osservazione che è il punto di vista che consente all’osservatore di valutare nell’inferno, le strade per la salvezza. Nell’opera c’è una prevalente autobiografia che svela la vitale risposta adolescente allo sterminio, che con qualche aiuto della aristotelica fortuna, condurrà alla personale vittoria.
Nel suo libro uscito molto più tardi Lo spettatore. Annotazioni 1991-2001, Kertész svaluterà il suo periodo concentrazionario confermando che la sua vittoria è nata da uno spontaneo opportunismo, da una certa capacità di conduzione di se stesso, di favorevole complicità, da circostanze favorevoli.
Mezzo secolo dopo riduce il più possibile la sua figura di deportato dal potere nazista: la sua riflessione autobiografica passerà a tutt’altri temi: all’Olocausto come evento intrinseco alla storia occidentale, alla sua emarginazione di scrittore che non ha mai creduto di aderire a un’etica pubblica, alla fine della cultura occidentale. La catastrofe è una simbiosi tra il destino che i tempi regalano alla identità personale e il tramonto di una forma di autocomprensione culturale che ormai lascia il posto ad una intelligenza collettiva che incrementa un fare senza soggettività. Torneremo su questi temi, ma ora segniamo la storia di un ragazzo, a mio modo di vedere, vittima di un Destino che è quello del popolo ebraico nel delirio omicida nazista, ma anche signore di un destino nascosto, inconsapevole, capace solo della vitalità di un’esistenza volta, nella sua sofferenza, comunque a un avvenire.
Il titolo del libro di Kertész Essere senza destino, deve essere spiegato nel suo senso perché questa spiegazione è importante per comprendere tutto lo svolgimento dell’opera. La parola “destino” (che ha significati differenti) deve essere interpretata in questi modi. Vi è uno sfondo nel quale si può capire facilmente che cosa l’autore designi con la parola “destino”: è il percorso di vita che ognuno nella sua libertà ha diritto di realizzare nel mondo. È una concezione di un soggettivismo molto radicale in cui domina, al centro, la figura, nella singola individualità. Ovviamente il tema può diventare una massima morale, ma la sua rivendicazione può avere un senso fondamentale se non fa riferimento alla figura di un intellettuale o di uno scrittore. Nell’opera che stiamo esaminando non è questo il significato preminente: la sottrazione del destino avviene nella vita di un adolescente che è all’alba della sua giovinezza. Il ragazzo cade in una esperienza, quella del campo concentrazionario nazista, che appartiene, si può dire, a un destino storico nel quale cade disgraziatamente la possibilità di esistenza. La stessa esperienza drammatica del campo nazista viene vissuta dal protagonista come l’oppressione di un destino che il protagonista legge come una sorte toccata alla sua vita senza poterne disegnare il significato storico. L’ombra del destino torna quando il ragazzo dopo l’anno passato nel campo concentrazionario, si trova nella condizione di rinnovata libertà. Qui il destino gioca un duplice ruolo contradditorio e doloroso. Il ragazzo fa propria l’esperienza dell’anno passato in prigionia, e quando si dice esperienza non si afferma affatto una interpretazione univoca, come l’orrore, il terrore, la riduzione a un numero della propria vita, ma l’insieme delle situazioni spaventose, opprimenti, invincibili ma anche circostanze dove l’internato nel campo impara strategie difensive, rapporti non riducibili alle regole oggettive, apparizioni di personalità che, in un' aura di amicizia, concorrono a formare abitudini e aspettative interne a se stesso nel lavoro, nella alimentazione, nel riposo, nell’aspettativa. La vita concentrazionaria è un “processo di formazione” (con un andamento del tutto diverso dalla “formazione” dei romanzi romantici, ma con una similitudine per quanto riguarda il processo nella trasformazione). L’anno della prigionia viene restituito al ragazzo come un autoriconoscimento che ha la caratteristica di un proprio destino. I parenti che accolgono il ragazzo dopo la liberazione non sono in grado di capire che questo giovane rapito prima alla sua possibilità destinale, ma ora costruito secondo le destinazioni del suo percorso di vita. Tra le due sponde non c’è possibilità di decisione: il ragazzo è “diventato” quello che sente di essere dopo la prova della prigionia, e i parenti si appellano a un dopo che dimentica il tempo precedente. Il giornalista gli offre invece la possibilità di trasformare la sua memoria in un racconto pubblico, al quale il ragazzo si rifiuta. Non si può tradurre in un lessico di intrattenimento, se pure morale, la trama emotiva, intellettuale, personale che ha costruito la sua storia concentrazionaria. C’è l’orgogliosa solitudine di chi vuole conservare come un’eredità temporale il suo passato che viene ormai letto come un destino minore, rispetto alle grandi narrazioni, ma un destino che costituisce con la memoria del suo tempo, il solo riconoscimento individuale: qualsiasi altro genere di discorso lo deforma e perde nei suoi tratti vissuti con la risorsa delle proprie possibili passioni. Il destino perduto è diventato il cammino verso un destino ignoto, che solo comporta il consumo della sua vicenda adolescenziale.
L’opera di Kertész può convenzionalmente essere letta secondo quattro periodi, avventure del protagonista ciascuna delle quali costituisce, secondo, segni di esperienze diverse, il proprio protagonista.
Con due costanti fondamentali molto differenti ma fondamentali.
Per un verso è l’osservare situazioni, circostanze, personaggi, luoghi, paesaggi, il che comporta una particolare modalità di comprensione anche nell’osservatore. L’altra costante è la difesa naturale del se stesso, che va dal comportamento del “bravo detenuto”, alla sopportazione di pene inevitabili in un processo che mantiene la sua finalità, ma in una scena differente nel suo tragico sviluppo il protagonista convive, dopo tre mesi, con la propria decadenza fisica per il lavoro dai tempi interminabili, una ambientazione buona solo per una minimale sopravvivenza, la soggezione a comandi, regole e personaggi che adoperano “gli uomini” per la finalità della macchina concentrazionaria che è segnata dalla produzione utile al Reich non momento (1944) in cui appare chiaro l’esito di una atroce sconfitta, degna della vergogna morale della Germania hitleriana (queste sono parole mie, non dell’autore).
Parlavo di cinque periodi, che ora cercherò di caratterizzare con un breve elenco: Budapest, tardo inverno primavera, l’Ungheria viene invasa dai tedeschi che supportano il governo fascista dell’ammiraglio Miklós Horthy. Sotto questo governo gli ebrei vengono individuati e costretti a portare sugli abiti il distintivo giallo, ma non subiscono particolari vessazioni. Con l’arrivo dei tedeschi, gli ebrei, con il pretesto dei campi di lavoro, vengono deportati in vari campi di concentramento (e di sterminio). La tempesta si abbatte sulla quieta famiglia ebrea Kertész, una piccola azienda, la scuola (non amata) del nostro protagonista. Il padre viene reclutato subito per il lavoro obbligatorio: i preparativi per un trasferimento che viene pensato in modo speranzoso, come un’andata e ritorno. Poi è la volta del ragazzo e dei suoi compagni. L’accorpamento avviene in un luogo raggiungibile con tragitto in autobus. Ma una mattina l’autobus viene fermato, vengono fatti scendere i ragazzi ebrei che, dopo crudele procedura, vengono caricati su un treno per destinazione ignota. Il viaggio in 60 persone in vagone merci: alimentazione possibile ma assoluta mancanza di acqua. Dopo alcuni giorni li attende la squallida fermata di Auschwitz-Birkenau, come scendono dal treno comincia una selezione: da una parte gli abili al lavoro, dall’altra donne, bambini, vecchi, infermi: li attende l’eliminazione tramite il gas. Le ciminiere restituiscono un fumo bianco. I prigionieri che accolgono i nuovi arrivati dicono precipitosamente al ragazzo “di sedici anni”: è l’età che distingue chi andrà al lavoro e chi verrà eliminato. L’informazione è la prima salvezza: dai tubi che dovrebbero condurre l’acqua arriva il gas, i cadaveri vengono poi gettati nei forni crematori. Non appare evidente che il ragazzo avesse chiaro tutta questa procedura, tuttavia la sua percezione è quella di chi comprende che l’essere nel gruppo in cui sono anche i suoi compagni, significa avere futuro.
Ad Auschwitz la sosta è molto breve, solo tre giorni. Riprende il terribile viaggio che il ragazzo sopporta senza dispendio di paura e di deprimenti emozioni, riesce sempre a trovare un equilibrio personale. Il panorama di Buchenwald (come dice il nome) è molto diverso, prevale un verdeggiante boschivo e “tetti di tegole rosse sulle colline”. La procedura di accoglienza è la stessa, sulla striscia di tela c’è il solito triangolo giallo, una grande U (ungherese) e stampato un numero (64921) che è bene imprimersi bene nella mente perché nel campo è il proprio nome. L’abitazione è una tendopoli, il cibo è un po’ superiore alla esiguità di Auschwitz, c’è l’acqua, i servizi igienici sono all’aperto. C’è il crematorio, “ma vengono bruciati solo quelli che decadono”: il luogo al ragazzo appare come un campo accettabile, ma non è la destinazione definitiva: una notte di viaggio e viene trasferito a Zeitz, perché il suo nome, nella scelta, prende la M: cioè perde tutti i suoi compagni, i quali avevano costituito un gruppo dal tempo della “cattura” a Budapest. E del soggiorno nel campo di Zeitz che l’autore riceve la sua esperienza di deportato: “un campo di concentramento di provincia”: quivi avere cercato invano le docce e addirittura un crematorio. L’alloggiamento è una tendina. E da circa metà dell’opera inizia la narrazione quasi diaristica della vita del ragazzo Kertész dove accanto alle dure ore di lavoro si innesta un piccolo mondo che coinvolge i vicini nella tenda, le regole intorno ai tempi, l’intreccio delle conoscenze, l’ordine prezioso dell’amicizia, la conoscenza necessaria degli ordini, il dominio dei sorveglianti di vario grado ma tanti appartenenti ai deportati con varie nazionalità. Si assesta così una specie di vita quotidiana nella quale per limitare i danni e conservare quel nuovo “tutto” che resta di sé, conviene assumere la figura del “buon detenuto” che oggettivamente si vede nel comportamento lavorativo, e soggettivamente nel suddividere le razioni alimentari per non rischiare di restare senza mangiare. Ci sono tre risposte possibili per rispondere alla detenzione: la prima è l’immaginazione che comprende la vita passata non solo per ciò che è accaduto, ma per le occasioni che non sono diventate realtà. La seconda è cercare di prolungare almeno di un’ora il proprio sonno in un nascondiglio irraggiungibile. La terza soluzione è quella di tentare la fuga, ma i fuggiaschi vengono ripresi e impiccati. La resistenza alla fatica e all’oppressione appartiene dunque solo alle abilità personali: questo è l’equilibrio che un adolescente riesce a rendere possibile tra un destino che gli deforma crudelmente l’esistenza e un destino ravvicinato e fatale che coincide con la capacità di puntare sulla conservazione della propria esistenza. Tuttavia tre mesi di questa vita quotidiana hanno i loro effetti per la figura del detenuto modello. La psiche resiste alla violenza, adatta una tecnica di autopreservazione, ma il lavoro duro e interminabile, il sonno del tutto insufficiente, l’alimentazione oltre il limite della sopravvivenza, trasformano il corpo secondo una decadenza che è visibile in un viso dall’espressione quasi irriconoscibile, da una struttura corporea che pare portare i segni disastrosi di un’atroce vecchiaia, un corpo sul quale si manifesta la malattia, la scabbia, che dispone di indumenti sempre inzuppati di acqua piovana, i piedi imprigionati da zoccoli col tempo trasformati dal fango che diviene il luogo del proprio movimento. Al sorvegliante - tutti i sorveglianti (bisogna ricordarlo) sono detenuti di varie nazionalità che sono stati promossi di grado e godono di qualche privilegio - occorre chiedere il permesso per recarsi a una latrina a causa di una devastante dissenteria. Un incidente che accade sul lavoro viene punito con una bastonatura che il corpo ormai quasi insensibile non avverte nelle sue conseguenze. Ma peggio di tutto una sacca di colore rosso vivo che si è formata sul ginocchio: è un’infezione che coinvolge tutta la gamba. La terapia richiede un intervento chirurgico che il medico chiede al ragazzo se si sente di affrontare. Nella bolgia del campo di lavoro, è la prima volta che gli viene chiesta un’opinione personale. Il ragazzo si sente per un momento vivente come un soggetto. Le necessità della terapia richiedono un ospedale più attrezzato di quello che non fosse nel piccolo campo. Il detenuto spossato, perito, affannato, insonne, tormentato dalle pulci e dai pidocchi viene rispedito a Buchenwald come tutti coloro che a giudizio dei medici (anche loro internati nel campo) non avrebbero più potuto riprendere il lavoro. Il solito viaggio penoso con le ferite aperte per l’operazione. L’arrivo a Buchenwald significa l’essere messo a terra su uno strato di ghiaccio e sotto una pioggia gelida: il ragazzo vive come assente la sosta che gli è toccata e gli nasce il sospetto più che verosimile di essere destinato all’eliminazione. La realtà che lo attende è più favorevole: “una voce gradevole, maschile, gentile, e il tedesco da lager” gli giunge come una promessa: “Was du willst noch leben”. Viene trasportato in un luogo dove da rubinetti più alti cominciò a scorrere “abbondante e generosa”, dell’acqua calda. Non è affatto la ripetizione dello stile proprio di Auschwitz per l’eliminazione. Il luogo finale di quest’ultimo transito pieno di interrogativi è invece una specie di ospedale adibito ai ragazzi della sua fascia di età. La cura è affidata a un medico francese “con una fascia sulla manica e il segno rosso con dentro la F”. Il medico è del tutto benevolente, ma i ragazzi lo beffeggiano perché è ungherese. E qui inizia la parte forse più interessante dell’opera con la descrizione delle condizioni di vita dello strano ospedale, il rapporto amichevole con Pyetko un sorvegliante amichevole, un nuovo intervento medico sulle ferite precedenti. Il ricovero nella piccola stanza di ospedale è quanto di meglio si possa desiderare: “devo ammettere che non posso proprio desiderare di più che non posso pretendere di stare meglio in un campo di concentramento.” Il ritorno a Buchenwald e le condizioni favorevoli con il ricovero all’ospedale del campo hanno ridato al ragazzo la certezza che da lì sarebbe uscito vivo e libero, che viene concepita nella possibilità di mangiare. La propria salvezza è la difesa del corpo, il futuro è inteso come aspettativa sicura di mangiare un’altra volta. La libertà è costruita in questa semplice ma fondamentale dimensione, priva di parole simboliche. E da qui si potrebbe iniziare il discorso intorno al senso che il ragazzo percepisce nel valutare la propria vita di internato nei lager tedeschi. Il suo giudizio della propria sofferenza e della propria salvezza si determina su due silenzi che dovremo considerare. Il ragazzo non si identifica con la prospettiva che gli mettono davanti i parenti: sei passato per l’inferno ed ora comincia una vita del tutto libero. La risposta a questa semplificazione è di rifiuto totale. La propria vita non può essere divisa in due parti disgiunte dalla dimenticanza, dalla cancellazione. La soggettività vive la continuità del proprio tempo: quello dell’anno precedente è stata la vera risorsa vitale per affrontare senza interiori smarrimenti o inutili precipizi della disperazione le condizioni di deportato e quello successivo che ne porta i segni. Dimenticare è una banale stupidaggine verbale: “si è diventato”, ma è un sapere privo di orizzonti enfatici. La vita libera si prende come essa si offre, e non è affatto sempre una opportunità, talora può essere una circostanza che è estranea alle stesse possibilità del linguaggio della memoria come forma della propria solitaria salvezza. Quivi si può leggere il rifiuto del ragazzo a collaborare con un giornalista, del resto volonteroso e buon interprete della sua professione, al fine di scrivere articoli sulla esperienza dei lager. L’esperienza cui è stata costretta la propria vita non può diventare una notizia oggettiva, l’oggettivazione storica come “dicotomia”, circostanza esteriore per esibizioni di orrore teatrale, di scandalo morale. Deve rimanere nel segreto dell’essere se stessi. Il consumo del proprio tempo, i nuovi ostacoli o incontri collocheranno il tempo del lager come una qualità della memoria o come l’ironia della dimenticanza. Il ragazzo diventerà il premio Nobel Imre Kertész, ma, almeno al suo interprete, parrà una figura da sempre capace di individualismo irriducibile ed ogni forma pubblica, difeso da una rimostranza alle condizioni che pure saprà aprire nella propria vita. Uno scrittore ungherese, eppure scrive e parla una lingua nazionale che solo pochi conoscono, e quindi tale che condanna il modo di poter vivere di un autore, una condanna a una povertà della propria individualità. Quest’ultima proposizione è certamente derivata nella mia scrittura da Wittgenstein, un autore che lo scrittore conosceva bene ma soprattutto sul celebre rapporto tra discorso e silenzio. In questo quadro è lecita la domanda: “che cosa di preciso ricordava il nostro autore?”. Posto che il ricordo è soggetto a molte circostanze che ne provocano selezioni, deformazioni, trasformazioni, spesso secondo dinamiche emotive che riguardano il soggetto, la sua maturazione nel tempo, le modalità scelte per incrementare la propria autostima e per mostrare agli altri un ideale se stesso. Inoltre, memoria estrema è quella che è accaduta a Jean Améry, citato nel libro di Primo Levi I sommersi e i salvati: “Chi è stato torturato rimane torturato […]” “chi ha subito l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita dalla tortura, non si riacquista più”. Améry si uccise, e uguale fu la sorte di Primo Levi perseguitato da quel se stesso vittima della ferocia nazista e probabilmente incapace di riconoscere il se stesso di Auschwitz con la sua stessa descrizione letteraria dell’orrore del campo, di sopportare un se steso scrittore di una abominevole atrocità oggettivata e dall’oppressione che il tempo non aveva cancellato nel profondo di se stesso. Imre Kertész è fuori da queste impossibili sopportazioni. Riuscirà a diventare solo un importante scrittore e a osservare se stesso scrittore come da ragazzo prediligeva, inconsciamente, l’osservazione nel mondo a qualsiasi altro sentimento che potesse nascere dall’esperienza.
Il libro Lo spettatore, pubblicato poco prima della morte di Imre Kertész raccoglie annotazioni tra il 1991 e il 2001. La sua lettura è emozionante perché il suo “diario” (il genere ci è dato dall’autore stesso) non conduce su una “retta via” che coincida con la certezza di se stesso, ma proprio, quasi al contrario (salvo eccezioni anche di considerevole importanza) nasce spesso da una frattura che trasporta una sua antica predilezione, l’osservare, nell’ambito di se stesso. Ma anche su questa considerazione bisogna venire in chiaro. Il genere “diario”, come insegnano gli esperti di questi problemi, non è affatto una figura letteraria univoca. Consideriamo due estremi: c’è il diario (se esiste) di chi ha comandato la Quinta Armata americana nel ’43 - ’45, ed è una raccolta di fatti che già si inscrivono nella “storia”. E c’è il diario “intimo” che vuol fermare sul foglio il suo modo emotivo di aver partecipato alla vita: in questo caso un pensiero che vede una confidenza di qualche minuto, si dilata sulla pagina fino a diventare un racconto.
Il caso del diario del nostro scrittore ha una sua completa originalità: il titolo conduce sulla giusta strada: Lo spettatore. Osservare, guardare, diffidare rispetto a ogni condivisibile generalizzazione rispetto a che caso? A quel se stesso che, necessariamente, si trova “gettato”, in possibile forma di vita, in possibili ordini di giudizio, in possibili valutazioni condivise, cioè in un mondo, e osserva, spiega, giudica questa relazione, sia composta o meno, come una scena un poco simile a un giudizio del sé che scrive e del sé che viene scritto. Però non bisogna immaginare uno specchio che ti restituisce l’immagine, ma piuttosto un osservatore che frequenta tutti i sentieri del possibile, del razionale, dell’immaginario, dell’umore personale e della catastrofe oggettiva, delle stagioni dell’equilibrio e dei ricordi dello smarrimento.
Se le cose stanno come ho cercato di riferirle, non è difficile ritenere che sia difficile dare all’opera un resoconto soddisfacente o, addirittura, esaustivo. Nella nostra rete resteranno solo alcuni temi che sono importanti per lo scrittore e rivelazioni (o quasi) per il lettore “critico”: credo che da questa situazione non si possa uscire se si considera l’opera nel suo insieme. Per evitare lo smarrimento ho fatto quello che non si dovrebbe fare di un diario: ho selezionato i temi il cui senso ho appena ricordato, ho confezionato sempre una serie di sicuri giudizi: un autore come Kertész troverebbe questa soluzione di bassa misura, di intrigo intellettuale, di oggettività gnoseologica. Qualcosa del genere capita con tutti gli scrittori, con Kertész diventa più clamorosa.
Il titolo di queste note dal 1991 al 2001 è perfetto: Lo spettatore. Tuttavia bisogna sapere che sia questo spettatore, poiché non tutti gli spettatori sono uguali e le loro differenze si possono trovare in un modo molto semplice, cercando a nostra volta di comprendere quali sono gli affetti dello spettatore. E poiché Kertész sostiene che la grande letteratura è solo confessione dobbiamo porci da questo punto di vista. Nelle sue note parla anche di una sua “evoluzione” è un punto di vista un poco diverso perché valorizza il processo della vita, data la metafora biologica, mentre la confessione mette in luce i fatti che se non sono affatto peccati, hanno tuttavia il loro carattere che è certamente individuale e non storico. L’autore medesimo ci mette su questa strada: l’osservatore in ogni circostanza ci dà l’elaborazione personale di immagini che derivano dalle opinioni di un’immagine costante di un soggetto che si pensa come ebreo. In questa destinazione tutta la filosofia diventa poesia e occorre soffermarsi a questo livello: se si traduce il ricordo o il giudizio nei “grandi sogni” non si è più osservatori. Anche il precedente concetto di evoluzione è una contraddizione o, più semplicemente, una abitudine narratologica difficile da dimenticare. Sono gli anti-semiti che costruiscono l’ebreo che è conservatore della grande cultura europea da Mann a Proust, da Brecht in avanti: esso è anche uno scrittore che costruisce un “ebreo” contemporaneo e sociale che non ha niente a che vedere con la grande massa di ebrei poveri e osservanti che sono l’oggetto letterario di Roth e di altri grandi scrittori di queste comunità ebraiche che sono state l’oggetto di sterminio della ferocia nazista.
Il nostro autore è contro la civiltà contemporanea dominata dal tecnicismo, dalle forme pubbliche di pensiero di natura operativa e, soprattutto, delle forme politiche che hanno reso impossibile l’autore. Se vogliamo evocare un Nietzsche che non può non lievitare in queste pagine, allora è il Nietzsche della Nascita della tragedia (la espressione poetica) contro la potenza che diviene regime politico: il nazismo che distrugge tutti i valori che identificano l’umanità, il bolscevismo che provoca lo stesso effetto ma come conseguenza necessaria dell’affermazione del potere, la democrazia occidentale perché vuole ridurre a se stessa tutto il mondo. Allora l’autore in un mondo dominato da questi rapporti di potere e di annullamento della creatività soggettiva, dove si può collocare? In quella radicale de-storicizzazione dell’esistenza che è il rapporto tra la vita e la morte. Ma se questo è lo spazio per l’autore, come si configura la vita del personaggio che è in un mondo che impone se stesso e le sue regole, e il cui destino deve essere come autore proprio quello di promuovere la dimensione spirituale dell’esistenza? In questo senso è aperta solo la strada dell’assoluta solitudine soggettiva, della virtù senza relazioni: anche la relazione d’amore stabilisce un effetto eteronomo, una teatralità non priva di esercizi di potere. La scena teorica è drammatica. Ma quando si scende dall’eco estremo della parola all’esprimere comune di un autore che, al di là del suo discorrere radicale, vive la condizione del quotidiano, allora troviamo l’apparizione di due città. Budapest è la città dell’oggettivazione, delle persone-cose, del fare che è solo interiorizzazione del dominio. Vienna, al contrario, conserva qualcosa nel reciproco riconoscimento sentimentale che nel gesto comune rispetta, nell’eleganza dei tratti, anche i fini semplici, la vita segreta di ognuno, non sente rovinosa la distinzione tra interiore e sociale.
Poiché Kertész si definisce scrittore dell’Olocausto, su questo tema dovremo fermarci per trovare il suo senso e, a mio parere la trasfigurazione metaforica troppo lontana dalla tragedia proprio perché essa nasce da una considerazione “metafisica” della propria libertà come scrittore: la sua condanna (a 15 anni) diviene il simbolo dell’Olocausto. È chiaro che in questa prospettiva gli elementi complessi e tragici della Shoah finiscono nell’avere una considerazione ideale, una storicità di un disegno di una metafisica storicità. Non hanno distrutto Auschwitz perché è Auschwitz, quindi per la sua esistenza come realtà che appartiene come capitolo inconfessabile della storia europea, ma perché è cambiato il sistema di potere. La prospettiva nella quale collocare un qualsiasi discorso sul campo di sterminio va collocato nel “fallimento dell’Europa”. Questo giudizio, che ha una sua potente forza espressiva, svanisce tuttavia nella sua generalità. Il fallimento dell’Europa, un’Europa da capire nelle componenti che ora dobbiamo richiamare, è data da alcuni elementi che le conferiscono un’identità. La prevalenza di una cultura tecnico-scientifica che costruisce una sua oggettività che chiama inesorabilmente nella sua funzione l’insieme delle risorse umane. “La mia cultura - dice lo scrittore - è l’Olocausto”: sono la scrittura dell’Olocausto anche quando non scrivo dell’Olocausto, al contrario degli scrittori ungheresi, con l’eccezione di Márai, che son del tutto esterni al massacro dell’esistenza umana come creatività spirituale, non ne percepiscono il senso che conduce alla consapevolezza della fine di una cultura bimillenaria. La prospettiva che oblitera il senso di Auschwitz è la sua riduzione a un evento storico: Hitler è l’omicida dell’umanità sin dai suoi progetti e dalle sue azioni degli anni Venti, il potere gli ha conferito una diabolica macchina burocratica che gli ha consentito di immaginare la razza tedesca come dominatrice dell’Europa, e signore della storia, con la sua distruzione degli ebrei e la sottomissione a macchine servili i popoli che devono essere sottomessi. Un giudizio di questo genere rispetta i fatti accaduti, ma non ne esplicita il senso che si svela nel suicidio della cultura europea. In Kertész siamo al giudizio sconvolgente secondo cui “si dovette vivere Auschwitz, sia che si fosse vittime o carnefici”. Un giudizio che non è condivisibile nemmeno in minima parte, ma che nel disegno dello scrittore conduce ad un auto-esame che nella forma più completa è l’“autodistruzione sacrificale”. Questa prospettiva che è la risposta degna e possibile ai criminali nazisti che si elabora in uno scenario privo di una giustificata giustizia storica, ma passa attraverso l’identità nostra che nella modernità abbiamo costruito. Il suo riflesso è nella figura dello scrittore che giudica la propria opera all’altezza o meno della temporalità tragica dell’Olocausto, che non è un mondo della letteratura, ma la letteratura come disegno della catastrofe europea che passa attraverso la propria vita. Vita che non può comporsi in una identità: la memoria conduce alla rivendicazione dello “spirito”, contro l’assassinio dell’umanità, l’altra parte di sé finisce dall’essere formata da quella quotidianità scellerata che il giudizio comune ritiene neutra, o il luogo in cui si distingue il bene dal male, il discorso sull’Olocausto del grande scrittore che con le sue parole raggiunge la sorda coscienza degli ascoltatori ignari del proprio gratuito teatro.
“Ho atteso 60 anni per scrivere quello che ho detto e la vita se n’è andata”. Per questa prospettiva quando “si dovette vivere” il ruolo che ci era capitato, è assurdo chiederci perché non c’è stata una resistenza ebraica (convinzione del resto non del tutto esatta): la resistenza ebraica (per lo scrittore secondo l’identità tra l’ebreo e l’alta cultura) è la conservazione del passato che aveva aperto la vita dello spirito. L’essere ebreo coincide con la libertà personale che, a sua volta, è l’unico comportamento possibile che concede di distinguere tra ideologia ed esperienza vitale. Se “gli ebrei” sono una costruzione dello sguardo dell’altro, bisogna concludere che l’altro è una costruzione storica, il desiderio osceno della distruzione di ogni apparizione umana che prospetta una possibilità della vita che vada oltre al trovarsi sulla terra senza sapere che cosa fare di sé, una attesa di una collettività folle e aggressiva e gloriosa nella sua identità paranoica (non sono parole dello scrittore) che legittimi, anzi idealizzi, lo stile distruttivo della sua esistenza. Lo stile nazista appartiene a tutti coloro che non sanno trovare un senso al loro posto nel mondo, e attendono che una ideologia collettiva conferisca un loro senso, la cui propria esistenza riesce forte e coesa se crea una alterità verso cui rivolgere la propria potenza e il proprio dominio. L’ebreo nella ideologia nazista è questa figura, ma questa figura è resa possibile da una cultura che materializza l’uomo, ne fa una figura insofferente di ogni valore ideale. E questo significa distruggere le radici dell’umanità e quindi fare dell’Europa una “terra desolata” nei confronti della quale io, come scrittore, cerco di opporre un ebraismo simbolico che congiunge il mio lavoro a una grande storia che è una creazione epocale e non una storia didattica che immagini con la violenza una sua redenzione.
C’è stato un attimo - dice Kertész - in cui poteva sembrare che la rivoluzione facesse apparire nel mondo l’espressione dei valori spirituali: è stata la brevissima speranza della Rivoluzione russa che ha immediatamente praticato una delle forme del potere che annullano l’esistenza umana. Vivere umanamente significa tracciare nel mondo strade simboliche che nascono dalla libertà creativa degli artisti. C’è certamente in Kertész l’idea che l’educazione dell’uomo, il farne un essere libero dalle contingenze materiali, abitante di un luogo privo di domini e di potere, appartiene ad una élite - culturale. L’ “ebraismo simbolico” è rappresentato nell’Apocalisse, Nietzsche, Camus (suppongo il primo Camus, l’esistenzialista dell’assurdo), Kafka, Beckett, un patrimonio culturale che si congiunge con la grande tradizione borghese: Mann, Joyce, Proust. La poetica letteraria di Kertész vuol essere il ricordo di questi valori il cui odio ha condotto alla tragedia dell’umanità. Ma un buon ricordare richiede il conservare una parte limpida di sé contro quell’uguaglianza materiale che ha la sua pratica nel consumo e il suo spazio nella globalizzazione economica. Lo scrittore deve ritrovare in sé la libertà che quella distruzione criminale di Auschwitz ha voluto distruggere. Credo che nessun lettore dello scrittore non si accorga che lo sterminio di milioni di ebrei in queste pagine ha assunto un valore metafisico che può essere considerato come fosse la storia stravolta, frustrata, colpita della libertà spirituale dove la poesia è il destino più alto dell’umanità, una volta che un tempo (ecco il ricordare) apparteneva al patrimonio dell’Europa. C’è un nazismo - replicherebbe l’autore - che è la distruzione dell’uomo senza bisogno dello sterminio con le camere a gas.  Questa metafora che corre sempre nelle notazioni dello scrittore non è certo la migliore storia di Auschwitz. L’aver voluto abbandonare ogni differenza nella storia quotidiana degli uomini per adire a una grande storia ha finito con lo sproporzionare gli eventi che diventano il pretesto tragico per una vocazione estetica. La memoria è l’occasione privilegiata non la pietà o la rivolta del pensiero. L’apoliticità fomenta la trascrizione delle tragedie storiche in un problema sul senso della letteratura, e, quasi, sulla vita dell’autore.
Queste considerazioni credo possano aiutare a comprendere il giudizio di Kertész su Auschwitz che riprende la famosa tesi di Hannah Arendt sulla banalità del male. E qui non bisogna equivocare: il male può essere senz’altro l’esercizio di una burocrazia che esegue una finalità senza porsi il problema del suo senso. Ma il male, il progetto criminale, l’ossessione anonima viene prima sia della sua burocratizzazione, sia, aggiungo io, della sua adesione di massa. E questo secondo tema non è estraneo al nostro scrittore che si trova, quanto alla massa, in una valutazione opposta a quella elaborata da Canetti. Piuttosto vi è certamente l’eco di Nietzsche, dove il gregge devoto valorizza la criminale attitudine che è inscritta nella stessa devozione a una legge. Kertész pare abbia ridotto il diritto alla libertà dello scrittore, tormentato dal senso del suo lavoro, che soffre al misconoscimento del suo tema ungherese, ma è aperto a un’attenzione ben più ampia, che pure lo mette in sospetto.
È il solito problema della cultura che vorrebbe anche essere educazione di massa, dove Auschwitz gioca il ruolo più basso dell’inferno per l’uomo. La libertà dello scrittore è tuttavia sempre invasa dalla polvere del quotidiano, lo spirito è segnato dall’ombra del negativo. È un problema serio che Kertész ha dovuto sentire più di quanto comunemente non accada. Ma quante volte Hitler nei suoi folli discorsi ha chiamato il popolo (questa l’identità semantica) a condividere la sua identità con l’assassinio di milioni di uomini?


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Un filosofo e un giovane antropologo 
alla ricerca della teoria
di Fulvio Papi

Ugo Fabietti

Quando Ugo Fabietti venne a Pavia per continuare con me gli studi di antropologia iniziati a Milano con Remo Cantoni, la sua “aurorale” cultura antropologica era certamente più attrezzata della mia.
Ugo aveva studiato analiticamente Malinowski, grande antropologo funzionalista che aveva elaborato un modello di intelligibilità delle varie culture in una storia culturale dell’antropologia, e si trovava in un punto privilegiato per stabilire relazioni fondamentali e necessarie con altre correnti di questa cultura.
Dal canto mio potevo offrire una passione emotiva e un poco ingenua per le formazioni culturali che erano rimaste estranee alla “occidentalizzazione” del mondo. “Tristi Tropici” (oggi oggetto di critiche severe) aveva lasciato una traccia molto forte, così come gli altri lavori per così dire “narrativi” di Lévi-Strauss.
Dal punto di vista astratto, da marxista critico (come si diceva allora) mi ponevo, anche per le società più semplici, il problema del rapporto tra la base economica e produttiva e le forme culturali, le modalità organizzative di una comunità, le strutture familiari ed educative.
Mi ponevo, anche stimolato da audaci psicoanalisti, il problema dell’inconscio in una forma di esistenza che non aveva niente a che vedere con i disagi psicologici dell’alta borghesia viennese, che era stato il campo dell’indagine, molto problematica, di Freud. Nessuno può ritenere che queste mie escursioni potessero rappresentare un sapere antropologico.
Si trattava di esplorazioni culturali di un filosofo inquieto che, nella sua limitata proporzione, forse ripeteva quel malessere intellettuale che a metà degli anni Trenta (da Lévi-Strauss a Sartre) percorse la più giovane cultura francese nei confronti della grande tradizione razionalista. Allora però non avevo affatto questa interpretazione.
Comunque questa era l’atmosfera culturale che potevo offrire a Ugo, il quale, per conto suo, aveva già una embrionale attitudine verso un sapere, l’antropologia culturale, che cominciava a costituire una tradizione. Così potevamo studiare insieme.
Probabilmente per una suggestione antica del mio marxismo, nel quale, tuttavia, le riflessioni antropologiche di Engels non avevano alcuno spazio quando si trattava di teoria, nelle lunghe conversazioni all’ombra dei boschetti dell’idroscalo di Milano, tornava sempre in primo piano il rapporto tra le forme di riproduzione economica e quelle relative all’ordinamento sociale. Ugo, d’altro canto, aveva preso contatto a Parigi con Meillassoux, un valente antropologo di tradizione marxista, del quale a me era nota l’interpretazione classista del razzismo occidentale in Sudafrica.
A me pareva che avessimo già alcuni elementi teorici per tentare una nostra impresa antropologica (dico “nostra” perché il rapporto con Ugo era molto stretto). Così che la tesi di laurea di Ugo fu centrata sul rapporto tra produzione economica e forme della cultura in una popolazione amazzonica.
A Pavia qualche collega ci guardava più con diffidenza che con curiosità.
Ma Ugo (e anch’io) vinse la sua partita anche locale guadagnandosi l’attenzione di Cesare Segre che, attraverso la conoscenza dello strutturalismo linguistico, era giunto alle soglie della conoscenza antropologica, allora in ascesa.
Vorrei ricordare che era anche il tempo di giovani antropologi estremisti che usavano la conoscenza di società semplici prive del valore di scambio, dell’apparato statale e giudiziario, delle varie forme di obbligazione sociale, per contestare la nostra società prigioniera di una prassi e di regole interpretate con la parola freudiana “repressione”, parola tuttavia deviata dal suo significato originario. Ugo capì subito che qui vi era una festa ideologica rousseauiana, un po’ di maniera ma nient’affatto una conoscenza antropologica, quale era l’obiettivo della sua ricerca. Credo che oggi mi sia consentito di dire che da parte di Ugo si trattava di una ricerca critica intorno a forme di realtà.
Un obiettivo che ha sullo sfondo un’educazione sotterranea del nostro razionalismo critico, e in prospettiva la formazione scientifica di una particolare figura di studioso. Ugo, infine, partì per l’Arabia poiché il richiamo della teoria antropologica (come quella estetica, storica, politica, scientifica) si deve esercitare sul campo. È con questa esperienza, una severa autoeducazione, che si diventa antropologi.
Il proprio patrimonio filosofico, così come c’era in Ugo, si trasformava in una implicita criticità, quindi in un senso del proprio lavoro come conoscenza.
Qui abbandono la mia memoria perché la strada di Ugo ormai apparteneva tutta alla sua esperienza. Diventavo, come deve essere, un suo lettore.
E poi, quando ho perduto Ugo, il suo sorriso affettuoso, la sua parola sapiente e amica, ho dovuto fare l’esperienza di quel vuoto definitivo che, nella teoria, ho sempre opposto all’elaborazione freudiana del lutto.
Abbandonando “il pensiero” ai suoi privilegiati labirinti, a una vecchia vita rimane il suono di un dolente “mi ricordo”.

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La prova del mondo e la parola di Gesù
di Fulvio Papi


Per una lettura del Vangelo secondo Matteo

Il Vangelo secondo Matteo che noi comunemente leggiamo è il risultato di un processo di “canonizzazione” il cui processo sarebbe interessante conoscere nelle sue forme di storicità. Quello che conosciamo intorno al testo di Matteo lo dobbiamo a studi storici già acquisiti dai quali possiamo derivare una considerazione molto importante che deve aiutarci nella nostra lettura. Matteo non è simile a uno scrittore che scriva di sua iniziativa un testo originale. Il suo testo assomiglia piuttosto a una collocazione “storica”, di tradizioni orali o di copisti che si collocano in un tempo piuttosto breve, che elabora (e ricorda) l’evento di Gesù nella cultura ebraica. In questa prima memoria cristiana, il testo di Matteo è un assemblaggio testuale che ha un suo autore che mostra come la figura e l’opera di Gesù, dopo la sua morte, abbia avuto una sua eco sociale e religiosa che ha dato luogo a piccole comunità omogenee che nei Vangeli trovano la propria origine storica, il proprio riconoscimento, e la propria appartenenza. Anche a questo livello, che vede la prima diffusione del Cristianesimo, sarebbe importante stabilire, al di là dei Vangeli “sinottici”, la diffusione di questi testi, le loro origini e le loro funzioni culturali che comprendono quelli che nel mondo ebraico sono convertiti nel mondo greco-romano “cristiani”. Quello di cui siamo del tutto certi è che si trattò di un processo espansivo piuttosto rapido (e anche questo è un tema storico molto importante), come risulta chiaro dalle lettere di San Paolo che rispondono a quesiti che sono propri di ogni comunità. Ora lasciamo queste generiche osservazioni che aprono ai competenti un ampio settore di ricerca, e per noi servono solo come una introduzione a quelli che ho deciso di chiamare “temi di lettura” del Vangelo di Matteo per suggerire che, per quanto riguarda il mio lavoro, c’è sempre uno iato tra una possibile ed esperta opera di “oggettivazione” e il lavoro di comprensione che deriva dalla situazione di cultura, dal modo di esistere e quindi di linguaggio di chi è stato tratto da questo proposito.
È abbastanza ovvio osservare che coloro che si affidano a un autorità scritturale siano già da pensare come una comunità: è proprio la scrittura a costituire l’autonomia spirituale dei credenti, che non solo si riconosce ma si diffonde in una pluralità di luoghi secondo l’autorità scritturale che pone il problema della verità che nella propria vita personale diviene la fede. La scrittura dei Vangeli pone un problema fondamentale nella nostra civiltà: il rapporto complesso tra la fede, dimensione di un auto-riconoscimento personale, e l’esercizio sociale di una giustizia la cui verità è custodita da un gruppo sociale privilegiato, organico e potente. La dimensione della fede, come vedremo, mette in crisi il principio di autorità e dà a ciascuno la responsabilità di se stesso; nasce l’individuo che in se stesso, nella sua fede, apre la dimensione dell’universalità. Il che non significa che si determini una comunità di individui che in questa prospettiva si riconoscano reciprocamente e in questo riconoscimento formino una comunità, una “chiesa”.
Dunque Matteo non è uno scrittore (sebbene la sua scrittura su temi così decisivi abbia necessariamente una memoria lessicale che filologi di prima grandezza possono ritrovare), ma è piuttosto un testimone di un evento che muta il modo di stare nel mondo da parte degli uomini. L’effetto della scrittura è coordinato al suo scopo: è la ripetizione mondana di una rivelazione. Che è il senso della vita di Gesù, non la narrazione (come è stato giustamente notato) della sua vita come individuale esteriorità. Tra questi due estremi si può trovare l’interrogativo intorno alla folla che segue Gesù. Gesù predica a una folla ebraica e mostra la sua linea di continuità con le narrazioni profetiche del Vecchio Testamento presentandosi come il Messia annunciato dalle scritture stesse. Gesù è il profeta del momento terminale del mondo che deve ristabilire un equilibrio tra l’originaria creazione da parte di Dio e la prevista e necessaria caduta del mondo stesso nel baratro della colpa e del peccato. L’esperimento di Dio del mondo ha avuto il suo tempo e, senza il peccato d’origine, l’uomo non potrebbe che replicare il regno di Dio nella sua forma antropologica. Le Scritture insegnano che l’uomo diventa quale è solo attraverso la fine della ripetizione mondana di Dio: è nella fine della ripetizione che nasce la convinzione superba dell’autonomia umana, dei suoi sentimenti e delle sue leggi e quindi, contemporaneamente, della offesa a Dio e della espiazione della propria colpa che, nella terra, appare la destinazione di morte e, rispetto a Dio, il momento del giudizio.


Il mondo ha una temporalità che è simile a quella antropologica: si può dire infatti che il giorno della sua fine - il ritorno a Dio - come una prova che ha la sua scadenza, se non è calcolabile (sarebbe una centralità umana) tuttavia è sicura a livello delle certezze che formano un sapere comune. La prova che Dio compie nel mondo sarebbe destinata, per la diffusione del peccato e/o della colpa, a una catastrofe universale, se non vi fosse nel mondo una possibilità di salvezza che si apre con la storia di Gesù. Questo è il quadro universale nel quale bisogna leggere il destino di morte del Salvatore, così come la fede nella sua figura divina che, in un destino storico, è la fondamentale possibilità di salvezza. Questa è la narrazione del Vangelo che, da uno scenario universale, conduce a una vicenda storica che ha una sua possibilità di narrazione.
Il divino e l’umano si trovano in relazione, coesistono nel senso e nella storia fattuale. La relazione fondamentale tra i due livelli è la fede. La fede è un modo d’essere che non può essere scritto in una dimensione giuridica: il popolo ebraico nella sua pratica quotidiana deve osservare la legge che deriva dall’Antico Testamento, che è ragione di convivenza collettiva e di ordine sociale. Tuttavia, se l’ordine della legge diviene un elemento fondamentale della pratica religiosa, esso restituisce al mondo la peccaminosa condizione originaria di colpa che diviene una disciplina sociale amministrata dai sacerdoti del Tempio. La distanza irreparabile tra Dio che ha creato il mondo e l’uomo, che ha trovato nella colpa nei confronti di Dio l’autosufficienza delle proprie virtù mondane, viene riparata, immanentizzata nella funzione ordinativa della legge e dei poteri socialmente considerati legittimi. È il potere terreno dei grandi sacerdoti farisei e del complesso ordine cerimoniale che tocca al popolo ebraico dalla nascita, dalla circoncisione sino agli obblighi giuridici, e si stabilizza in una autoritaria convivenza: la convinzione di realizzare sulla terra un regno divino. È questa convinzione che spoglia ogni creatura dall’essere creatura divina e stabilisce che il rapporto tra uomo e Dio appartiene al sistema giuridico e cerimoniale dei grandi sacerdoti. Ciò che è tolto all’uomo è quella libertà che, se nella sua presunzione ha condotto a una colpa umanamente irrimediabile, costituisce tuttavia anche la sua figura nel mondo e il valore che essa assume nei confronti di Dio.
La fede non è una certificazione giuridica che si può far valere come prova della propria innocenza, valida per il tempo che resta. La fede è un atto che impegna l’individuo in ogni momento e in ogni circostanza, diviene la sua essenza, quasi la trasformazione della sua figura antropologica. Un processo che nessuna esteriore certezza può garantire nella sua permanenza. Anzi: l’abbandono della fede appartiene alla debolezza della natura dell’uomo, il cui credere appartiene al suo irrimediabile limite, o al timore per la propria esistenza, se la fede viene messa di fronte al rischio di una repressione che mette in gioco la propria vita. Ma questo è un destino che può essere evitato se la propria fede è il riflesso della fede dell’altro: si creano così le comunità, che sono il risultato della prima diffusione della parola di Gesù in luoghi lontani tra loro, ciascuno già con i suoi problemi specifici, con le sue domande ulteriori, con un effetto di selezione dottrinale, come risulta dalla lettura delle lettere di San Paolo, tra tutte la Lettera ai romani. Tra la folla che segue la predicazione di Gesù e queste comunità non c'è solo una distanza temporale, ma una distanza religiosa che è segnata dalla Croce di Gesù e dalla sua resurrezione, dal compimento di un tempo e dall’inizio di una nuova temporalità.


C'è una domanda cui Matteo non risponde, proprio perché le fonti che utilizza non lo consentono. Come va compresa la folla che segue Gesù e che per due volte appare in primo piano priva di mezzi di sostentamento? Sui miracoli vedrò di tentare una ragionevole ipotesi; sulla folla che segue Gesù si possono immaginare diverse modalità di ascolto, anche se il testo di Matteo fa pensare all’ascolto di un Messia con possibili intensità di persuasione. Ma è il contenuto della predicazione di Gesù che viene interpretato come un pericolo rilevante per l’equilibrio del potere religioso degli importanti sacerdoti farisei, un potere che arriva a garantire la saldezza dei rapporti familiari come reticolo dell’affetto individuale. La predicazione, dice Matteo, è una spada che taglia tutte le forme individuali o pubbliche che non mettano in primo piano la relazione di ogni uomo con la fede in Gesù come portatore di una redenzione del mondo. E allora, come interpretare la folla? Che cosa pensa quella folla del doppio miracolo dei pani e dei pesci? È sufficiente la partecipazione alla predicazione perché essa venga intesa come prova di una fede che sarà sempre la condizione per le innumerevoli guarigioni che, in diverse situazioni pratiche, Gesù ha realizzato nel suo cammino a diverse figure sociali. È un errore credere che il miracolo della guarigione nasca da una relazione di pietà: la pietà può avere il suo richiamo solo se chi la chiede mostra la sua fede in Gesù. E allora possiamo fare questa semplice osservazione: come la fede è uno stravolgimento dell’ordine pubblico della vita, così la diffusione della fede costruisce pubblicamente la figura di Gesù. La fede nasce dall’opera di Gesù che - come dice Matteo - è uno stravolgimento della vita quotidiana, ma la diffusione della fede, nell’interpretazione dei medesimi farisei, dà a Gesù una figura politica.
La parola, e qui la parola ha un’importanza fondamentale, dà nuova forma al mondo destinato all’abisso della sua colpa e che invece, proprio attraverso la parola, può pensare a una propria salvezza. La parola va compresa come relazione diretta tra Gesù e chi ascolta: non si tratta solo di osservare con il proprio comportamento una legge che ha assunto il valore di un codice sociale che viene derivato dalla tradizione della Scrittura; la parola apre un nuovo inizio. La parola è un inizio che, quando arriva a Matteo, ha già la possibilità della propria metamorfosi in scrittura. Rispetto alla parola che è rivelativa ma, nello stesso tempo, volubile, soggetta al dubbio interpretativo, la scrittura obiettiva è un sapere che diviene una testimonianza collettiva. La parola, nell’estremo capitolo della vita di Gesù, è l’ordine della sua solitudine, e tuttavia questa solitudine tragica ha già degli apostoli che la ripeteranno non solo come continuità e rinnovamento della tradizione ebraica ma come una rivelazione che coinvolge l’umanità stessa.
La giustizia farisaica non può impedire che la parola di Gesù assuma una dimensione universale. Qualsiasi giustizia mondana, poiché non nasce dall’itinerario della salvezza, ha un suo valore impositivo. La voce cristiana apre un valore dell’uomo nel mondo che non appartiene più al detto di Esiodo, secondo cui la legge è la caratteristica dell’umano come essere vivente. Nell’obiettività di una siffatta giustizia vi è sempre un - più o meno inconscio - elemento di ingiustizia che si può togliere stabilendo una legge interiore che, nascendo dall’eguaglianza, non arriva alla decisione del giudizio. La fede è un’impresa molto difficile, poiché non ha alcuna somiglianza con un cambio di opinioni (come è riconosciuto mondanamente possibile e lecito) ma è una mutazione del proprio modo di essere; è un affidamento che ha in se stesso la totalità di un senso e quindi l’annullamento di ogni centralità mondana che stabilisca diversi ordini di valori, di comando e di giustizia per quanto riguarda la vita della propria anima.
Gesù parla alla folla, ma è come se il suo messaggio dovesse appartenere a ciascuno. La parola di Gesù può trovare quell’indifferenza che forse ha percorso il popolo ebraico dal momento del battesimo di Giovanni Battista: ai nuovi valori che aprono una relazione con Dio può sempre corrispondere l’abitudine, la pigrizia, la giustificazione di se stessi nel permanere nel peccato.


Nella predicazione di Gesù, come viene riferito da Matteo, vi è un riferimento alla continuità con le sacre scritture ebraiche. È il modo per collocare la propria parola in una grande tradizione che è un sapere collettivo, ma è anche una strategia per mostrare che la parola di Gesù è annunciata dalle sacre scritture, quindi non ha solo una legittimità, ma una necessità che deriva dalla storia del rapporto che Dio stabilisce con il suo popolo. Il “re dei giudei” nella sua stessa azione non solo mette in crisi il rapporto tra la tradizione religiosa e il suo potere politico, ma trasforma la stessa figura di Dio, che non è più la guida e il protettore di un popolo, ma rappresenta l’universalità della fede, che è un valore implicito nella dimensione del mondo. Il racconto della colpa originaria non è un’identità che stabilisce un codice comportamentale, una preghiera e una legge, ma appartiene al disegno di Dio che ha stabilito anche l’ordine e la possibilità della salvezza. Il figlio di Dio, Gesù, è il dono tragico che Dio ha voluto perché la prova del mondo nella colpa potesse avere, oltre la certezza della propria fine, anche la possibilità di una remissione della colpa. E quindi una nuova prova del mondo.
Naturalmente le parole di Gesù che diffondono la buona novella della salvezza appartengono alla trama lessicale di Matteo, che non è né la riproduzione, né la copia, e nemmeno l’interpretazione. Colui che mette ordine a un sapere diffuso è già la testimonianza della sua diffusione, della possibilità di narrazioni plurali intorno all’opera e alla figura di Gesù. La verità di Gesù che ci racconta Matteo è in realtà la forma della nostra fede, la sola fede che ci colloca nella vicenda creaturale del mondo.
Sin dalla nascita Gesù si trova nella opposizione tra la persecuzione mondana e il segno della sua figura divina. I Magi sono orientati da una stella di cui riconoscono il senso attraverso il valore di una percezione di cui hanno il privilegio. Ma il padre terreno Giuseppe è avvertito in sogno da un angelo di sottrarre il piccolo Gesù ai propositi omicidi di Erode e della sua discendenza, consapevole, tramite un allusivo sapere, che entrava nel mondo un uomo che avrebbe modificato il senso dei poteri. Gesù verrà ucciso, ma il tempo dell’uccisione è un altro; il compito della salvezza ha bisogno di un uomo che si manifesti nel mondo con il suo compito. I bambini sono già immunizzati dal perseverare nella colpa, sono già potenzialmente nel regno di Dio. Ma colui che porta la salvezza deve sperimentare la sua possibilità solo attraverso l’esperienza del mondo, la trasformazione in un sapere di quello che è già una diffusa convinzione sulla possibilità della salvezza dall’abisso del peccato.
Il battesimo che Giovanni Battista dà a Gesù indica un percorso che attende il figlio di Dio, che lui dovrà percorrere. Il battesimo di Giovanni è il segno di un desiderio di salvezza che esiste già nel mondo ebraico, al di là dell’osservanza della legge. La frattura religiosa che prepara la persuasione che “il regno dei cieli è vicino” è percepita dal potere che vede in questa novità, religiosa e contemporaneamente sociale, un pericolo immanente, un rischio che l’equilibrio religioso dei farisei mostri una frattura irrimediabile. Il conflitto è dato dalla fede secondo cui il regno dei cieli è prossimo e quindi occorre liberarsi dalla colpa con il battesimo. Il battesimo di Gesù è in questa prospettiva, che se è da considerare come un segno di liberazione da una colpa irripetibile, tuttavia è anche un segno privo di parole e - come sappiamo - solo la parola può diventare un sapere trasmissibile e quindi creare la possibilità di una comunità. Inoltre, il battesimo di Giovanni nel mondo ebraico è una pratica diffusa tra i poveri, per i quali la preparazione di se stessi al regno di Dio è immensamente più comprensibile, data la loro nullità umana, di quanto questo sentimento non possa essere dei ricchi, che nel possesso trovano già la realizzazione felice della loro identità. L’essere poveri è la condizione privilegiata per ricevere il regno dei cieli, e la povertà non va interpretata nella sua forma mondana, come fosse una condizione da eliminare. Sono gli stessi poveri i “privi di spirito” che non hanno difese simboliche della loro realtà e sono più disponibili ad accogliere la “buona novella”.


Ma la stessa accoglienza della “buona novella” deve superare, persino in Gesù, le “tentazioni del diavolo”, e questo è un tema della massima importanza. Il diavolo - dicono gli esperti - è un personaggio, una credenza che nella cultura popolare incarna la soddisfazione per i beni mondani e la sordità per qualsiasi forma di vita che si costruisca fuori da questo perimetro. L’essere tentati non è, come nel caso di Gesù, una prova che può essere vinta per sempre: Gesù ha il problema di affermare la sua natura divina. Per un uomo qualsiasi la tentazione, come affetto per ogni forma, è il comportamento mondano che rende più difesa, più gradevole, più potente la nostra vita. È un richiamo costante. È la negazione della fede nell’opulenza individuale, la vita dell’uomo non è salvata da un sapere, da una norma, dall’obbedienza a una giustizia del mondo: la sua possibilità è solo nel conflitto tra i beni esteriori e la fede del regno di Dio. Quindi, «Padre nostro, […] non abbandonarci alla tentazione», alla nostra debolezza. È un richiamo all’aiuto di Dio per rendere più forte la propria fede.
Non seguirò ora il testo di Matteo, ma cercherò di farne emergere i temi fondamentali. I nodi, in particolare, che cercherò di sciogliere sono le lezioni di morale del discorso della montagna; il senso dei miracoli e il loro rapporto con la fede; l’analisi del grido di Gesù in croce «Dio mio perché mi abbandonasti?». È qui il rapporto, nel dolore estremo, tra la divinità e l'umanità di Gesù. La divinità è tutta nel compito che gli è proprio come creatore di un nuovo mondo senza peccato, quindi la preparazione dell'avvento del regno di Dio. E questo compito non può che realizzarsi nello scenario mondano che è il luogo della vita di Gesù. La colpa originaria non può essere cancellata se non è a due condizioni: l'una che Gesù divenga come uomo l’ “agnello sacrificale”: la trasformazione dell’umanità non può che accadere nella incarnazione di una storia che termini, dal punto di vista terreno, con il paradosso della messa a morte dell'uomo che si è offerto a questa storia come compito assegnatogli da Dio. Dall'umanità poteva derivare solo la paura della colpa nel momento in cui l'esperienza mondana è giunta al suo termine. È il sentimento di risposta umana al giudizio. Ma il compimento della salvezza doveva venire non da un segno, ma da una storia con il suo tragico epilogo. E il centro della storia è il destino terrestre di Gesù, la risposta del potere umano a un disegno che l'uomo può condurre a termine, ma solo in quanto nella sua azione rappresenta una determinazione di Dio.
La libertà dell'uomo appartiene a un poter disporre di se stesso nella creazione di un mondo che è stravolto rispetto al suo insegnamento. La libertà non fa che condurre l'essere umano alla propria perdita; la libertà è la trasformazione superba di un destino che deve compiersi nelle forme della vita terrena. La libertà non può che condurre alla moltiplicazione del peccato che era all'origine dell'identità antropologica: essa, la libertà, deve trovare la sua realizzazione nella fede. La libertà ha una sua realizzazione essenziale quando, nella fede, non dimentica la sua donazione divina.
L'uomo non può che vivere in una comunità e questa comunità deve fare propri i comportamenti che l'Antico Testamento aveva già rivelato come virtù che garantiscono la vita di un popolo. La “buona novella” riprende i temi morali essenziali togliendoli tuttavia dal dominio pubblico di una legge, ma divenendo la realizzazione collettiva di un compito morale che ognuno assume per sé stesso. Il discorso della montagna sottintende la “responsabilità” personale. Ricercheremo in questa prospettiva le norme della tradizione ebraica. Per esempio la concezione “visiva” dell’adulterio, dove l'adulterio si estende allo sposare una donna ripudiata. Il potere maschile del ripudio diviene una norma sociale di colpevolezza, cosicché la donna nella vita sociale è portatrice della possibilità della colpa. È evidente che la ripetizione del costume ebraico è un tratto di connessione tra la tradizione e il problema della salvezza. La folla che ascolta le parole del nuovo messia trova in esse una moralizzazione dei propri comportamenti sociali, come nel caso della richiesta di clemenza nella restituzione dei debiti, segno evidente di una società dove è dominante lo scambio mercantile. L'esercizio della virtù e della misericordia è un impegno personale privo di echi e di dimostrazioni pubbliche. La preghiera deve avvenire nella solitudine e non come celebrazione pubblica.


La comunità nasce dallo spirito che ognuno sceglie come senso della propria vita nella relazione con Dio e non come atteggiamento esteriormente collettivo guidato da un potere pubblico. Sono tutti temi che, con un linguaggio moderno, possiamo considerare come la critica di un'etica pubblica da parte di una moralità individuale, e certamente il discorso di Gesù è un brivido spirituale per la folla che vede ribadite norme già note ma tradotte in un nuovo spazio dell'esistenza dove non può contare la comune finzione di massa.
Il testo di Matteo - come ho già detto - fa emergere la figura della individualità come il solo luogo dove può nascere la pratica della virtù e l’idea di una uguaglianza possibile solo quando sia estirpato il seme della violenza. «Non giudicare», poiché il giudizio del singolo vuole costruire una oggettività legale, vuol essere un legislatore e il mondo sarebbe solo il conflitto di vari ordini di giustizia, la diseguaglianza intellettualizzata. La comunità dovrebbe sorgere senza quella reciproca strumentazione che deriva dal dominio del corpo, divenuto, nell’ordine politico, il diritto alla proprietà. A fronte di questa identità sta l’occasione offerta da Dio di una possibilità di salvezza da parte della parola di Gesù. Gesù (alla domanda di Giovanni Battista) rivela la sua natura e quello che deve ancora venire: la sua predicazione. In una società dove prevale il calcolo, l’interesse (non fosse altro che documentato dalle parabole), l’accumulo della ricchezza, il timore di una possibile povertà, questi sentimenti abbassano la figura umana, danno forma al suo sentimento e alla sua intelligenza. Costruiscono una paurosa (e quindi aggressiva) centralità che rinuncia ad affidarsi a quell’ordine del modo nel quale i viventi trovano il soddisfacimento del loro bisogno. Si tratta di vivere senza dare un volto metafisico alla morte.
I miracoli sono un punto centrale: essi mostrano la possibilità della rottura dell’ordine naturale che, di fronte all’artificio mondano e ai valori che esso comporta, aveva mostrato un suo equilibrio. Credo che i miracoli vadano capiti con una differenza che non deve essere sottovalutata. I miracoli dei pani e dei pesci sono la prova della potenza divina che dal padre si è trasmessa al figlio. I discepoli di Gesù pongono il problema della mancanza materiale e nella richiesta è la convinzione che Gesù sarà in grado di risolvere la questione: Quanto alla folla, è ragionevole supporre che il miracolo non l’abbia coinvolta, né Gesù desidera che i suoi poteri divengano oggetto di conoscenza pubblica. L’uso del potere miracoloso deve avere un senso spirituale tutto particolare, non può essere una dimostrazione, ma un fatto che deriva dalla particolare relazione con Gesù che è data dalla fede. Le rinascite e le guarigioni sono certamente conseguenza della natura divina, ma è necessario che il beneficiato, o colui che chiede il beneficio, mostri la propria fede nella missione che Gesù realizza nel mondo, per opporre alla sua catastrofe umana una via di salvezza resa possibile da Dio. Chi si trova fin da ora su questa strada può già nella sua forma creaturale avere la grazia divina.
C’è nella fede un nuovo ordine del mondo che include ed esclude, ma la parola di Gesù deve diventare un insegnamento, e questo insegnamento deve avere dei maestri del sapere che lo diffondano nel mondo. Nella stessa figura degli apostoli si scopre un compito che è rivolto agli ebrei convertiti e ai cristiani (come vengono chiamati i greco-romani), ma perseguire questo disegno, che ha già in quel mondo una sua universalità, è come mandare pecore tra i lupi. Matteo ricorda una terribile minaccia, che probabilmente deve apparire come la difesa stessa dalla predicazione dei discepoli di Gesù in un mondo avverso. In questa prospettiva il Vangelo di Matteo contiene anche una difesa dell’opera di diffusione della “buona novella” che vale nel passato, ma la cui eco e il suo effetto vogliono valere anche nella contemporaneità. D’altra parte è comprensibile una minaccia agli oppositori, perché Gesù stesso aveva insegnato che la sua parola porta nel mondo la spada più che la pace. La spada è il taglio violento tra due epoche, tra due stadi di esistenza, tra il desiderio del regno di Dio e l’ignoranza colpevole che si pone come giustizia. Nella sua narrazione Matteo, nell’indicare questo conflitto, indica già un epilogo. Introdurre una spada nel mondo, uno stravolgimento del suo equilibrio, significa provocare una reazione di una violenza del tutto diversa: una violenza che vuole uccidere il corpo nella convinzione di uccidere la parola. Tutta la procedura successiva, dall’arresto di Gesù alla sua crocifissione, ha un senso per i peccatori, per i custodi della potenza del tempio, per gli armati romani, ma è un’altra storia che svelerà il suo senso pieno con la resurrezione di Gesù.
La consapevolezza che Gesù abbia creato una situazione conflittuale è confermata dalla difesa autoritaria della loro tradizione da parte dei sacerdoti farisei. Gesù mette in crisi la presunzione che un ordine consuetudinario che ha il valore di legge (come il digiuno e l’astensione dal lavoro del sabato) sia atto di devozione, mentre si tratta solo di cerimonialità che consentono la coesione sociale di un potere “di classe”. Il conflitto è difficile perché da una parte vi è una solidarietà di casta che, nella vita sociale, ha il riscontro con una plebe che (nella sua maggior parte) identifica se stessa con le leggi del potere e quindi è riluttante, o meglio contraria, a una prospettiva che stravolge questa relazione. Questo mi pare un tema di grande importanza che, nel Vangelo di Matteo, è visibile nell’appoggio popolare a coloro che arrestano Gesù e nella curiositas con la quale viene seguito il suo processo. La folla che seguiva la sua predicazione è “scomparsa”, ma resta invece come apertura nel mondo attraverso la diffusione dell’opera di Gesù tramite gli apostoli. Anche qui si riprodurrà la forma del conflitto sociale e religioso, “visibile” per esempio nella sorte di Paolo, e ben nota a tutti come persecuzione verso i cristiani, anche se l’atteggiamento del potere imperiale è volto solo a mantenere un equilibrio politico con il potere dei farisei, mentre non vede alcuna colpa nella predicazione di Gesù. La legalità imperiale deve solo mantenere i patti politici che ha istituito con il potere religioso; essa non ha, al momento, alcuna preoccupazione che il messaggio di Gesù tocchi la sensibilità dei “piccoli”, i più aperti - come sappiamo- ad accogliere un messaggio che conosce la loro disponibilità nei confronti della fede. I “piccoli” sono i destinatari privilegiati della parola di Gesù: essa ha un senso alternativo al modo in cui è loro dato di essere.


La fede in Dio non è però una proprietà acquisita una volta per tutte. È una continua prova della propria esistenza, e Gesù più di una volta parla di “uomini di poca fede”. Credo che in questa prospettiva vada letta la considerazione secondo cui è imperdonabile la bestemmia contro lo Spirito, che è la sola importante dotazione antropologica per il rapporto con Dio: è la gioiosa esaltazione delle virtù del corpo. La “poca fede”segna la difficoltà di uscire da quel labirinto mondano che è educazione, obbedienza, abitudine. La fede non scende a patti, e Matteo ricorda che Gesù disse che sulla pietra di Pietro (Simon) si edificherà la sua chiesa. Lo scrittore non “profetizza: il futuro grammaticale corrisponde a un presente fattuale di cui è certamente parte anche la scrittura evangelica.
Riguardo al rapporto tra le parole di Gesù e l’Antico Testamento, Matteo ne ribadisce la continuità (il che, ovviamente, è il modo per ampliare l’adesione del mondo ebraico) e alla curiosità di Pietro risponde una voce: «Gesù è il mio figlio prediletto; ascoltatelo». Così si chiude la lunga storia ebraica iniziata con Mosè; si chiude e si realizza in una universalità che può nascere solo con la trasgressione alla mondanizzazione delle Scritture. Ma è una trasgressione aperta, che non ha nulla di segreto, anche se agli apostoli saranno richieste, in un mondo tutt’altro che semplice e disponibile, contemporaneamente «le virtù dei serpenti e delle colombe». Quindi una tattica idonea a saper contrastare in modo efficiente la repressione «che vi porterà nei tribunali. E qui quello che dovrete dire vi sarà suggerito e non lasciate cadere le parole poiché il nostro disegno non ha nulla di segreto» ed è un proposito spirituale. Ma predicando la fede si provoca comunque un rovesciamento dei valori della vita: chi suppone di avere trovato la propria vita la perderà; chi accoglierà la parola del profeta la troverà. Trovare la propria vita vuol dire ritenere che vi sia una corrispondenza tra il conseguimento dei beni naturali e il riflesso psicologico di questa situazione. Perderla significa vivere secondo quanto è rivelato dal profeta, sia rispetto alla forma delle relazioni mondane, sia per quanto riguarda l’attesa del regno di Dio: i due aspetti che la “buona novella” richiede nella fede. La fede inaugura una nuova parentela nel mondo, non più quella naturale, ma quella che deriva da una comunità di fede dove vive la parola, mentre il cibo naturale si trasforma in nulla.
Gesù annuncia a Pietro quello che accadrà: l’ingresso a Gerusalemme, la condanna dei sacerdoti, la morte e la resurrezione. Gesù condivide con Pietro il proprio destino e quindi la ragione del proprio destino, tuttavia questo sapere non farà di Pietro un seguace di Cristo privo di timore. Quando la violenza si scatenerà, l’assemblea dei cristiani sarà affidata a un uomo la cui fede è stata impari al suo desiderio di sfuggire il pericolo: Pietro non è un bambino privo della tentazione del valore della propria esistenza in quanto essa è, così come è stata formata nelle relazioni con il mondo. Nell’uomo il rapporto fondamentale non è tra parola e silenzio, ma tra parola della fede e parola mondana. Matteo ricorda che anche la fede si mondanizza, può avere i suoi compromessi; essa si manifesta allora nella concreta lontananza dal mondo: «lascia la tua vita come si è costruita, vendi i tuoi beni e il ricavato dallo ai poveri, lascia la tua casa e i tuoi fratelli». Questa rinuncia è la strada del regno di Dio, il modo in cui cominci a vivere la vita dello spirito e l’umiliazione del mondo.
Sappiamo che Gesù alla folla parla per parabole: ci sono stati studi importanti sul genere comunicativo della parabola e sulle relazioni con scritture di differente tonalità spirituale. Ogni parabola ha la caratteristica di rovesciare quella che pare la convinzione comune della vita sociale e delle sue valutazioni relative ai valori della vita. La parabola insegna a vedere a rovescio ciò che nella valutazione sociale pare normale, poiché la fede non è sul mercato dei beni: è un’illuminazione che riguarda ognuno secondo il suo tempo. Probabilmente il modo in cui nasce la fede in Paolo è il modello di parabole come quella dei braccianti che vengono pagati allo stesso modo nonostante il diverso impegno orario di lavoro. Rispetto al giudizio del mondo sui primi e sugli ultimi, secondo la misura del loro merito, il giudizio che deriva dalla fede come strada della salvezza rovescia questo criterio. Il più prezioso è l'ultimo, quello che rischiava di andare perduto. Quello che conta è il momento della decisione, che supera ogni altro criterio di valutazione tipico del vivere sociale. È una tradizione che viene da Giovanni Battista, che mostra come la fede del pubblicano e della prostituta è più pronta di quella di altri.


«Molti sono chiamati e pochi gli eletti»: pare difficile interpretazione che appaia coerente con il testo di Matteo. Tuttavia: molti sono quelli cui arriva la voce di Gesù, la via della salvezza; pochi sono quelli che resteranno saldi nella loro fede e nella scienza di Dio - che ha aperto la scena del mondo che conosciamo -: sono “eletti”, cioè scelti. E tuttavia il detto che riassume l'insegnamento morale di Gesù è molto semplice: come a Dio si deve la fede, così agli uomini si deve lo stesso amore che ciascuno ha per se stesso. Questo è quanto Matteo ricorda, nel momento in cui questo Vangelo sarà per tutto il mondo che è verso la fine. Il tema della fine del mondo si ritrova nei passi: «"non passerà questa generazione»; «sarà come il diluvio di Noè». La fine del mondo sarà segnata da tribolazioni; il mondo verrà scosso da terribili fenomeni distruttivi. E dopo quel giorno la Terra si oscurerà, verrà meno la luce, cadranno gli astri. Nelle nubi si vedrà il ritorno di Gesù. La distruzione della fine sarà così traumatica da confondere anche gli eletti. Questo è il giorno del giudizio: “se avrete fatto qualcosa per i fratelli più piccoli vostro sarà il regno dei cieli, altrimenti il fuoco eterno”.
La narrazione della fine del mondo è un tratto narrativo che introduce un rapporto drammatico con il compito universale di redenzione che viene assolto sino alla crocifissione del figlio di Dio. La storia del Salvatore va compresa in una dimensione storico-cosmologica che è il giudizio di Dio sul mondo, la prova della sua esistenza nella quale l'uomo, segnato originariamente dalla colpa per la presunzione intorno a sé stesso, ha il compito di non far prolificare il proprio dominio sino a una situazione di colpa che viene istituzionalizzata dalla trasformazione dell'eredità scritturale in un sistema di potere che deriva dalla Legge, dai suoi comandi, dalla sua forma di legalità sociale. La storia di Gesù deve essere capita in questo quadro universale intorno al mondo. E così la sua polemica durissima contro i farisei, che tradiscono il senso del rapporto con Dio, e la forma di credenza che ne deriva, condizionata solo dalla morale di un reciproco riconoscimento e dalla fede in Dio attraverso l'opera di Gesù.
È in questo quadro generale che il riconoscimento della resurrezione di Gesù segna il momento in cui il mondo riprende la sua la sua sembianza di creazione divina. Ora si può leggere, senza una radicale riduzione antropologica, la storia di Gesù che, in generale, è ben nota. È l'ultima cena, in cui Gesù spezza il pane e versa il vino come figure del suo prossimo sacrificio, pane e vino che possono rendere prossimo il sacrificio di Gesù all'universalità dai fedeli. «Uno di voi mi tradirà»: e qui possiamo leggere la storia di Giuda che consegna Gesù ai suoi persecutori per trenta monete d'argento, ricompensa della quali poi si pentirà restituendola al Sinedrio, che, del resto, non la vorrà perché i denari sono macchiati di sangue, e verranno utilizzati solo per comperare lo sterile campo del vasaio. La fine di Giuda è il suicidio. La storia di Giuda è molto importante poiché mostra che, come la fede e un'avventura che impegna. tutto il “sé stesso”, così accade anche per il giudizio intorno alla colpa. Al di fuori delle regole scritte, esiste un auto-riconoscimento della propria colpa, e un'impossibilità di accettare, nel tribunale della propria individualità, il vivere nella colpa. È una drammatizzazione della stessa impossibilità antropologica di vivere con una colpa così grave come quella di vendere, a rischio di morte, il prossimo: certo, il prossimo qui è la figura di Gesù, ma l' “insegnamento della storia” ha una validità universale. In quali esperienze non possiamo non risentire la vicenda infame e tragica di Giuda?
Altro significato, rispetto al venale tradimento, è il caso della fragilità umana che nasce dal timore per la propria sorte e dal desiderio della propria incolumità. È il caso di Pietro che dovrà rinnegare la sua dipendenza “spirituale” da Gesù, “tre volte prima che il gallo canti”. Sulla fragilità umana si può costruire l’avvenire di una Chiesa, poiché la fede è un’educazione di se stessi. La fede può essere una illuminazione ma poi diventa una pratica di vita capace di unire una collettività.  
Gesù dice: «quello che si deve compiere si compia, ma la mia anima è triste sino alla morte». Pilato, che vede “dall'esterno” il processo contro Gesù condotto da Caifa, supremo sacerdote, dice che non ha commesso nulla, ha solo diffuso la sua parola. Alla domanda di Caifa Gesù risponde che è “figlio di Dio”. La verità della sua esistenza appare nel momento terminale; la sua natura divina, che è il suo compito relativo alla salvezza, si manifesta proprio in quella “incarnazione” che è la necessità del suo compito, e quindi anche la sofferenza e la tristezza appartengono al suo destino di morte: non c’è altra sorte poiché tutta la storia appartiene già a un disegno divino, anche se la sentenza, la crocifissione e il decesso saranno oggetto di scherno e di pietà. Come sempre cielo e terra, spirito e corpo non possono congiungersi. Ed è per questa condizione costitutiva che Gesù durante il processo non si difende. Il valore della parola del tribunale è decaduto ormai nelle procedure della giustizia del mondo che, come Pilato vedeva, non era che la forma di giustificazione di una “invidia”, anche se la parola scivola in una psicologia che è solo l’apparenza della scena. La risposta di Gesù è la verità di se stesso e del tempo nuovo: D’ora in poi vedrete il figlio dell’uomo seduto sulla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo”. Questa affermazione, che è la fine della vicenda, è soprattutto il tempo di una nuova storia che si è aperta sull’abisso del mondo.
La storia della condanna a morte di Gesù è notissima ma, forse, si può aggiungere qualche osservazione. Nel giorno festivo era consuetudine che il potere politico potesse graziare un condannato e Pilato propose alla folla di scegliere tra Gesù e Barabba, personaggio noto della delinquenza comune o, forse, della ribellione politica. La folla decise per la crocifissione di Gesù, ed è la medesima folla che aveva accompagnato il suo arresto con bastoni e un atteggiamento feroce. C’è una alleanza tra il potere del tempio e l’umore aggressivo della plebe contro chi annuncia una vita che è l’opposto di ciò che la folla plebea identifica simile a se stessa. È l’identità di sé con se stesso, il sapere comune, il conformismo volgare che si assume il compito di dare la morte. Non può stupire l’assenza della folla che seguiva Gesù nelle sue predicazioni, la stessa che lo aveva accolto trionfalmente al suo ingresso a Gerusalemme, se anche Pietro, durante il processo, disconosce il suo rapporto con chi gli aveva dato il compito di fondare la sua Chiesa.
Il racconto storico di quella crocifissione è quanto di più conosciuto vi sia nel Vangelo di Matteo, ma credo sarebbe opportuno leggere l’uccisione di Gesù nel quadro complessivo del Vangelo. Quivi, oltre la sua drammaticità, acquista un senso che la connette con tutta la narrazione del Vangelo: è la morte di chi si è opposto al mondo come proliferazione del peccato, e ha offerto la propria vita come certezza del regno di Dio al solo, tuttavia difficilissimo, esercizio della fede. Al mondo è offerta una seconda prova dopo il gesto iniziale che segna la sua creazione. La crocifissione è il modo più tragico per mettere il mondo di fronte all’immagine di se stesso. Un’immagine che è la tortura della carne, carne che il mondo ha sempre amato come la sua realtà felice e il suo costume naturale. La resurrezione di Gesù apre l’incognita di un’altra storia che nella fede ha la vittoria sulla morte. Ma nulla è certo, e la fede un difficile abbandono della astrazione mondana di noi stessi.

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BREVE MANZONIANA
di Fulvio Papi

Salvatore Natoli

L’ottimo libro di Salvatore Natoli sui Promessi Sposi (L’animo degli offesi e il contagio del male, Il Saggiatore pagg. 98 € 11,00) nella bibliografia manzoniana si segnala in quel rinnovamento degli studi interpretativi che fa seguito alle opere ormai classiche di macchia e Raimondi. (Qui non si fa questione dello straordinario lavoro filologico di Dante Isella e della sua scuola). Il tema che Natoli predilige è quello, filosoficamente molto desto del male, considerato qui nell’esperienza comune come nella proporzione degli eventi storici. Quel male che, come una epidemia (l’epidemia ne è una metafora atroce?) attraversa i reticoli dell’esperienza comune secondo quell’oscura dialettica per cui il male fatto provoca negli offesi un desiderio di reazione dove il male ha messo i suoi semi. L’esempio più semplice nell’opera di Manzoni è quello di Renzo che, ragguagliato dal desiderio futile e violento del signorotto locale don Rodrigo, nei riguardi della sua promessa sposa, Lucia, viene preso da un immediato desiderio di vendetta. Qui siamo ai piani bassi della società, ma lo stesso accade nei rimandi del male, ai vertici della società. La monaca di Monza si mette, se pure in modo diverso e con violenze differenti, nella corrente del male, come risposta alla violenza paterna che, per ragioni del patrimonio familiare, la condanna alla vita monacale. Anche se in questo caso, la denuncia psicologica interiore è più complessa. Questo è il tema centrale di Natoli intorno al quale fiorisce il gioco complesso delle relazioni e dei fatti positivi che provocano sentimenti, iniziative, possibilità dei personaggi che intrecciano le loro possibilità con gli spazi che avanza loro la più grande storia, completamente estranea al suo senso politico. Ci sono spazi lontani, ma pure intrecci, immanenti alle vicende dei grandi e dei minori, non sempre canne al vento, in virtù di una cultura, ad esempio, religiosa in Lucia, e, a poco a poco, mondana in Renzo. Sarà la Provvidenza a dare, al fine, un ordine a questi intrecci vitali: cioè lo scrittore e l’aspettativa del destinatario. (Anche se noi non apparteniamo al genio di alcuno scrittore). Ma in questa narrazione l’autore domina con tutte le note possibili della sua sinfonia mondana, la facciata del reale. Per questo mi pare difficile trovare un tema dominante dal punto di vista romanzesco, mentre è facile individuarlo nelle sue relazioni oggettive, nel violento disordine degli eventi, nella destinazione dei protagonisti del teatro mondano. Renzo è un ingenuo sull’esposizione di sé ai ritmi della folla e ai criteri di giustizia, ma è abile nella fuga da Milano verso il confine dell’Adda: è il suo modo per aggiustare le cose, così diverso dal colloquio tra il conte zio di Rodrigo e il padre generale dei frati. Qui pesano le parole, là la prudenza dei passi. Non sempre il potere sul piano necessario può estendersi alla prudenza di un qualsiasi montanaro in cerca di salvezza. So che gli studi storici sulla dominazione spagnola in Italia non mostrano uno spettacolo così ignobile come appare al Manzoni, ai romantici sino alla Yourcenar; ma, a vantaggio degli scrittori, credo si possa dire che il vissuto può, forse meglio delle intelligenti categorie interpretativa, dare sensazioni e immagini che fanno rivivere il tempo. All’ottimo studio di Natoli desidero solo aggiungere una considerazione. Non so che cosa Manzoni, oltre che il desiderio di salvezza, mettesse nella testa di Renzo in fuga. Ma il passaggio dell’Adda era qualcosa di più di un successo della fuga. Renzo lasciava il territorio spagnolo fondato su una parassitaria, ma potente, economia monetaria. Entrava nella Serenissima dove qualche congiuntura negativa non cancellava uno sviluppo secolare di una economia commerciale e un diverso stile sociale. Per un lavoratore con un mestiere sicuro è una porta aperta. E in questo clima di Venezia ricomincia, alla fine del romanzo, delle avventure e delle catastrofi, la vita di Renzo e Lucia diviene una differente impresa produttiva aperta sul mercato, una casa ospitale, figlioli felici, parenti opportuni. È una happy ending che dimentica “l’addio ai monti”, non c’è nessun sentimento per un Heimat perduto. Inizia il mondo delle merci dove identità e riconoscimenti sono diversi rispetto al “luogo” d’origine. Quivi è la vendita di quello che resta delle cose e dei beni a un signorotto, questa volta buono e protettivo. La vendita sarà fruttuosa, e l’accoglienza del nobile generosa, il clima emotiva felice. Ma l’Heimat (i “monti sorgenti dalle acque...”) sono solo un palcoscenico senza rimpianti. Una via di passaggio che ha condotto i due sposi in quella corrente sociale del mercato che il loro autore ben conosceva dagli economisti del ’700 illuminista e che certamente riteneva una via del progresso. Eppure chi scrive (che conosce bene la casa di Manzoni a Lesa sul Lago Maggiore) se fosse solo una briciola di uno scrittore di quell’eccezionale livello, avrebbe inventato (“reazionario” in senso husserliano) un altro finale.

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FRANCO FERGNANI: LA PASSIONE FILOSOFICA
di Fulvio Papi
Franco Fergnani 

Sono molto contento che un gruppo di allievi e-o amici di Franco Fergnani ha voluto dedicare un lavoro alla sua preziosa opera filosofica e al modo di renderla pubblica attraverso un generoso e puntuale insegnamento  prima nei licei e poi per trent’anni alla Statale di Milano. Personalmente  in questo prezioso libretto (Il gesto e la passione. Sull’insegnamento di Franco Fergnani, Autori Vari, Farina Ed. 2017) ho visto confermata l’immagine filosofica che con gli anni mi ero fatta dell’opera di Franco. Sullo sfondo c’è l’orizzonte marxista evocato soprattutto dal soggettivismo storico che trova il suo ordine teoretico nella lettura sartriana dell’antropologia di Essere e tempo di Heidegger (che sempre Franco ha rifiutato di interpretare secondo l’Heidegger del dopoguerra). Si formava così una radice esistenzialistica che invece di chiudersi nel suo circuito intellettuale, apriva le sue possibilità teoretiche in una pluralità di direzioni dove Kierkegaard neutralizzava ogni esito enfatico in senso umanistico. Le cose, dal punto di vista analitico, sono più complicate, soprattutto per le letture criptiche che Franco dedicava ai suoi autori, ma il perimetro è quello di una filosofia che doveva dare una difficile identità a chi intraprendeva la strada che ha la riflessione (o il pensiero) come mezzo e come fine.


Queste osservazioni sono un po’ da antologia filosofica, ma di Franco so molto di più. Quando ho letto l’intervista della sorella, ho ritrovato Franco vivente, dico come stile dell’esistenza poiché dei suoi rapporti familiari (a parte la cortesia della madre) o affettivi, zso molto poco e in una forma così superficiale da condurre alla chiacchiera vera. Persino non mi sono ben noti i rapporti di Franco con il padre, avvocato, uomo colto, catturato dai nazisti e salvo, come si dice, “per miracolo”. Ma di Franco, sedicenne entrato nella Resistenza in una Milano difficilissima, potrei fare una piccola antologia raccontando fatti e imprese che Franco ha sempre taciuto, ma che mi ha raccontato il suo compagno Quercioli poi divenuto un dirigente nazionale del PCI. Potrei raccontare la sua amicizia con Giulio Preti che lo orientò, all’inizio degli anni Cinquanta, verso il pensiero di Dewey. Così anche il suo lavoro al “Calendario del Popolo” che andrebbe ricuperato come un documento culturale talora più interessante delle cose più note. C’è fra l’altro un magistrale saggio su Banfi che, nei nostri colloqui, rimproverava di non impegnarsi più a fondo nella filosofia di quegli anni. E credo che qui il dovere della critica lo portava a una certa incomprensione della personalità del maestro. E così di ricordo in ricordo, potrei raccontare una storia degli abissali anni Cinquanta riflessi nell’esistenza di un giovane di eccezionale ingegno.
Qui desidero ripetere quello che, molto in breve, ho detto in un’altra circostanza: il mio debito personale con Franco Fergnani. Immaginate l’inizio dell’anno universitario (1949-50) in un autunno così grigio che temo di inventarmelo adesso. Franco frequentava il secondo anno di filosofia teoretica, tenuto dal prof. Barié. Doveva tenere una relazione il cui titolo era questo: “Hegel, il problema dell’essere, da Spaventa a Gentile”. Franco, con quell’aria sempre insoddisfatta, e quella pronuncia, con un’erre di una musica reticente, fece una relazione che valeva una libera docenza. Il prof. Barié fece esplodere la sua ammirazione in quel modo un poco chiassoso che, qualche volta, veniva a galla.


Dal canto mio, matricola troppo esposta ai venti delle vette, non capii niente. La Logica di Hegel erano tre volumi laterziani del ’27 che avevo comperato per poi lasciarli nel loro riposo storico. Spaventa mi era ignoto. Gentile era un filosofo fascista di cui conoscevo solo la fine atroce nel 1944. Franco, durante gli elogi di Barié guardava per terra qui e là, come avesse smarrito qualcosa. Ebbi l’impudenza di rompere quel silenzio, ma Franco ascoltò attento le mie banali e improprie osservazioni, e poi si ricominciò tutto da capo. In una serie di incontri extrauniversitari, Franco mi spiegò l’inizio della Logica di Hegel, la tradizione idealistica napoletana, e l’atto puro di Gentile. Franco aveva solo tre anni più di me, ma era un insegnante perfetto e sono certo che devo alla sua cortesia se in qualche settimana entrai in quello che potrei anche chiamare il ritmo della filosofia. Banfi non spiegava, nelle sue lezioni il pensiero volava troppo alto, diventava uno spettacolo dell’intelligenza.
Furono due o tre (al massimo) anni di una stretta collaborazione con il filosofo già e l’acerbo apprendista che oggi direi aveva troppa fretta di crescere e di essere accolto nel mondo che amava.
La prima destinazione di Franco dopo la vincita della cattedra fu lontana da Milano. E qui: o Franco non amava la posta, o le mie riflessioni gli parevano banalità, com’era possibile, o si stava facendo strada la sua predilezione per la solitudine come condizione del fare la “tua filosofia”, infatti non si faceva vivo: certo Kierkegaard più che Gramsci, e, in fondo, anche Sartre poiché gli amori, anche filosofici, hanno i loro segreti, lo assorbivano totalmente. Rividi Franco molto più tardi come commissari entrambi in un concorso universitario. Sapevo molto del suo lavoro, e avrebbe potuto intervenire con competenza e chiarezza sui titoli del concorso, ma lasciò fare tutto a me. Poi scomparve di nuovo. Anzi non scomparve più.
La copertina del libro



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IL “GRAMSCI PERDUTO”
di Fulvio Papi


Se confronto la imponente bibliografia sapientemente filtrata nella esemplare opera storica di Angelo d’Orsi sulla vita e l’opera di Gramsci con quella che era stata la mia prima esperienza filosofico-politica gramsciana tra il 1948 e il ‘55, si possono fare alcune considerazioni su quella recezione, oltre l’ovvia, ma importante, precisazione: essa avveniva sulla prima edizione Einaudi dei Quaderni. Essa poi, come tutti sanno, ha subito le necessarie correzioni storico-filosofiche che ci avrebbero dato una visione fedele al lavoro di Gramsci, priva delle strumentazioni politiche di quel tempo, segno ulteriore che, anche nel periodo della massima diffusione e nel più vivo riconoscimento dell’opera gramsciana, non mancava quella tonalità selettiva che, se si fa eccezione per qualche breve tratto della sua esperienza politica, non era in fondo mai mancata alla sua opera di interprete e di teorico della tradizione marxista, del suo sviluppo internazionale e interno all’URSS, della nostra storia nazionale e del destino politico del movimento operaio italiano. Nonostante le conoscenze che la filologia storica ci ha recato, forse anche un ricordo di quella prima recezione (almeno nel mio ambiente milanese) può essere un documento di una storia che abbiamo attraversato e che merita la memoria della sua verità, che è poi il modo in cui essa è stata vissuta con un suo senso fondante.
Rievoco qui alcuni temi che entreranno in una idealità etico-politica, molto sicura di se stessa nei confronti di altre interpretazioni della filosofia di stato sovietica, ma anche delle interpretazioni dialettico-materialiste che derivavano dalla tradizione francese comunista.

    
Riassumo: 1) La critica ad ogni forma di positivismo storico, quello che aveva costituito la tradizione dominante del socialismo in Italia, rinverdita dalla componente evoluzionista. Sarebbero state necessarie analisi molto più puntuali, ma ciò che contava era la soggettivazione della classe operaia come forza storica opposta ad ogni obiettivismo metafisico, e la sufficienza ideale della sua cultura storica. Qui convergevano le letture antiche sul socialismo italiano di Labriola e Engels. 2) Lo storicismo non era affatto il modo per “contemplare” il processo della lotta di classe, ma era il quadro storico nel quale aveva senso la nostra stessa identità. Il modello eticamente inarrivabile era quello gramsciano, soggettivamente inarrivabile per piccoli borghesi collocati, più o meno, in strutture burocratiche dei partiti, ma, in ogni caso, per formazione, carattere, aspirazioni, per la propria complessiva identità a distanza stellare dalla figura gramsciana, anche nella ben più facile situazione politica del dopoguerra. C’è sempre una distanza tra il consumo delle parole e lo stile di una esistenza. 3) Questa posizione sembrava il rovescio dell’idealismo storico crociano. Lo spirito (metafora filosofica delle classi dirigenti) è la realtà storica di una classe sociale. 4) Queste considerazioni costituivano un orizzonte politico nel quale si misurava, più o meno, ogni posizione di sinistra. Diversa ovviamente era la posizione liberal-socialista della quale solo pochi comprendevano le ragioni critiche.
Può essere che l’enciclopedia della mia memoria sia un poco disordinata come lo erano gli studi di allora, ma sono sicuro che almeno l’effetto pratico del partito come “nuovo principe” diventava, più che una vera esperienza di Machiavelli - com’era in Gramsci-, una realtà storico-ideologica che faticò tanto nel decostruirsi dalla “metafisica” che dovette pagare il prezzo della sua dissoluzione.
La disputa intorno al senso e alla formazione del partito faceva risuonare (se non delle parole indegne di Togliatti e di Gramsci nei confronti di Turati) l’eco della antica critica comunista all’inerzia del PSI nel 1920, al tempo della occupazione delle fabbriche. E anche questa mi pareva (almeno a chiacchiere) una colpa da emendare come socialista dalla parte dei socialisti. Avessimo studiato allora (non adesso!) Sraffa, amico fraterno di Gramsci, per la teoria e Keynes per la politica economica avremmo evitato più di un effetto paralisi da dogmatismo intellettuale. Ma, appunto, la “storia” è spesso compresa con l’immaginazione metafisica piuttosto che con una posata razionalità.
Siccome non vorrei dare al lettore un’idea sbagliata (o peggio enfatica) delle mie cognizioni, trascrivo qui sotto quella che mi pare fosse la mia bibliografia essenziale.



Domenico Zucaro (di cui ho un affettuoso ricordo), Vita dal carcere di Antonio Gramsci
ed. «Avanti!», Milano, 1954
Lucio Lombardo Radice e Giuseppe Carbone, Vita di Antonio Gramsci
ed. di Cultura sociale, Roma 1951
Nicola Matteucci, Gramsci e la filosofia della prassi  ed. Giuffrè, Milano 1951
Benedetto Croce, Materialismo storico ed economica marxista, Laterza, Bari, 1900
Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia,  Loescher, Roma, 1898
a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1939
Giovanni Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, ed. 1899.
Devo ricordare che fruivo dei lunghi colloqui con Franco Fergnani, uno specialista dello hegelo-marxismo; con Gianni Bosio, teorico della cultura delle “classi subalterne”; avvenne più tardi l’incontro con Mario Spinelli, lettore raffinato di Gramsci anche dal punto di vista letterario. 
Valeva forse la pena di rievocare queste memorie per capire da quale distanza proveniva una attenzione a Gramsci, se pure in modo superficiale, dato che i miei studi volgevano ormai verso la filosofia teorica. Ferma era la mia devozione per un personaggio di una eticità superiore, assassinato dal regime fascista e, da quel che appare, emarginato dalla politica del Comintern, dato che fin dal 1923 Gramsci aveva un disegno politico “costituzionalista” che nasceva da una riflessione teorica sugli eventi politici e che si sarebbe mantenuto nel tempo, avendo a livello internazionale il problema di evitare irreparabili fratture nel gruppo dirigente che aveva condotto e guidato il processo rivoluzionario.
Negli anni ho letto - per la verità frettolosamente - le ricerche filosofiche che hanno restaurato nel suo ordine il lavoro teorico, la partecipazione politica, le vicende carcerarie vessatorie e quelle familiari, distinguendo sempre l’obiettività analitica dalla scrittura ad uso dell’opportunismo politico o anche comunicativo, la verità biografica dalle occasioni per gossip  eclatanti. La lettura del libro di d’Orsi ha precisato molto meglio queste distinzioni ed ha consentito di valutare con obiettività storica le congiunture politiche. Per essere chiari: non ho dubbi sul fatto che Gramsci in carcere non si trovò in armonia con i conflitti interni al Comintern che mettevano, a suo giudizio, in gioco l’unità politica del gruppo rivoluzionario e facevano pensare a sviluppi negativi nella società civile e politica.  


Gramsci, con l’aiuto del lavoro di d’Orsi, ci appare sempre un uomo politico della rivoluzione sociale con una prospettiva propria che nasceva, com’è comunemente ammesso, dall’analisi della sconfitta storica del socialismo italiano. Ne derivava una riflessione che, probabilmente in maniera indiretta, poteva valere anche per considerare gli effetti politici dei conflitti ideologici all’interno del Comintern . Su questo terreno, nella seconda metà degli anni Venti, la posizione di Gramsci in carcere era certamente differente da quella del vecchio amico Togliatti, al centro politico del Comintern e quindi conoscitore e interprete delle posizioni politiche che si stavano affrontando. La valutazione di Gramsci del resto non poteva essere più di tanto analitica, anche se sufficiente, perché si trovava in una posizione marginale nella comunità politica comunista nelle carceri italiane. Quivi Gramsci sperimenterà un trattamento iniquo, quasi a rendergli la vita ancora più difficile, privo della pur minima attenzione alle sue gravi condizioni di salute. Gramsci ne era consapevole e rifiutava ogni intervento esterno per migliorare la situazione poiché gli era chiaro che qualsiasi concessione avrebbe avuto, più o meno direttamente, un prezzo politico. E il regime, sotto questo prospettiva, non mutava una virgola, con lo stile del suo massimo duce (che controllava ogni referto della polizia) che aveva il suo storico precedente nell’assassinio nel ‘24 del leader socialista Matteotti.
A questo punto solo la giusta misura della mia competenza mi dissuade dal tentare un tracciato della figura psicologica del duce e, in fondo, anche della fascinazione che aveva avuto nel partito socialista del periodo anteguerra, forse con guasti retorici che andarono oltre il periodo antecedente alla sua espulsione. Sono tutte cose note, ma mi è grato ripeterle perché non hanno costituito un sapere storico diffuso, forse nemmeno a livello di quella che chiama “alta cultura”.
Mette quindi anche conto di seguire l’ottimo tracciato del libro di d'Orsi (del resto già molto ben recensito in questa rivista da Fabio Minazzi), al fine di indicare quali a me (interprete in un altro clima storico) paiono i punti salienti del suo pensiero.
Tutti sanno che nel ‘22 Lenin non appoggiò la scissione del gennaio del 1921 della frazione comunista del PSI. Posso solo supporre che Lenin avesse molto chiaro che la sua azione rivoluzionaria aveva potuto avere pieno successo perché essa s’innestava in un clima rivoluzionario che durava dal febbraio senza il conseguimento della pace e di un ordine sociale che andava al di là di una democrazia liberale. Queste condizioni pratiche non esistevano in Italia e, in genere, nei paesi occidentali: sia l’avanguardia dei teorici torinesi (e la forma del loro rapporto con la classe operaia) che l’estremismo rivoluzionario bordighiano non potevano interpretare condizioni sociali “rivoluzionarie” che non si mostravano presenti. La sconfitta storica della occupazione delle fabbriche (al tempo della “grande paura”, come Bosio definì nel periodo) si trovò di fronte, intatte, tutte le forze sociali, politiche, istituzionali di una struttura statale. Gramsci del resto era ormai nel gioco delle correnti del partito, dove sino al 1926 era netta la prevalenza di Bordiga, e anche in una linea differente da quella del Comintern. Dal lavoro di d’Orsi noi  però sappiamo che secondo Gramsci la linea corretta contro il fascismo era, già dal 1923, una costituente che non ripetesse il vecchio codice monarchico-liberale (del resto già ignorato dalla monarchia), ma costituisse una alleanza delle forze antifasciste dove il partito comunista svolgesse una funzione di avanguardia. Non credo che qui si debba trovare una linea politica o teorica definitiva. Ma la riflessione di Gramsci poteva avere un riflesso su quella condizione obiettiva che, secondo il suo stesso giudizio, mostrava che in quel momento le fondamentali organizzazioni che nascevano dal mondo operaio erano ancora guidate dal partito socialista (l’esempio di Milano era tipico).


Nel dicembre del 1923 Gramsci è a Vienna, dopo aver trascorso un anno e mezzo a Mosca. In URSS, dopo la morte di Lenin nel ‘24 (tanto i tempi brevi erano pesanti), cominciava a prendere forma il contrasto politico tra Trockij, Zinov'ev, Bucharin e la maggioranza dell’Internazionale. Gramsci si trovava dalla parte della maggioranza, ma con il proposito che il dissenso dovesse essere composto conservando l’unità del gruppo politico che aveva fatto e difeso con la guerra la rivoluzione. È del tutto noto che l’obiettività politica con la sua durezza diede torto a Gramsci, il quale già nel ‘24 (soltanto nel ‘26 al congresso di Lione divenne segretario del partito) organizzò la nuova serie dell’«Ordine nuovo», una rivista più teorica di quanto non fosse interessata alla cronaca politica.
In una ricerca che andasse oltre le preziose pagine di d’Orsi, sarebbe significativo interessarsi dei temi che Gramsci veniva sviluppando. Gramsci - sostiene d'Orsi - non va ancora nella direzione di un ripensamento dalla sconfitta storica della classe operaia (che è comune opinione considerare come il nucleo centrale delle ricerche dei Quaderni dal ‘29 al ‘33). La direzione della rivista, nonostante la sua prevalente direzione teorica, era in una situazione molto diversa da quella degli esordi del partito. Era finita - dice Gramsci - la “festa massimalista”, espressione che vale per l’estremismo di Bordiga e certamente anche per i socialisti massimalisti. Una linea più aderente alla situazione, per esempio alla Machiavelli (come Althusser), forse era ancora nell’ombra perché Gramsci, alla morte di Lenin, scrisse un celebre articolo in cui nel politico russo vede una figura storica universale, proprio come avrebbe detto Hegel. Una idealizzazione, forse suggerita anche dalle circostanze, che “storicamente” si trovava in altro spazio ideale rispetto ai conflitti che si aprivano per il potere politico dopo la morte di Lenin. Gramsci, per così dire, ha un vizio d’origine che, se non sfuma nell’astrazione, è un pregio fondamentale: una politica va pensata nella sua contingenza e nel suo fine. Che è un’altra cosa dal pensare la politica in una ontologia storica. A mio parere Gramsci si trova ancora stretto tra le due prospettive, situazione che si può pensare di dirimere con il “pensiero”. Nel suo testo d'Orsi sottolinea che Gramsci, rispetto alla tradizione giacobina e idealista “dall’alto”, parla di una dittatura espressa “dal basso”. Politicamente era un rovesciamento rispetto all’esito autoritario e burocratico dello Stato, tuttavia è ancora una posizione idealistica, come se una mutazione dei rapporti sociali e della struttura dello Stato potesse derivare da una “coscienza” collettiva popolare.
Gramsci continua a riflettere sul problema del partito all’interno di una nuova coalizione antifascista e nel ‘24 fonda «l’Unità», dove il titolo indica anche il fine: un pensiero che, avverso alla linea di Bordiga, l’aveva occupato anche l’anno precedente. Ma, e qui è lo sguardo un poco parassitario che mette ogni fatto in “storia”, la resistenza al fascismo, dopo il superamento della crisi del delitto Matteotti, era ormai impossibile. Posso aggiungere alle valutazioni preziose di d’Orsi che a volere la sconfitta non solo del movimento operaio ma del sistema democratico era anche la spregevole figura del re, cui faceva riferimento ancora l’apparato burocratico e militare. Tuttavia, un vero senso critico era assente anche nell’area comunista, se il partito rivolgeva inutili critiche al PSU, come d'Orsi testimonia nelle sue pagine. Credo si possa dire che si era ancora nella festa ideologica, il cui costo per Gramsci fu distruttivo; per il paese il prezzo fu il cammino verso la costruzione di uno Stato-potenza quando mancavano anche le condizioni strutturali che potessero condurre una nazione alla forma-Stato.  Ciò aveva a che vedere con il tema dell’unità d’Italia che Gramsci studiò in modo esemplare, sottovalutando forse le forme “mafiose” che costituivano parte essenziale della riproduzione sociale complessiva. Gramsci, nonostante le prerogative di deputato, viene arrestato nel novembre del 1926.


La storia della carcerazione di Gramsci è stata scritta molto bene da Ruggero Giacomini ne Il giudice e il prigioniero. Il carcere di Antonio Gramsci, Castelvecchi, Roma, 2014. È una vicenda tragica e nel suo profondo, volutamente punitiva: i feroci trasferimenti, il trattamento violento, la mancanza di cure necessarie alle sue condizioni di salute. E poi gli inganni cui è sottoposto dalla procura e, al contrario, i tentativi generosi, vari, ingenui e anche controproducenti della cognata Tatiana, i talora non facili rapporti con gli stessi compagni. Un labirinto aggressivo nel quale Gramsci mostrava tutta la sua forza morale: memorabile il suo incontro con Sandro Pertini. Ne ho ricavato l’impressione che, in ogni caso, riguardo alla vita intellettuale e affettiva di Gramsci in carcere vi fosse sempre non solo la vigilanza della polizia, ma il voler sapere da parte del capo del governo. Con una condizione sempre pendente sul capo di ogni carcerato: la grazia era possibile solo alla condizione di una dichiarazione di sottomissione e obbedienza al regime. Ciò che si voleva era, al di là della punizione dello sconfitto, la sua umiliazione morale, la sua distruzione interiore. Gramsci rimase fino all’ultimo giorno di vita il segretario del partito comunista. Su questi temi lascerei volentieri l’attenzione al libro già citato di Ruggero Giacomini, che intitola una degli ultimi capitoli dell’opera “L’assassinio.
Dal punto di vista dell’analisi culturale sarebbero molti i temi da discutere, così come del resto è avvenuto nella tradizione storiografica. Ne privilegerò solo alcuni, dove mi pare di non essere superfluo. Fondamentale è il concetto di egemonia culturale e sociale, senza la quale non è possibile un progetto di trasformazione dei rapporti produttivi e dei loro rapporti sociali. Non si tratta di contare i voti elettorali (esito cui del resto Gramsci non era indifferente), ma di agire politicamente con un consenso che derivava da una comune partecipazione ad un ethos. In questa prospettiva una funzione particolare di guida morale e di sentimento collettivo spettava  all’importante figura degli intellettuali. Fu una prospettiva che ebbe successo nei primi anni del dopoguerra (anche se non mancava affatto il costume volgare e contraddittorio della sorveglianza ideologica). Oggi l’egemonia del costume, del comportamento, della mimesi e della speranza è passata ai mezzi di comunicazione di massa che formano gli intellettuali secondo i loro codici. Un secondo tema riguarda il modo storico (la famosa rivoluzione passiva) attraverso cui è nato lo Stato italiano del Risorgimento, come azione intellettuale e politica dei ceti dirigenti senza una autentica partecipazione popolare. Il voto popolare del referendum, dopo la conquista statale-piemontese del Sud, così come viene descritto nel Gattopardo, ne è una esemplificazione. Sono conseguenze che arrivano sino ad oggi, se si analizzasse di più la cultura locale in senso antropologico e di meno nella sua forma di rappresentazione e di potere statuale.
Terzo tema gramsciano che a me non pare sia stato convenientemente sviluppato: lo studio iniziale del modo tecnico di produzione americano che, dopo la grande crisi del ‘29 e la ripresa economica dell’economia di guerra, diventerà, assieme allo sviluppo del capitalismo, il modello della produzione mondiale. L’aver individuato, nel quadro culturale italiano, questa dimensione economica non eurocentrica credo che vada segnalato come un merito intellettuale di Gramsci, specie se è paragonato sia alle “teorie” marxiste sia all’economia politica universitaria. Riguardo a una considerazione dello sviluppo produttivo americano, che avrebbe portato con sé una trasformazione mondiale del capitalismo, il marxismo italiano era rimasto piuttosto silente, se teniamo presente che le categorie interpretative del Comintern erano quelle del Capitale, per lo più dogmatizzate e tolte della loro dinamica storica. A mio avviso fu proprio questa critica e questo sviluppo che mancò alla cultura marxista italiana, al contrario di Gramsci che aveva intuito le potenzialità del nuovo sistema produttivo che avrebbe agito non solo sul mercato, ma sulla trasformazione dell’immaginazione sociale. La comprensione del mondo americano, che fu più semplice per la cultura mitteleuropea, in Italia ebbe un’eco importante nella letteratura degli anni Trenta, ma non ebbe una risonanza sufficiente nell’analisi storica del capitalismo. Per essere sincero devo dire che, da quello che ho letto nelle biografie di dirigenti comunisti clandestini, ho la convinzione che le loro analisi fossero molto lontane dalla realtà.


Non desidero certo che i limiti della mia informazione agiscano sul giudizio, ma la storia politica di Gramsci ha la radice del suo epilogo: nella famosa lettera del 14 ottobre del ‘26 quando egli, rispetto al Comintern, prese posizione per l’unità del partito uscito dalla rivoluzione, quindi del tutto in opposizione allo scontro politico che emarginava Trockij, Zinov'ev, Kamenev dalla direzione politica e ne faceva, al contrario, degli oppositori degni delle più grandi pene. La lettera di Gramsci, come si sa, non fu consegnata da Togliatti al destinatario del vertice comunista, in quanto documento non opportuno. Gramsci ebbe una reazione molto dura e noi oggi, anche senza entrare in particolari analisi ben valide nell’orizzonte della verità storica, possiamo dire che Gramsci, nella solitudine carceraria, pur essendo il segretario del partito comunista, fu una figura marginale rispetto alla forma politica che aveva preso il comunismo internazionale diretto dall'URSS. La vera e possibile risposta di Gramsci, tra il ‘29 e il ‘33, fu il suo lavoro culturale consegnato ai Quaderni. La conclusione sembra poi a livello del senso comune: la politica comunista dopo il ‘44 fu, contemporaneamente, attenta all’egemonia e all’insegnamento della gestione politica machiavellica (e non hegeliana), mentre Gramsci diventava il punto di riferimento di un’intera cultura, almeno storicista, anche con quella censura politica che all’“intellettuale collettivo” pareva più opportuna. I testi furono valorosamente restaurati, ma ormai era un lavoro che entrava nella ontologia filologica, un poco professionale. Gramsci  era “oggettivato” in quello che era la sua corretta e giusta verità, sempre per quanto possibile. Non so nei paesi del Sudamerica, dove la concezione gramsciana delle “classi subalterne” ha avuto certamente un’eco importante, ma da noi - va detto - la verità di Gramsci coincide con un Gramsci perduto.


Addendum. Studi storici
Tra i più recenti studi storici un suo rilievo ha il lavoro di Andrea Ginzburg
Two traslators: Gramsci and Sraffa, «Contributions to Political Economy»,
34, 31-76, 2015 di cui do qui il testo dell’Abstract.


Abstract

Through the Prison Notebooks and the papers left by Sraffa, it is possible to attempt a reconstruction of the intellectual paths taken by the two authors and discover unexpected convergences, as well as obvious differences. The key concept employed here is that of the 'translatability of scientific languages'. From this concept, Boothman has argued, stems the 'open'  character of Gramsci's Marxism. The theme of the translatability of languages is also present in Sraffa: in a Note written after the important theoretical turning point of the summer of 1927, he states his intention to write a book that will consist in the translation of Marx into English, that is in the translation of the 'metaphysics' of Hegel into that of Hume. It can be shown that issues that have a prominent importance in Gramsci's thought help us to understand the meaning and importance of Production of Commodities by Means of Commoditie.

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PAZZI -SERENI: Un carteggio
di Fulvio Papi
Vittorio Sereni

Su Roberto Pazzi non posso dire molto di più rispetto a quanto non percepisco dallo stesso epistolario. L’ignoranza ha le sue pene. Dall’epistolario con Sereni deriva una figura di giovane alla ricerca di sé attraverso il riconoscimento del proprio desiderio di essere poeta. Il luogo d’incontro è Bocca di Magra che, come tutti sanno, fu per anni lo spazio marino di frequentazione di una grande parte degli intellettuali (del Nord) di altissimo livello. Un “luogo-storia” che ha avuto il suo eco poetico nel celebre poemetto di Sereni Un luogo di vacanza, che resterà come uno dei documenti più importanti della letteratura del ’900. Un testo molto studiato, ma difficile dal punto di vista stilistico poiché lo stile muta come se ogni livello fosse un’ouverture. Il rapporto morale sotteso con Fortini è, al contrario, molto semplice da comprendere. Ma ora devo dire qualcosa su Sereni “pedagogista” che intrattiene un lungo rapporto epistolario con il devotissimo (e ambizioso) giovane Pazzi che desidera indirizzarsi verso un’esperienza poetica autentica che gli consenta di specchiarsi come candidato alle cime del Parnaso, al di là di ogni piccolo narcisismo. Per chi come me, del resto filosofo, ha conosciuto la vita, il lavoro, gli umori, le emozioni tacite di Vittorio, questo epistolario è, in un certo senso, straordinario. Credo che solo Franco Loi, Raboni e qualche altro poeta di valore che però non ricordo, abbia ottenuto l’attenzione che Pazzi ha ricevuto da Sereni. In fondo il giovane Pazzi da Sereni vuole due cose in realtà incompatibili tra loro. Chiede implicitamente come si diventa poeta, e desidera che l’autorità letteraria di Vittorio riconosca la positività dei suoi passi iniziali. Sono due richieste che Sereni, per tutta la vita, ha tenuto lontano da sé. Fu un tema che travagliò il suo difficile e affettuoso rapporto con Fortini. Questo rapporto resterà fondamentale nella storia letteraria del ’900. 


Roberto Pazzi

Al giovane “in erba” (l’espressione è di Pazzi), Sereni in un groviglio di giudizi, consigli, opportunità, si trova a provare a insegnare (non si può) come si diventa poeti, e quale possa essere, nel caso, l’accoglienza del mondo. Il secondo tema -dicevo- è difficile da insegnare a chi voglia un proprio posto al di là del silenzio. Il primo tema, la poesia, è impossibile. Per insegnare qualcosa bisogna che essa sia pubblica, cosa difficile per ogni poesia (non è questione di “soggetti”), impossibile per quella di Sereni. Forse il giovane Pazzi non indovinava quanto difficile fosse questa relazione per Vittorio. Una poesia come ogni cosa, nasce in un contesto, ma in Sereni il contesto generico  della poesia serve solo per trovare una possibile identità propria che è un lavoro interiore per il quale è necessario il consumo vitale del tempo. Quello che appare immediatamente è invece un vedere, un sentire, un immaginare senza profondità, una dispersione del soggetto nella pluralità del mondo; le parole volano come vento anonimo. Invece nella prospettiva di Sereni le parole ritornano come antiche sculture che hanno il loro giardino sottratto alla “comunicazione comune”, traducono una sua memoria già lontana. Selezionare così la scrittura poetica è un faticoso destino. Come si può insegnare? A Pazzi cui ho dato così poco, vorrei solo ricordare il comune amore per Ferrara. Fui chiamato alla cattedra di quella Università nel 1970 e vi rimasi un solo anno che ricordo sempre per l’architettura preziosa e l’amabilità delle persone, la disponibilità dei colleghi, la gentilezza delle mie allieve che con diligenza seguirono un ostico corso teoretico, piuttosto estraneo ai colori della loro vita. Un ricordo così rimane come un’architettura interiore, anche se io sono solo un filosofo.


Roberto Pazzi- Vittorio Sereni
Come nasce un poeta
Epistolario 1965-1982
A cura di Federico Migliorati
Minerva Ed. 2018
Pagg. 176  € 15.00


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RENZO E L’ECONOMIA POLITICA
di Fulvio Papi

Manzoni doveva conoscere, tenuto conto del suo tracciato intellettuale, gli elementi essenziali dell’ormai nota economia politica, autori francesi e traduzioni in francese della cultura economica inglese. Credo sia un sapere carsico che tuttavia emerge, rilevante, a livello narrativo. Se la vita quotidiana è dominata dalla coscienza religiosa, quando essa si riflette sulle scelte individuali, intese come “bene-essere” appare dominata dal denaro. Il denaro nei potenti è invisibile perché, quasi da solo, prende il suo cammino sociale senza che il proprietario abbia da comparire in primo piano; il denaro è sempre trasfigurato nella forma di vita come appropriato al proprio rango sociale. Suppongo, per esempio, che il palazzo Borromeo (per stare ai cognomi manzoniani) che domina, con il suo giardino, l’Isola Bella, in termini di denaro sia costato una cifra enorme. Tuttavia del tutto sopportabile in relazione alla rendita fondiaria della famiglia Borromeo. Il nobile, il “potente”, dispone del denaro in modo simile all’acqua, dell’aria o delle mani. L’investimento fondiario appartiene solo molto alla lontana ai calcoli economici, è piuttosto una dotazione dell’identità della famiglia e della certezza di sé. Sono i poveri che, aiutati dalla provvidenza, sanno fare i calcoli economici più elementari che li riguardano, perché nelle loro condizioni il denaro, diviene necessariamente il tramite del loro desiderio di una vita buona dal punto di vista dell’agio possibile: nella loro mentalità siamo al confine tra il denaro come “tesoro” e come “equivalente universale”.
La storia del Renzo manzoniano diventa esemplare da questo punto di vista. Il giovane povero e sprovveduto, nei giorni bollenti di Milano per la carenza del pane, non comprende qual è, anche se apparentemente invisibile, il potere pubblico dell’autorità dominante e, per incapacità a riflettere sull’obiettività della situazione, diventa, nella sua ingenuità, una figura di criminale, per anni ricercato dalla polizia, ma in quella situazione di carenza, ottimo autodidatta della potenza del denaro, e della relazione tra il valore d’uso della sua abilità di tessitore con il valore di scambio riconosciuto da tutti.


Una delle pagine più giustamente famose del romanzo di Manzoni, è quella che interpreta il sentimento dei fuggiaschi, attraverso il percorso necessario per le acque quiete del lago: “Addio monti sorgenti...”. Stando le cose come si erano messe, non c’era probabilmente altra via per la salvezza. Nell’animo di chi fugge nasce un inno all’Heimat, il luogo che per ragioni facilmente intuitive, diventa la condizione della propria vita, il riconoscimento sereno di se stessi, che, per le persone semplici, ha un valore vitale, almeno pari a quello della necessità di denaro, una condizione spontanea della propria vita. Se dovessimo fare una questione di personaggi, questo sentimento interiore pare, come l’affetto e la dipendenza dalla madre, appartenere soprattutto a Lucia. Come il segreto nascosto della sua vita. Renzo è costretto ad assumere l’identità che i poteri pubblici gli hanno conferito: un colpevole che deve nascondersi con l’aiuto di calcoli elementari che nascono dalla sventura. Renzo ha una sua capacità, una capacità opportuna di decisione, una intuizione dei pericoli suggerita da una spontanea strategia per la propria difesa. I suo “reati” restano nella burocrazia giudiziaria, un segno la cui efficacia può essere neutralizzata attraversando l’Adda per raggiungere la terra di Bergamo, sotto la giurisdizione di Venezia, tutt’altro che in condizione amichevole con l’occupazione spagnola di Milano e dintorni. Nella nuova situazione Renzo valorizza la sua abilità di tessitore, un lavoro “socialmente utile”, e anche in tempo di crisi, questa proprietà personale e mercantile è il solo denaro di scambio che garantisce sicurezza. Il prezioso e commovente Heimat ha guadagnato il silenzio. Non è il caso di rievocare le vicende lavorative di Renzo, se non per indicarne la strada maestra, da abile operaio dipendente a piccolo imprenditore, in società con il cugino. Rilevano una piccola manifattura ereditata da un giovane, dominato dal piacere, che vuole convertire al più presto l’immobile in denaro per i suoi scopi. Immoralità del piacere e moralità dell’uso produttivo del denaro, vengono sulla scena. Sono “valori” dell’esistenza che Renzo ha respirato nell’aria, facilitati dall’economia mercantile della “Serenissima” piuttosto che dall’uso consumistico del denaro, tipico dell’occupazione spagnola di Milano. Per questa via di una nuova esistenza socialmente strutturata, cade nell’oblio il sentimento che nasceva dalla perdita del proprio “luogo”, l’addio ai monti, al lago: l’Heimat diventa una dimenticata scenografia, forse un ricordo ornamentale di cui non si parla nemmeno. L’economia politica comincia, come sentimento di sé, dal basso. L’estetica appartiene alla ricchezza invisibile che costruisce uno stile. Se vogliamo ricordare la lezione dell’antropologia che, in ogni caso, fa questione del maschile e del femminile, possiamo immaginare che Lucia, magari attraverso la figura della madre, custodisca una sua memoria. Al maschile va invece l’idea del denaro come provvidenza terrestre che distribuisce le condizioni di esistenza. L’individualismo sociale nasce come difesa dei poveri, l’individualismo dell’anima come tormentato costume dei ricchi? Non è l’abbozzo di una interpretazione, ma solo una debole traccia.
Nel bellissimo libro di Karen Blixen La mia Africa si legge: “Strappare ad un uomo la terra dove è nato significa strappargli il suo passato, l’identità, le sue radici, togliergli ciò di cui è abituato, vedere ed aspettarsi di vedere, è un po’ come portargli via gli occhi. E questo vale soprattutto per i popoli primitivi”. Renzo nostro è un analfabeta ma non un primitivo, quindi facile a diventare scolaro del pubblico sapere e della personale adesione alla potenza sociale del denaro: annuncia la modernità.
Il denaro è “fra i significanti il più annichilente ogni significazione”, con Lacan nel Seminario della lettera rubata.

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IL TRAMONTO DELLA SCRITTURA E…
di Fulvio Papi


La vecchia battaglia dell’ottimo Tullio De Mauro per l’alfabetizzazione come forma di libertà e di democrazia, è accaduta come poteva accadere materialmente. C’è un italiano, mediamente televisivo, che è piuttosto comune, tuttavia molto povero. Poi com’è naturale vi sono numerosi idioletti. Che questo avvenga in settori specifici della vita sociale è ovvio, anche se la prosa burocratica (e bancaria) potrebbe anche essere più al servizio di chi deve capire. Ma quanto avviene in politica è più grave: quivi il significato si circoscrive a parlanti di una corporazione che stabilisce i termini di intesa o di conflitto in una specie di autobiografia semantica condivisa, povera all’origine, e, impoverita da Tivù e Internet (cerchiamo di ricordare quanto aveva detto Eco). In ogni caso lontana dall’antico tentativo politico di cercare, nel rapporto col linguaggio-realtà, un’idea di bene collettivo.


Chateaubriand
Dunque 600 professori universitari hanno scritto al governo e al parlamento che i loro allievi non sono in grado di scrivere in italiano corrente. Sono certi che gli insegnanti sono preoccupati da tempo da questo fenomeno di grave retrocessione culturale. Tullio De Mauro, autorità assoluta nel campo, questo crollo generazionale della scrittura, lo denunciava da tempo. E se andava in crisi la scrittura, una sorte analoga doveva toccare anche alla lettura, poiché vi è sempre un parallelismo, anche se nient’affatto assoluto. Come ognuno sa, e forse prova, è del tutto possibile leggere una lingua nella quale si potrebbe invece scrivere malissimo. Ma nel caso dei nostri scrittori falliti vi è una corrispondenza con la lettura, poiché nel caso della propria lingua la competenza è molto simile. Se dovessi dire il mio parere, desolato, affermerei che ormai abbiamo perso il treno, o, cambiando metafora, ora di tristissima memoria, la slavina ha raggiunto la valle. Tenendo presente la pluralità di fenomeni che hanno concorso a questo risultato, potrei concludere che si è compiuto quel fenomeno sociale che Roland Barthes tempo fa aveva indicato come il ritorno a una società orale. A mia memoria non ricordo nessun ministro, nella nostra più recente storia, che si sia posto questo problema. Restava il tema del primo Novecento della alfabetizzazione (che meriterebbe un’analisi accurata sul suo senso), un tema che, molto in generale, si poteva considerare quasi risolto, poiché la percentuale dei ragazzi che non completavano il ciclo della scuola dell’obbligo -comunque alto- era certamente tale da non impedire di sostenere che, a livello dello stato, il problema era stato affrontato. I disagi e i fallimenti venivano subito dopo, poiché nella maggior parte dei casi questo piccolo patrimonio nelle relazioni della propria vita sociale andava perduto. Né più né meno come al “giovin signore” che, a otto anni, sapeva manovrare il tedesco che gli aveva insegnato l’istitutrice, a venti è capace solo di distinguere l’entrata dall’uscita, ma un qualsiasi giornale tedesco gli era del tutto inaccessibile. È il famoso analfabetismo di ritorno, che è un gravissimo problema per chi governa, probabilmente meno per un sistema politico che nei documenti che prendono la strada informatica si può leggere una composizione italiana che stilisticamente era propria degli uffici postali superata, senz’altro, dalla prosa delle agenzie di promozione turistica che distruggevano l’aggettivo 
“sorridente” per indicare il pregio della località che cercavano di favorire. 


De Mauro

Ovviamente qualsiasi potere fa tranquillamente a meno della competenza linguistica, l’importante è che la lingua, divenuta occasione di segni performativi, ottenga il suo risultato pratico. Ma non bisogna identificare il potere con gli stati autoritari, il potere è diffuso per molte vie nelle società e, invisibile, detta in luoghi diversi le pratiche di comportamento. Quando Popper, decantato più del necessario, parlò di “società aperta” aveva in mente il rapporto legislativo dello stato con le condizioni di libertà dell’individuo. Solo molto tardi criticando gli effetti sociali della televisione, fu costretto ad accorgersi che i poteri erano vari, diffusi, legali, consensuali, eppure potevano produrre risultati negativi. Così viene spontaneo il ritenere che quando un pensiero non è più adatto per comprendere una situazione, è importante cercare di disegnare la storia di questa decadenza. La scrittura era diventata un pregio, una possibilità, un lusso o un vezzo di chi poteva permetterselo, mentre “i più” potevano farne a meno nella loro prassi. Ed era proprio la mancanza della necessità di questo sapere che ne provocava la decadenza, perché non era così importante la sua trasmissione. I robot per esempio non parlano nel senso comune, ma la grande industria è robotizzata. Al contrario provate a pensare al tempo quando esistevano i manuali per le lettere d’amore poiché qualsiasi personaggio del lavoro e delle armi, riteneva più conveniente comunicare con l’amata attraverso forme scritturali che elevavano i suoi sentimenti, operazione desiderata, ma purtroppo, estranea alla sua competenza linguistica. Può sembrare strano ma all’analfabetismo di ritorno, a livello della cultura alta, la scrittura era sottoposta a un esame critico molto sottile. La scrittura per esempio non era molto amata dai giovani antropologi, allievi di Lévi Strauss. Essi vedevano in alcune popolazioni amazzoniche la lontananza da tutte le strutture sociali repressive (quanto usata male la parola freudiana!) del nostro Occidente: lo stato, le leggi, lo scambio economico capitalistico, l’organizzazione della produzione. Erano “estremisti” un po’ fuori strada, ma scrittori di una lingua esemplare che, per la verità, si tramandava in Francia più che da noi, e così capitava che, come per il maestro, anche per i più giovani, bisognava rievocare le pagine di Chateaubriand. E poi c’è la parte filosofica che vedeva nella scrittura di tipo concettuale, il superstite superbo della catastrofe di un parlare metaforico, prossimo all’esperienza della vita, senza voli scritturali nel cielo delle idee da dove nasce il fiore unico e “nefasto” della metafisica. 



Ho preso il problema un poco dall’alto, ma mi perdoneranno i miei così cari colleghi, se dirò che non ho mai sentito far seguito alle loro sottilissime, importanti e decisive critiche tipiche del nostro mestiere, la richiesta dell’abolizione dell’insegnamento della scrittura nella scuola. La filosofia ha diritto a tutte le prove libere del pensiero, come la società ha diritto a conservare al meglio possibile i suoi risultati sociali e collettivi. L’identità di due livelli è un pessimo segno. Ma è proprio questo il punto più complicato. La vita sociale non deriva dal pensiero, essa accade secondo ragioni che sono quelle che sono e niente di più. 


Tabucchi

La società, la nostra società che si globalizza in seguito alla sua globalizzazione economica, ha uno sviluppo (non dite “progresso”) straordinario: produttivo, tecnologico, finanziario, mercantile, e, a livello delle soggettività che ne derivano, ludico, materialmente individualistico, spettacolare, consumistico, assente dai bisogni del miliardo di uomini che nel mondo hanno ancora mancanza di cibo sufficiente. Forse posso dire che noi occidentali consumiamo il mondo: noi non sappiamo quello che siamo. Forse ho allargato troppo il panorama, ma la critica non è indignazione, ma è sapere, conoscenza attraverso relazioni, nuove prospettive di apprendimento, saper distinguere. Ora la crisi della scrittura va connessa in modo diverso con alcune prospettive che ho evocato, così come la scrittura è stata una forma fondamentale della modernità. Ora abbandoniamo i “picchi” più elevati, del resto appena sfiorati, intorno alla scrittura. La scrittura come abilità pratica, che può essere praticata a diversi livelli, ha caratteristiche simili a ogni altra pratica dell’esistenza. Non c’è nessun corridore in bicicletta che non abbia imparato da piccolo a maneggiare le due ruote, non c’è idraulico che non abbia imparato facendo, sotto una buona guida, il suo mestiere. Saper praticare la scrittura non ha nulla di sostanzialmente differente, solo che la bicicletta o gli strumenti dell’idraulico, nel caso della scrittura, è certamente la lettura. Nessuno impara a scrivere se non attiva particolari possibilità di mimesi attraverso la lettura. Do per scontate tutte le riforme che sono nate intorno all’apprendimento della scrittura e anche le altre che hanno arricchito (in linea di principio) i rapporti tra gli insegnanti e gli scolari, ma l’obiettivo della comune conoscenza della scrittura doveva essere rigorosamente mantenuto. È corretto favorire le attività relative all’espressione immaginaria, così come quelle che derivano dal corpo come sistema di segni, è giusto favorire ogni forma di socializzazione dei bambini sottraendoli alla solitudine operativa tra se stessi e il modello della scrittura, ma questo arricchimento non doveva rendere fragile, com’è avvenuto, l’apprendimento della scrittura. Il che, come ho già detto, può avere successo se si stabilisce un rapporto tra lettura e scrittura. Non sto parlando della “Gente di Dublino” ma delle avventure del corsaro nero. Se si legge, opportunamente guidati, si impara anche a ripetere e, con un opportuno addestramento, anche a ripetere attraverso la scrittura che diventa il proprio mezzo fondamentale di comunicazione. E qui si apre un problema che è di cattivo gusto mettere da parte. Se tirassi dritto per la strada che ho preso, potrei dire che se la narrazione viene argomentata secondo una sequenza di immagini, l’apprendimento della scrittura tende a deperire. E qui mi trovo di fronte alla straordinaria (e da me molto amata) figura di Umberto Eco che non ha mai messo al margine i fumetti, sino a farne quasi un libro. Qui il problema è il rapporto tra parola, immagine, tempo di lettura. L’immagine non annichila affatto il significato della parola, la fissa, la circoscrive e la tipicizza. Il che riduce l’apprendimento “polisemico” del significato, ma rafforza l’apprendimento di quel significato. Può risultare un mondo fatto di modelli, ma l’esperienza poi li modifica e ne mantiene la memoria come un’esperienza di un’altra età. La questione della povertà della scrittura oggi ha motivazioni più complesse. 


Roland Barthes

Per esempio la fruizione dell’immagine televisiva è completamente differente, essa, in breve, ha una sua temporalità che si manifesta in un campo prevalentemente visivo che si rinnova nella forma di un costante presente. Non c’è lettore (fumetti compresi) c’è solo lo spettatore che non ha nulla di “aristotelico” (sto pensando al teatro), ma è puro consumo di rappresentazioni che non possono diventare nemmeno in minima parte, esperienze, conoscenze, mitologie interiorizzate. Il che ha necessariamente le sue conseguenze nella propria capacità di una espressione scritta, per il semplice fatto che non c’è niente da esprimere. Non sottovaluterei nemmeno l’influenza sul linguaggio, soprattutto giovanile, da parte del lessico delle canzoni. Non è affatto raro trovare testi che hanno un loro valore comunicativo di natura fortemente emozionale. Anche le parole che appartengono a brevi racconti musicali hanno la medesima caratteristica. Se la tradizione della poesia omerica era “il sapere della tribù”, possiamo dire che le forme emotive e sapienziali delle canzoni contemporanee spesso costituiscono un sapere diffuso e ampiamente condiviso. Questo vuol dire che il significato della parola acquista un forte valore emotivo, e, tuttavia, esso viene circoscritto, proprio dalla sua dizione musicale, al significato emergente nella canzone medesima. Può essere ripetuto nel canto, individuale o corale, ma non diventa una pedina polisemica in un gioco linguistico, intensifica l’emozione ma riduce l’arco significativo. La conseguenza di questa frequentazione, prevalente rispetto alla lettura anche di classici della poesia, è certamente un impoverimento del linguaggio e quindi della forma corretta della sua scrittura. Capisco che ho rovesciato la tesi del giovane Nietzsche a proposito della musica di Wagner: ciascuno nella sua gerla ha quello che ha. Inoltre: se non si è capaci di saltare un corda alta cinquanta centimetri, è probabile che questa incapacità sia vissuta come una frustrazione. Non accade affatto la stessa cosa relativamente alla povertà del proprio linguaggio, poiché vi sono supplenze tecnologiche che, di fatto, selezionano socialmente la competenza linguistica, provocando, esse, un insegnamento di base. Qualsiasi comunicazione è orale, e la rappresentazione scritturale, nel caso, ne è solo la copia. Abbiamo così una comunicazione ridotta a poche parole che abbassano la loro possibilità di significato a quella di segno. Tutti sanno che il segno “apre” e “chiude” e nel momento stesso indica una esperienza, il significato può impegnare il destinatario a una interpretazione che lo mette in gioco sulla sua capacità di manipolare significati. Lo scambio dei segni impoverisce la comunicazione, il colore della vita, la conoscenza della scrittura. 
Tolstoj

Credo che queste forme dominanti dell’esperienza che vanno dalle elementari all’università, siano sufficienti a mostrare il processo di impoverimento della lingua. Ma, ovviamente, i fenomeni sono molto più complessi. Non molto tempo fa si sosteneva che la comunicazione Internet (l’auto-convocazione) sarebbe stata la realizzazione piena della democrazia, perché ognuno sulla Rete avrebbe potuto dire quello che pensa o desidera. Il modello più antico era quello della “piazza” della Rivoluzione francese. E qui l’errore è stato fatale: ricordo la fase di un semiologo di prima grandezza: “adesso il guaio è fatto”. La comunicazione in Rete deve essere fatta in poche righe, il pensare è invece un’operazione relazionale e analitica che richiede un lessico ampio e una dimensione temporale relativamente ampia. È accaduto che in Rete corrono solo luoghi comuni, tracotanti banalità, intenzioni vagamente benefiche, stupidi raggiri et similia, provocando una lettura e un procedimento di apprendimento e di risposta a livello del “puer iracondo” che rimette in circolo le poche parole d’origine in un processo che va all’infinito. Poiché, salvo eccezioni, questo modello stilistico condiziona giornalismo, saggistica e letteratura. E credo, sia giusto dirlo, ma non è poi strano che, nell’insieme delle condizioni che ho cercato di evocare, i ragazzi perdono (poiché di questo si tratta) il tesoro della lingua. Mi auguro che sia passato il tempo in cui ogni invenzione tecnologica sia pensata come “progresso”, senza riflettere, in generale, sulle sue conseguenze (progetti e profitti). Non è affatto arguto farsi prendere dalla nostalgia per la penna d’oca di Goethe. 


Dostoevskji

Ma si dovrebbe osservare che nel prezzo pagato per fruire di microtecnologie molto utili, sia proprio l’impoverimento della lingua e l’inesperienza delle sue possibilità. E qui non è il caso di universitari che confondono l’arringa con l’aringa, il problema è più grave poiché da tempo siamo quasi tutti d’accordo che il linguaggio costituisce la nostra possibilità di essere. Per questo chi era nell’aria socialista pensava che fosse necessario rendere possibile alla “forza-lavoro” di saper dire se stessa, una questione di istruzione e di libertà. Teoricamente non c’è nulla di cambiato, storicamente sì. A formare le esistenze è ormai la povertà e l’inquinamento del linguaggio come limite e impossibilità del proprio essere. Per un grammatico (di quelli che cento anni fa non piacevano a Croce) un errore è solo un errore, invece è di più, impoverisce ogni atto della vita, riduce molto le sue potenzialità così faticosamente acquisite, valorizza solo i linguaggi formali che sono essenziali, ma non sufficienti. In teoria c’è una marcia indietro, ma il problema è sociale: potrà invece essere solo un giardino di Adone dove la fioritura è del tutto fuori stagione?   

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“L’idea di socialismo”. Sul libro di Axel Honneth
di Ferruccio Capelli

La copertina del libro

1. Discutiamo seriamente il libro di Axel Honneth, “L’idea di socialismo”: la scelta stessa di uscire con un libro di questo genere, con questo titolo, con questo argomento, rappresenta un fatto culturale. Erano anni che il socialismo era scomparso dalla pubblicistica, quasi come un “residuato bellico, un sopravvissuto”. Ora è il direttore del celebre Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, l’allievo di Habermas, che ci invita a rimetterlo nell’agenda culturale e politica. Si tratta di un’occasione da non farsi scappare.

Axel Honneth

2. “Socialismo”: questa parola ha una storia lunga alle spalle. Honneth ne rintraccia le prime apparizioni addirittura nel XVIII secolo: sembra venisse usata in modo spregiativo contro i sostenitori del diritto naturale che volevano fondare l’ordinamento giuridico sul naturale impulso umano alla socialità e non sulla rivelazione divina. In realtà nel significato che noi conosciamo, ovvero come parola che vuole indicare una nuova forma di organizzazione sociale, appare in Francia verso il 1830, probabilmente grazie alla penna di Pierre Leroux. Era la Francia che aveva appena dietro le spalle la cesura storica della Rivoluzione francese: Honneth giustamente stabilisce un legame strettissimo tra gli ideali della rivoluzione francese e la nascita dell’idea stessa di socialismo. Generalmente si è soliti dire che l’idea di socialismo nasce in contrapposizione a quella di individualismo che inizia ad emergere negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese. 
Honneth sposta leggermente l’accento: depura o lascia sullo sfondo questo elemento polemico e sottolinea un nesso inscindibile tra l’idea di socialismo e due valori portanti della rivoluzione francese: la libertà e la fraternità. Nella Francia post-rivoluzionaria, argomenta il nostro autore, si comincia a pensare che la libertà non può essere un privilegio di qualcuno, che la libertà di ciascuno non deve essere vista come un limite, ma piuttosto come un ausilio per la libertà di tutti gli altri. Insomma, si comincia a ragionare su un’idea non individualistica di libertà, su una nuova libertà sociale: è il concetto di fraternità che permette di ripensare e tenere assieme libertà e comunità. Questo angolo visuale permette a Honneth di recuperare e valorizzare le primissime esperienze e le primissime teorizzazioni socialiste (i socialisti utopisti, avrebbe detto Engels): sono esperienze in cui i motivi ispiratori, le categorie più ricorrenti, sono soprattutto associazione, cooperazione, comunità. Sono queste probabilmente le pagine più belle del libro, anche perché Honneth vede proprio in questa tensione associativa, nella reinvenzione del concetto stesso di comunità, nella spinta a cooperare, l’operazione più affascinante del movimento socialista, quella che può tornare a parlare anche all’oggi, quella più densa di attualità.


3. Vi sarebbero, però, - scrive Honneth - tre tare originarie del socialismo con cui fare i conti. I nodi che solleva sono grossi e meritano di essere discussi puntualmente. Con la prima tara non si può che concordare: la sottovalutazione della libertà individuale. L’accento posto sulla libertà sociale fa scivolare in second’ordine la libertà della singola persona: qui stanno sicuramente le radici di tanti guai successivi. Oggi penso che siamo tutti d’accordo sull’impossibilità di pensare il socialismo senza le libertà individuali. Più problematiche appaiono le altre due questioni: la visione della storia e il rapporto con il mondo del lavoro industriale. Oggi è un luogo comune prendersi gioco della teleologia, della visione finalistica della storia che fin dalle origini ha attraversato in varie forme il movimento socialista. 
Le ragioni sono evidenti: nelle nostre mani si è disfatto non solo il materialismo storico, ma anche, perfino, la fiducia illuministica nel progresso. Eppure, mi sembra che la questione meriti qualche ulteriore riflessione. Proviamo a guardare all’indietro, a collocare storicamente il problema: davvero qualcuno pensa che i militanti socialisti avrebbero potuto affrontare gli immensi sacrifici della loro lotta senza la visione di una meta, senza la speranza di una nuova società? Penso a quegli uomini che dovevano affrontare prove tremende: licenziamenti, miseria per sé e per le proprie famiglie, arresti e deportazioni. Davvero avrebbero potuto farlo senza quella cosa, la “fede nel socialismo”, che oggi viene liquidata con tanto sufficienza? 


Ma soffermiamoci sull’oggi. Abbiamo alle spalle trent’anni e più di postmoderno che ci hanno abituati a liquidare ogni visione di lungo periodo, a concentrare l’attenzione solo sul presente, a vivere il presente come unica dimensione della vita, a immergerci nel presente. Eppure la mia impressione è che il futuro, il problema del futuro, che era stato liquidato con tanta leggerezza, stia tornando prepotentemente tra noi. O meglio, la mia impressione è che il futuro in modo del tutto imprevisto abbia cominciato a rotolarci addosso. Che cos’è l’inquietudine che ci circonda se non la sensazione nuova, inquietante che il mondo stia cambiando tumultuosamente, che il nostro ambiente di vita stia radicalmente cambiando senza però, attenzione: qui sta il punto, senza che siamo noi a deciderlo? Siamo entrati dentro una “nuova grande trasformazione”, ma a ridisegnare il mondo sono due grandi forze impersonali: la globalizzazione e l’innovazione tecnologica e scientifica. La globalizzazione ridisegna i rapporti tra le varie parti del globo e accelera la circolazione dei cambiamenti mentre l’innovazione tecnologica e scientifica ridefinisce il nostro rapporto con la natura, i lavori, le nostre modalità di relazione, la durata stessa della nostra vita. Ogni giorno si accumulano nuove conoscenze nelle tecnologie digitali, nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie, nella robotica, nelle neuroscienze: e ora incominciano a intuire che la loro ibridazione determinerà un vero e proprio salto di paradigma tecnologico e noi stiamo arrivando propri lì.


Ma non appena ci rendiamo di cosa sta davvero accadendo incominciamo a domandarci: dove ci stanno portando questi tumultuosi cambiamenti? C’è qualcuno che guida e orienta le scelte o dobbiamo accettare semplicemente che esse accadano automaticamente (oggi si direbbe: di default?). Dobbiamo solo prendere atto dell’inesorabilità o possiamo ragionare di fini e di valori con cui orientare questa immensa trasformazione? Sono domande cruciali dei nostri tempi ed esse ci costringono nuovamente a fare qualcosa cui ci eravamo disabituati, a non crogiolarci nel presente. Il problema dei soggetti della storia umana, dei fini e dei valori verso cui orientare il futuro sta ritornando tra di noi: sarà bene che ricominciamo ad attrezzarci teoricamente per affrontarlo. In poche parole: dobbiamo pensare al futuro anche se non siamo in grado di prevederlo. A me sembra che così si dovrebbe interpretare la proposta di “sperimentalismo storico” con cui Honneth chiude le sue considerazioni al riguardo.
Qualche riflessione merita anche la terza presunta “tara”: l’ancoraggio del socialismo al mondo del lavoro industriale. Qui temo di non concordare con Honneth: sento riecheggiare tesi antiche, il clima che fa da sottofondo  alla Scuola di Francoforte, la ben nota sfiducia di Adorno e Horkheimer verso la classe operaia. A me sembra, invece, storicamente indiscutibile che l’idea di socialismo si è diffusa nel mondo ed ha avuto la forza che ha avuto proprio perché si è intrecciata profondamente con la vicenda della classe operaia. Per tante ragioni, fra queste anche per la lucidità con cui alcuni pensatori, e qui il più importante è stata sicuramente Marx, hanno intravisto il possibile ruolo sociale e politico del proletariato industriale. 
Per altro nel loro pensiero non c’era alcuna banalità meccanicistica: a tutti noi è ultranota la distinzione tra classe in sé e classe per sé, insomma il ruolo della battaglia delle idee, della paziente costruzione politica e ideale del movimento operaio.


Ancora una volta: lo sguardo attuale applicato troppo semplicemente al passato può trarre in inganno. Noi oggi stiamo vivendo un fenomeno doloroso, di immensa portata politica: la dissoluzione del movimento operaio, di quel soggetto potente della storia che era fatto dall’intreccio di sindacato, soggetto politico e visione ideale. Il movimento operaio si è dissolta negli ultimi trent’anni. Non per questo possiamo svalutare il ruolo che ha avuto per centocinquant’anni: esso è stato una forza sociale e politica fondamentale per oltre un secolo. Aggiungo: la crisi verticale del movimento operaio non ci autorizza a svalutare il ruolo che il lavoro può e deve svolgere anche oggi: ma su questo punto cercherò di fare almeno alla fine del ragionamento.


4. Permettetemi però di andare oltre, di sollevare una questione più di fondo: secondo me per tornare a discutere seriamente dell’idea di socialismo bisogna fare un passo ulteriore rispetto allo stesso Honneth, bisogna che ci liberiamo di un certo irenismo che attraversa tutto il libro, bisogna guardare più in faccia la realtà. Mi spiego meglio: tutto il ragionamento di Honneth si dispiega nel cielo delle idee, in un confronto tra teorie politiche. Le sue riflessioni, secondo me, avrebbero assunto ben altra forza se fossero state inserite nella dura, cruda cronaca politica di questi tempi. Forse Honneth è stato danneggiato proprio dal fatto che ha saputo anticipare i tempi, che ha fiutato l’aria prima di eventi confermativi del suo ragionamento. Il suo libro è uscito in Germania nel 2015, probabilmente pensato e scritto nei due - tre anni precedenti. E in questi ultimissimi anni sono accadute tante cose.
Da quando Honneth ha scritto il libro è accaduto un fatto letteralmente impensabile: che si è cominciato a parlare di socialismo là dove sembrava impossibile che potesse accadere, negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale: il candidato Bernie Sanders si è dichiarato socialista, si è presentato con una piattaforma socialista e ha conteso fino alla fine la nomitation ad Hillary Clinton. La cosa ancora più incredibile era che i sondaggi continuavano a dire che, tra i due sfidanti, era Sanders quello che aveva più possibilità di battere Trump. Notate bene: stiamo parlando di qualcosa che era completamente fuori dalla logica politica fino a pochi mesi prima. E lo sorprese non sono finite: i supporters di Sanders, come sapete, erano i più giovani e chi si occupava di cose americane non poteva esserne meravigliato: personalmente avevo capito che stava accadendo qualcosa di molto importante e sorprendente quando mi sono imbattuto nella rivista “Jacobin”, una rivista di giovani americani che è senza dubbio la più interessante rivista socialista di questi tempi.


Ma Bernie Sanders purtroppo non è la sola novità di questi tempi. Tante altre cose sono accadute in pochissimo tempo: Trump, la Brexit ispirata da Farage, i populismi che dilagano (Le Pen, in tanti altri paesi dell’Europa Occidentale, per non parlare di quello che sta accadendo in Ungheria dove il nazionalista di destra Orban subisce la concorrenza dello Jobbit, una formazione che non nasconde nostalgie neonaziste e in Polonia dove imperversa una formazione politica che si è affermata al grido di: Dio, patria e famiglia), l’UE sottoposta a tensioni inquietanti.
C’è qualcosa che accomuna questi populismi: chiusure nazionaliste, pulsioni xenofobe, aggressività verso nemici ricercati o inventati, leadership tendenzialmente autoritarie. Ancora: a ogni piè sospinto vengono agitati la paura e il rancore. Di fatto si tratta di un’onda populista di destra che sembra attraversare tante parti del mondo (non solo occidentale: si pensi all’India, alle Filippine, al Messico di Nieto o agli ultimi sviluppi in Argentina e Brasile). E dinanzi a tutto questo il mondo progressista è in difficoltà, come mai dal dopoguerra ad oggi. 
Questa afasia della sinistra è il punto più allarmante ed è proprio su questo che dobbiamo soffermarci. Cosa sta accadendo? A me sembra che il discorso brutale, semplificato, aggressivo dei populismi accarezza paure e insicurezze diffuse, la paure e le insicurezze provocate proprio dalla globalizzazione liberista e dall’ondata di innovazioni tecnologiche. Dinanzi ai cambiamenti la destra populista dice: costruiamo barriere difensive, chiudiamoci a riccio, voltiamo lo sguardo ad un passato rassicurante. Ecco la riscoperta della nazione-comunità: da sempre la nazione è la comunità più rassicurante attorno alla quale costruire barriere e fili spinati. Questo messaggio scende in profondità, tocca e coinvolge proprio gli strati più popolari: non a caso le sirene populiste sono ben attente proprio ai bisogni della parte più debole del popolo. Pensiamo a Trump: protezionismo per creare posti di lavoro operaio. Oppure pensiamo all’Ungheria e alla Polonia: le destre urlano ai quattro venti che difenderanno a ogni costo lo stato sociale e bloccheranno le privatizzazioni.


                                            

E la sinistra, quella che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni, appare in singolare difficoltà: in Ungheria e Polonia addirittura buttata fuori dal Parlamento. Dove sta la sua difficoltà? A me sembra che il suo vero grande problema sta nel non riuscire a tenere assieme i due grandi perni della narrazione progressista, da un lato la crescita della soggettività, la libertà e il rispetto dei diritti umani e dall’altro lato la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza sociale. I due perni della narrazione progressista si sono allontanati, si sono separati e dentro questa smagliatura, dentro questa frattura si stanno inserendo minacciosamente i nuovi populismi di destra.
Il fenomeno può essere guardato da più punti di vista: c’è chi, nei suoi gruppi dirigenti, si è lasciato attrarre dalla sirena neoliberale fino al punto, clamoroso qui il caso di Tony Blair, da identificarsi con le élites globali liberali. C’è chi più nobilmente ha vissuto con generosità il fascino della narrazione dei diritti e soprattutto dei diritti umani e ha spostato tutto l’accento sulla questione della libertà. In ogni caso, qualunque sia stata la motivazione, i gruppi dirigenti della sinistra hanno dato l’impressione di avere dimenticato la grande lezione di quello che era il nascente movimento socialista: l’uguaglianza dei diritti non basta e può perfino essere ingannevole se ad essa non si accompagna l’uguaglianza sostanziale. I discorsi sui diritti, la stessa democrazia, possono diventare un velo che nasconde la crescita delle disuguaglianze. Detto diversamente: il liberalismo delle élites, quella che è prevalso in questi tre ultimi decenni, è cosa molta diversa da un liberalismo incorporato in un sistema democratico e socialista. Detto in altro modo ancora: libertà e sicurezza si sono dislocati su due piani diversi e a nessuno sfugge quanto può diventare pericolosa la lacerazione e la contrapposizione fra questi due valori essenziali per la vita umana: può prendere corpo l’idea che la sicurezza, nel senso più ampio possibile, deve venire garantita ad ogni costo, anche a prezzo dei diritti di libertà.

5. A nessuno può sfuggire, o per lo meno questo è il cuore del mio ragionamento, che siamo dentro una svolta, un passaggio storico, di grande portata: a me sembra di poter dire che siamo nel pieno di un sommovimento periodizzante, di una frattura che segna un passaggio della storia. Tante cose stanno cambiando con una rapidità sorprendente: tutti stanno aggiornando e rivedendo l’agenda politica e culturale. È dentro questo sommovimento che sta ritornando l’idea di socialismo. La storia è affascinante per la sua imprevedibilità: ha degli scarti del tutto imprevedibili. Il socialismo è riapparso nel mondo anglosassone, in quell’America dove non aveva mai attecchito. 
Ma pensiamo anche agli scossoni che si stanno succedendo in tutti i partiti socialisti: Gran Bretagna, ora Francia, qualcosa del genere in Germania: le leadership si spostano -bene, male?- a sinistra, recuperano linguaggi, valori, proposte della tradizione e della cultura socialista. Honneth aveva fiutato bene: l’idea di socialismo da residuato bellico, da sopravvissuto ritorna nell’agenda del confronto politico e culturale.


Per concludere il ragionamento vorrei provare, però, a scavare un attimo più a fondo. Proviamo a riflettere ulteriormente sulla genesi e sui momenti in cui è stata più forte la presa dell’idea di socialismo: la sua forza e il suo fascino stavano in qualcosa che andava oltre la spinta alla cooperazione e all’associazione. Per dirla con il linguaggio del tempo passato, un linguaggio però che rifletteva rigorosamente processi reali, il motivo ispiratore del socialismo, quello davvero unificante, stava nell’idea di emancipazione della classi subalterne. Emancipazione: un’idea letteralmente sradicata. Cosa vuol dire? Viene da ex mancipium. Mancipium: facoltà di godere e disporre di cose e di schiavi. Ex mancipium: estrarre da questa condizione, rompere l’assoggettamento, spingere verso l’alto le classi subalterne: questa, l’emancipazione, è stata la vera, straordinaria funzione storica del movimento socialista. Ma non stiamo parlando di qualcosa, di un nodo, che sta ritornando di straordinaria attualità? 
Tutti i dati ci dicono che la mobilità sociale si è bloccata, che le disuguaglianze sociali stanno crescendo vertiginosamente, che si sta formando una nuova élite globale che concentra nelle sue mani ricchezza e potere. Notiamo bene: i populismi traggono alimento proprio da questa denuncia. Essi propongono una soluzione barbarica a questo problema: l’identificazione della gente semplice con un capo che li guida e protegge e la mobilitazione contro qualche capro espiatorio. Ma non è compito delle forze progressiste pensare e organizzare una propria risposta, riprendere in mano e rielaborare la questione dell’emancipazione ovvero della riapertura della mobilità sociale, di un nuovo orizzonte di giustizia? Certo, ritornare su questa strada non sarà - non sarebbe una passeggiata. Tornare a ragionare sul socialismo non è un problema di vintage lessicale: questo semplice fatto rimetterebbe in discussione la scala delle priorità, rimescolerebbe l’agenda politica e sociale delle forze progressiste.


Provo ad esemplificare alcune delle conseguenze. Oggi sembra un luogo comune, una verità non discutibile, che bisogna abbassare le tasse. Talmente scontato che un ex presidente del Consiglio pochi giorni fa ha potuto parlare dei governi Prodi come di “governi Dracula”, con un “fisco vampiro” mentre lui al contrario avrebbe puntato tutto sull’abbattimento delle tasse. Meno tasse sembra l’orizzonte scontato, ma meno tasse equivale a meno stato sociale e meno stato sociale vuol dire allargare l’insicurezza sociale, il che -ci dice la cronaca di questi mesi- spinge i cittadini più poveri nelle braccia del populismo. È un giro vizioso, senza vie d’uscita. A  meno che si cerchi di ragionare diversamente, in base ad altri presupposti e ci si interroghi se in questi anni si è andati nella direzione giusta. Prendiamo un dato semplicissimo: nel 1945 l’aliquota marginale negli States era del 94 % (!), scesa via via progressivamente: ora  un gruppo come Apple paga l’1,5 % (!) di tasse sui profitti. Per questo saltano le misure di sicurezza sociale e allora mi chiedo: non sta lì la ragione dell’ascesa di Trump? Possiamo bloccare la deriva populista, antidemocratica, senza pensare diversamente, senza recuperare altri presupposti di pensiero?
Un altro esempio. Sembra scontato oggi pensare all’azienda come una realtà che ha un’unica funzione: produrre valore per gli azionisti. Al punto che gli azionisti, si dice e si legifera di conseguenza, possono sbarazzarsi della forza lavoro come e quando vogliono. Ma siamo certi che questa sia la concezione migliore di un’azienda, che non si possa pensarla diversamente, come un societas che trae la sua forza dalla convergenza di interessi e dalla sostanziale solidarietà tra tutti coloro che interagiscono con essa? E per quale ragione un’azienda pensata in quest’altro modo dovrebbe essere meno efficiente di una in cui gli azionisti fanno ciò che vogliono? Vi sono argomenti seri, e tante verifiche storiche, per sostenere che un’azienda che valorizza il lavoro riesce a competere meglio di altre. La valorizzazione del lavoro, idea centrale del progetto emancipatore socialista, riacquista nuova pregnanza e forza.


Come si vede rimettere in campo l’idea di socialismo, l’idea limite di una società giusta, potrebbe avere profonde conseguenze: si tratterebbe di un’operazione che rimetterebbe in sinergia elaborazione culturale, teorica, e la vita pubblica.
Un’ultima considerazione, per concludere. Permettetemi di affrontare la questione da un punto di vista leggermente diverso. Proviamo per un attimo a guardarci attorno. Il campo progressista non è povero di risorse: esse lavorano però isolate le une dalle altre. Vi è chi mette in primo piano la difesa dei diritti delle persone, chi si impegna per la cura delle persone più disagiate, chi dedica le proprie energie a ripensare il rapporto con la natura. Mondi diversi che camminano fianco a fianco, ma non interagiscono tra di loro, quasi fossero autistici, incapaci di dialogare e di costruire una prospettiva comune. Ciò che si è dissolto è una prospettiva comune, una narrazione che potesse tenere assieme tante diversità. E allora mi chiedo - ma qui davvero pongo la questione sotto forma di una domanda non retorica - se la riscoperta dell’idea di socialismo, ovvero di una società democratica e giusta, non possa permettere di rimettere in moto una narrazione unitaria, un punto di convergenza nel quale possano interagire virtuosamente e tenersi assieme le mille e mille diversità in cui in questi anni si è frantumato il campo progressista. Concludo, come vedete, con un interrogativo, ma forse questa è la dimostrazione migliore di quanto il breve saggio di Axel Honneth meriti di essere letto e riflettuto.

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IL FILOSOFO E LE MUSE.
La filosofia come "musica altissima" e "sinfonia dell'anima"
di Franco Toscani


È noto che l'Accademia platonica, come θίασος (associazione cultuale al servizio delle Muse), fu consacrata al culto di Apollo e delle Muse e che al suo interno si trovava un altare dedicato alle Muse. Nonostante le sue perplessità e ben note posizioni sulla poesia e sull'arte, Platone istituisce un fecondo rapporto tra il filosofo e le Muse.  Nel Cratilo (406 a 3-5) leggiamo che il nome stesso alle Ποῦσαι (Muse) e alla μουσική (musica) sembra derivare dal μῶσθαι (aspirare, cercare) proprio della ricerca e della filosofia. Nella Repubblica (VIII, 548 b8-c1) la "vera Musa", quella da non trascurare, sempre "si accompagna ai discorsi e alla filosofia". Le profonde corrispondenze tra musica, poesia, arte in generale e pensiero ci riguardano da vicino ancor oggi, si pensi soltanto, fra il XIX e il XX secolo, alle opere e agli esempi straordinari di Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e María Zambrano. Nel Fedro il filosofo è per Platone l'uomo capace dell'ἀνάμνησις (reminiscenza) di ciò che un tempo vide la nostra anima, capace di pensare la totalità con uno sguardo libero, universale, disinteressato, dall'alto; è l'uomo "posseduto dal dio", "ispirato" (ἐνθουσιάζων), in cui rinascono - per quanto è possibile (κατὰ δύναμιν) ai mortali - le ali dello spirito, sorretto dall'amore per la sapienza e la verità; è un uomo ritenuto strano e "folle" dai più, perché rivolto a cose alte, divine e lontano dalle beghe e macchinazioni, dalle occupazioni prevalenti, dai traffici e dagli interessi dominanti in cui si risolve la vita della maggior parte degli uomini (cfr. Fedro, 246 c; 248 d; 249 b-d).


Il filosofo è devoto alle Muse, amante della bellezza, dedito all'amore, al pensiero e al sapere; col desiderio di questo tipo che sempre porta con sé, egli acquisisce le ali e si libra in volo (cfr. Fedro, 249 d-e). Molto platonico è in questo senso pure Giordano Bruno, quando nel XVI secolo scrive, con le ali del suo schietto spirito filosofico, in una poesia premessa al dialogo De l'infinito, universo e mondi (1584): "fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo".[1] Come grande pensatore e cantore dell'universo infinito, Bruno riprende il motivo platonico delle ali nel De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo (il cosiddetto De immenso, 1591): "Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d'immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. (...) Così, io sorgo impavido a solcare con l'ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l'Olimpo, che accomuna gli altri in un'unica prigione dal momento che ne ha dissolto l'immagine, per cui da ogni parte si espande il sottile aere. Mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l'etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti".[2]
Nella lettera al rettore e al senato accademico dell'università di Wittenberg premessa al De lampade combinatoria lulliana (1587), Bruno dichiara di sentirsi in Musarum curia alumnus ("un allievo alle cure delle Muse").[3]


In Bruno l'ispirazione delle Muse è congiunta pure (nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, 1584) a una vena scopertamente erotica e il fiorire delle Muse è legato alla presenza di un clima favorevole alla tolleranza e alla libertà di pensiero. Bruciato vivo sul rogo dall'Inquisizione cattolica nel febbraio 1600, il filosofo pagherà duramente le sue idee e l'amore delle Muse, rimanendo vittima dell'intolleranza e della repressione della libertà di pensiero. Nell'Oratio consolatoria stampata a Helmstedt nel 1589, Bruno descrive la sua vita di esule, "forestiero ed estraneo"; per amore delle Muse, "spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile all'infuori di loro".[4] Col suo coraggio e con la sua determinazione, con la sua forza e libertà di pensiero, Giordano Bruno ci ha lasciato una testimonianza straordinaria e mirabile di cosa possano significare le ali, il volo del pensiero e l'amore per le Muse.
Dopo questa parentesi, torniamo a Platone. Come leggiamo pure nello Ione, soltanto la Musa forma gli ispirati e può costituirsi una "catena", una comunità di coloro che sono invasi da divina ispirazione (cfr. Ione, 533 e-534 a).
Nel Fedro Socrate ha l'impressione che le cicale, come "attendenti delle Muse", col loro canto ininterrotto nell'afa estiva, ci stiano osservando, ascoltando e possano riferire alle Muse gli umani discorsi (cfr. Fedro, 259 a-d).


Diventa allora importante per noi porre attenzione ai discorsi. Il filosofo è l'uomo che, ispirato dalle Muse, cerca di dare forma alla propria vita, secondo uno stilecomplessivo di esistenza di cui fa parte anche il modo di  parlare e di scrivere, il ricorso a discorsi non superficiali e sciatti, ma pronunciati e scritti "nell'anima" (ἐν ψυχῇ. Cfr. Fedro, 278 a).
La filosofia può porsi così come μεγίστη μουσική (musica altissima. Cfr. Fedone, 61 a 3-4) quando e, anzi, soltanto quando la vita di un uomo riesce ad armonizzare e ad accordare in una effettiva consonanza le azioni e le esperienze vissute con le parole, i pensieri e i discorsi. La "musicalità" specifica della filosofia indica "l'arte delle Muse" (μουσικὴ τέχνη), intesa in senso ampio come capacità di indirizzo, educazione, cultura, formazione, controllo, disciplina di sé, orientamento positivo e costruttivo della propria vita.


Nel Lachete, proprio Lachete afferma di poter sembrare di volta in volta φιλόλογος ("amico dei discorsi") - quando i λόγοι si rivelano coerenti coi fatti e le esperienze della propria vita - oppure μισόλογος ("nemico dei discorsi"), quando questi ultimi si palesano in contraddizione coi comportamenti reali: "Quando infatti sento un uomo che dialoga sulla virtù o su una qualche forma di sapienza (ἀνδρὸς περὶ ἀρετῆς διαλεγομένου ὴ περὶ τινος σοφίας), se è veramente un uomo all'altezza dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme piacere, considerando al tempo stesso chi parla e le cose dette, come siano consentanei l'uno all'altro e in perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra proprio un musicista (μουσικός), che vive accordando in perfetta armonia (καλλίστη ἀρμονία) non una lira o strumenti frivoli, ma davvero lui stesso la propria vita, rendendola consonante nei discorsi rispetto alle azioni (...). Un tal uomo, quando parla, mi fa gioire e sembrare a chiunque amante dei discorsi (φιλόλογος) - con tanto slancio accolgo ciò che dice -, mentre chi agisce in modo opposto mi provoca un fastidio, che è tanto maggiore quanto meglio costui sembra parlare, e mi fa apparire nemico dei discorsi (μισόλογος)".[5]
Nella Repubblica (IV, 430 d-e), a proposito del nesso importantissimo  e inscindibile istituito nella πόλις fra  σωφροσύνη (moderazione) e δικαιοσύνη (giustizia), si parla della σωφροσύνη come di "una sorta di accordo  (συμφωνία) e di armonia (ἀρμονία)", che indica l'esigenza dell'ordine, del controllo dei propri impulsi, del necessario disciplinamento delle proprie forze ed energie, del potere su di sé, insomma. Un potere su di sé finalizzato a una vita migliore sia a livello dei singoli individui sia a livello politico e sociale, nella convivenza sociale e nella condivisione della vita.


Sempre nella Repubblica (IV, 443 d-e; IX, 591 c-d), si parla dell'armonia necessaria fra le tre parti dell'anima (concupiscibile, irascibile e razionale) e del fatto che l'uomo assennato è "impegnato ad accordare l'armonia del corpo in vista della sinfonia dell'anima".
Anche nelle Leggi viene ribadito che non vi può essere alcuna φρόνησις (saggezza) senza συμφωνία (consonanza, accordo); "anzi la più bella e la più importante delle consonanze si può legittimamente definire come grandissima saggezza di cui partecipa chi vive secondo ragione (κατὰ λόγον), mentre chi ne è privo risulterà ogni volta che rovina per ignoranza la propria casa e non può essere il salvatore (σωτήρ) della sua città, bensì il contrario" (Leggi, III, 689 d-e).
Nel dare forma ai suoi pensieri, il filosofo intraprende una sorta di composizione che ha in sé qualcosa di artistico ed è anch'egli, a suo modo, formatore del bello. E' una composizione in cui risuona la "musica" - ossia il ritmo, l'accordo, la consonanza, l'armonia, la sinfonia - della vita, del pensiero, delle cose stesse, del mondo, della verità. La filosofia, intesa in questo senso e insistendo sul suo carattere formativo, è anche un tutto artistico.
Nel filosofo ispirato e "posseduto"dal dio, cioè nell'uomo che si pone al servizio genuino della verità, il volo dello spirito si fa ardimentoso, libero, vasto, coraggioso.


Come Platone ben sapeva, la μεγίστη μουσική (musica altissima) della filosofia risuona, non troppo facilmente, soltanto quando gli uomini riescono a dare il meglio di sé nell'amore, nel sapere, nella condivisione della vita, nella tensione alla giustizia e alla verità.
L'ascolto di questa "musica altissima" risulta ancor oggi ostacolato fortemente dalle condizioni oggettive del mondo dato, ma questo ascolto rimane decisivo per rendere possibile la "sinfonia dell'anima", che non va interpretata in un senso spiritualistico-astratto o soggettivistico-metafisico, ma nella direzione della salvaguardia del mondo, dell'umanità, delle cose, dell'essere, della verità.


La "sinfonia dell'anima" propria della filosofia non è un mero appannaggio e dominio del filosofo, perché il filosofo, se è veramente tale, non pensa mai soltanto per sé, non difende mai meri interessi o idee personali, ma è rivolto essenzialmente a ciò che è più degno di essere pensato e vissuto, al bene comune e alla verità universale.
Platone si rende conto del fatto che il vero filosofo non può esaurire il discorso filοsofico o illudersi di farlo in uno scritto, perché la verità è inesauribile e noi possiamo soltanto amarla e ricercarla, perché i pensieri stessi più profondi del filosofo sono il frutto del suo complessivo stile di vita quotidiano, del suo modo di vivere e tutto ciò non può risolversi una volta per tutte in un testo scritto, che - per quanto si renda anch'esso necessario e ineludibile - rimane sempre una cristallizzazione, una sorta di congelamento di ciò che è vivo e appassionato, di ciò che è costantemente in divenire e appartiene al complesso, problematico e ricco processo dell'esperienza di pensiero. Nulla dunque può sostituire il valore del dialogo autentico, vivo e diretto fra esseri umani, del pensiero espresso con franchezza, libertà e tensione alla verità (la παρρησία), della comunicazione fra persone capaci di ascoltare e di parlare tenendo conto delle buone ragioni - almeno parziali - di tutti. Tale dialogo, almeno finché vi saranno esseri umani viventi, è effettivamente inesauribile, come è inesauribile la verità.


Note
[1] G. Bruno, E chi mi impenna, e chi mi scald'il core? (1584), in Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. 322.
[2] G. Bruno, De immenso, I, 1 (1591), in G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 417-418.
[3] G. Bruno, De lampade combinatoria lulliana (1587), in G. Bruno, Opere lulliane, Edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2012, pp. 206-207 (trad. it. leggermente modificata).
[4] G. Bruno, Oratio consolatoria (1589), cit. nella Cronologia, a cura di M. E. Severini, in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. CIV.
[5] Platone, Lachete 188 c-e, in Platone, Teage Carmide Lachete Liside, a cura di B. Centrone, BUR Rizzoli, Milano 2012, pp. 344-345.

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PER LELIO BASSO
di Fulvio Papi
Lelio Basso

Il bel libro di Giancarlo Monina “Lelio Basso, leader globale” mi offre l’occasione e l’emozione di riflettere ancora una volta sulla mia memoria culturale, politica e affettiva per Lelio. Per un liceale quale io ero, nell’immediato dopoguerra, conoscevo naturalmente almeno il nome e qualche cosa in più degli altri dirigenti del partito socialista, ma Lelio mi dava la dimensione intellettuale di una educazione politica. Frequentavo pochissimo il gruppo dei giovani che faceva capo alla sezione Venezia, in via Cadamosto, ma andai ad esprimere il mio parere contro il “Fronte popolare” sul quale Lelio, sebbene allora segretario del partito, non era d’accordo, e che pervicacemente, era voluto da Nenni che aveva la maggioranza in direzione. E ancora oggi, forse perché non sono uno storico, non riesco a capire il perché di una risoluzione così suicida. Oggi dunque ritrovo Lelio nel libro fatto molto bene da Giancarlo Monina, storico universitario, e, tanto per stare in questa dimensione accademica, credo di essere certo che nel suo lavoro usa le fonti primarie e secondarie con grande cura e intelligenza. Mi permetterei solo di osservare che, abilissimo nell’evocare l’ambiente milanese e affettivo di Lelio, andrebbe un po’ modificato il suo giudizio sulla situazione del partito a Milano, quando si ebbe la divaricazione tra autonomisti di Nenni e sinistra. Bosio e Della Mea erano su posizioni rigidamente classiste, del resto da tempo, ma esisteva un gruppo di giovani bassiani che avevano una visione politicamente più complessa. Poi, cosa da nulla, correggerei la notizia relativa al Congresso internazionale di sociologia del 1959 che si svolse a Stresa non a Milano al Palazzo dei Congressi, dove trascorsi il tempo libero con Spinella, Rossana Rossanda, Luporini, Lucien Goldman, Pierre Noville e, naturalmente Basso e poi Parri. Ma sono banalità, o mie memorie malinconiche. Invece come filosofo, in primo luogo, sono interessato a quelle che sono le strutture genealogiche del modo di pensare politico di Lelio, quelle che si possono ritrovare come segni del tempo nel modo stesso di pensare politico e storico di Lelio, e che si possono reperire solo interrogando con cura le parole essenziali che ritornano nei suoi studi.  
1. In primo luogo il marxismo che è interpretato nella dimensione umanistica, storicistica, classista, etica che derivava dagli scritti giovanili marxiani editi al tempo della sua giovinezza in contrasto con la visione positivistica, talora evoluzionistica, che lo stesso Labriola aveva osteggiato. Poi naturalmente il “Manifesto”, le critiche al processo di unificazione dei due partiti socialisti tedeschi, e il famoso programma di Gotha, e molto importanti, gli scritti storici di Marx. “Il Capitale” è solo sullo sfondo, ma vale la sua lezione secondo cui ogni analisi politica è sempre relativa a una situazione sociale e necessaria analisi sociale può prescindere dalle relazioni economiche dominanti.
2. Questa prospettiva era destinata a incontrarsi con quella di Rosa Luxenburg, soprattutto con il suo pensiero politico secondo cui il marxismo può nascere come movimento collettivo e unitario della classe operaia, e non da minoranze colte e professioniste dal punto di vista politico, come nel caso del leninismo. Anche se Lelio distingueva, come Rosa, Lenin e il marxismo tedesco tra una prospettiva sindacale e una prospettiva politica, distinzione che era meno ridicola nell’ambiente politico inglese.
3. È fondamentale nella studiosa giovinezza di Lelio la collaborazione con la rivista di cultura religiosa protestante Gengale, “Conoscentia”, alla quale collaborò anche Banfi. L’integrità della propria coscienza, l’evitare sempre la taciturna menzogna o la mossa puramente tattica senza una visione generale di senso, una strategia finalistica, che costituiscono l’unione e contemporaneamente la metamorfosi della “salvezza” con la “liberazione”.
4. Infine per il rigore della coscienza (non priva però di una vera affettività nei confronti di amici, ma anche di avversari politici come Nenni e Morandi), una coscienza che si incontrava con una visione religiosamente laica della vita personale come quella del maestro filosofico, all’Università di Milano, Piero Martinetti.

Lelio Basso

Potrei mostrare nella semantica di Lelio queste permanenze giovanili, e per quanto riguarda la dimensione religiosa non va dimenticato l’apertura anche elettorale di Lelio nei confronti dei valdesi, un compito che è rimasto anche a me stesso.
Tenendo presente queste prospettive, potrei dire che quando Lelio in una celebre e tardiva intervista, descrive la sua esperienza come un fallimento, questo giudizio derivava dalla convinzione che il movimento operaio italiano ed europeo, non avevano più nella sua aura l’aspetto di una liberazione sociale, che mancava quasi di una sotterranea “renovatio” religiosa.
Ora mi limiterò ad alcune osservazioni politiche più che storiche, quasi personali, sul tragitto politico di Lelio dall’inizio degli anni Cinquanta al 1963. Quando a poco più di 21 anni andai all’Avanti!  era il tempo dell’emarginazione, se non persecuzione, di Lelio da parte del suo vecchio amico universitario e politico, al tempo del “gruppo interno” clandestino a Milano, del 1937, Rodolfo Morandi. Dopo la rivincita di Nenni sulla corrente antifrontista nel 1949, il vice-segretario Morandi, che pure era uomo colto e di sottile ingegno, optò per un partito di quadri, una rete di poteri locali molto forte e organizzata nelle federazioni che gli assicurava il controllo del partito stesso. Devo dire che, fatta eccezione di qualche vertice e di qualche intellettuale, questi funzionari erano più che mediocri, dogmatici, autoritari, risentiti, imitatori, al peggio, dei comunisti. Lavorando al giornale e alla terza pagina alla quale collaboravano firme di primo piano della cultura di area socialista, mi accorgevo molto meno, se non per qualche ventata rigorosamente classista, dello stato dogmaticamente imbalsamato del partito. Per onestà devo dire che Morandi, Vecchietti e Valori mi trattarono sempre con un amichevole atteggiamento pur accorgendosi che, io, allievo di Banfi, avevo tutt’altra cultura, rispetto alla loro. Restava però forte il mio interrogativo: e Lelio? Sapevo della sua emarginazione dalla direzione del partito, conoscevo bene Ladaga, Vicinelli e Bosio, sospettoso e infastidito della mia forma culturale di stile un po’ cosmopolita, lui che era un filologo della cultura delle classi subalterne, di un livello certamente elevato.
Lelio nel clima più duro della guerra fredda, fu come Sartre, dalla parte dell’URSS. E questo allora, in un clima di ignoranza collettiva e di storicismo dialettico, poteva anche sembrarmi l’essenziale. L’analisi di Molina mostra molto bene come Lelio, allontanato dalla vita del partito, si dedicò con grande stile e fermezza politica ai temi della libertà e della democrazia in Italia, nella egemonia democristiana, della difesa della Costituzione, del patrocinio legale di molti partigiani chiamati in giudizio da una magistratura che aveva capito poco della Costituzione, e, ancora meno, delle condizioni della guerra partigiana. Era un nuovo ruolo pubblico che diede a Lelio una visibilità e una grande estimazione pubblica. Andavo a sentire le sue relazioni alla casa della Cultura e mi bastava come decisiva educazione sociale una prospettiva come quello che cito adesso: “Lo Stato italiano veniva assumendo a poco a poco la figura di un sindacato di privilegiati, ciascuno preoccupato di tagliarsi la propria fetta di favori, di concessioni e di privilegi: precisamente l’opposto di quello che deve essere uno stato democratico”.  Chi aveva il potere, era classe dominante mai classe dirigente. (pag. 107).
In queste condizioni parlare di una radicale alternativa al potere era una proposta etica e storica totale che, in prospettiva, non mancava più di una capacità tattica che non doveva abbandonare l’obiettivo strategico.


Lelio Basso

È un momento in cui gli eventi precipitano: nell’estate del ’55, in una clinica di Milano, muore Morandi che qualche mese prima, in un colloquio con l’antico amico Basso, che pure aveva duramente vessato, riconosce il suo fallimento politico. Lelio riprende in mano il suo marxismo e sostiene, contro il modello sovietico, che vi sono più condizioni storiche per la transizione al socialismo. Era un Marx molto interpretato, soprattutto dal socialismo mitteleuropeo, perché Marx sosteneva che una rivoluzione anticapitalistica poteva avere luogo nei paesi arretrati solo con il loro sviluppo capitalistico, anche se dedicò un interesse particolare ai villaggi russi con una loro autonomia culturale ed economica. In ogni caso Lelio apriva il discorso su spazi internazionali.
Ai primi di novembre del ’56 c’è l’insurrezione degli operai e degli studenti contro l’invasione sovietica in Ungheria. Non ho avuto il minimo dubbio su quello che bisogna fare: avevo visto Lukácas poco prima, e avevo intuito la situazione. Nenni parlò di “crimine imperialistico”, ma la vittoria storica apparteneva a Lelio che non aveva mai identificato un’interpretazione teorica marxista con l’ideologia sovietica dallo stato guida. Tuttavia il partito era inchiodato ai sistemi di potere che si erano stabilizzati. Al celebre congresso di Venezia del ’57, la sinistra, cui rimproveravo sempre la approvazione all’aggressione sovietico in Ungheria (come quella di Ingrao che gli pesò per tutta la vita), ebbe 40 seggi contro i 27 Nenni e i 14 di Basso. Nel congresso del ’59 Nenni ne ebbe 58, la sinistra 32, Lelio 7.
Il nostro storico segue con finezza analitica le vicende interne al partito che qui non posso ripetere. Lelio che aveva una sua posizione, alla quale aderivo, di un radicale marxismo hegeliano, criticò anche la concezione del “controllo operaio” di Panzieri. La sua tesi di fondo resta quella del rapporto tra la spontaneità sociale delle masse che diviene coscienza politica. Questa è una figura storica, e Lelio non è affatto un utopista e, senza entrare qui nei particolari che allora abbiamo vissuto con esagerate emozioni, la situazione si può riassumere così: Lellio attaccava la posizione di Nenni che avrebbe condotto a un centro-sinistra organicamente governativo (e qui si può distinguere tra chi sosteneva che non c’era altro da fare, e gli opportunisti volgari che valutavano solo i vantaggi pratici). Tuttavia Lelio pensava alla possibilità di un centro-sinistra “programmatico”, e quindi capiva e considerava la posizione di Lombardi, Codignola, Giolitti. Tuttavia in molte federazioni le due sinistre si univano aderendo alla tesi di Vecchietti secondo cui era il solo modo per vincere il congresso. E siamo nella primavera del ’63. Lelio, che aveva guardato a Lombardi, era molto meno convinto dell’alleanza con la DC. Quando nel 9 giugno del ’63 gli accordi con la DC furono respinti dal Comitato Centrale, sembrava che la situazione potesse mutare. Ma al congresso di Roma della fine di ottobre i giochi sono fatti. Lelio guarda ancora al Lombardi delle grandi riforme, ma ora Riccardo è convinto di poter condizionare la linea di Nenni stando all’interno della sua corrente vincitrice. Lelio è angosciato, non vorrebbe la scissione e scrive a Nenni: “ Sono nella situazione più angosciata che si possa immaginare, con la sensazione che sta per spezzarsi tutto quello che ha costituito il senso della mia vita”.

Lelio Basso

Ma il 12-13 gennaio del ’64 avviene la scissione. Vecchietti, Valori, forti del vecchio apparato, fanno un partito il PSIUP, (che era la sigla del ’45). Lelio è in quel partito e Vecchietti e Valori ne stimano il prestigio, tuttavia con un certo disagio. Più tardi Lelio ne riconoscerà il fallimento: 750 mila voti buttati via, la sola strada aperta era il PCI. Lelio non sarà più un leader socialista per lo meno a livello di un partito, ma pur sempre una personalità straordinaria nella cultura politica del secolo scorso.
Personalmente, dopo un più che cordiale colloquio con Lelio in cui sostenevo che non avrei mai coabitato con i vecchi “carristi”, passai, assieme ad altri bassiani, con il gruppo di Lombardi. Scrissi un mediocrissimo libretto che cercava una sintesi tra le due posizioni: accettavo appieno il programmismo di Riccardo che mi pareva la sola strada praticabile, ma sostenevo che esso poteva vincere solo con un radicale consenso popolare, che mancò per il mancato appoggio del PCI, fermo sulla “rendita di posizione” della sua statura egemone. Tentai con entusiasmo la “rivoluzione riformista” di Lombardi, e persi totalmente. Tornai all’Università per 40 anni, ma la giovinezza politica con Lelio non l’ho dimenticata mai.

Giancarlo Monina
Lelio Basso, leader globale.
Un socialista nel secondo Novecento
Carocci Ed. 2016
Pagg. 439 € 39,00

La copertina del libro


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L'anima umana e la "potenza del negativo"
di Franco Toscani



L'autentica conoscenza umana presuppone per Platone una conversione (περιαγωγή) verso l'"uomo interiore" (cfr. Repubblica, IX, 589 a-b), un'ascesa (ἐπάνοδος) dell'intera anima (cfr. Repubblica, VII, 518 c-d, 521 c), capace di consentirle la contemplazione di quanto vi è di "più luminoso" (τὸ φανότατον) nell'ambito dell'essere, un'intenzionalità etica e una tensione verso il buono come condizione etica imprescindibile per ottenere il riorientamento e il pieno dispiegamento delle conoscenze umane più alte. Il discorso platonico è tutt'altro che ingenuo e superficialmente ottimistico; egli sa perfettamente quale sia l'immensa diffusione del male nel mondo ed è pienamente cosciente dell'efficienza delle intelligenze malvage e della portata dei danni da esse prodotti: "Non hai mai notato come l'anima meschina dei cosiddetti 'malvagi intelligenti' abbia la vista acuta, con quanta precisione discerna ciò verso cui è rivolta: infatti non ha la vista debole, ma è obbligata a metterla al servizio del male, sicché quanto più acutamente vede, tanto maggiori sono i mali che produce?" (Repubblica, VII, 519 a).
L'anima meschina dei malvagi intelligenti ha da sempre fatto molti danni, è sciagurata e va evitata come la peste. Nell'uomo c'è però una parte divina, l'intelligenza connessa a moderazione e saggezza, che, se emerge e prende il sopravvento sulle altre parti, rende buone tutte le cose che sono ad essa sottomesse (cfr. Repubblica, IX, 589 c-d, 590 d).
Per quella marionetta nelle mani degli dei che è l'uomo, la vera libertà non consiste nell'arbitrio e nella pratica della dismisura, ma nella consapevolezza della sua partecipazione, del suo attivo prender parte alla vita dell'immenso Tutto.
L'uomo che s'insuperbisce, tutto dedito all'inseguimento affannoso di ricchezze, onori e potere, conduce alla rovina sé stesso e la città intera, perde il suo nesso con la divinità e con lo spirito di verità che le è proprio.
Per Platone l'anima, affine alle idee e alla verità, come esse è immortale (cfr. Repubblica, IX, 585 c; Fedone, 79 d-e) e non appartiene all'ambito della γένεσις e della φθορά (cfr. Repubblica, VI, 485 a-b).
Una volta liberata e purificata dalla comunanza col corpo, l'anima rivolta all'amore per il sapere (φιλοσοφία) si rivela congenere (συγγενής) a ciò che è immortale, divino, eterno (cfr. Repubblica, X, 611 c-e). L'uomo giusto (δίκαιος) è caro agli dèi (θεοφιλής) e, praticando la virtù (ἀρετή), è capace di rendersi simile a un dio, per quanto è possibile all'uomo (cfr. Repubblica, X, 613 a-b).
Nel Teeteto leggiamo che, per evitare i mali che necessariamente si diffondono fra i mortali e nel nostro mondo, "bisogna sforzarsi di fuggire quanto prima da qui verso lassù. Fuga è il rendersi per quanto possibile simili al dio (ὁμοίωσις θεῷ κατὰ τὸ δυνατόν); e questo rendersi simili è diventare giusti e santi, acquistando saggezza"[1]. L' "assimilazione al divino" esprime l'essenza profonda del platonismo, la sua tipica tensione in avanti, la direzione incessante di senso che lo caratterizza e ne costituisce la più perdurante vitalità. Diventare simili al dio è un compito della vita pratica e teoretica, della vita umana in questo mondo.
Qualsiasi meschinità (σμικρολογία) resta lontana da "un'anima (ψυχή) sempre tesa verso l'intero e il tutto del divino come dell'umano" (cfr. Repubblica, VI, 486 a). Ed è proprio questo il compito del pensatore: osare pensare, alzare lo sguardo verso il tutto del divino - comunque lo si intenda - e dell'umano. A questo livello risiede la differenza essenziale tra le nature filosofiche e le nature non filosofiche.
Platone riteneva che la provvidenza divina offrisse protezione ai giusti e ai buoni (cfr. Repubblica, X, 613 a-b; Leggi, X, 899 d sgg.).
Noi, invece, mettiamo oggi in discussione questa visione provvidenziale, consapevoli della sterminata potenza del negativo, del forte lato tragico e doloroso della storia e della vita umane.


Come si sa, è stato il grande Hegel, nella Vorrede alla Phänomenologie des Geistes (1807), a porre in evidenza die ungeheure Macht des Negativen ("l'immane potenza del negativo") e l'esigenza profonda, ineludibile per la vita dello spirito (das Leben des Geistes), di sopportarne e valutarne il peso e la forza: "La vita dello spirito (...) non è quella che si riempie d'orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta (erträgt) la morte e si mantiene in essa.
Lo spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare sé stesso nella disgregazione (Zerrissenheit) assoluta. Lo spirito è questa potenza (Macht), ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso (dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt). Tale soggiorno (Verweilen) è il potere magico (Zauberkraft) che converte il negativo nell'essere".[2]
Tale "potere magico" (Zauberkraft) dello spirito ha però dei limiti, perché la potenza del male e del dolore non può essere facilmente superata e le ferite/lacerazioni dell'esistenza restano in tutto il loro spessore e gravità. È questa, credo, una delle lezioni migliori e di valore permanente che ci viene dal pensiero esistenzialistico novecentesco.
Come allora far fronte in qualche modo alla sterminata potenza del negativo, che rischia sempre di devastare e annichilire le nostre esistenze? Non vi sono proprio facili ricette, nessuna consolazione è possibile, nessun colpo magico di bacchetta, ma forse - come l'umanità più matura ha sempre fatto - potremmo cominciare a rispondere così: col dolore sacro e necessario, col silenzio della meditazione e del raccoglimento, col conforto della parola avveduta e ben spesa, con la forza e il coraggio dell'amore.

Note
[1] Platone, Teeteto o Sulla Scienza, 176 a-b, trad. it. di L. Antonelli, "Introduzione" di S. Natoli, "Saggio critico" di D. Spanio, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 128-129.
[2] G.W.F. Hegel, Vorrede alla Phänomenologie des Geistes (1807), trad. it. e a cura di V. Cicero, Prefazione  alla Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2011, pp. 84-87.

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IL FILOSOFO E LE MUSE
La filosofia come "musica altissima" e "sinfonia dell'anima"
di Franco Toscani


È noto che l'Accademia platonica, come θίασος (associazione cultuale al servizio delle Muse), fu consacrata al culto di Apollo e delle Muse e che al suo interno si trovava un altare dedicato alle Muse. Nonostante le sue perplessità e ben note posizioni sulla poesia e sull'arte, Platone istituisce un fecondo rapporto tra il filosofo e le Muse.  Nel Cratilo (406 a 3-5) leggiamo che il nome stesso alle Ποῦσαι (Muse) e alla μουσική (musica) sembra derivare dal μῶσθαι (aspirare, cercare) proprio della ricerca e della filosofia. Nella Repubblica (VIII, 548 b8-c1) la "vera Musa", quella da non trascurare, sempre "si accompagna ai discorsi e alla filosofia".
Le profonde corrispondenze tra musica, poesia, arte in generale e pensiero ci riguardano da vicino ancor oggi, si pensi soltanto, fra il XIX e il XX secolo, alle opere e agli esempi straordinari di Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e María Zambrano.
Nel Fedro il filosofo è per Platone l'uomo capace dell'ἀνάμνησις (reminiscenza) di ciò che un tempo vide la nostra anima, capace di pensare la totalità con uno sguardo libero, universale, disinteressato, dall'alto; è l'uomo "posseduto dal dio", "ispirato" (ἐνθουσιάζων), in cui rinascono - per quanto è possibile (κατὰ δύναμιν) ai mortali - le ali dello spirito, sorretto dall'amore per la sapienza e la verità; è un uomo ritenuto strano e "folle" dai più, perché rivolto a cose alte, divine e lontano dalle beghe e macchinazioni, dalle occupazioni prevalenti, dai traffici e dagli interessi dominanti in cui si risolve la vita della maggior parte degli uomini (cfr. Fedro, 246 c; 248 d; 249 b-d). Il filosofo è devoto alle Muse, amante della bellezza, dedito all'amore, al pensiero e al sapere; col desiderio di questo tipo che sempre porta con sé, egli acquisisce le ali e si libra in volo (cfr. Fedro, 249 d-e).


Molto platonico è in questo senso pure Giordano Bruno, quando nel XVI secolo scrive, con le ali del suo schietto spirito filosofico, in una poesia premessa al dialogo De l'infinito, universo e mondi (1584): "fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo".[1]
Come grande pensatore e cantore dell'universo infinito, Bruno riprende il motivo platonico delle ali nel De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo (il cosiddetto De immenso, 1591): "Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d'immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. (...) Così, io sorgo impavido a solcare con l'ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.
Ma per me migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l'Olimpo, che accomuna gli altri in un'unica prigione dal momento che ne ha dissolto l'immagine, per cui da ogni parte si espande il sottile aere.
Mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l'etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti".[2]
Nella lettera al rettore e al senato accademico dell'università di Wittenberg premessa al De lampade combinatoria lulliana (1587), Bruno dichiara di sentirsi in Musarum curia alumnus ("un allievo alle cure delle Muse").[3]


In Bruno l'ispirazione delle Muse è congiunta pure (nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, 1584) a una vena scopertamente erotica e il fiorire delle Muse è legato alla presenza di un clima favorevole alla tolleranza e alla libertà di pensiero. Bruciato vivo sul rogo dall'Inquisizione cattolica nel febbraio 1600, il filosofo pagherà duramente le sue idee e l'amore delle Muse, rimanendo vittima dell'intolleranza e della repressione della libertà di pensiero.
Nell'Oratio consolatoria stampata a Helmstedt nel 1589, Bruno descrive la sua vita di esule, "forestiero ed estraneo"; per amore delle Muse, "spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile all'infuori di loro".[4]
Col suo coraggio e con la sua determinazione, con la sua forza e libertà di pensiero, Giordano Bruno ci ha lasciato una testimonianza straordinaria e mirabile di cosa possano significare le ali, il volo del pensiero e l'amore per le Muse.
Dopo questa parentesi, torniamo a Platone. Come leggiamo pure nello Ione, soltanto la Musa forma gli ispirati e può costituirsi una "catena", una comunità di coloro che sono invasi da divina ispirazione (cfr. Ione, 533 e-534 a).
Nel Fedro Socrate ha l'impressione che le cicale, come "attendenti delle Muse", col loro canto ininterrotto nell'afa estiva, ci stiano osservando, ascoltando e possano riferire alle Muse gli umani discorsi (cfr. Fedro, 259 a-d). Diventa allora importante per noi porre attenzione ai discorsi. Il filosofo è l'uomo che, ispirato dalle Muse, cerca di dare forma alla propria vita, secondo uno stile complessivo di esistenza di cui fa parte anche il modo di parlare e di scrivere, il ricorso a discorsi non superficiali e sciatti, ma pronunciati e scritti "nell'anima" (ἐν ψυχῇ. Cfr. Fedro, 278 a).
La filosofia può porsi così come μεγίστη μουσική (musica altissima. Cfr. Fedone, 61 a 3-4) quando e, anzi, soltanto quando la vita di un uomo riesce ad armonizzare e ad accordare in una effettiva consonanza le azioni e le esperienze vissute con le parole, i pensieri e i discorsi. La "musicalità" specifica della filosofia indica "l'arte delle Muse" (μουσικὴ τέχνη), intesa in senso ampio come capacità di indirizzo, educazione, cultura, formazione, controllo, disciplina di sé, orientamento positivo e costruttivo della propria vita.
Nel Lachete, proprio Lachete afferma di poter sembrare di volta in volta φιλόλογος ("amico dei discorsi") - quando i λόγοι si rivelano coerenti coi fatti e le esperienze della propria vita - oppure μισόλογος ("nemico dei discorsi"), quando questi ultimi si palesano in contraddizione coi comportamenti reali: "Quando infatti sento un uomo che dialoga sulla virtù o su una qualche forma di sapienza (ἀνδρὸς περὶ ἀρετῆς διαλεγομένου ὴ περὶ τινος σοφίας), se è veramente un uomo all'altezza dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme piacere, considerando al tempo stesso chi parla e le cose dette, come siano consentanei l'uno all'altro e in perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra proprio un musicista (μουσικός), che vive accordando in perfetta armonia (καλλίστη ἀρμονία) non una lira o strumenti frivoli, ma davvero lui stesso la propria vita, rendendola consonante nei discorsi rispetto alle azioni (...). Un tal uomo, quando parla, mi fa gioire e sembrare a chiunque amante dei discorsi (φιλόλογος) - con tanto slancio accolgo ciò che dice -, mentre chi agisce in modo opposto mi provoca un fastidio, che è tanto maggiore quanto meglio costui sembra parlare, e mi fa apparire nemico dei discorsi (μισόλογος)".[5]
Nella Repubblica (IV, 430 d-e), a proposito del nesso importantissimo  e inscindibile istituito nella πόλις fra  σωφροσύνη (moderazione) e δικαιοσύνη (giustizia), si parla della σωφροσύνη come di "una sorta di accordo (συμφωνία) e di armonia (ἀρμονία)", che indica l'esigenza dell'ordine, del controllo dei propri impulsi, del necessario disciplinamento delle proprie forze ed energie, del potere su di sé, insomma. Un potere su di sé finalizzato a una vita migliore sia a livello dei singoli individui sia a livello politico e sociale, nella convivenza sociale e nella condivisione della vita.
Sempre nella Repubblica (IV, 443 d-e; IX, 591 c-d), si parla dell'armonia necessaria fra le tre parti dell'anima (concupiscibile, irascibile e razionale) e del fatto che l'uomo assennato è "impegnato ad accordare l'armonia del corpo in vista della sinfonia dell'anima".



Anche nelle Leggi viene ribadito che non vi può essere alcuna φρόνησις (saggezza) senza συμφωνία (consonanza, accordo); "anzi la più bella e la più importante delle consonanze si può legittimamente definire come grandissima saggezza di cui partecipa chi vive secondo ragione (κατὰ λόγον), mentre chi ne è privo risulterà ogni volta che rovina per ignoranza la propria casa e non può essere il salvatore (σωτήρ) della sua città, bensì il contrario" (Leggi, III, 689 d-e).
Nel dare forma ai suoi pensieri, il filosofo intraprende una sorta di composizione che ha in sé qualcosa di artistico ed è anch'egli, a suo modo, formatore del bello. È una composizione in cui risuona la "musica" - ossia il ritmo, l'accordo, la consonanza, l'armonia, la sinfonia - della vita, del pensiero, delle cose stesse, del mondo, della verità. La filosofia, intesa in questo senso e insistendo sul suo carattere formativo, è anche un tutto artistico.
Nel filosofo ispirato e "posseduto"dal dio, cioè nell'uomo che si pone al servizio genuino della verità, il volo dello spirito si fa ardimentoso, libero, vasto, coraggioso.
Come Platone ben sapeva, la μεγίστη μουσική (musica altissima) della filosofia risuona, non troppo facilmente, soltanto quando gli uomini riescono a dare il meglio di sé nell'amore, nel sapere, nella condivisione della vita, nella tensione alla giustizia e alla verità.
L'ascolto di questa "musica altissima" risulta ancor oggi ostacolato fortemente dalle condizioni oggettive del mondo dato, ma questo ascolto rimane decisivo per rendere possibile la "sinfonia dell'anima", che non va interpretata in un senso spiritualistico-astratto o soggettivistico-metafisico, ma nella direzione della salvaguardia del mondo, dell'umanità, delle cose, dell'essere, della verità.
La "sinfonia dell'anima" propria della filosofia non è un mero appannaggio e dominio del filosofo, perché il filosofo, se è veramente tale, non pensa mai soltanto per sé, non difende mai meri interessi o idee personali, ma è rivolto essenzialmente a ciò che è più degno di essere pensato e vissuto, al bene comune e alla verità universale.
Platone si rende conto del fatto che il vero filosofo non può esaurire il discorso filοsofico o illudersi di farlo in uno scritto, perché la verità è inesauribile e noi possiamo soltanto amarla e ricercarla, perché i pensieri stessi più profondi del filosofo sono il frutto del suo complessivo stile di vita quotidiano, del suo modo di vivere e tutto ciò non può risolversi una volta per tutte in un testo scritto, che - per quanto si renda anch'esso necessario e ineludibile - rimane sempre una cristallizzazione, una sorta di congelamento di ciò che è vivo e appassionato, di ciò che è costantemente in divenire e appartiene al complesso, problematico e ricco processo dell'esperienza di pensiero.
Nulla dunque può sostituire il valore del dialogo autentico, vivo e diretto fra esseri umani, del pensiero espresso con franchezza, libertà e tensione alla verità (la παρρησία), della comunicazione fra persone capaci di ascoltare e di parlare tenendo conto delle buone ragioni - almeno parziali - di tutti. Tale dialogo, almeno finché vi saranno esseri umani viventi, è effettivamente inesauribile, come è inesauribile la verità.

Note
[1] G. Bruno, E chi mi impenna, e chi mi scald'il core? (1584), in Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. 322.
[2] G. Bruno, De immenso, I, 1 (1591), in G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 417-418.
[3] G. Bruno, De lampade combinatoria lulliana (1587), in G. Bruno, Opere lulliane, Edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2012, pp. 206-207 (trad. it. leggermente modificata).
[4] G. Bruno, Oratio consolatoria (1589), cit. nella Cronologia, a cura di M. E. Severini, in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. CIV.

[5] Platone, Lachete 188 c-e, in Platone, Teage Carmide Lachete Liside, a cura di B. Centrone, BUR Rizzoli, Milano 2012, pp. 344-345.

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LIBRI
CARO COMPAGNO CERVETTI
di Fulvio Papi

Gianni Cervetti

Chi, senza alcun sussulto della memoria o alcuna interrogazione sui tempi precipitati nel nulla, incontrasse oggi il dott. Gianni Cervetti, non avrebbe alcun dubbio di trovarsi di fronte a un personaggio di una spontanea e reticente eleganza interiore, conoscitore di musica e di arti, esperto di transiti filosofici più di quanto non desideri far credere, bibliofilo appassionato e in questa predilezione amico di Umberto Eco (di cui sempre sentirò con dolore la mancanza), dirigente di enti culturali con una paziente efficienza comunicativa, e con il gusto, questo veramente fuori dal comune, di ascoltare i discorsi altrui, di comprenderne il senso, per dare una risposta che favorisca la prosecuzione dell’incontro. A un interlocutore, incerto sulla storia del suo personaggio, suggerirei di prestare attenzione al modo operativo, sintetico e veloce di trarre le conclusioni. È un anglo molto modesto ma, nel suo tratto, si può aiutare a capire la vicenda di un personaggio abituato al discorso politico, specie di quello proprio del PCI nel quale, dall’inizio degli anni Cinquanta sino “alla fine”, Cervetti ha militato percorrendo tutto il cursus homorum dalla segreteria della sezione “Gramsci” a Milano, alla direzione e alla segreteria del partito. Fu il personaggio (raccontò lui stesso questa storia) che aveva da fare con i dollari di Mosca che dovevano sostenere il partito, sino a quando nel 1978, comunicò al dirigente sovietico che questo aiuto avrebbe dovuto cessare perché incompatibile con la libertà di progettazione e di azione politica del partito, sempre più coinvolto direttamente nello scenario italiano ed europeo e sempre meno in tramite della politica sovietica. Lo so che la prigionia ideologica, specie delle origini, è una complicata ragnatela fatta di abitudini, di conformismi, di fedeltà, di obbedienze, ma non riesco a togliermi dalla mente i vantaggi che ne sarebbero derivati se molti anni prima “l’oro di Mosca” fosse diventato un vuoto modo di dire di un’età dimenticata. Un’altra curiosità che nel suo libro Cervetti non soddisfa, è la cronaca di quel colloquio sui dollari che non poteva essere ridotto al dare e all’avere, ma doveva avere tutta una scena politico-verbale. Cervetti, che sa di teatro, perdonerà la natura della mia curiosità. 



                                                                                           
Il ragazzo Gianni nasce nell’ambiente popolare (virtù e vizi, insegnamenti e nullità) dell’osteria-trattoria paterna a Milano in una zona che non conosco ma che allora aveva confini tra l’area “bassa” e quella dei ceti abbienti. Il ragazzino fa bene la sua scuola, ma sono le lingue che gli creano problemi. In casa fiorisce un piemontese monferrino, ma con gli ospiti dell’osteria i genitori hanno dovuto imparare un milanese che ora pochi sanno parlare, ma tra gli anni Trenta e Quaranta era la lingua popolare. Durante la Resistenza gli infilano nella cartella volantini e messaggi, certi al 99 per cento che la custodia era sicura nel tragitto dalla trattoria al luogo prestabilito. L’uno per cento lo riservo a me che, più grande di età, (e in un altro luogo) conoscevo la gratuita violenza dei fascisti, soprattutto delle brigate nere. Arriva il liceo: la conoscenza dell’insegnante di latino, il prof. Siro Attilio Nulli, colto, intransigente, critico di ogni pensiero cristallizzato quindi anche del comunismo. Di Nulli ricordo di aver letto un libro su Erasmo nei primi anni Cinquanta. Il giovane Gianni, in compagnia con Paolo Santi (figlio del sindacalista nazionale di cui io, nel gruppo dei socialisti “lombardiani” a Roma nel ’60-’65 sperimentai la cultura e l’intelligenza politica) erano ormai sulla strada del PCI. Nell’organizzazione del PCI (degna di un modello burocratico weberiano con la cura e la disciplina di una comunità protestante) il ragazzo mostra tutta la sua intelligenza, la devozione, la disponibilità che vengono apprezzati dai dirigenti. Desiderano farne un quadro importante del partito, ed era ancora il tempo in cui la cultura era un elemento decisivo per avere un riconoscimento nel sistema politico. Ero socialista, non avevamo un’organizzazione nemmeno paragonabile a quella del PCI, ma allora non ho mai conosciuto un dirigente mediocre o, peggio, imbecille; ciascuno, dal suo punto di vista, poteva essere un valore per dottrina e/o esperienza. I comunisti erano molto più rigorosi: “un giovanotto di belle speranze politiche” deve andare a Mosca per imparare la cultura di base di un buon “quadro” e cioè l’economia politica e i suoi riflessi storici e sociali. Dunque “Addio Milano bella” con un certo tuffo al cuore, ma se si è in una organizzazione rigorosa (il partito, come la chiesa, la banca, una cooperativa, l’esercito) non resta che obbedire, figurandosi un avvenire ignoto ma molto interessante e formativo per la propria persona. E così il giovane promettente Gianni si trova a Mosca in una accogliente “casa dello studente”, un piccolo stipendio, trenta compagni italiani con cui discutere di politica russa (eravamo al tempo emozionante di Krusciov), ma anche dei riflessi in quella italiana. I suoi anni di Mosca non erano solo lo studio, ma la frequentazione di ambienti culturali e politici, sino ai margini di quelli che potevano anche essere fragili (ma esistenti) frange in un clima non privo di una sottaciuta indulgenza. All’Università i professori, al di là dei rituali ideologici, insegnano l’economia della grande tradizione, che Cervetti proseguì con lo studio di Marshall, Keynes, Sraffa. E qui mi permetto un’osservazione teorica. Il celebre libro di Sraffa è vero (come dice Cervetti) che non serve per risolvere alcuna situazione economica concreta, ma chiude definitivamente il problema marxiano del “valore” che aveva una sua incompatibilità tra il I libro del “Capitale” e il III libro. Il che è molto educativo. 



Mosca, per Cervetti, proprio dal punto di vista educativo intellettuale e politico, assomiglia molto alla Parigi per i pittori italiani del primo Novecento. Sensibilità e intellezione nascendo nell’ascesa di Krusciov, sono poi messe in ombra nella “rassegnazione” successiva. Dall’Italia arrivano dirigenti di primo piano con i quali i ragazzi (ma ormai sono cresciuti) discutono di linea politica con una certa libertà. Cervetti, che è il segretario politico di quei giovani, mi pare riuscisse a conciliare due caratteristiche: la esecuzione in generale della posizione del partito (anche con i sovietici) e una dignità della propria pensare, un’ombra di riserva critica che avrà una sua storia nella sua lunga vicenda di dirigente del PCI. Mi ha divertito la lettura laddove racconta di aver addomesticato il terribile Pajetta, che io ricordo nel ’47 quando a Milano fu destituito il prefetto Troilo e questo fatto provocò una mezza insurrezione che, fortunatamente, finì nel nulla per la saggezza del comandante militare della piazza di Milano. Si racconta che da allora Togliatti prendesse sottobraccio l’inquieto compagno e gli chiedesse: “Allora, Pajetta, come va la rivoluzione?”. 

                                  
Torniamo a Gianni Cervetti che, dopo quasi sei anni, torna a Milano da Mosca, oltre che con la sua formazione, anche con una moglie, l’adorabile Franchina, e un figliolo. Si mette subito a disposizione della federazione dove la segreteria era passata da Alberganti (finito, con il suo operaismo in un sogno, anche violento, di giovani del ’68 che dell’insegnamento di Marx non avevano capito niente) a Cossutta che ricordo bene nel suo rigore partitico (non mi lasciò ricordare Banfi ai comunisti poiché io non lo ero) e però nella sua cordialità. Cervetti con tanti libri nella sua personale enciclopedia, era persino imbarazzante come “quadro”, e fu spedito all’ufficio studi della Camera del Lavoro dove trovò come collega socialista il mio tanto caro e indimenticabile amico Palermo Patera. L’ufficio studi era un osservatorio molto importante che educava un’intelligenza formata dalla “scuola” a conoscere le “cose stesse” nelle loro differenze sociali, ambientali, culturali, e, tuttavia, connesse fra loro, era necessariamente uno sguardo che abbandonava il particolare per poterlo leggere su uno schermo complessivo. Che è quanto più giova a un sindacato che ha nella sua natura il desiderio di essere un fattore importante di identificazione civile nello stato. Credo che Cervetti questa esperienza l’abbia metabolizzata nel suo linguaggio politico senza nemmeno farci caso. Poiché l’ora strettamente politica era venuta con la designazione alla segreteria della federazione di Milano. In queste pagine si può leggere una storia politica della città, che (sarò troppo severo) è stata più o meno accorta, ma sempre incapace di trovare una via laterale al dominio finanziario e genericamente mercantile che trasformava la città. Probabilmente non era possibile, e la politica cominciava lentamente a diventare la parodia del “gioco delle palle di vetro”, l’ultima opera di Hesse. Il destino di Gianni Cervetti era invece scritto nelle stelle del cielo politico. Il polo magnetico è Roma. E se posso aprire una parentesi, qui è l’errore storico: la assoluta prevalenza della centralità statale che agisce sulla stessa struttura del partito. Cervetti deve lasciare il suo ambiente milanese, il Piccolo Teatro, la Scala, gli amici di sempre tra i quali gli indimenticabili Treccani, e tante altre frequentazioni che formavano un’esistenza e probabilmente ampliavano il senso. Gli dispiace. Ma il riconoscimento politico è una carriera. Il partito è unitario ma tra Amendola e Ingrao (poi seppe di “volere la luna”) correva già un’aria differente. C’è la tragedia cilena, e nel ’73 Berlinguer probabilmente timoroso della scena internazionale, lancia il tema del “compromesso storico”. “Storico” l’avrei lasciato agli storici, mi sarei limitato a dire “utile per il governo del paese”. Ma tant’è distorta la sapienza dei sopravvissuti. 


Adesso io non sono in grado di seguire tutti i congressi del PCI e del contributo dato in ogni circostanza da Gianni Cervetti. Qui la biografia diviene storia e forse ciò che preme di più all’autore sono proprio queste pagine. Gli farò sicuramente un torto poiché alle vicende storico-politiche provo più interesse per il personaggio. Perché Gianni non ci resti male gli confesserò che mi è accaduta la stessa cosa con il libro di Rossana Rossanda. A Roma le strategie politiche - che pure sono decisive per un partito - appaiono come grovigli che solo uno storico, non un lettore comune, può sgrovigliare sino all’assoluta chiarezza. 



A Roma Cervetti è nella direzione e nella segreteria, è un personaggio di primo piano nei giornali. Cercava di tornare a Milano per contribuire alle difficili sorti della città, soprattutto aiutando una significativa svolta a sinistra dell’amministrazione. Mi piace immaginare una consonanza tra l’azione di Cervetti e le abilità del mio indimenticabile amico Iso Aniasi. Le vicende romane nel libro meritano un puntiglio storico unito a una elegante discrezione personale. Dopo la “svolta” di Berlinguer, il partito perde la sua ingessatura tradizionale e le opinioni si diversificano, il partito mostra più anime (che immaginavamo latenti) e i discorsi hanno più che sfumature diseguali. Berlinguer viene sempre notato da Cervetti con simpatia forse indovinando quello stile lontano da qualsiasi euforia , e prossimo invece a quella meditazione segnata da un sottile pessimismo che è tipica di chi non è mai abbandonato dalla riflessione. Personalmente (l’aggettivo va preso molto sul serio perché non sono né uno storico e, tan poco, un conoscitore delle vicende del PCI) credo che la scomparsa di Berlinguer nel 1984 sia stata un autentico disastro per il partito. Probabilmente Berlinguer avrebbe saputo condurre il partito attraverso le traversie sociali e politiche che lo attendevano. “Come” ovviamente non lo so. 



Il “come” fu trovato dai segretari successivi, vittime di un tempo precipitoso che cancellava il passato nel caso migliore come un’illusione o, in realtà, anche molto peggio. Lo stile politico della democrazia liberal-democratico vinceva la sua partita con il dirigismo comunista, ma, a mio vedere, soprattutto il processo di globalizzazione economica cambiava la geografia economica del mondo. Ricordo che Cervetti fu uno dei dirigenti del partito (dai nomi cangianti) che cercò di mantenere una rotta (molto difficile) nella situazione che si era capovolta. Soprattutto doveva mutare, e con fatica, nell’intellezione di coloro che continuavano a pensare a una possibile relazione tra teoria e prassi. La società non aveva più alcun riflesso politico nel senso tradizionale. Addio identità tra teoria e prassi che, forse, tutti si erano dimenticati che, in Italia, era stata l’invenzione di Giovanni Gentile interprete di Marx (1899 ). Il contrario di questa prospettiva è politicamente il riformismo. In questa prospettiva Cervetti rivendica nel suo libro una sorta di prudente riformismo da sempre latente, ma che ora era venuto alla luce tra molti dirigenti del partito, sotto il “papato” di Giorgio Napolitano. La domanda che molti si fanno: perché non prima? Senza una documentazione storica che si dà agli uomini quello che potevano essere, è una domanda solo emozionante, quelle che servono per costruire una storia contro-fattuale. Era il tempo della Lega che trionfava a Milano per punire i partiti che accumulavano per la propria organizzazione e per i propri dirigenti, denari illeciti. Dal punto di vista giudiziario fu l’epoca di “mani pulite”; nella legislazione era una reato (corruzione o concussione che fosse) che i partiti godessero di finanziamenti provenienti da varie fonti, ma in ogni caso illeciti. Bisognerà scriverla con rigore questa storia che è molto più complessa di quella che fu stoltamente creduta solo un’opera di pulizia. Tant’è che adesso i denari illeciti non vanno più ai “partiti”, ma a singoli personaggi in un’opera di corruzione che quasi ci fa vincere il relativo campionato mondiale della corruzione. Sono malattie “infettive”, e, paradossalmente il vaccino lo dovrebbero trovare proprio quelli che cadono nel malanno. A suo tempo Cervetti fu ingiustamente coinvolto, (con la mentalità di “ogni erba un fascio”) e ne uscì con onore, e con i complimenti del PM, cosa che non è comune.   Quanto sia cambiato il mondo e quali siano le metamorfosi del vecchio PCI e con quali effetti, penso sia complesso anche per uno storico. Cervetti ne dà un tracciato nel suo libro del tutto plausibile. Ma la storia, sembra strano, è multicolore. E adesso? Cervetti nei giorni scorsi mi ha detto che, nonostante tutto, qualcosa di quel lungo lavoro resta e si trasforma in nuove forme di vita. Dal canto mio che il cambio d’epoca sarà più crudele, più distruttivo, più incognito. È vero come ho sostenuto in altri giorni, che fin che c’è pensiero da spendere funziona anche in un piccolo mercato. Ma c’è pensiero?

Gianni Cervetti
Il compagno del secolo scorso.
Una storia politica.
Bompiani Editore 2016
Pagg. 350  € 19,00

La copertina del libro
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FILOSOFI
FRANCO FERGNANI
di Fulvio Papi



In un tempo in cui noi, intendo dire gli studenti di filosofia tra il 1949 e il ’53, ascoltavamo con ammirata attenzione le lezioni di storia della filosofia di Antonio Banfi che aprivano i più ampi orizzonti della cultura sullo sfondo di uno storicismo marxista, Franco Fergnani mostrava qualche insofferenza. Egli avrebbe desiderato che il maestro, più che riprendere il tesoro della sua sapienza nel quale, ad ascoltare bene, era perfettamente visibile la tessitura teoretica del “razionalismo critico”, entrasse direttamente in una relazione critica con la nascente filosofia contemporanea. Questo compito, anzi, gli pareva la parte che la stessa presenza politica avrebbe dovuto suggerire. Franco sottintendeva non solo il continente esistenzialista che avrebbe dovuto essere esplorato al di là delle sue tonalità morali, ma la potenzialità pragmatista che derivava dalla filosofia di Dewey, la prima diffusione della filosofia analitica (allora era di “moda” Ryle) e, forse, anche una attenzione meno veloce alle prime cose di Adorno, lasciando pure nell'ombra Heidegger sul quale gravava la collaborazione diretta con il partito nazista. Banfi allora -cerchiamo di rivivere l'atmosfera di quegli anni- viveva, anche filosoficamente, la convinzione di trovarsi sull'onda positiva della storia, la conclusione di quella “crisi” che da decenni era stata centrale nel suo pensiero. In questa prospettiva apparivano secondarie meditazioni filosofiche appartenenti più a un’area accademica o mondana che al corso obiettivo del mondo.
Fergnani stesso era comunista, aveva lavorato come redattore della rivista della federazione milanese del partito e poi al «Calendario del popolo». Era quindi un po' un ritardo con gli esami universitari, ma la capacità teoretica viveva in lui con grande energia: attento, per questa ragione, più a Giulio Preti, allora fondamentalmente deweyano, e al Cantoni che, a fronte di quello che gli pareva un “umanesimo enfatico”, valorizzava uno scrittore-filosofo religioso come Kierkegaard e un altro grande autore come Dostoevskij (che Banfi una volta definì “pericoloso”). Era questo stile intellettuale e la sua naturale cordialità pedagogica che mi fecero nascere subito il desiderio di poter contare sull'amicizia di Franco Fergnani. Per affascinarmi ancor più avrebbe potuto raccontarmi della sua partecipazione alla Resistenza a Milano nel “Fronte della gioventù”, quando gli era affidato il compito di disarmare isolati militi fascisti, impresa che io appresi più tardi da un altro ormai ex-giovane del “Fronte della gioventù” (la dirigenza del quale era di Curiel con l'apporto intellettuale proprio di Banfi). Ma su questo passato, del resto di pochi anni addietro, Franco manteneva un totale silenzio, infastidito com'era da ogni atteggiamento celebrativo.
Lo conobbi nei primi mesi della mia frequenza al corso di filosofia teoretica del professor Bariè, che aveva tradotto l'originaria metafisica di Martinetti in un quadro teoretico di ascendenza gentiliana. Fergnani doveva svolgere una esercitazione sulla interpretazione di Spaventa della categoria dell'essere nella Logica di Hegel. Un'impresa che richiedeva certamente una sottigliezza interpretativa, e una capacità di frequentare testi e problemi con una certa disinvoltura teoretica. Ricordo certamente la ammirata valutazione del professor Bariè, ma soprattutto ricordo il mio smarrimento che mi conduceva a riflettere seriamente sulla mia capacità filosofica di orientarmi su certe vette del pensiero. Chiesi allora a Fergnani se avrebbe avuto la pazienza di spiegarmi il suo lavoro; Franco mi disse che, per comprendere bene il contesto e il senso stesso della sua esercitazione, avrei dovuto conoscere, in primo luogo, meglio Hegel e, in secondo luogo, era indispensabile conoscere la critica di Gentile a Hegel. Fergnani capì subito che da solo non sarei stato capace di percorrere questo cammino, e allora si offrì di spiegarmi con pazienza questi tragitti filosofici. Il nostro appuntamento era al Motta (c'è ancora o no?) di piazza Cadorna, e quivi in un appartato tavolino, libri e carte alla mano, in alcune sere Franco mi spiegò quello che dovevo sapere. Una commessa si fermava qualche volta ad ascoltare, e sul suo viso, con divertita ironia di Franco, si poteva leggere un disarmato stupore sul fatto che si potesse parlare in quel modo. Ma per quanto mi riguarda, furono proprio quegli insegnamenti che mi aprirono la strada all'analisi teoretica dei problemi filosofici e dopo questo apprendistato, per il tempo dell'Università, l'amicizia di Franco Fergnani, pur con i suoi riserbi, fu sempre preziosa. Aggiungo: anche per capire bene il “trascendentalismo della prassi” che allora era l'orientamento filosofico di Mario Dal Pra.
Franco, come ho già detto, era iscritto al partito comunista. Ma non l'ho mai sentito assumere toni liquidatori o arroganti nei confronti di chi avesse un orientamento diverso. La sua arma fondamentale era l'argomentazione rigorosa, paziente, priva di aggressività. Ricordo come spiegò il concetto di “nazionalità” a un giovane filofascista che lo declinava in “nazionalismo”. E poi fu la volta di una occasione che ebbe una sua celebrità, perché fu citata da Garin nelle sue Cronache di filosofia italiana come un sintomo importante dell'anti-stalinismo italiano. Nelle pagine di «Società», la rivista teorica del PCI, uscì un indegno articolo (non nomino l'autore, del resto allora “travestito”, per evitare il cattivo gusto storico che rimane anche al di là della verità storica) in cui, in due parole, si sosteneva che Dewey era il filosofo dell'imperialismo. Franco, che era anche influenzato dal pensiero di Giulio Preti, pensò che si dovesse reagire. Coinvolse me stesso e Vittorio Strada (poi personaggio di primo piano nella conoscenza della letteratura e della storia russa) in un testo che reagiva con energia, ma con misura critica, alle quelle note di «Società» degne di Ždanov. Il nucleo fondamentale dell'articolo era opera di Franco, noi vi portammo qualche marginale ritocco. Fu pubblicato su «Società» in corpo 6, vale a dire al confine con l'illeggibile, ma la verità filosofica era ristabilita.
Dopo l'università persi di vista Franco, che andò a insegnare in un liceo di Ascoli Piceno. Divenne un po' irraggiungibile per un carattere introverso che diventava sempre più difficile. Poi tornò all'Università di Milano come assistente di Remo Cantoni, e poi insegnante di Filosofia morale. Dal Pra desiderava fargli vincere il concorso per la cattedra, ma Franco si tirava indietro dicendo che doveva scrivere ancora qualcosa che lo persuadesse a pieno. Era il suo stile, quello che apparve evidente anche nella lontana tesi con Banfi sulla critica marxiana alla Fenomenologia di Hegel. Il maestro allargava il suo discorso in un apprezzamento molto convinto, Franco talora interrompeva la relazione, esponendo dubbi e incertezze sulla sua stessa interpretazione. Alle tesi non si era mai visto un comportamento del genere.
Ora dovrei, da antico universitario, fare la rassegna bibliografica. Chiunque la può trovare su Internet. Qui dirò solo che i suoi studi su Sartre e su Kierkegaard occupano i primi posti tra le ricerche su questi autori. La sua frequentazione dei “contemporanei”, da Dewey a Merleau-Ponty, anticipò forse anche i tempi. I suoi allievi alla Statale di Milano ne hanno un ricordo riconoscente e affettuoso, i colleghi una grande stima professionale che confinava con una disciplina - mi dicono - così rigorosa da passare, talvolta, la misura. A me è rimasto un ricordo profondo, affettuoso, con il rammarico, forse la pena, di essere un ricordo un poco incompiuto. 

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IN RICORDO DI RENATO SOLMI
di Fulvio Papi

Renato Solmi

Probabilmente il non aver saputo un anno fa della scomparsa di Renato Solmi dipende dalla mia scarsa attenzione alle notizie. Non è certo un comportamento da vantare, e tuttavia penso che i mezzi di comunicazione di massa che ci raggiungono o, meglio riescono a scovarci dovunque, una notizia decisamente visibile avrebbero potuto darla. Il fatto è che Renato dopo una stagione presso Einaudi, dove ha tradotto Adorno, Horkeimer, Benjamin, Anders, e aver continuato la sua opera di traduttore di opere che sono diventate fondamentali nella nostra cultura, si era chiuso in una partecipazione solitaria alle riviste della tradizione della sinistra radicale. L’espressione “partecipazione solitaria” può sembrare strana, ma corrisponde allo stile di Renato: la più ampia esposizione pubblica del suo pensiero, ma la minima esposizione personale. In tempi di “visibilità” il suo comportamento etico e reticente, per lo più in epoca di facilissimo oblio, la sua presenza nel mondo è destinata a passare come un soffio di vento. Dopo gli anni da Einaudi aveva vissuto a Torino come insegnante di filosofia nei licei. Dove avrà certamente lavorato con il suo grande impegno, la devozione alle buone cause, la spontanea moralità. Quando qualche anno fa uscì la sua “Autobiografia” ci sentimmo al telefono, e, dopo anni, mi viene incontro una vita che affondava le sue radici in uno stile desueto, nobile, ostinato in una cronaca di fatti, quasi a mostrare che non c’è nessun senso che vada oltre il nostro fare nello spazio che si è in grado di esprimere nel mondo. Le sue erano cause politiche rilevanti, come la guerra in Vietnam, sepolte nel ricordo da una velocità dei sentimenti simile a quella della diffusione capitalistica, delle sue forme di potere e della sua pubblica felicità. Renato era un personaggio dei nostri indimenticabili anni Cinquanta. 

Renato Solmi

Ricordo quando, all’inizio del decennio, nella bella casa di Armanda Giambrocono (ottima critica fra Banfi e Della Volpe), si riuniva un gruppo di intellettuali di sinistra, Guiducci in testa, partigiano e olivettiano, per discutere di “cultura politica” in piena libertà e fuori dagli schemi della “vulgata” comunista del tempo, Renato ci tradusse un capitolo di “Storia e coscienza di classe” di Lukács del 1922, testo sul quale pesava la critica decisa dall’internazionale comunista, e, proprio per questo, prezioso per la formazione di chi voleva percorrere a sinistra una strada di libertà. Di questo libro allora era possibile consultare alla biblioteca Feltrinelli solo una copia del 1922 scampata alla distruzione. Ricordo l’eco profonda della sua traduzione di Anders “Diario di Hiroshima” in un tempo in cui l’equilibrio atomico era la condizione, per lo più rimossa, nella vita quotidiana, della nostra esistenza. E perché dimenticare le perplessità anche di Renato che l’aveva tradotto, dinnanzi a un testo come “Minima Moralia” di Adorno, dove la dialettica di Hegel non era “rovesciata”, ma costituiva la teorica intellettuale della critica sociale.

A sin. Roberto Guiducci con Silvio Ceccato


Renato l’ho sentito l’ultima volta al telefono quando fu pubblicata la sua autobiografia. Desideravo ripetergli l’ammirazione che avevo sempre avuto per la sua vita e mi trovai all’ascolto di una vita piena di saggia e dolente rassegnazione per quello che a noi pareva il precipitare della storia, del sapere, del senso, del gusto. Sul piano personale metteva in ombra i suoi meriti e le sue preziose attenzioni, come opere di un tempo che non ci apparteneva più. Sarà perché ora so che Renato Solmi non c’è più, ma quegli anni pieni di filosofia di frontiera, di impegni che invadevano ogni tonalità dell’esistenza, mi sembrano un dono smarrito che tuttavia occorre ricordare con giusto pudore.    

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La fenomenologia di Michel Henry
di Carolina Frabasile


Michel Henry
Michel Henry compare sullo scenario filosofico francese intorno agli Sessanta del secolo scorso, elaborando un nuovo modello di metafisica, antitetica alla classica ontologia dell’oggetto, che riconsidera il rapporto pensiero-essere, sottraendo il ruolo egemonico al pensiero e individuando l’essere quale elemento fondante di tale rapporto. Abbandonata la filosofia dell’oggetto, Il modello metafisico nascente, esposto nella sua opera princeps, L’Essenza della manifestazione,(*) affronta in modo innovativo la questione della manifestazione, dell’apparire dell’essere. Henry dimostra l’impossibilità di risolvere il problema al cuore della fenomenologia entro gli schemi di una filosofia riflessiva tale che inizi e si fermi alle pure forme di pensiero. Il fenomenologo francese, presupponendo un quid pre-riflessivo in cui la filosofia riflessiva affonderebbe le sue radici e dal quale trarrebbe nutrimento, impronta la sua indagine allo svelamento di tale matrice pre-riflessiva. In primo luogo Henry indaga la natura del preriflessivo e le relative implicazioni fenomenologiche-ontologiche, soppiantando il soggetto trascendentale classico, funzione formale, con un io in carne ed ossa che, nel suo primo volgersi verso il mondo, non coglie le cose tramite un pensiero rappresentante-scientifico, ma attraverso un atto percettivo e senziente. Henry, stabilito che le cose siano più di puri oggetti del pensiero, individua la centralità del problema della manifestazione e della rivelazione dell’essere, criticando l’impianto fenomenologico di Husserl per il quale il soggetto va verso le cose mediante un atto intenzionale e riflessivo e, dirigendosi verso esse, ne rende possibile l’esperienza, rivelandole. Il filosofo francese, distaccandosi dalla soluzione che Husserl offre al problema fondamentale della modalità di manifestazione dell’essere, nega la visione quale via di accesso al reale mediante uno sguardo, ovvero mediante la relazione che si instaura tra un atto di vedere e un oggetto visto. Il trascendentale, attraverso cui Henry si volge al di fuori, è il corpo vivente e, questo trascendentale è riconosciuto quale principio di tutto ciò che si manifesta. Il corpo di cui parla il filosofo francese è in grado di far apparire qualcosa dal momento che si tratta di un leib che, sentendo in primo luogo se stesso, sente il mondo.
L’autopercezione del corpo vivente, la percezione che il leib ha di se stesso ancora prima che percepisca le cose esterne, si pone come il fattore fondamentale della natura della manifestazione dell’essere. Henry ha scoperto nel corpo la potenzialità reale di sentire le cose. Tuttavia Il corpo, prima di rivelare un oggetto esterno toccandolo, deve essere rivelato a se stesso in una modalità diversa rispetto a quella in cui viene rivelato l’oggetto toccato, ossia rispetto ad un atto intenzionale: il leib, prima di dirigersi verso un oggetto da toccare, deve rendere noto a se stesso il proprio potere di toccare. In questo corpo che sente il mondo si individua quella struttura che dovrebbe precedere l’intenzionalità e fondarla. L’intento di Henry non è quello di squalificare l’intenzionalità di Husserl, ma di fondarla, riportando alla profondità dell’essere, identificata con la vita e il suo logos,  sorgente prima e ultima della manifestazione.
Lo studio fenomenologico proposto da Henry si fa carico delle aporie che il pensiero husserliano ha lasciato insolute, avendo egli attribuito il ruolo originario dell’apertura della manifestazione ad un atto e ad un potere ontologico relegato nell’ambito della non visibilità e della non manifestazione: l’intenzionalità. L’atto intenzionale di Husserl, puro ‘riferimento a’, è così radicato nella purezza formale da dover trarre dall’esterno la propria materia e i propri vissuti per mettersi in moto, non dimostrandosi dunque la prima sorgente della manifestazione.
Il concetto di ‘coscienza di’, a cui è riconducibile l’intenzionalità, oltre a non essere il principio primo della fenomenalità, in quanto forma pura è strutturalmente impossibilitato ad essere dimora dell’affettività originaria, non possedendo lo statuto fenomenologico per accogliere le Stimmungen, o tonalità affettive. Henry pone il vissuto a luogo originario della manifestazione, da una parte dimostrando che un atto privo di contenuti e vuoto di vissuti non può vedere né far vedere nulla, dall’altra sottolineandone l’incapacità di fondare l’affettività. Il fenomenologo francese trapianta la genesi della manifestazione nell’immanenza del vissuto, nel sostrato che precede e fonda ogni relazione e ogni trascendenza verso l’oggetto.
L’immanenza del vissuto è automanifestazione, essendo immediatamente noto a se stesso, in quanto primariamente provato da sé, a prescindere da qualsiasi rapporto soggetto-oggetto e atto intenzionale. La rivoluzione fenomenologica compiuta da Henry, avendo rovesciato la fenomenologia husserliana della forma intenzionale in una fenomenologia della materia o del vissuto, formula un nuovo concetto di soggettività che si esprime ora nell’immanenza e nella rivelazione immediata dell’io a se stesso. Il soggetto si definisce all’interno della vita la quale è identica al pathos che lo pone viso a viso con se stesso dal momento che in primo luogo il soggetto è vivente e solo in seguito si relaziona con la sfera della rappresentazione. All’interno della scienza fenomenologica Henry chiarisce l’esistenza di due modi di manifestare tra i quali è sotteso un rapporto fondativo: il modus manifestandi, per cui l’essere si manifesta fuori di sé, nella sfera della visibilità, della trascendenza e della rappresentazione, conduce ad una forma di sapere che rimanda ad una primigenia modalità di manifestazione che non ricade nel visibile, inerendo alla sfera immanente della vita, opposta alla sfera della trascendenza e della rappresentazione.
La vita, in quanto essere che sorge e si rivela in se stesso, provandosi nel patimento di sé e nella profusione del suo essere interiore e vivente, si serve dell’invisibilità per manifestarsi rivelandosi nella sua assolutezza.

(*)M. Henry, L’essenza della manifestazione, tr.it. a cura di D. Sciarelli e M. Anzalone,
Filema, Napoli 2009

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Umano e divino in Platone
di Franco Toscani

1. Il divino e il problema della verità in Platone.
 
Scultura della testa di Platone
Tenteremo qui una riflessione sul rapporto fra umano e divino in Platone, tesa a porre in evidenza il fatto che nella problematica e complessa nozione platonica di divino è contenuto il riferimento a tutto ciò che vi è di più alto e nobile nell'uomo e nell'universo intero.
In questione è dunque il riferimento essenziale alla verità; l'amore per la verità, per la giustizia e la vita buona sorregge tutta la filosofia platonica e la sua tensione al divino. Leggiamo infatti nelle Leggi: "La verità (ἀλήθεια) è al vertice di tutti i beni per gli dei come per gli uomini, e possa esserne partecipe fin dal principio chi vuole diventare beato (μακάριος)e felice (ευδαίμον), affinché trascorra nella verità la maggior parte del tempo della sua vita" (Leggi, V, 730 c).[1]
Il passo è importante anche perché qui l'autore parla di partecipazione dell'uomo alla verità e non di possesso: è una precisazione essenziale, come vedremo anche in seguito.
Noi ora cercheremo di rileggere le riflessioni platoniche circa il rapporto umano-divino intendendo per divino tutto ciò che si riferisce all'immenso ambito della verità.
Da questo punto di vista, non si tratta per noi innanzitutto di essere platonici o antiplatonici, metafisici o antimetafisici, favorevoli o contrari alla "teologia" platonica, ma di raccogliere le indicazioni di questo straordinario pensatore per contribuire a nostra volta a sviluppare un discorso veritativo, a servire la verità, ossia ad assolvere il compito specifico della filosofia e pure quello della teologia, soprattutto di una nuova teologia ben lontana dalle secche del vecchio dogmatismo metafisico.
Noi proviamo un senso di vertigine e di reverenza al cospetto della verità, della sua maestà e del suo splendore che noi uomini così spesso ignoriamo, sottovalutiamo o calpestiamo. E' una verità impadroneggiabile, ma il riferimento umano alla verità è fondamentale.
Noi non la possediamo e non la possiamo possedere, ma possiamo amarla e ricercarla, respirarne l'aria, la splendida atmosfera. Possiamo vivere della verità, senza però pretendere di esaurirla in noi e in tal modo possiamo vivere senza idolatria, senza trasformare la verità stessa in un idolo e senza dunque mutare la terra in un'aiuola che ci rende tanto feroci.
Rileviamo un'ambivalenza profonda delle religioni storicamente date, che hanno sempre oscillato fra il potere, l'intolleranza, la violenza, l'odio, il fanatismo da un lato e l'amore, la pietà, la misericordia, la generosità, la giustizia dall'altro.[2] Nel nome di Dio si è commesso di tutto e Dio è stato sovente un alibi per mascherare interessi "umani, troppo umani". Nulla di tutto ciò in Platone, dove il discorso complesso sul divino rinvia sempre all'immenso ambito della verità, al di là di ogni σμικρολογία (meschinità).
La verità è umana e, nel contempo, supera l'uomo, lo comprende in sé infinitamente. Al suo cospetto noi proviamo un costante senso di inadeguatezza, mancanza, privazione, ma avvertiamo pure - e tutto ciò è davvero molto "platonico", nel senso migliore del termine - l'esigenza del coraggio, del giusto e necessario ardimento, di ciò che  Giordano Bruno chiamava l' "eroico furore", un "furore" d'amore che non ha nulla a che fare con la violenza che da sempre percorre e tormenta la terra.

Note

[1]Platone, Leggi, V, 730 c, "Introduzione" di F. Ferrari, "Premessa al testo" di S. Poli, trad. it. di F. Ferrari e S. Poli, "Note" di S. Poli, BUR Rizzoli, Milano 2007, pp. 398-399 (trad. it. leggermente modificata). A questa edizione dell'opera noi per lo più qui faremo riferimento.
[2]Su tale ambivalenza si veda il bel saggio di Ernesto Balducci, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992.

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Ancora su Banfi e il PCI
di Fulvio Papi 
La copertina del libro

Il libro Banfi a Milano. L'università, l'editoria, il partito a cura di Alice Crisanti, (ed. Unicopli, Milano, 2015), nasce da una di quelle circostanze fortuite che, se bene interpretate, arricchiscono il materiale documentario e storico a disposizione degli studiosi. Cominciamo dalla narrazione del caso fortuito. Daria Banfi quando preparò il libro biografico su (di) Antonio Banfi, mise insieme “alcune casse di libri e documenti” (cito dalla “Premessa all'opera” di Amedeo Vigorelli, molto pregevole per il suo ufficio) che ebbero la sorte di finire nel mercato antiquario. La biblioteca dell'università di Milano con sicura saggezza ha acquistato questi materiali “provvedendo alla loro catalogazione scientifica”. Un lavoro impegnativo, coordinato da Amedeo Vigorelli. Marzio Zanantoni e Alice Crisanti. Il successo di questo più che meritevole impegno ha dato luogo a una interessante mostra documentaria, “inaugurata contestualmente” a una giornata di studi su Banfi relativi ai temi indicati nel titolo del libro che di quel convegno rende pubbliche le relazioni.  
Come testimonianza orale - che forse potrebbe avere una sua utilità, data la mia consuetudine di otto anni (1949-1957) con Antonio Banfi, nei ruoli di studente e di assistente - il filosofo era solito dire che non amava “guardarsi nello specchio”. Non è un sintagma privo di qualche difficoltà per comprenderlo bene nel suo senso profondo. Per esempio Italo Calvino sostiene che non aveva mai voluto cadere nel rischio psicologico di un’autobiografia. Non è la stessa cosa: uno specchio, per poco che ci rifletta, ci parla di una storia, pone alcuni interrogativi. Banfi, al contrario, amava guardare a se come a una prospettiva aperta nel futuro. Questo atteggiamento morale ha dei vantaggi, evita quel tipo di colloqui con se stessi che, più di una volta, prendono la forma inquieta e dolente del “diario intimo”, ma anche degli svantaggi, e quale sia uno di questi svantaggi nel caso di Banfi è presto detto.
Il filosofo nei primi anni Cinquanta e, entro certi limiti, anche nella celebre lettera a Bertin del ‘42 (ingiusta nei confronti del suo giovanile amico Clemente Rebora) dava una ricostruzione biografica simile a una personale “storia della filosofia” selettiva, nel suo esito, della attualità. Un qualsiasi biografo era così messo fuori strada, e magari non poco. Basti pensare che la sua poderosa opera filosofica i Principi di una teoria della ragione (1926) non l'ha mai nominata a lezione e nemmeno in colloqui privati. Ne sono venuto a conoscenza tramite l'acquisto del libro che una carissima compagna d'Università che ora non c'è più, Lella Monti, riuscì a fare presso un antiquariato di Venezia. Negli anni Trenta i “grandi allievi” di Banfi quest'opera l'avevano studiata tutti. Non era una differenza da poco che segnava l'ultima generazione e, in particolare, la sua possibilità di uno sguardo biografico al di là della strategia della memoria che il maestro attuava spontaneamente. La vita era cominciata da poco, forse nell'ebbrezza morale e psicologica della partecipazione alla Resistenza. Dopo la scomparsa di Banfi era già un problema procurarsi i documenti più importanti della sua storia filosofica, quel suo tessuto teoretico che, sul lungo periodo, veniva lavorato con solitaria costanza e che oggi mi pare da riprendere nel suo senso più approfondito di una ricerca teoretica.
Per quanto riguarda l'interpretazione del filosofo, non credo che nessuno dei suoi allievi (che erano abituati dal maestro a cercare la loro verità) abbia mai avuto una tonalità apologetica, anche se spesso - i maggiori come i minori, i teoretici come i politici - hanno ricordato il loro debito intellettuale. Basta pensare al Paci del Diario fenomenologico o alle testimonianze di Tortorella (laurea su Spinoza), uno dei massimi dirigenti del PCI e direttore dell'«Unità». Al punto che ho trovato strana una pagina del diario postumo di Anceschi che, dopo aver sostenuto per tutta la vita la sua discendenza estetologica da Banfi, mostrava dubbi sulla sua ventura. Banfi ebbe, sino all'ultimo giorno (si legga il suo intervento del 1956 al Congresso internazionale di Estetica di Venezia), una grande attenzione per l'arte d'avanguardia, fosse la musica elettronica o il disegno industriale, ma certo non coltivò mai una avanguardia come invece accadde ad Anceschi con il “Verri” a Bologna. Dicevo i “minori”: parole di riconoscimento teorico, morale e pedagogico avevano per Banfi Luciano Raimondi e Angelo Peroni, professori di filosofia ai licei e combattenti partigiani nella seconda divisione Garibaldi “Redi”, comandata dal mio indimenticabile amico “Iso” Aniasi, per anni sindaco di Milano.
Due parole ancora quanto al metodo. I documenti storici non devono mai essere letti come rivelazioni di una nostra pre-cognizione, che diverrebbe così certezza, prova. Occorre, al contrario, avere la pazienza genealogica di comprendere documenti e fatti nelle relazioni temporali che li possono rendere comprensibili nella loro forma di verità (anche se, al nostro sguardo, poco gradevole) e quindi nel loro senso, che deve essere poi l'oggetto della intellezione. Non c'è altra strada.
In breve, i saggi. Direi magistrale quello di Andrea Di Miele (con il suo bellissimo saggio su Banfi e Paci). Quando scrive «gli scritti giovanili del periodo prebellico (1915 nda) mostrano, in diversa misura, quanto il dispositivo teoretico che avrebbe costituito, un lustro più tardi, l'impianto dei Principi di una teoria della ragione, benché ancora ruvido, fosse già formato» ha perfettamente ragione. E coglie, esistenzialmente, la forma di solitudine studiosa e meditativa del giovane Banfi. E - ancora - quando sostiene che «l'idea di purezza del trascendentale […] si mostra come dispositivo che scompone l'identità logico-metaforica, mentre postula l'integrazione della multilateralità dell'esperienza» coglie il punto fondamentale del criticismo di Banfi e della sua filosofia della cultura. Il punto dal quale la riflessione teoretica può riprendere il suo corso in piena libertà.
Preziosissimo il lavoro di Nicola Del Corno, non solo per la rievocazione dell'amicizia giovanile di Andrea Caffi con Banfi, ma per l'intelligente ripresa di tutta la fioritura di studi e di ricerche attuali su Caffi, sulla sua forma di socialismo libertario, sulla sua stessa persona, affascinante e sempre fedele a una libertà nutrita di intelligenza storica e sociale e di una elevata concezione morale.
Il lavoro di Emilio Renzi è la memoria viva, ricca, coinvolgente di tutto il tessuto intellettuale che corre a latere della centralità banfiana. Penso che ogni rievocazione storica dei personaggi centrali di quella scena storica meriterebbe la trasformazione in un dialogo teatrale così come egli ha saputo condurre tra Paci e Ricoeur. Immagino il dialogo tra Monicelli e Mondadori sul cinema, quello tra il conte Bompiani e il Banfi direttore di collana editoriale (con un “voi” che stento a credere solo fascista). Nuova, almeno per me, la notizia della fondazione da parte del diciottenne Mondadori della rivista «Camminare». A un narratore così sapiente e puntuale come Renzi ricordo solo una dimenticanza: Vittorio Sereni, prima di andare a lavorare alla Pirelli (Lalla Romano diceva che qualche volta i tradimenti sono inevitabili), era stato professore al liceo Carducci. A questa notizia ci tengo perché al tempo, come studente, c'ero anch'io.
La ricerca storica di Alice Crisanti sui documenti della carriera universitaria di Banfi è ammirevole per la cura e la diligenza. Per quello che si può ricavare da questi materiali universitari, si ha l'idea di una esternazione molto positiva dell'ambiente accademico nei confronti dell'opera banfiana. Ricordo qui anche le sue pagine sull'epistolario Banfi-Gentile, nel quale Banfi, in più circostanze, mostra di richiedere l'aiuto di Gentile con parole di considerazione personale e filosofica. Se però si va a leggere - come si deve - le pagine su Gentile dei Principi di una teoria  della ragione, si trova chiara la critica teoretica alla filosofia dell'atto. Essa, inevitabilmente, proprio nella forma gentiliana della critica della dialettica hegeliana, riproduce nella concezione vitalistica dell'atto (Gentile nel ‘43 su «Primato» farà valere questa sua posizione come un esito già teoreticamente accaduto rispetto alla “esistenza” della nuova corrente filosofica) ancora una volta una oggettivazione. Quindi una narrazione, non un uso critico della ragione, cioè una “retorica”, che è poi la parola con cui Giulio Preti (anche nelle sue  lezioni a Pavia) considererà la filosofia di Gentile. Fuori dalla filosofia, non v’è dubbio che Banfi, nella sua carriera, fa capo spesso a Gentile chiedendone l'appoggio, approfittando della considerazione che Gentile stesso aveva del suo lavoro teorico e, anzi, contraccambiando con attestazioni della propria stima. Pochi - tra questi non Banfi - sfuggono alla diplomazia accademica, come sarà più chiaro ancora di quanto “sappiamo” (nel senso che la parola “sapere” ha nel famoso scritto di Pasolini) quando saranno note non poche delle 5000 lettere degli archivi Banfi custoditi dal professor Fabio Minazzi all'Università dell’Insubria.
La domanda successiva è ben conosciuta: come poteva Banfi, dopo quel rapporto con Gentile, scrivere la famosa dura nota sulla clandestina «Nostra lotta» di orientamento comunista dopo l'uccisione di Gentile? Fortunata giovinezza che non ha vissuto quei tempi terribili, ma qualcosa si deve dire, con equilibrio storico, proprio prendendo in considerazione il saggio di Zanantoni. L'autore può facilmente mostrare come Banfi - sia agli “operaisti” milanesi (chi non ricorda la posizione di Pajetta dopo la rimozione scelbiana del prefetto Troilo a Milano?), sia ai crociani “rovesciati”, di eco terzinternazionalista e zdanoviano, del centro di Roma - fosse difficile da capire e quindi sospetto. Rossana Rossanda capì subito la situazione con grande lucidità. Questa stonatura, per chi ha memoria e la sa evocare, era già visibile nell'immediato dopoguerra, quando Banfi a Milano organizzò, con tutta la sua scuola, un convegno filosofico in sostanza di natura criticista. Tra il filosofo e la dirigenza PCI (non con la base, né nel collegio di Abbiategrasso nel ‘48, né in quello di Cremona nel ‘53) c'era sempre una certa lontananza e una certa incomprensione.
Per i dirigenti del PCI (il famoso mito della egemonia intellettuale) Banfi era una figura fortemente rappresentativa; il filosofo ricambiava questa considerazione evitando motivi di crisi, anche perché convinto che la “storia”, hegelianamente, non appartiene mai a un intelletto giudicante. Tema che ha svolto perfettamente nel suo ottimo libro Guido Neri: perché non tenerne conto?
Io stesso ho sperimentato questa situazione nel ’52, quando con Fergnani e Strada scrivemmo un articolo per «Società» in opposizione a un giudizio di rara volgarità contro Dewey apparso in quella rivista del partito. Si poteva dire che eravamo influenzati da Preti (come in seguito Dal Pra), e si poteva dissentire in merito, ma dal punto di vista della libertà filosofica avevamo ragione noi. Garin lo riconobbe, dicendo che quella replica di giovani era il primo segno di una posizione antistalinista nel quadro della cultura comunista (io, per la verità, ero socialista). Tutta la faccenda passò sotto il silenzio di Banfi, i cui motivi appena esposti già allora eravamo in grado di capire. Allora era già accaduto il caso Canepa–Cantoni su «Studi filosofici» narrato più volte. Va forse detto che la fine di «Studi filosofici» non fu esattamente uguale a quella del «Politecnico» di Vittorini. Fu Banfi a prendere quella decisione nel ‘49 proprio perché tutta la situazione era mutata: gli allievi andavano per la loro strada, la rivista rischiava di diventare un’eco “politicamente corretta” di un marxismo filosoficamente molto problematico per Banfi (Cornu, Lukács). Era certo una “libertà negativa”, ma fu una decisione che aveva una sua opportunità.
Farò ora qualche osservazione aggiuntiva al saggio di Zanantoni. Non credo abbia torto quando afferma che il marxismo di Banfi (come sosteneva Guido Neri) aveva una tonalità baconiana. Questo lo si vide meglio dopo il contatto diretto del filosofo con il marxismo cinese. Ma Banfi, nello stesso tempo, poteva scrivermi (la lettera l'ho donata all'archivio del prof. Minazzi) che il marxismo è una prospettiva filosofica da costruire. A parte le opzioni sul tema, la questione va approfondita con una conoscenza che tenga conto della bibliografia secondaria dove, per esempio, notava come la interpretazione della teoria del valore di Marx, chiara nel 1920 e poi non più ripresa, assomigliasse a quella di Simmel e di Richter. Era inevitabile che questa distanza da quel problema centrale dovesse condurre a una filosofia della storia simile, nella differenza, al tracciato husserliano sulla soggettività europea (perduta). Avevano quindi ragione - su questo tema filosofico di Banfi - sia Preti che Paci, ma un esame teoretico dei loro principali lavori non conduce a un umanesimo che ha un vizio analogo?
Sulla data dell'adesione diretta di Banfi al PCI la tesi corretta è quella che sostiene essere accaduta subito dopo il 25 luglio del ‘43, come ho scritto in un recentissimo saggio su “Banfi e la resistenza” pubblicato su una autorevole rivista di tradizione cattolica. Il che non esclude rapporti personali, come quelli, in Liguria, con l'ingegnere Fillak, padre del giovane resistente poi ucciso dai nazifascisti.
Veniamo ora all'uccisione di Giovanni Gentile. Zanantoni conosce bene la letteratura relativa e le sue tesi sono pertinenti. Gli risparmio la mia testimonianza - che deriva da un lontano colloquio con un giovane allora militante del partito d'azione (poi passato al PSI) - che era contrario alla decisione comunista. Lo scritto apparso su «La nostra lotta» mi pare proprio (come mostra Zanantoni) nato nello stesso clima resistenziale di Curiel. Non lo leggerei nemmeno come l'esecuzione di un compito assegnato al filosofo dal PCI (ma quale era, in concreto, l'organizzazione del partito a Milano nel ’44?), ma piuttosto come testimonianza di quel clima feroce di guerra, difficile da evocare bene per chi non c'era. Teniamo poi presente che, se l'ambiente è quello del “Fronte della gioventù” (risparmio qui la conoscenza analitica delle sue caratteristiche), subentrava anche una sorta di dura “didattica della lotta” dove l'aura filosofica perde il suo stile per finire nella famosa antinomia amico-nemico. Del resto anche la parola di Gentile nel ‘44 non era più il discorso autorevole del filosofo del regime, né il suo animo quello - ben noto - della tolleranza nei confronti degli allievi liberal-socialisti, ma, di fatto, una chiara presa di posizione nel conflitto, della cui gravità - nella convinzione di essere una milizia storica nella verità - non era, forse, del tutto consapevole. Non dimentichiamo che Curiel, dieci mesi dopo la morte di Gentile, dopo una inutile fuga viene ucciso in piazza Baracca da una pattuglia fascista. I tempi, i pensieri e le azioni vanno capiti tutti nel loro senso contingente, tragico in quell'anno, che trasforma le stesse figure dei protagonisti. Per quanto riguarda il nostro autore, amichevolmente, gli rimprovererei di non aver tenuto presente il grandissimo disagio di Banfi nel ’56 - intorno al quale esiste una ampia documentazione: un disagio alla soglia di interrogativi drammatici sulla propria vita e sulla filosofia, del tutto confermato dalle lettere ancora inedite del periodo. E poi, perché non tenere conto del proposito di Banfi - sempre del ‘56 - di riprendere la pubblicazione di «Studi filosofici»?. Questa decisione certamente corrispondeva alle critiche che Banfi al congresso avrebbe mosso all'organizzazione culturale del partito. Nell'estate del ‘56 in casa Banfi - nella prospettiva della ripresa di «Studi filosofici» - vi fu una riunione alla quale presero parte i “grandi allievi” del filosofo che avevano, in qualche modo, compreso la situazione. Io stesso (si parva licet) ebbi il compito di una critica al “realismo” di Lukács dal punto di vista della concezione banfiana della “vita dell'arte”.
Da un'analisi più ampia dei fatti e delle relazioni che sono accadute ne esce una figura etica di Banfi, accanto a quella teoretica, molto più drammatica, quasi uno dei simboli della tragedia della modernità.


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LIBRI
Mondobugia. Undici variazioni sul mentire

La copertina del libro
Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato circa un anno fa un interessante testo, che ve segnalato per i contributi che contiene, tutti incentrati sul tema della bugia. Si tratta di una raccolta di undici saggi di autori vari, che hanno partecipato a un ciclo di conferenze organizzato dall’Associazione Remo Gaibazzi di Parma nel 2009.  
Quello del mentire è un mondo vasto e articolato; qui è visto in diversi ambiti: giornalismo (Maurizio Chierici), etologia (Vittorio Parisi), economia (Roberto Tesi), psicoanalisi (Maurizio Balsamo), letteratura (Maurizio Pincio), arti figurative (Marco Vallora), politica (Mauro Simonazzi), musica (Marcello Conati), cinema (Leonardo Quaresima). Infine va segnalato, last but not least, l’articolato intervento di Andrea Calzolari relativo alla filosofia, ricco di puntuali e calzanti riferimenti storici e teorici.   
Tra i saggi più pertinenti dal mio personale punto di vista, menzionerei innanzitutto In forma d’introduzione di Mario Lavagetto e Si può dire una menzogna in musica? di Marcello Conati. Mi fa piacere che attraverso questi due autori il nome di Verdi risulti indirettamente o direttamente presente: Lavagetto è autore quanto meno di una fondamentale ricerca sui libretti verdiani; Conati a Verdi ha praticamente dedicato la propria intera vita di musicista e studioso, pubblicando su di lui numerosi competenti e  suggestivi saggi.   
Lavagetto ha tuttavia dedicato la propria introduzione a Mondobugia alla letteratura, con interessantissimo osservazioni sulla Bibbia, sull’Odissea, (“un grande, intricatissimo labirinto di bugie”), ma non mancano penetranti riferimenti a Agostino, al Collodi di Pinocchio, a Dostoevskij, a James in particolare.
Segnalerei poi il saggio di Marco Vallora su Arti figurative. Irrapresentabile menzogna rappresentata, assai ricco di riferimenti che vanno da Cesare Ripa a Giulio Paolini, passando per le rappresentazioni pittoriche di grandi personaggi letterari, di scene bibliche e mitologiche, da parte di grandi pittori passati e presenti.
Non nascondo tuttavia la mia maggior inclinazione per il tema della menzogna in musica. Il testo di Marcello Conati è chiaro nell’impostazione del problema a livello teorico: “è solo attraverso le parole del libretto e l’azione scenica che la musica può essere coinvolta, suo malgrado, in un mendacio. Per sua stessa natura, per le leggi che la governano […] non le è consentito di esser altro che se stessa”.
Ma, per quanta riguarda il teatro drammatico, in cui la menzogna è onnipresente, assai preziosi sono i riferimenti, oltre che di sfuggita a Rossini, Puccini e altri, a opere fondamentali di Mozart e naturalmente di Verdi. 

Andrea Calzolari (a cura di)
Mondobugia. Undici variazioni sul mentire
Mimesis Edizioni, 2014
Pagg. 238  20

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Cenni del monte Ragola. Sulla benedizione del Semplice
di Franco Toscani
Veduta del Monte Ragola
Nel silenzio dei monti osservo spesso a lungo il monte Ragola (m. 1700 di altitudine), che da molti anni scorgo con nettezza dalla finestra della mia casa nel bosco, a monte Armano, nell'alta val Nure dell'Appennino ligure-emiliano. E' una zona di notevole bellezza, poco turistica e frequentata, sulla linea di confine tra le province di Piacenza, Parma e Genova.
Il Ragola mi fa compagnia nei mesi estivi che ogni anno trascorro in gran parte in questi luoghi sin dalla mia adolescenza. La sua vista non cessa di stupirmi ed è fonte continua di domande, malinconia, pensiero, interrogazione. Ho sovente l'impressione che tra me e il monte Ragola ci sia una sorta di dialogo, in cui esso "parla", senza ovviamente poter impiegare parole umane. Nell'inquietudine e nel travaglio della mia coscienza, lo interrogo molte volte. Non mi limito dunque a interrogare me stesso, come voleva Eraclito nello splendido frammento 101: "Ho interrogato me stesso" (ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν). Anche se poi bisogna aggiungere che, per ovvi motivi, interrogare il monte coincide nel contempo, naturalmente, con l'interrogare sé stessi.
In ogni caso, che cosa pare dirmi il monte? Esso può "insegnarci" qualcosa? A me sembra che esso sfidi e risponda a suo modo al Socrate del Fedro platonico, che afferma: "Amo imparare (φιλομαθὴς γάρ εἰμι), ma i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, al contrario degli uomini che vivono in città" (Platone, Fedro, 230 d). La "sfida" - una sfida senza guerra alcuna, la quale viene anzi interamente lasciata alle vicissitudini, alla responsabilità e alle scelte dei mortali - è qui silenziosamente lanciata al presunto primato assoluto del λόγος, della ragione e dello spirito umani.
Quelli del monte sembrano, più che altro, silenziosi, molto silenziosi e maestosi cenni, da interpretare. Tutto è rinviato alla nostra capacità di ascolto e di interpretazione.
Winke (Cenni) è fra l'altro pure il titolo di una raccolta di testi poetici di Martin Heidegger stampata privatamente a Meβkirch nel 1941.


Per me si tratta dei cenni del destino, di ciò a cui siamo inviati, della φύσις-ἀλήθεια (natura-verità).
Ma cerchiamo di rispondere o di corrispondere in qualche modo ai cenni suddetti.
Intanto, noto che, di anno in anno, scarsi o nulli appaiono i cambiamenti del monte, al contrario dei miei. Sembra che non abbia rughe, metaforiche o non metaforiche.
Esso è allora per me l'emblema della stabilità, di ciò che è duraturo e permanente. Così piaceva a Platone pensare le caratteristiche essenziali delle idee, del mondo delle idee, contraddistinto dalla perfezione e dall'immutabilità rispetto a tutto ciò che nel mondo sensibile e terreno è transeunte, caduco, corruttibile, imperfetto.
Ecco, il monte Ragola, con la sua imponenza e stabilità, è per me quasi come un'idea platonica, ma sottolineo il "quasi". Insieme alla stabilità e all'imponenza, a una sorta di eterna giovinezza, alla maestosità, esso fa pensare pure alla semplicità. Il monte Ragola non sembra "complicato" e vivere come noi travagli, tormenti, gioie, inquietudini, etc. . Sta lì da tempo immemorabile, fermo, solido, calmo, imperturbabile, con o senza nuvole attorno, sia col cielo sereno sia quando s'intravede malamente o scompare alla vista a causa della nebbia, della notte e del maltempo. Continuamente, ai nostri occhi, esso si manifesta e si cela. E' questo il suo modo di giocare? Del resto, non scrisse Eraclito (frammento 123) che "la natura ama nascondersi" (φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ)?
Dal monte proviene forse ciò che - riprendendo un'espressione di Martin Heidegger - ho chiamato altrove la "benedizione del Semplice".

Baita sul Monte Ragola
Vi è uno splendore e nel contempo una modestia, una semplicità essenziale di ciò che è, di ogni cosa, monte Ragola compreso. Ciò che è risplende infatti nella modestia e nella bellezza del suo semplice essere. Dicevo prima che il monte Ragola sembra "parlare", così almeno da tempo penso, se non sono folle. Naturalmente, gli è estraneo il linguaggio umano, eppure, in un certo senso, dal monte sembra provenire una sorta di "dire essenziale", più dicente, un dire inaudito che ci raggiunge in profondità e cattura interamente l'ascolto e l'attenzione. E' il "dire" che proviene dalle silenziose e profonde regioni dell'essere, dalla benedizione del Semplice.
Poeti e pensatori rimangono in ascolto di tale dire e infatti sono per questo motivo i più arrischianti fra i mortali, nel senso che arrischiano il linguaggio cercando di palesarne l'essenza nobile, al di là del chiacchiericcio massmediatico dominante che lo svilisce e lo concepisce in modo puramente strumentale. Il dire essenziale, più dicente è proprio della grande poesia e del grande pensiero. Ma le parole della grande poesia e del grande pensiero possono oggi davvero essere ancora ascoltate, comprese, fatte proprie? Non è facile interpretare il "linguaggio" peculiare del monte, almeno per me. Lo stesso si può e deve dire per l'esser-cosa della cosa e per l'esser-mondo del mondo.
Non sempre noi mortali siamo capaci di ascoltare, di vedere o di cogliere in qualche modo la benedizione del Semplice, indaffarati e presi come siamo nella rete dei nostri quotidiani traffici, occupazioni, calcoli, manipolazioni e macchinazioni.
Per certi aspetti, il monte Ragola sembra salutarmi e rassicurarmi, accennare a una vita limpida e serena come il cielo sul quale si staglia e si protende; ciò mi vien suggerito proprio in virtù della sua solidità, stabilità, imponenza e (apparente) immutabilità. Quando il tempo è mite e il monte si manifesta in tutta la sua bellezza, esso sembra addirittura invitarmi alla festa, alla danza e scaldarmi il cuore come non mai. Per altri aspetti, esso sembra dirmi, senza parole umane - alle quali invece io faccio inevitabilmente ricorso: miracolo e ricchezza del linguaggio umano -, ciò che abitualmente, troppo spesso, non ascolto da voci umane. Il silenzio delle sterminate regioni dell'essere qui domina e rivela, fa cenno. Cerco di ascoltare tutte le voci del destino, quelle umane e non umane.
Allora il monte Ragola sembra ancora salutarmi, ma in un altro modo rispetto a quello precedente, un modo molto meno rassicurante e radioso, anzi per me struggente e beffardo, che mi riempie di malinconia, per dirmi all'incirca: "O caro, ci siamo fatti buona compagnia per tanto tempo, sei stato rispettoso e leale con me, ti invio ancora un saluto affettuoso, ma presto o tardi - nessuno lo sa - non mi vedrai più, mentre io resterò qui ancora a lungo, molto più a lungo di te, come un vecchio guardiano a vegliare sulla valle".
Queste parole sembra dirmi il monte, alle quali posso rispondere solo con uno sguardo mesto di abbandono e il cuore gonfio di pena.
Il cenno del monte Ragola è per noi mortali l'assegnamento senza parole del destino.

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VITE LUMINOSE
Pubblicato il carteggio del partigiano socialista Andrea Lorenzetti
di Fulvio Papi

Della splendida figura di resistente e di socialista di Andrea Lorenzetti non vi è traccia (che io sappia) nelle opere complessive dedicate alla Resistenza e alla storia del movimento operaio. È stata quindi una impresa di grande valore morale e di testimonianza storica la pubblicazione a cura di Guido Lorenzetti delle lettere di Andrea alla moglie Milena e al figlioletto Guido., lettere partite dal campo di concentramento di Fossoli, dopo 45 giorni di isolamento a san Vittore, e prima di essere inviato a Gusen Mauthausen dove morì di stenti il 15 maggio del ’45. La storia politica e soprattutto morale di Andrea Lorenzetti va ricordata per una memoria doverosa, anche se la sua vicenda meriterebbe un’attenzione molto più empatica e diffusa. Lorenzetti (erede di una sapienza politica paterna derivata dall’ammirazione per Andrea Costa, primo socialista romagnolo nel Parlamento), entrò in contatto con la militanza socialista già nel gennaio del 1943. Dopo il 25 luglio raccolse tra amici e simpatizzanti il denaro per pubblicare l’Avanti! Clandestino al quale collaborò direttamente con suoi interventi. La sua era stata una vita operosa e agiata in una famiglia unita da un affetto e da una premura che si riflettono nelle lettere dalla prigionia. È da questa sicurezza che Lorenzetti esce per partecipare alla Resistenza: non aveva alcun obbligo militare o d’altro genere per prendere una decisione così radicale. È piuttosto un pericoloso dono di una coscienza libera e desiderosa di non mancare all’appuntamento etico che si apriva in Italia nel ’43. È dall’inizio di quest’anno (1943) che entra a far parte di un gruppo di socialisti che operano clandestinamente a Milano. Dopo gli arresti dei compagni dell’11 novembre del ’43, prese il posto di coordinatore dei militanti nelle varie zone della città. Il suo impegno fu fondamentale alla redazione dell’Avanti! Tra l’8 settembre e il maggio del ’44 assieme a Guido Mazzali, poi direttore del giornale non più clandestino nel ’45 (Mazzali fu un personaggio colto, intelligente, aperto ai giovani che mi fu particolarmente vicino nei miei esordi socialisti, e che io ricordo con immutato affetto). Ma l’attività di Lorenzetti non fu affatto solo pubblicistica. All’inizio del marzo del ’44 organizza la partecipazione degli operai socialisti -in accordo con la dirigenza del PCI- al grande sciopero del 1° marzo del ’44. A Milano gli scioperanti sono oltre 120.000. È il momento in cui la resistenza ai nazi-fascisti prende il volto di un movimento collettivo e assume un’eco internazionale. Lorenzetti, grazie a una spiata di un doppiogiochista, viene arrestato il 10 marzo. In 45 giorni di isolamento non gli strapparono una sillaba che compromettesse i compagni. E qui inizia la corrispondenza con la moglie che prosegue dopo il trasferimento al campo di Fossoli. Prima che ne avessi notizia storica, Fossoli nella mia conoscenza di ragazzo era il luogo dove venne fucilato Poldo Gasparotto, amico della mia famiglia, per parte di mio zio. Per tutti noi fu un gravissimo trauma emotivo. Lorenzetti, al campo di Fossoli, divenne uno straordinario organizzatore dei prigionieri cercando di provvedere con opportune iniziative ai bisogni delle famiglie più disagiate, private con la prigionia dell’unica fonte di sostentamento. Delle lettere alla moglie dirò una sola cosa: vanno lette come un documento di straordinaria misura etica, specie oggi dove molto spesso la moralità è in grande crisi, forse la più grave del paese. In ogni lettera Lorenzetti mente alla moglie dicendo che le sue condizioni di vita sono più che tollerabili, addirittura buone. Non vuole assolutamente che la sua compagna abbia a dolersi più del necessario. Guido Lorenzetti, poco tempo fa, mi disse che sua mamma non credeva a queste rassicurazioni. Un altro elemento di una storia personale che mostra la figura di Lorenzetti, una personalità forte e generosa. Il 15 maggio del ’45 quando la morte gli è prossima, a Gusen, detta all’amico Ravelli l’estremo messaggio dove si legge: “Desidero che Guido sia allevato secondo i sentimenti che hanno ispirato la mia vita. Prego i miei di perdonarmi il dolore che arreco loro, non mi pento di quello che ho fatto, malgrado tutto quello che ho sofferto, sarei pronto a ricominciare, perciò non mi compiango”. Poco dopo aver firmato il documento, Andrea morirà.

La copertina del libro

Andrea Lorenzetti
Prigioniero dei nazisti.
Libero sempre. Lettere da San Vittore e da Fossoli,
Marzo-Luglio 1944
a cura di Guido Lorenzetti
Mimesis Edizioni - 2014
Pagg. 152  € 16,00

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LIBRI
PERSONA  
UNA ANTROPOLOGIA FILOSOFICA NELL’ETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE

 La libertà si fonda sulla irriducibilità ad ogni istanza, persino a ogni più o meno fondato, “valore” (storia, biologismo della razza eletta, progettualità ideologica, normatività dell’Assoluto) che non sia la persona stessa”.
Sommario: Capitolo I.- Persona nella storia; Capitolo II.- Genealogia della persona; Capitolo III.- Personalismo fenomenologico; Appendice Le quattro stagioni di Paci; Capitolo IV.- Persona e comunitarismi; Capitolo V.- Persona e socialismo comunitario; Capitolo VI.- Persona e cosmopolitismo

Persona, cosa intendiamo con questo termine?
Anzitutto il soggetto, ossia l’io nella pienezza del proprio vissuto (coscienziale, inconscio e biologico). Poi relazione: relazione con il me stesso e con l’altro. Infine oggetto di ricerca (ad esempio nelle neuroscienze).
In altre parole il termine persona contiene in sé anima, soggetto, corpo, conoscenza, etica ed anche diritto, dato che nel diritto non ci sono che le personae, le res e le actiones.
Questo è lo studio che affronta Emilio Renzi (allievo di Enzo Paci e docente di Semiotica alla Scuola di Design del Politecnico di Milano), nel suo ultimo recente saggio interamente dedicato alla persona ed alla sua totale irriducibilità ad ogni istanza, ivi compreso ogni - più o meno fondato - “valore” (storia, biologismo della razza eletta, progettualità ideologica, normatività dell’Assoluto) che non sia la persona stessa. Perché l’uomo non è un’idea ma è una persona e persona è il soggetto in carne e ossa, unità vivente di pensiero, esperienze, attività, relazioni.
In questa ricerca della persona, Renzi muove dalla sua genealogia etimologica: per/sonum ossia la maschera indossata dagli attori per dar pienezza alla voce e inequivocità all’espressione, quindi completezza al personaggio in contrasto con gli altri attori. Ne ripercorre gli studi a partire da Cicerone, Agostino, passando per Renouvier, Maritain, sino alla scuola fenomenologica che studia la persona nelle sue relazione col  mondo circostante. Senza dimenticare la scuola italiana (Bobbio, Calamandrei, Banfi, Paci) che trova il punto di equilibrio tra società e persona nella partecipazione democratica e mette in guardia contro il pericolo di assorbimento totale della persona nello Stato (carattere tipico del totalitarismo).
Proprio nell’idea – tipica di Paci - che la persona sia un centro di relazioni col il mondo, Renzi traccia il percorso persona / comunità (che esalta la soggettività responsabile della persona), interrogandosi sulle forme di comunità moderne a partire dalla comunità in rete (con tutti i pro e i contro che la rete comporta).
Sabrina Peron
La copertina del libro
Emilio Renzi
Persona - Una Antropologia filosofica nell’età della globalizzazione
ATi Editore, 2015,
Pagg. 138, € 15

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FILOSOFIA E IDEOLOGIA
di Franco Toscani
Costanzo Preve
La filosofia non va confusa con la scienza, ma nemmeno con l'ideologia, specie nel momento in cui la coscienza ideologica si presenta soprattutto come coscienza mistificata, mistificante e alienata.
Le ideologie sono peraltro necessarie e con la loro "falsa coscienza necessaria" - che va distinta dalla menzogna consapevole e cosciente, pure assai diffusa - svolgono sempre, in un modo o nell'altro, una funzione sociale, sono rivolte a garantire la compattezza di una comunità, compresa l'attuale ideologia che vorrebbe sancire "la fine delle ideologie", proclamando in realtà la fine delle ideologie anticapitalistiche e l'affermazione delle ideologie funzionali al dominio delle oligarchie economico-finanziarie attualmente al potere. Oggi l'ideologia trionfa nella forma dell'abdicazione a ciò che immediatamente è.
Bisogna ripartire da ciò che il giovane Marx ravvisava come la contraddizione fra bourgeois e citoyen, tra la diseguaglianza realmente esistente a livello di società civile e l'eguaglianza proclamata a livello giuridico-statuale formale, che - come ha lucidamente rilevato Franco Fergnani - "dà luogo ad un nesso dialettico realtà-apparenza in cui l'apparenza avvolge e nasconde la realtà: tuttavia non in qualità di elemento accessorio, di epifenomeno, ma di maschera intrinseca alla realtà stessa, di velo che la storia si mette da sé (secondo l'espressione di Labriola). Questa apparenza, che non è parvenza (Schein), contraddice la realtà, ma essendo radicata in essa. O meglio: la realtà è così costituita da non potersi non coprire e travestire. E' appunto questo nesso indissolubile realtà-apparenza, questa struttura mistificata-mistificante presente nella cosa stessa e tipica della società borghese, a costituire un luogo specifico di cultura e di sviluppo della falsa coscienza e dell'ideologia che traduce quest'ultima in termini di discorso universaleggiante".[1]
Le ideologie presentano certo spesso in primo piano - specialmente per quel formidabile critico delle ideologie che è stato Costanzo Preve - la manipolazione, il mascheramento, l'occultamento, la "falsa coscienza necessaria", etc.; ma soprattutto occorre tener presente che "le ideologie razionalizzano e giustificano interessi, individuali e collettivi, mentre la filosofia, quando è veramente tale, è sempre e soltanto una disputa per la verità, ed in quanto tale è proprietà indivisa dell'intera umanità, e non di classi, ceti, religioni o gruppi sociali diversi" (LSU 17).
Parliamo qui di terreni diversi: "l'ideologia non è il terreno della verità (filosofica) o della certezza (scienza moderna), ma dell'utilità di gruppo in una società divisa in classi" (LSU 42). Insieme ad Heidegger - un autore a lui certo non congeniale ma sempre profondamente rispettato e preso sul serio - il filosofo italiano sottolinea con forza il valore della libertà di pensiero propria della filosofia, che non sopporta in alcun modo irreggimentazioni e strumentalizzazioni, controlli e amministrazioni, al contrario delle ideologie che volentieri s'accompagnano agli apparati e alle strutture partitiche, statuali e istituzionali di controllo (cfr. ST 456).
Facendo autocritica rispetto alle proprie stesse posizioni giovanili, il Preve maturo non accetta la definizione ideologica data da Althusser della filosofia come "lotta di classe nella teoria" e non l'accetta perché la filosofia, al di là di ogni "classismo", mirando al vero nella sua interezza è patrimonio indiviso dell'intera umanità, come l'arte, la letteratura e tutta la grande cultura (cfr. LSU 103-104).
L'ultimo Preve insiste parecchio - autocriticamente ed efficacemente, aggiungiamo e sottolineiamo - sulla distinzione fra attività filosofica veritativa, conoscenza scientifica e pratica ideologica. Leggiamo ad esempio nel saggio Elogio della filosofia (2005) questa franca e lucida ammissione: "La filosofia come ancella della scienza (che ha semplicemente sostituito, e non migliorato, la concezione cristiana medioevale della filosofia come ancella della teologia), oppure la filosofia come strumento dell'ideologia (comunista e proletaria) sono state due cose che mi sono state insegnate negli anni Settanta in modo talmente radicale che liberarmene (senza perdere le cose che avevo imparato pur sotto il dominio di queste concezioni errate) è stato uno sforzo di una intera vita".[2]
In realtà filosofia, scienza e ideologia si sovrappongono spesso in uno stesso autore in modo inestricabile e anche per questo va ribadito con forza il carattere democratico, dialogico, comunitario, veritativo della filosofia, che ha bisogno come l'aria di un dialogo libero, aperto, interminabile, attento e rispettoso.
Note
[1] F. Fergnani, "L'ambiguità dell'ideologia e il pensiero marxista", Capitolo I della Parte Prima, in F. Fergnani, R. Prezzo, L. Frasconi, Ideologia e scienze storico-sociali, Edizioni Libreria Cortina, Milano 1978, pp. 33-34.
[2] C. Preve, Elogio della filosofia. Fondamento, verità e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea, in AA.VV., Dialettica oggi, "Koiné" nn. 3-4 (anno XII), luglio-dicembre 2005, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, p. 47.

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IN FONDO AL GIARDINO
Una testimonianza memoriale di Gabriele Scaramuzza
di Fulvio Papi


L'opera di Scaramuzza, “In fondo al giardino -ritagli di memorie-” pubblicata recentemente è del tutto originale, trova il suo spazio vitale tra le condizioni letterarie possibili e impossibili intorno a un repertorio autobiografico. Il testo ha l'andamento di un essenziale mihi venit in mentem secondo ritmi diversi e, probabilmente, tempi diversi come foglie galleggianti in un ruscello che se ne va, ma lascia una traccia, un'aspettativa per la successiva serie autunnale. La parola del sottotitolo “ritagli” è perfetta perché si rivolge a chi legge e ne riferisce il codice autentico, mentre una “storia”, bene o male deriva quasi sempre da un insieme di fatti che la scrittura conduce linearmente nella rappresentazione raffigurativa di una memoria “educata” dalla continuità di un “io”.
La scrittura e la composizione in generale hanno lo spazio di interruzioni che mimano il rapporto tra il ricordare attuale e l'oggetto del ricordo. Appartengono a questo “realismo privato” che chiede qualcosa in più di una fiction.
Le narrazioni ricordano un'infanzia percorsa tra gli anni di guerra e l'immediato periodo successivo in un paese, Inzago, che è sulla strada che da Milano, via Cernusco, Gorgonzola, Cassina dè Pecchi, conduce all'Adda. Questa la geografia minima. Oggi l'urbanista del luogo, l'architettura, l'uso del territorio secondo i criteri che via via sono diventati prevalenti ricordano poco il passato, dimenticano consuetudini e personaggi, se non per quello sguardo che, al di là della vita, è capace di far riapparire lo scenario della memoria che si è custodito al di là delle “storie” del tutto comprensibili, poiché, almeno idealmente, condivisibili, se pure con la sensazione incerta di una mancanza.
La cittadina, la recita dei suoi abitanti, il “respiro della campagna” l'abbondanza delle sue acque, hanno subito le trasformazioni di mezzo secolo che, al di là di qualsiasi sentimento, è difficile per ognuno non considerare come parti e forme della propria vita. Ma il silenzio di quello che è perduto è simile a quello della morte che solo Dio può evitare.
In questa cornice elementare si può cominciare ad avvicinarsi all'opera che rievoca tratti e frammenti che, quale che sia la loro verità, pure conducono con sé l’aura del “tempo perduto” o delle “isole felici”. C'era una volta un bambino che nel paese, nella nominazione dei luoghi, nel mutare degli orizzonti degli immediati dintorni, nello scintillare delle rogge, sentiva il profumo leggero di prati, erbe e fiori, tratti di sentieri, dialoghi brevi che segnavano il modo di essere vivi, e comandi severi nelle domande confessionali intimidatorie (e un poco ridicole) sulle questioni del sesso e del piacere che rendono solo più difficile la crescita, quasi spezzando in due la certezza di sé, (che non riesco a capire che senso abbiano nell'essenziale messaggio cristiano).
Posso aggiungere che rispetto ai percorsi letterari dell'infanzia, qui prevale la scoperta di un mito segreto e non bene inteso che tuttavia costruisce una solitudine e una sensibilità che nessuna idealistica “intersoggettività” può risolvere. Col tempo il tesoro nascosto diventa la certezza di un “sottosuolo” del suo personaggio che col tempo e col “mondo” ha trovato prima la sua mimesi, poi l'individualità delle sue predilezioni o scelte mondane, infine le sue abilità e il pubblico riconoscimento.
Capita a tutti, ma in modi molto diversi. Al nostro autore è capitato di dover trasportare se stesso da una specie di giardino magico del silenzio alle maschere (necessarie) del mondo. C'erano di sicuro problemi, tuttavia risolti bene. Ma Inzago rimaneva una profonda verità che nel necessario bricolage della vita poneva le sue condizioni magari chiamate con altri nomi di superficie. Poteva sortire qualche esitazione che aveva al suo confine tra un'assoluta fedeltà d'origine e una fedeltà a quel “se stesso” che si era costruito tra centinaia di circostanze dell'esistenza. Alfine questo dubbio di sé, invisibile da chiunque ha desiderato dissolversi in quel secondo mondo che ci consente di ri-vivere nella scrittura.
Il libro non dimostra nulla che possa trovare il suo nome nella fretta dei nostri giudizi. È prigioniero della sua verità. È un libro che non solo affascina, ma finisce col porre una domanda difficile: c'è nella mia vita una Inzago segreta? Non si può che lasciare la domanda inevasa.

Gabriele Scaramuzza
In fondo al giardino
Mimesis Ed. 2014
Pagg. 134 € 14,00

                                           


SULLA LIBERTÀ  
di Fulvio Papi
Fulvio Papi
Siamo nella Vienna del 1913 descritta da uno dei romanzi più difficili del ’900, “Luomo senza qualità” di Musil. Nel terzo libro dell’opera troviamo il prof. Linder, autorevole insegnante del ginnasio che dice ad Agathe: “Quando l’uomo è libero è infelice. Quando l’uomo è libero è un fantasma. Al contrario è il dovere: ciò che l’uomo più semplice ben conosce nel suo intimo purché viva con sincerità”. È una proposizione che va bene per la scuola dell’imperial-regio governo, probabilmente per quella inglese, per quella prussiana più militarizzata, e che nell’infanzia ho conosciuto anch’io dopo la fascistizzazione totale della scuola decisa nel 1935-36 dal ministro De Vecchi. Queste affermazioni appartengono ai sistemi più o meno autoritari dello stato o del costume che vogliono costruire una omogeneità tra interiore e pubblico, tra morale e diritto di modo che la libertà venga considerata secondo questa coincidenza, e mai come una opportunità da spendere secondo motivi e sollecitazioni che derivano dalla propria persona, se pure in un periodo incerto di formazione. E in ogni caso rivolta sempre verso una nuova obiettività che può persino assumere il carattere ideale di una interiorizzazione. È proprio da questa situazione di sdoppiamento nel riconoscersi che può nascere il segreto della propria libertà. Un tema sottile e difficile che lascerò subito per ricorrere a un esempio molto più comprensibile. Quando tra il gennaio e l’aprile  del 1945 (un tempo che nella memoria più che lo stile della storia ha preso quella della leggenda), mi procuravo il “Fuorilegge”, il foglio della 7ª brigata partigiana della divisione Valtoce, non ero né infelice, né un fantasma, ma ero invece un ragazzo felice che immaginava quello che doveva pensare o fare proprio perché stava vivendo una esperienza di libertà che lo costituiva come “Io” in relazione ad un’altra comunità, almeno ideale.
Robert Musil
L’espressione “esperienza di libertà”, nella sua semplicità, ha un valore teorico, perché la libertà fa sempre parte di una esperienza connessa con diverse situazioni di fatto o di pensiero, ed è una presunzione credere di racchiudere la libertà in un concetto di un sistema chiuso o come il delirio di una libertà soggettiva, cosa che Hegel sapeva benissimo contro lo stile romantico. Se devo dire il problema con un degno linguaggio filosofico, allora devo affermare che la libertà è un’idea trascendentale. Tuttavia ora devo argomentare questa definizione vuota di libertà, e tuttavia, proprio per questo, aperta ad ogni circostanza concreta. Possiamo vedere questa situazione teoricamente rigorosa ricordando alcune circostanze. Vi è una libertà di tradizione stoica per cui un uomo ha la libertà relativa al proprio corpo e, in alcune circostanze non tollerabili, ha la libertà filosofica di uccidersi. “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei, vita rifiuta”.
Ma questa libertà che cosa ha a che vedere con quella che i comuni italiani del Medio Evo contestavano come proprio diritto all’Imperatore. E tutto ciò che cosa ha a che vedere con la libertà della più antica formula “civis romanus sum”. E tutto ciò con la costruzione della libertà come condizione naturale dell’uomo di Rousseau. E, filosoficamente, con il rovesciamento di Kant secondo cui la libertà è la condizione necessaria per una vita morale?
Questa condizione del tutto plurale della libertà (e si potrebbero fare ben altri esempi) mostra che non avevamo torto nel mostrare il carattere trascendentale della libertà. Ma questa è questione di correttezza filosofica. Quando leggevo il “Fuorilegge” non sapevo nulla di quello che ho qui ricordato, ma vivevo una esperienza straordinaria di libertà e nello stesso tempo -e questo è l’aspetto oggettivo- imparavo una forma storica di libertà. In un editoriale del foglio clandestino l’autore sosteneva che nessun governo è degno del suo ruolo politico se limitato a garantire il pane (che poi non era vero) e negava la libertà ai cittadini. Allora questo bastava.
Oggi e ormai da molto tempo so che l’autore aveva in mente la struttura, il potere del popolo, le garanzie oggettive di uno stato della tradizione liberale. Questa idea di libertà diventava un processo e un impegno di liberazione: libertà e liberazione coincidevano come finalità e come azione concreta. Forse alle spalle dell’editoriale clandestino c’era il Croce del ’38 con l’idea di libertà come azione (e prima come destino dell’Europa). Come dall’altra sponda del lago sulla collina vi era chi considerava come valore centrale della libertà la “libertà di coscienza” derivando la lezione da un altro filosofo, Martinetti. Ma queste sono memorie di quella libertà che costava la morte, e per questo hanno un valore importante per noi che viviamo la libertà come una condizione ovvia del nostro consumo nel mondo e del mondo. Tuttavia il cammino storico della libertà come valore (e poi crisi) della civiltà occidentale è molto più complesso e, se pure brevemente, ne darò il tracciato essenziale che ci condurrà molto indietro nel tempo. Cercherò di mostrare come la libertà nel mondo moderno sia un problema di liberazione che nasce sempre in quella figura simbolica che è l’individuo (figura assente in altre concezioni del mondo). Così che la storia della libertà (cioè i suoi significati) è la storia delle liberazioni che l’individuo affronta nelle sue mutazioni in relazione con il mondo.

John Loke
La nascita dell’individuo moderno intorno al quale si sviluppa l’idea di libertà, la si può ricavare astraendo alcuni temi di Locke dalla sua produzione filosofica che interpretano e riflettono una situazione sociale tipica dell’Inghilterra che è la forma più forte dello sviluppo dell’Occidente.
Dal punto di vista storico l’evento più importante sul finire del ’600 fu la figura di Guglielmo III al Bill of right che stabiliva un governo costituzionale come compromesso tra il potere regale e le prerogative della società civile rappresentata nel Parlamento dopo mezzo secolo circa di conflitti durissimi. Locke era sempre stato dalla parte dei diritti di libertà della società civile che reclamava vita nella pace, nella sicurezza e nella proprietà. In concreto la borghesia commerciale voleva fondare il suo potere sul lavoro che non è da intendersi in senso antropologico, ma come intervento produttivo sulle terre incolte sì da formare una grande proprietà fondiaria. Il lavoro in questo modo legittimava la proprietà che incrementava lo scambio economico. Lo scambio economico avveniva in una dimensione monetaria. E quest’ultima nella sua stabilità nel tempo stabiliva l’identità dell’uomo libero. La libertà era stata la liberazione politica dal potere autocratico del re, la sua legittimazione nel Parlamento dell’esercizio libero del commercio, la propria identità libera garantita dalla ricchezza monetaria.
Il popolo è costituito dall’unità dei proprietari e questa concezione è la realizzazione del processo di liberazione e del suo successo in una condizione di libertà personale e sociale. Quindi una matrice potente della libertà occidentale come costruzione dell’uomo libero viene dal processo economico e dalla classe sociale che lo interpreta. Tuttavia dopo più di un secolo che la società inglese forma il proprio costume sociale sulla libertà economica che è in relazione con la pratica religiosa, con il costume sociale, con le abitudini e i giudizi di una società che consumava in un tacito totalitarismo pubblico la sua originaria libertà, un grande filosofo come Stuart Mill pose da capo il problema della libertà. Il centro di questa libertà era la figura storica dell’individuo selezionata dalla esperienza occidentale, ma i diritti della sua libertà andavano contro le limitazioni del conformismo e del costume, per stabilire, in un processo di liberazione, che erano da riconoscere all’individuo tutte le iniziative libere che non limitassero la libertà altrui. Stuart Mill era un economista liberista (con alcuni limiti) ma la sua concezione della libertà dell’individuo apriva un orizzonte che andava ben oltre la dimensione economica che, all’origine, aveva selezionato l’individuo occidentale moderno.
Naturalmente qui non posso seguire questa storia contemporanea, ma credo di essere certo che tutte le analisi intorno alla libertà personale e all’ampliamento dei suoi diritti civili, hanno la loro radice nel libro di Stuart Mill sulla libertà. L’analisi dei diritti derivanti dalla libertà dell’individuo, divengono sempre più pertinenti e relativi alle concrete figure sociali degli individui: i diritti di chi lavora, delle donne, i diritti dell’autodeterminazione della propria vita, i diritti all’istruzione dei bambini e alla cura degli anziani costituiscono una complessa enciclopedia intorno alla libertà che dal punto di vista giuridico, ha il suo fulcro nel libro sulla libertà di Mill, e dal punto di vista storico concreto, sulle figure sociali che hanno dato luogo a potenti movimenti di liberazione, in primo piano quello del movimento operaio con la richiesta di una diminuzione dell’orario di lavoro sostenuto dalle Trade Unions, prospettiva che poi si estese dall’America a tutta l’Europa, sino al movimento femminista che dava altri contenuti alla parola libertà, concessa con la loro individualità sociale e personale, nel suo processo di liberazione.
John Stuart Mill

Che cosa ho cercato di dimostrare con questo breve excursus storico? Sostanzialmente che la parola libertà assume sempre i contenuti di un processo collettivo (ma anche individuare, come mostra il romanzo di formazione) che si pone obiettivi di liberazione. La libertà anticipa nel pensiero una condizione reale che deve essere raggiunta come necessità, come diritto e anche come senso. Nella rivoluzione francese libertà non aveva la stessa radice che abbiamo veduto nella storia economica e sociale inglese. Voleva dire che a tutti i cittadini spettava il diritto di prendere decisioni politiche che riguardavano i provvedimenti dello stato. Il tema della libertà non passava tanto per la libertà d’impresa, quanto per una dimensione statale che doveva nascere dal consapevole consenso dei cittadini. La sovranità passava dalla legittimazione del potere del re dalla volontà divina, alla legittimazione della sovranità popolare attraverso l’argomentazione filosofica. Era la forza del discorso filosofico che apriva la legittimazione della libertà del popolo. Storicamente le due grandi tradizioni hanno fuso alcuni elementi fondamentali costituendo la figura dell’individuo libero in un sistema politico democratico. C’era molta retorica in tutto questo, ma sta di fatto che la Iª guerra mondiale fu rappresentata come uno scontro decisivo tra democrazie dove esisteva un regime di libertà e gli imperi centrali autoritari e dispotici. Non dimentichiamo che Heinrich Mann, fratello di Thomas, scrisse un libro dal titolo “Il suddito”.
E per riprendere il discorso d’inizio possiamo ricordare che nel giugno del 1944 il CNL decise che tutte le formazioni partigiane divenissero il “Corpo di Liberazione Nazionale: anche qui libertà e liberazione hanno un rapporto diretto. Con questo non voglio affatto negare che la parola libertà, nel mondo della comunicazione totale, possa diventare una esteriore e falsa sollecitazione immaginaria, come tutti noi sappiamo molto bene. Così come desidero riconoscere che sul tema della libertà vi sono teorie importanti, in Italia di derivazione crociana, altrove e in modo più rilevante, queste teorie hanno sullo sfondo la realtà storica dell’individuo occidentale con la sua fondamentale simbolizzazione intellettuale che ha nell’opera di Stuart Mill la sua riflessione teorica originaria. Dal canto mio ho preferito mostrare il significato della parola libertà in quei più ampi contesti storici in cui essa era il termine simbolico di un processo di liberazione. Ma, per esempio, se fossi uno scolaro del grande psicologo di tradizione junghiana, come Hillman, direi che tutta la nostra individuale possibilità di libertà è condizionata dal modo in cui riusciamo a elaborare quella morte che è il nostro destino dalla nascita. Il luogo interiore Hillman lo chiama “anima”. Aggiungerei solo che questa concezione teorica nasce in connessione con una prospettiva terapeutica. È inutile e parassitario fare una questione di teorie. Hillman è un grandissimo psicologo.

James Hillman
Da parte mia, al solito. “si parva licet componere magnis” ho elaborato un discorso che nasce dall’esperienza simbolica della filosofia quale deriva da un realismo storico. E poiché un finale bisogna pure trovarlo, allora dirò che c’è anche un rischio nell’uso della parola libertà. Se la libertà non è una parola di un processo di liberazione, ma diviene la certezza che deriva da un acquisito sistema giuridico-istituzionale, per buono che esso sia nella sua concezione, allora la libertà può decadere in un costume sociale del quale noi siamo quasi soltanto eredi passivi, incapaci di vedere un poco più in là rispetto al dove ci è capitato di essere. In filosofia questa condizione attiva si chiama trascendenza. Ma se questa esperienza o questo desiderio di libertà non accade mai, allora la nostra vita, pur tra mille cose nuove che l’attraversano, è in realtà prevalentemente il rituale di una religione forte ed esteriore di cui non conosciamo nulla.

   
                                     


 
ARTURO SCHWARZ, SUREALISMO SEMPRE
di Giorgio Colombo
In copertina André Breton
La figura di Arturo Schwarz si erge imponente ad abbracciare quasi un secolo di Surrealismo intorno al suo principale ispiratore e conduttore, André Breton. Ne riassume questa vicenda, frutto di vent’anni di lavoro, il volume ora uscito per SKIRA e presentato dallo stesso Autore al Teatro Parenti il 24 novembre scorso, 540 pagine, “Il Surrealismo ieri e oggi”. Il Surrealismo sempre e ovunque. 26 Paesi convocati, dal Belgio alla Cina, ai Caraibi, ai Paesi Arabi. E poi, oltre alla Bibliografia, il repertorio dei periodici e delle mostre (sarebbe stato utile anche un elenco dei nomi).  Il Surrealismo come un carattere permanente dell’uomo in quanto tale. Non è qui il luogo di riassumere una storia lunga, complessa, affascinante che Schwarz, poeta, studioso, gallerista, collezionista, ha più volte presentato in diverse pubblicazioni, valendosi anche della conoscenza diretta di molti dei principali attori del ‘Movimento’, di cui lui stesso ne fu (e si sente tuttora) parte. Vorrei soltanto accennare ad alcuni dati biografici dei due ‘personaggi’, Schwarz e Breton.


Arturo Schwarz nasce nel 1924 ad Alessandria d’Egitto, città cosmopolita, da un padre tedesco di Dusseldorf e da una madre milanese, entrambi  ebrei. Frequenta l’Università dove si parla francese e inglese. Nel ’44 legge Breton, ritrovandovi grande vicinanza e gli invia all’indirizzo di New York (è tempo di guerra) le proprie poesie. La risposta, lungamente attesa, è incoraggiante. Fonda nel 1946 la sezione egiziana della Quarta internazionale Trotskijsta. Arrestato e condannato all’impiccagione, dopo una lunga detenzione, viene liberato nel1949 con la fine della guerra tra Egitto e Israele. Chiede la cittadinanza italiana e si stabilisce a Milano, dove inizia la sua fortunata attività di libraio, editore, gallerista, saggista ecc. e incontra finalmente, dopo una lunga attesa del ‘visto’, Breton a Parigi.

Schwarz con Philippe Daverio
Torno indietro. L’incontro giovanile, da lontano, con la ribellione surrealista di Breton e la valorizzazione delle emozioni e del fantastico, si unisce alla lettura di Marx eTrotskij, in quegli anni già condannato all’esilio. Surrealismo e cambiamento vitale, singolo e collettivo, fin dall’inizio, fanno tutt’uno.
Ora passo al secondo ’personaggio: André Breton. Nasce nel 1896 (28 anni prima di Schwarz). Si appassiona a poeti come Baudelaire, Mallarmé, Huysmans e ad artisti come Moreau, Bonnard, Vuillard, Signac. E’ attratto dall’arte cosiddetta primitiva. Nel 1913, a Parigi, si iscrive alla facoltà di Medicina. Nel 1915-16, sottoposto al servizio militare, conosce Jacques Vaché, di cui riconoscerà l’importanza decisiva, si avvicina ad Apollinaire, si occupa di psichiatria, conosce Babinski, legge Freud, (che andrà a trovare nel suo viaggio di nozze a Vienna). Legge il “Manifesto DADA 3”, 1918, Zurigo, Cabaret Voltaire, e nell’anno successivo si mette in contatto con il suo autore, il rumeno Tristan Tzara, che, terminata la guerra, si trasferisce a Parigi.
Il 1924 è l’anno del primo Manifesto surrealista, a cui segue “La Révolution Surréaliste”. Mi scuso di questo elenco, ma intendevo soltanto riprendere alcuni punti di una vicenda complessa e duratura, che si formalizza col ‘Manifesto’ proprio nell’anno della nascita di Arturo Schwarz.

Schwarz con Sgarbi
La guerra aveva dimostrato la fragilità della Belle Époque e il crollo dei confini politici e mentali precedenti. All’aspirazione di un “ritorno all’ordine”, si contrappone un avvio libertario al disordine. Non sono le nuove macchine a stupire -già avevano dimostrato la loro capacità mortuaria- non l’ambizione razionale, bei risultati! ma l’antica e sempre attiva ‘psiche’ umana e il nuovo modo di analizzarla, la psicanalisi. Sotto la superficie banale, ripetitiva, della quotidianità, brucia una forza nascosta e sfuggente, l’inconscio. È ciò che il potere, tutti i poteri, vogliono ignorare. Disturba le loro pretese. Gli intellettuali invece vogliono partire proprio da lì, si cercano, si raggruppano, reclamano una nuova voce, vogliono farsi sentire pubblicamente, riprendono il loro collaudato strumento, il Manifesto.
L’inconscio ha già una lunga storia in mano alle varie scuole psichiatriche, da Charcot a Janet a Freud. Ora sono gli artisti ad analizzarlo, a maneggiarlo. Smascherare la superfice cosciente significa sollecitare l’emergenza di una realtà sotterranea, che oscilla continuamente tra oscurità e lampi di presenza: interruzioni del discorso, lapsus, dimenticanze, ossessioni, sogni, allucinazioni. Non malattie, ma vita nascente, libido, pulsione  eros. Non un pacifico venire alla luce e lì rimanere, ma un continuo movimento di celarsi e apparire, un equilibrio instabile tra principio di piacere e principio di realtà -che pure crea i suoi traumi-, una irruzione che sconvolge la realtà trasformandola in sur-realtà. Il Surrealismo prende la parola da Apollinaire, ma l’adopera per conto suo. Scrive Breton: “automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altra maniera, il funzionamento reale del pensiero”. Stati ipnotici, scritture automatiche, immagini oniriche, espressioni incontrollate. La spinta amorosa, l’eros è qualcosa di più del semplice sentimento d’amore, è Amour fou, una particolare pazzia “convulsiva, erotico-velata, esplosiva-fissa” (Breton); un fuoco che vive nella contraddizione, nella sorpresa, nell’apparizione.

Schwarz nel giardino della sua casa di Milano
Seconda scusa delle righe precedenti, cenni brevi e sempre necessariamente monchi. 
Ora vengo ad un termine molto usato dal Surrealismo e perciò da Schwarz, l’immaginario, e perciò alle immagini che lo costituiscono. L’immaginario è il frutto dell’attività mentale che produce immagini, qualcosa di determinato, visibile, ma non necessariamente riferito alla realtà esterna, anche se ne assume alcuni caratteri. Il libro ora uscito, un ampio repertorio scritto sull’immaginario, riporta in  copertina e sull’astuccio due fotografie, la prima  di André Breton, ripreso da Arturo Schwarz nel 1961, la seconda, ‘La scacchiera surrealista’, un montaggio di Man Ray del 1934, 20 foto dei principali esponenti surrealisti.

Scacchiera surrealista
Fotomontaggio di Man Ray 1934: Breton, Ernst, Dalì, Arp, Tanguy, Char, Crevel, Eluard, de Chirico, Giacometti, Tzara, Picasso, Magritte, Brauner, Péret, Rosey, Mirò, Mesens, Hugnet, Man Ray 

Adieu mes  amis.
Semplici documenti? Testimonianze? Una rassicurazione? C’è, ci sono proprio stati, loro, gli amici. Anche, ma non basta. C’è qualcosa di più. L’addio è un modo di ri-vederci, di ri-pensarci. Schwarz racconta se stesso attraverso i suoi amici, attraverso le loro fotografie (quante! non solo le due di questa pubblicazione), lui stesso fotografo.

André Breton
 André Breton. Foto di Arturo Schwarz   

La foto porta una firma. Uno sguardo si rivolge a un modello, visto, viso, che rimbalza il suo sguardo, lo volge, volto, su di me fotografo. Un modo di guardare e di ri-guardare, ri-tratto. Non un oggetto qualsiasi, ma un viso-volto sul quale dal 1700 si è occupata la  ‘Fisiognomica’, scienza dell’espressione. Un soggetto interroga, un viso esprime e risponde. Si nasconde? Si maschera? Oppure concede se stesso, la sua essenza? No, né maschera né essenza, perché si possono moltiplicare i ritratti su quel sé che rimane invisibile. Se fosse tutto visibile acquisterebbe l’immobilità dell’icona religiosa (v. H. Belting e J. Nancy). Se fosse tutto menzogna sarebbe un altro. È il tutto che non funziona: o tutto così o tutto cosà. La mobilità del viso-volto lo rende variamente ritrattabile, cioè può essere trattabile, ritraibile, manualmente e con mezzi meccanici (lo fanno due surrealisti, Man Ray e Arturo Schwarz), ma nello stesso tempo è un viso-volto sfuggente, nascosto, sprofondato. E allora sì, con una maschera ingannevole. Meravigliosa ambiguità. Non è forse il carattere dell’inconscio, della immagine surrealista?
Un grazie a Schwarz e ai suoi Amici.       

  


                                    


L’OCCHIO VISCERALE : Scrittori e fotografia
di Chiara Pasetti

Oggi è data assolutamente per scontata la possibilità, offerta ormai da più strumenti, di fermare l’attimo in un’istantanea fotografica che conservi nel tempo il ricordo di quel momento; tuttavia nell’Ottocento, secolo in cui nacque la fotografia, questa «invenzione fatale», come la definì negli anni Trenta del Novecento Alberto Savinio, generò reazioni profondamente differenti a partire da coloro che ne vennero maggiormente coinvolti e influenzati, ossia gli uomini di lettere. Diego Mormorio, che da anni si occupa dei rapporti tra la fotografia e la cultura filosofica e letteraria, e che nel 1988 aveva pubblicato la prima antologia di testi letterari su questa arte dietro consiglio di Leonardo Sciascia (che ne scrisse la prefazione), decide ora di dare al suo tema d’elezione un respiro più ampio, concependo un’opera in dieci volumi di cui il primo, Scrittori e fotografia. Un magnifico inizio (1840-1870), edizioni Postcart, prende in esame i primi trent’anni della fotografia. In particolare il testo racconta, anche attraverso numerose immagini e un’ampia antologia che raccoglie alcune pagine fondamentali degli scrittori dell’epoca, l’accoglienza che essa in quanto incarnazione più profonda, secondo l’autore, dell’anima dell’Ottocento, espressione più viva dell’«intimo sentire della cultura occidentale che sale dall’antica Grecia», ricevette ai suoi esordi. I risultati ottenuti da Louis-Jacques Mandé Daguerre con il procedimento cui aveva dato il suo stesso nome, la dagherrotipia, vennero illustrati il 7 gennaio 1839 all’Académie des Sciences dal fisico e astronomo, nonché deputato della sinistra parlamentare francese, François Jean Dominique Arago, che con la sua «prontezza d’intuito» comprese l’importanza e la necessità di attribuire alla Francia la paternità di un’invenzione che in realtà era in nuce già da tempo, e che fino a quel momento non aveva suscitato particolare interesse. Subito dopo il governo francese acquistò da Daguerre il brevetto, e il 19 agosto dello stesso anno, in una seconda relazione, Arago svela all’Académie des Sciences e all’Académie des Beaux-Arts, riunite per l’occasione in sede congiunta, le diverse fasi di realizzazione del procedimento, rendendo ufficialmente pubblica la fotografia e attirando, attraverso l’entusiasmo e la passione con cui presentò l’esordio di questa nuova arte, l’attenzione degli intellettuali e del mondo delle lettere più strettamente legati all’ambito scientifico e tecnologico. In realtà, come illustra Mormorio, ancora per qualche anno la dagherrotipia rimase relegata nell’alveo delle «curiosità parascientifiche», e si farà strada fra il grande pubblico soltanto nel 1854, quando il fotografo Disdéri brevetterà la carte-de-visite (che assomiglia appunto, per via della dimensione ridotta, a un biglietto da visita): un ritratto di piccolo formato con il quale chiunque poteva ora avere una propria immagine con una spesa molto contenuta. Molti gli scrittori che non sfuggono alla tentazione di farsi ritrarre, che cedono alla seduzione dell’obiettivo non soltanto per compiacimento narcisistico, ma anche per diffondere sui giornali la propria immagine, un’effige che ne sancisca il ruolo di uomini di lettere in relazione con il mondo.

Balzac
Fra questi, Balzac, che vedeva nella fotografia la dimostrazione della teoria democritea degli «idola», ossia dell’esistenza di uno «spettro inafferrabile ma percettibile» in ogni oggetto e persona, che il dagherrotipo era in grado di fissare in eterno; Edgar Allan Poe, che si fece fotografare varie volte, con o senza baffi, da autori diversi e in anni differenti, e scrisse nel 1840 «The Daguerreotype», il primo articolo entusiastico sulla fotografia, definita «il più importante trionfo della scienza moderna, se non il più straordinario». Tuttavia, poiché dal punto di vista estetico essa non era in grado, secondo Poe, di cogliere e trasmettere «il sentimento poetico», il Bello, che non ha nulla a che vedere con la verità e la precisione, l’autore del Corvo la iscrisse irreversibilmente in un contesto puramente scientifico e non artistico. Nathaniel Hawtorne, anticipando molte teorie successive, vedeva nel ritratto fotografico la possibilità di «rivelare» l’anima del soggetto fotografato. 

Whitman
E ancora Walt Whitman, che fu uno dei poeti più fotografati dell’Ottocento e scrisse, in una poesia dedicata proprio a un suo ritratto, che quest’ultimo era una «carta geografica del cuore», opinione assolutamente non condivisa dal filosofo Emerson, il quale si attendeva dal ritratto esclusivamente il compito di «porci davanti alla realtà fisica del soggetto» e non a quella spirituale, poiché quest’ultima è un continente misterioso che richiede altri mezzi di esplorazione. Carlyle, vedendo un’immagine fotografica proprio di Emerson, la quale gli sembrò una «povera Ombra» al punto da fargli immaginare che l’amico gli stesse parlando dall’aldilà, inaugurò un accostamento affascinante che verrà molte volte ripreso e indagato dagli studi successivi, quello tra la fotografia e il regno dei morti. A partire dal 1855, grazie al perfezionamento delle tecniche, la fotografia poté fregiarsi del titolo di «art nouveau» e guadagnare il suo posto all’Exposition universelle, anche se, significativamente, in uno spazio riservato all’Industria. La presenza continua all’interno dei Salons provoca a questo punto una reazione decisa da parte del mondo delle lettere e delle arti, chiamato a esprimersi relativamente a un fenomeno che nel giro di pochi anni dalla sua comparsa è diventato anche una moda.

Baudelaire
Tra le posizioni più violente c’è sicuramente quella del più grande poeta del secolo, Baudelaire, che scaglia una vera a propria invettiva contro la «nuova industria che ha contribuito non poco a distruggere ciò che di divino forse restava dello spirito francese». Nonostante fosse circondato da estimatori della fotografia come Delacroix, Gautier, cui dedicherà i suoi Fiori del male, o ancora Mérimée, e poi l’amico fedele Nadar, che peraltro lo fotografò diverse volte, restituendoci le immagini più belle del poeta grazie al suo «occhio viscerale che penetra nell’anima per divulgarla, attraverso i ritratti fotografici, nella sua arresa nudità» (Luca Pietromarchi), Baudelaire nel suo articolo condanna aspramente la fotografia. La definisce il «rifugio di tutti i pittori mancati», qualcosa che dovrebbe essere semplicemente «la serva delle scienze e delle arti», anzi «la serva umilissima», e lancia i suoi anatemi contro un pubblico incapace ormai di cogliere l’essenza del Bello, scioccamente appagato dal Credo attuale che si esaurisce nel Vero, ossia nell’imitazione della natura; la necessità di questa moltitudine sprofondata in una decadenza inarrestabile, in un decadimento del gusto di cui la fotografia è al contempo causa ed effetto, è stata esaudita da un «Dio vindice» che ha scelto in Daguerre «il suo Messia». 

Nadar
La posizione di Baudelaire è molto vicina a quella di Flaubert, poiché entrambi vedevano nell’immaginazione la facoltà principe di ogni processo creativo e la regina di ogni facoltà intellettiva. L’estetica di entrambi rifiutava la fotografia perché risultava loro come una «sorta di calco», che non poteva aspirare al Bello e al sogno, dunque all’arte. Flaubert fu anche più decisamente “fotofobico” del poeta, poiché accettò pochissime volte di farsi fotografare, e invitò l’amante Louise Colet a non inviargli il suo ritratto fotografico, scrivendole di «detestare le fotografie nella misura in cui amava gli originali»: esse «non sono mai vere». E quando Maxime Du Camp, con il quale aveva compiuto il lungo viaggio in Oriente, venne insignito della Légion d’honneur per il suo lavoro fotografico sul Medio Oriente (stampato nel 1852, con immagini inedite e dall’alto valore documentativo, che premiavano la «mania» fotografica di Du Camp), Flaubert commentò così il successo dell’amico: «un’ammirevole epoca, quella in cui si decorano i fotografi e si esiliano i poeti», riferendosi chiaramente all’esilio di Victor Hugo. Chissà se al maestro del grottesco e della bêtise, che come Baudelaire poneva l’immaginazione al centro di tutto, e non tollerava alcun fanatismo borghese tra cui quello di farsi ritrarre per contemplare la propria immagine «triviale» sul metallo, sarebbe piaciuto il dagherrotipo del 1855 conosciuto come Uomo col guanto nero  forse sì, perché effettivamente quest’uomo dall’aria spettrale e lugubre, vagamente sadica, e al contempo enigmaticamente sorridente e ironica, ben incarna, e infatti Mormorio gli assegna «un posto d’onore in un libro dedicato al rapporto tra gli scrittori e la fotografia», lo spirito dell’epoca, fatto di contrasti e antitesi, e per usare la celebre distinzione di Barthes, unisce e sollecita studium e punctum in un’immagine suggestiva che davvero, questa sì, sembra parlarci dall’aldidà. Per dirla con Oliver Wendel Holmes, questa è una fotografia «perfetta», perché è «inesauribile».
Uomo col guanto nero


Diego Mormorio, Scrittori e fotografia. Un magnifico inizio (1840-1870),
vol. I, Postcart, pagg. 324, euro 20.




LA BIOGRAFIA IMPOSSIBILE                                                                     
Angelo Gaccione conversa con il filosofo Fulvio Papi sul libro
La biografia impossibile” (Ibis Edizioni, pagg. 128 € 14,00)

Fulvio Papi nel suo studio (Foto: Fabiano Braccini, 2014)

Gaccione: Se permetti vorrei cominciare dal titolo del tuo libro: La biografia impossibile. Tu dai ragione di questa impossibilità nella nota introduttiva. Nella prefazione scrivi: “Si possono scrivere biografie intellettuali, mondane, sociali e politiche perché in questo caso è l’oggetto che seleziona la narrazione. Ma biografie che immaginino di raccontare la verità di una esistenza sono impossibili”. È perché nessuna esistenza è lineare; perché ogni vita appartiene ad altre vite; perché l’io non fa che selezionare e ricordare solo alcuni frammenti rimuovendone altri, o per la sua propensione alla menzogna? Per restituire un’immagine di sé sempre e solo positiva, cioè mistificante e mistificatoria?

Papi: “È possibile che una autobiografia selezioni dalla propria esperienza quelle memorie che al pubblico possono parere esemplari, o almeno possono riuscire esemplari a se stessi. Si sceglie una immagine prediletta, quella che avrebbe costituito la “realtà” delle ragioni che danno un particolare rilievo alla stima di sé. Non credo alle menzogne costruite volutamente: penso che non siano accettabili nemmeno da chi le scrive. È certo che c’è sempre una memoria che valorizza e c’è sempre una rimozione. E tuttavia un tentativo di verità può tentare di superare questi ostacoli. Tuttavia è sempre un tentativo perché ogni vita è fatta da congiunture che si combinano tra di loro e ciascuna di esse è costruita da elementi relativamente casuali che nel momento che accadono mostrano una loro necessità, ma in quanto generano combinazioni nel tempo, provocano una serie di linee spezzate, ciascuna delle quali può guardare al percorso come appartenesse a una propria essenza, ed è da questo punto di vista che nasce il pregiudizio di aver trovato la verità della propria vita. Questo non significa che in assoluto non si possa scrivere, ma anche la scrittura, con tutti i problemi che pone, è un problema congiunturale che può essere risolto in modi molto diversi, ponendosi il problema della verità. Ma in questo caso si dà luogo a una selezione che deriva da uno stile piuttosto che da un altro e conduce a una forma di verità che è lo stile veritativo di chi scrive. In breve si possono sempre scrivere autobiografie, ma si deve sapere che esse sono a loro volta un frammento congiunturale della vita e che può essere costruito con diverse e ottime intenzioni, ma non può immaginare di essere lo specchio veritativo di un’esistenza che nel tempo abbia una sua finalità unica e lineare”. 
                                                         
Gaccione: Io sono un appassionato lettore di biografie e di epistolari: mi piacciono soprattutto quelli degli artisti, dei letterati e dei musicisti. E anche quando so che mentono spudoratamente, perché hanno l’occhio rivolto ai posteri, vi trovo comunque frammenti utili, tratti psicologici preziosi, notizie indispensabili. E se sono letterariamente valide, le biografie, ne apprezzo il fascino dello stile che le riscatta come genere, e non mi preoccupo della mancata verità o della menzogna aperta.     Però il carteggio fra Van Gogh e il fratello Theo, per esempio, scava in profondità dentro un’esistenza di dolorosa verità umana, senza infingimenti. La biografia di Bonura Le radici del tempo, per citare un autore nostro contemporaneo, fa altrettanto. L’autore si racconta con la spensierata ingenuità poetica di un fanciullo. Quando ciò avviene, noi troviamo in quelle pagine, elementi utili non solo per conoscere risvolti che servono ad illuminare il percorso di uno scrittore, le sue manie, le sue idiosincrasie, ma finiscono per irrobustire le nostre moralità per l’esemplarità in cui quelle vite si sono svolte, per la tensione che le anima. Personalmente quando ho delle rovinose cadute depressive, quando dubito che si possano cambiare le cose, rileggo le vite umanissime ed esemplari di uomini come Carlo Cafiero o Errico Malatesta, e mi ritempro. Sopporto con maggior forza le mie avversità. Penso, ad esempio, che ogni pittore che non ha avuto il successo che merita, dovrebbe leggere le vite degli artisti di Montmartre al Bateau-Lavoir nel primo decennio del Novecento, o le biografie dei tanti musicisti la cui vita è passata attraverso mille traversie. Ne trarrebbero insegnamenti salutari e giovamenti.

Papi: “Le lettere sono molto importanti e possono essere documenti molto rilevanti per costruire una biografia, tuttavia ogni lettera ha un suo tempo e una relazione con l’esperienza. È il biografo che ordina, secondo un criterio che gli pare pertinente, questo tessuto epistolare come documento veritativo di una vita. Il che è del tutto normale; del resto nessuno crede che una storia della battaglia di Stalingrado dia tutta la verità di quello che è accaduto, ma solo un senso o più sensi che erano connessi con la battaglia. Le consolazioni antidepressive con la lettura di importanti biografie è una tecnica molto personale, efficace quando è efficace. Dal canto mio spesso penso alla casuale nullità della mia esperienza proiettata nelle tragiche dimensioni del mondo che mi invitano ad accettare quelle che sono (o credo di essere) piccole circostanze del tutto casuali”.   
                                                    
Gaccione: In una delle tante nostre conversazioni, facendo riferimento a questo libro, tu hai usato un verbo che mi ha molto colpito, tant’è vero che mi è rimasto in mente in maniera vivida e non l’ho più dimenticato. Mi ero sempre ripromesso di chiedertene ragione. Il verbo è scorticato. La frase completa era più o meno questa: “Scrivere questo libro mi è costato molto, mi sono scorticato”. È per quella sorta di pudore personale che ogni biografia che si fa pubblica deve vincere, superare, o per qualcosa di più intimo, di più privato, di più esistenziale?

Papi:Scorticato (che per la verità ha un suono un po’ eccessivo) vuol dire solo che ho cercato di togliere la corteccia protettiva al mio albero della vita e vedere i fatti e le persone al di là del modo in cui le ho metabolizzate nei due modi opposti: con una disattenzione pragmatica o con una elaborazione mitologica”

Gaccione: Il tuo libro mi è piaciuto molto per la sobrietà; per il modo austero con cui tiene a bada l’enfasi dell’io, che in molte biografie tende a debordare. Pericolo mortale che rischia di inficiare qualsiasi buona intenzione.

Papi: “Dalla precedente riflessione deriva necessariamente un “io” che accetta le sue varianti, le sue insufficienze, la sua povertà e il senso che ebbero le sue azioni. Un io senza sintesi e senza divenire mai un personaggio”.

Gaccione: La prospettiva da te scelta, in questa composizione, mi è parsa molto efficace; l’indice stesso la chiarisce. Procedere per segmenti, desideri, sensazioni, a volte per semplici impressioni, per scarti.  Un modo completamente diverso di strutturare una biografia: più da montaggio filmico che da lineare canonico genere letterario.

Papi: “Non ho affatto una conoscenza approfondita del genere filmico. Penso tuttavia che un montaggio con un personaggio che è uguale e del tutto diverso possa essere un poco sconcertante. Letterariamente mi pare più facile ottenere questo risultato, basta abbandonare il genere ‘storia di’”.

Gaccione: Vorrei chiudere questa nostra conversazione con un episodio che nella biografia tu racconti nel capitoletto intitolato Vergogna. È un episodio che io trovo molto toccante e che mi ha particolarmente emozionato. È quel mancato contatto su un tram  affollato (non so dire quanto volontario o quanto spensierato, ma pur sempre colpevole), fra te giovane e tuo padre ormai anziano. Non vi dividevano che pochi passi. Il fatto che tu vi ritorni con la memoria a distanza di tanti anni e in un’età così matura, credo sia un gesto di risarcimento e che quel senso di colpa ti abbia accompagnato a lungo. Non ti nascondo che mi ha fatto frullare nella mente l’idea per un racconto. Mi ha fatto anche pensare alle mie di distrazioni, per il tempo che ci divora, per aver rimandato certi incontri come se il tempo concesso alle nostre vite fosse eterno. Mi porto dentro anch’io molti di questi rimorsi. Ma soprattutto mi ha fatto pensare a certi atteggiamenti meschini (questi sì, apertamente e deliberatamente colpevoli) di miei conoscenti, figli di genitori umili. Divenuti studenti universitari o migliorato lo status sociale -grazie ai tremendi sacrifici dei loro padri onestissimi ma poveri, spesso analfabeti e dai mestieri umili,- ora si vergognavano di loro, da piccoli borghesi in cui si erano trasformati. Essere cresciuto in una famiglia comunista, mi ha almeno preservato da questo ipocrita “decoro” piccolo-borghese. Io partivo dal principio che la loro povertà fosse il segno tangibile della loro onestà. Di non aver sottratto nulla a nessuno. Da giovane ne ebbi la certezza leggendo Balzac: “Dietro ogni grande fortuna c’è il delitto”. I libri dei filosofi e dei teorici delle rivoluzioni, me ne daranno in seguito la conferma.

Papi: “L’episodio che tu ricordi quando un ‘me stesso’ egoista, stupido, privo di riconoscenza, per il comodo della propria solitudine, evita per pochi passi, di salutare il padre ormai anziano che si reca al lavoro, ha il giusto titolo di ‘Vergogna’. Più passano gli anni, più è vivo in me un senso di insufficiente e colpevole disattenzione per quanto mio padre, con una silenziosa donazione, ha contribuito alla mia ‘crescita’. La sua vita piena di onestà morale (da socialista sfuggì tutti i lavori anche più qualificati che richiedevano la tessera fascista) e di dedizione al benessere familiare, e, principalmente al mio, mi appare oggi un esempio di rettitudine e di donazione dell’esistenza. Che ho compreso (tardi) quando l’io ‘romantico’ concentrato su di sé, perdeva le sue proporzioni enfatiche e si comprendeva sostanzialmente nel dovere come professore e nel lavorare come filosofo, cercando di fare l’una cosa e l’altra al mio meglio, forse in questo comportamento, c’era un po’ il ricordo del padre. Tuttavia troppo tardi per riconoscergli il merito che del resto non avrebbe voluto riconoscere, tanto generosa e schiva era la sua attitudine alla vita. Per questo, comunque siano andate le cose, devo ritenere quell’episodio una vergogna”.  

 



CONVERSAZIONE COL FILOSOFO FULVIO PAPI

In occasione della pubblicazione del nuovo libro del filosofo Fulvio Papi “Dalla parte di Marx. Per una genealogia dell’epoca contemporanea” (Mimesis Edizioni, pagg. 270, € 22,00), gli abbiamo rivolto alcune domande.

Angelo Gaccione e Fulvio Papi


Gaccione: Una rilettura del lavoro di Marx ad una età più che matura, dopo anni di  riflessioni e di opere che hanno segnato varie stagioni della tua interpretazione. Una frequentazione con l’opera del filosofo tedesco, la tua, che non si è mai interrotta. Qual è la domanda teorica che ti sei posto nell’affrontare questo nuovo attraversamento”?

Papi: Il libro nasce dalla congiuntura attuale della globalizzazione capitalistica con tutti i problemi che ne sono derivati nel nostro mondo. La domanda teorica era questa: qual è la relazione tra l’analisi di Marx del capitale come si presentava un poco oltre la metà dell’Ottocento e la situazione attuale perché lo conosciamo come espansione del capitale finanziario, distruzione ecologica, scelte tecnologiche, forme sociali del lavoro, forme comunicative, immaginazione sociale. La risposta che ne derivava era questa: in tutte le metamorfosi storiche del capitale si ripetevano categorie marxiane come capitale, merce, denaro, salario, profitto. Il grande lavoro di Marx era la genealogia della forma di riproduzione sociale contemporanea.

Gaccione: Come hai proceduto nel tuo lavoro e che metodo hai seguito? Nel tuo studio ho visto accumularsi quadernoni zeppi di appunti, tutti rigorosamente manoscritti… 

Papi: Questa ricerca riguardava anche la mia lunga consuetudine con l’opera marxiana. Ho attraversato lo storicismo marxiano, la versione antropologica di tradizione sartriana, la versione epistemologica e strutturalista di Althusser e della sua scuola. Qualche hanno fa ho ricominciato tutto da capo. Ho accumulato centinaia e centinaia di pagine di note, riassunti, appunti, prove, interpretazioni. Poi ho buttato via tutto e ho seguito un percorso filosofico che si era formato durante questo lavoro.

Gaccione: Come è proceduta questa tua interrogazione del filosofo di Treviri?

Papi: Ho considerato tutto il cosiddetto periodo giovanile di Marx che (sbagliando del tutto) è stato la base del “marxismo occidentale”, come un processo di autoeducazione teorica che conduceva un originale pensatore tedesco, e quindi neohegeliano, a uno studioso della riproduzione economica contemporanea nel luogo, in Inghilterra, dove aveva avuto luogo la riproduzione industriale capitalistica del mondo moderno.

La copertina del libro di Papi

Gaccione: Un’autoeducazione teoretica che presupponeva tuttavia un modello.

Papi: L’analisi minuta dei testi marxiani mostrava che più o meno consapevole, il modello teorico dominante era quello della “Logica” hegeliana non disgiunta dalla permanenza in ogni esperienza teoretica di una dimensione umanistica. Nel “sistema”, in particolare nel III libro, ho mostrato alcune situazioni aporetiche marxiane che qui non conta esporre.

Gaccione: Cosa puoi ribattere a quanti -da più parti in verità- hanno in questi anni decretato una sorta di fine, o superamento, del modello marxista, segnatamente al concetto di prassi e di attualità?

Papi: Nella mia ricerca ho abbandonato qualsiasi considerazione dell’opera di Marx nella dimensione teoria-attualità-prassi. Modello intellettuale molto povero che è stato tipico del marxismo accademico italiano e che, invece, ha avuto in Italia la sua tragica gloria nell’opera e nella figura di Gramsci, qualsiasi giudizio si voglia dare sull’insieme della sua storia politica. Questo modo dogmatico di considerare l’opera di Marx ha condotto a due risultati opposti e speculari: a) l’aver considerato compiuto il lavoro di Marx senza tenere conto del suo processo di educazione teoretica e della sua relazione con la storicità del capitalismo; b) proprio l’aver visto Marx in questa prospettiva, ha condotto all’affermazione perentoria del “superamento” di Marx senza una conoscenza della sua opera e senza nemmeno conoscere il significato della parola “superamento” che è hegeliana ma significa tutt’altro che oblio.

Gaccione: Il sottotitolo del tuo libro: Per una genealogia dell’epoca contemporanea, pare voglia rimarcare come il pensiero marxiano sia in stretta correlazione con una realtà effettuale che pur nella sua costante mutazione, vi rimane continuamente in rapporto. È così?


Papi: A quale conclusione sono arrivato attraverso questa interpretazione di Marx come genealogia della contemporaneità? Le grandi categorie marxiane, anche fuori dal “sistema” teoretico del “Capitale” -come merce, denaro, salario, profitto- sono alla base della “enciclopedia critica” dell’epoca attuale che riguarda il capitale finanziario, la distruzione ecologica, le scelte tecnologiche, le forme comunicative, l’immaginazione sociale. È in questa ricchezza analitica e culturale che si legge l’attualità di Marx non in una ripetizione del suo testo, così come rimane attuale il suo “umanesimo” europeo che oggi è la condizione per la possibilità di una vita non disastrosa sulla terra.






MONTALEMBERT – PENSATORE EUROPEO

Michela Beatrice Ferri conversa con Mario Tesini sul pensatore Charles de Montalembert




Ferri: Montalembert, un cattolico liberale europeo: dove risiede l'originalità di questo pensatore, vissuto nel pieno di un'epoca di profonde trasformazioni?

Tesini: Montalembert è realmente una personalità che sta a sé. Consideriamo il suo anno di nascita: 1810. Appartiene alla generazione che dopo i traumi della Grande Rivoluzione e dell'età napoleonica si forma nel clima intellettuale e politico della Restaurazione. In Francia (e in un certo senso anche in Europa, perché Parigi è davvero la capitale del XIX secolo) è un'epoca di notevoli aperture intellettuali. Si definiscono le grandi linee del pensiero liberale, si sperimentano per la prima volta in modo regolare istituzioni rappresentative legate, attraverso la stampa, a un'opinione pubblica in via di espansione. Ma è anche un tempo di profonde contraddizioni. C'è chi rimpiange l'Ancien Régime, chi auspica il ritorno ad un alleanza tra il Trono e l'Altare. Fino a determinare nuove e drammatiche cesure: il 1830, con l'avvento della monarchia costituzionale e "borghese" di Luigi Filippo; il 1848 con l'insorgere proprio a partire dalle barricate di Parigi di una questione sociale ed 'operaia' destinata a segnare il volto dell'Europa nei successivi decenni. Per arrivare a un ulteriore momento di crisi: il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 di Luigi Napoleone Bonaparte, con la costituzione di un nuovo regime autoritario, il Secondo Impero, destinato a durare per circa un ventennio. La vita di Charles de Montalembert attraversa tutto questo. Giovanissimo è già un protagonista della vita pubblica in Francia. Ad appena vent'anni, divenuto per eredità membro della Camera dei Pari (appartiene ad una delle grandi famiglie aristocratiche di Francia) subisce un pubblico processo, di grande risonanza, per avere contribuito alla fondazione di una Ecole libre: atto dimostrativo contro il monopolio scolastico statale di derivazione napoleonica. Sono gli anni in cui il giornale l'Avenir fondato dall'abate Lamennais, i cui scritti conoscono uno straordinario successo, diffonde il programma del cattolicesimo liberale. In esso si afferma la solidarietà di tutte le libertà: di coscienza, di stampa, di associazione ed anche, appunto, nell'ambito delle attività educative. E al tempo stesso, sulle pagine de l'Avenir e proprio attraverso la penna del giovanissimo Montalembert, si dichiara il sostegno alle grandi cause nazionali, i diritti di libertà dei popoli oppressi: la Polonia, il Belgio, l'Irlanda... È un fatto nuovo, intellettualmente e politicamente rivoluzionario. Metternich, preoccupato del contagio che simili dottrine possono esercitare tra le popolazioni europee, arriverà a negare a Montalembert il passaporto per viaggiare negli stati asburgici; l'ambasciatore dello Zar a Roma arriverà a chiedere al papa, Gregorio XVI, di censurare pubblicamente quel gruppo di teste calde che in nome del cattolicesimo e della libertà rischiano di appiccare il fuoco della rivoluzione a tutta l' Europa.
Il papa... Un clamoroso tentativo verrà fatto di conquistare Roma alla causa liberale e dei popoli oppressi: assieme a Lamennais e a un giovane prete di grande carisma, Lacordaire, il poco più che ventenne Montalembert compirà un viaggio a Roma rimasto celebre come quello dei trois pèlerins de Dieu et de la liberté. Ricevuti con freddezza dal papa, durante il viaggio di ritorno saranno raggiunti da un' enciclica di sostanziale sconfessione di tutto il programma del cattolicesimo liberale: la Mirari vos. Lamennais abbandonerà la Chiesa, Montalembert compirà l'atto di sottomissione ma manterrà le sue idee di libertà. Per rispondere alla sua domanda: qui, mi sembra, sta l'originalità di Montalembert. Nessuno più di lui, nel suo secolo, ha testimoniato una così viva passione per la Chiesa (catholique avant tout, amava definirsi) e una altrettanto forte passione per le idee di libertà come irrinunciabile conquista, a livello del pensiero così come delle istituzioni politiche, dell'epoca moderna. Aggiungerei anche: con una grande personale adesione a tutti gli aspetti della vita: le arti figurative, la letteratura, la musica, le relazioni sociali, familiari, affettive, amicali... Insomma, per usare l'espressione dello Zarathustra di Nietzsche, Montalembert fu davvero un cristiano "fedele alla terra". Il che nel suo tempo (non soltanto nel suo, del resto...) era tutt'altro che scontato.

Ferri: Quale è la sua opera più importante?

Tesini: Va detto innanzitutto che non esiste una 'grande opera' di Montalembert. Questo, se si vuole, è un suo limite, qualcosa che rende a noi difficile accostarci a lui e al suo pensiero. Non ha scritto una Democrazia in America come Tocqueville, o condensato in poche pagine brillanti la sua visione della storia e dei rapporti sociali come fa Marx nel Manifesto, per citare due tra i suoi grandi contemporanei. Montalembert divenne celebre in Europa (oltre ai già citati Tocqueville e Marx, Cavour, Victor Hugo, Gladstone e infiniti altri avevano ben presente il suo nome) attraverso un genere letterario, importantissimo per tutto l'Ottocento ma oggi decisamente desueto: l'oratoria parlamentare. Qui Montalembert, sia alla Camera dei Pari negli anni della monarchia orleanista sia sotto la seconda Repubblica nelle Assemblee Costituente e Legislativa, si rivela un autentico maestro. Ma si tratta di testi che, anche nella loro eloquenza e non di rado originalità di pensiero, non sono di percezione immediata. Al lettore di oggi richiedono uno sforzo di contestualizzazione storica e ambientale non sempre facile. E poi c'è il problema della mediazione linguistica. Concepiti per essere pronunciati nel vivo della battaglia parlamentare, in traduzione perdono molto della loro efficacia. Altri scritti sono legati ad occasioni particolari e anch'essi vanno rapportati al contesto storico: come ad esempio Des intérêts catholiques au XIXe siècle, il libro con cui nel 1852 Montalembert revoca l'iniziale adesione all'impero bonapartista e si sforza di riportare i cattolici francesi nell'alveo di una tradizione costituzionale e liberale. Ma anche qui non voglio eludere la sua demanda: se dovessi indicare un'"opera principale" di Montalembert, in grado di 'parlare' con una certa immediatezza al lettore dei giorni nostri, indicherei i due discorsi pronunciati a Malines sul tema della libertà religiosa e della libertà politica, pubblicati con il celebre titolo L'Église libre dans l'État libre. Si rimane impressionati a considerare l'anno in cui questi discorsi furono pronunciati nella città belga davanti ad una platea entusiasta di oltre tremila cattolici di diversi paesi lì convenuti per un congresso europeo: il 1863! Non soltanto l'anno che precede quello della pubblicazione del Sillabo (che fu probabilmente una 'risposta' a Montalembert come la Mirari vos era stata, oltre trent'anni prima, una risposta a l'Avenir) ma anche -ironia o suggestione della storia-esattamente un secolo prima dell'inaugurazione, 1963, del Concilio che avrebbe certamente, ma con quanto ritardo, realizzato i generosi e lucidi auspici del vecchio combattente della causa cattolica. E possiamo anche considerare come un fatto simbolico che tra i maggiori protagonisti di quell'evento vi fosse proprio un arcivescovo di Malines - Bruxelles: il cardinal Suenens.

Ferri: Un pensatore francese che guarda all'Italia e all'Inghilterra. Come vengono recepiti da Montalembert i punti deboli della storia e della politica di questi due Paesi? E ai suoi occhi quale ruolo assume la Francia -sua patria- di fronte ad essi?

Tesini: L'Inghilterra era per Montalembert come una seconda patria. Era del resto nato a Londra, aveva cominciato a pensare in lingua inglese ancor prima che in francese e il suo primo precettore e maestro (si vorrebbe quasi dire amico, nonostante la differenza dell'età) era stata una singolare figura di nonno materno, di grandi passioni intellettuali ed esperienze di vita, in cui si rifletteva la ricca eredità di una tradizione culturale anglo-scozzese che in termini politici significava costituzionalismo, tolleranza religiosa, un alto senso delle tradizioni parlamentari e della tutela dei diritti. Sono aspetti della prima formazione intellettuale che non abbandoneranno mai Montalembert il cui liberalismo, come del resto quello di tanti suoi contemporanei, come Guizot e lo stesso Tocqueville, avrà sempre un'accentuata intonazione anglofila. Nel solco del resto di una tradizione i pensiero francese che risaliva a Montesquieu. Tutto il pensiero politico del XIX secolo è animato da uno spirito comparatistico tra Francia e Inghilterra, tra tradizione britannica e quella che potrebbe definirsi la tradizione continentale. Montalembert non fa in questo eccezione. Ammira l'Inghilterra per le sue tradizioni di self-government contrapposte al centralismo francese di derivazione napoleonica, ed anche per gli effetti che la libertà produce sulla vita economica. È ben lungi dal rifiutare, o addirittura demonizzare l'industria e i progressi tecnici legati alla produzione. E tuttavia riconosce, pur con qualche iniziale esitazione, i mali profondi del pauperismo, le nuove ingiustizie e diseguaglianze alle quali una logica esclusivamente liberale della politica non riesce a offrire adeguati rimedi. Montalembert è un cattolico-liberale cui, soprattutto dopo la crisi del 1848 (nel corso della quale assume posizioni rigorosamente e, occorre dirlo, anche duramente conservatrici) non sono estranee le ragioni e le esperienze del cattolicesimo sociale.



Ferri: La professoressa Manuela Ceretta dedica il suo capitolo alla "metamorfosi" del mito irlandese in Montalembert. Che cosa significa parlare di "metamorfosi" in questo caso?

Tesini: Montalembert era uomo di passioni e l'Irlanda è stata una delle sue grandi passioni. Fin dal suo viaggio giovanile, raccontato in avvincenti pagine di diario ove, nello spirito romantico dell'epoca, si sovrappongono sentimenti e descrizioni di paesaggi, l’"isola verde" è stata sempre al centro dei suoi pensieri. Da un certo punto di vista, con i suoi semplici costumi e con la sua vigorosa fede religiosa, l'Irlanda costituiva per lui un modello per la nazione francese e per l'intera Europa. Lo attraevano i costumi di un clero cattolico abituato a condividere problemi e difficoltà di una popolazione oppressa, sostanzialmente colonizzata da una classe di dominatori inglesi e protestanti. Ammirava lo spirito di resistenza e le aspirazioni di riscatto sociale degli irlandesi guidati da preti che agivano in spirito di assoluta indipendenza rispetto alle istituzioni statali. Ma attenzione: il riconoscimento dei torti storici degli inglesi in Irlanda non incrinava la sua sostanziale anglofilia. Era merito degli inglesi avere introdotto in Irlanda quella dinamica costituzionale e parlamentare di cui gli irlandesi avrebbero sempre più saputo avvalersi. Come dimostrava il caso di O'Connell che una volta eletto alla Camera dei comuni, avrebbe con gli strumenti istituzionali di Westminster -la parola, il dibattito, il voto- saputo conquistare l'emancipazione, premessa di ulteriori progressi. La successiva parabola storica dell'Irlanda, con il suo considerevole successo economico degli ultimi decenni (alla fine del XX secolo è divenuta addirittura terra di immigrazione!) sembra proprio aver dato ragione alla prospettiva sociale, ma al tempo stesso liberale, di Montalembert.

Ferri: Che cosa dice degli Stati Uniti dell'Ottocento il cattolico Montalembert?

Tesini: Gli ambienti cattolico-liberali mostrarono una grande attenzione al tema della schiavitù. Uno dei migliori amici di Montalembert, Augustin Cochin aveva scritto un documentatissimo trattato in due volumi sull'Abolition de l'esclavage. E al termine della guerra di secessione Montalembert pubblica prima sulla sua rivista, il Correspondant, poi in volume un saggio dal titolo La victoire du Nord (il sostegno alla causa dell'Unione era tutt'altro che scontato nell'opinione pubblica francese, anche liberale). Ma gli Stati Uniti interessavano Montalembert anche in una prospettiva più ampia. La grande opera di Tocqueville, come riflessione d'insieme sul fenomeno democratico, diviene negli ultimi anni per lui occasione di riferimento costante. E al manifestarsi della malattia che dopo anni di sofferenze l'avrebbe condotto alla morte (malattia che avrebbe sopportato con una laboriosità intellettuale davvero eroica) era in procinto di imbarcarsi per l'America.




Ferri: Infine, per concludere questo "tour" geografico virtuale nel suo pensiero: la Mitteleuropa. Che cosa rappresenta per lui il cuore del continente?

Tesini: In riferimento a Montalembert, per tutta la vita instancabile e appassionato viaggiatore, quella di tour geografico-intellettuale è in effetti un'espressione pertinente. Aveva una visione dell'Europa fondata su una comune eredità storica e spirituale. Soprattutto era interessato all'esperienza del monachesimo occidentale al quale avrebbe dedicato un'opera colossale, Les Moines d'Occident. L'interesse per le nazioni dell'Europa centrale legava il tema delle origini comuni alle rivendicazioni per l'identità e l'indipendenza di quelle realtà nazionali. La difesa dei diritti della Polonia -la 'nazione martire'- fu un'altra delle passioni intellettuali e politiche della sua vita. Così come si sentiva legato ai ceti dirigenti di estrazione aristocratico-liberale in Ungheria. Era un uomo e un pensatore europeo che si sentiva a casa propria a Londra come a Monaco, a Parigi ed a Roma, a Budapest e a Bruxelles. In questo era favorito da una straordinaria conoscenza linguistica. Il francese, l'inglese ed anche il tedesco erano per lui altrettante lingue-madri. Leggeva Dante nell'originale (e lo citava senza errori) e in italiano conversava con i papi che ebbe occasione di incontrare. Il polacco lo aveva studiato per tradurre l'opera poetica di Mickiewizc. Amava l'Italia e la percorse più volte visitando i tanti capolavori artistici. A Milano rese visita a Manzoni che aveva in particolare apprezzato la vita di Santa Elisabetta di Ungheria, regina e terziaria francescana: il primo libro scritto da Montalembert e all'epoca quasi un best-seller. A Torino, che gli era peraltro parsa "ville d'une tristesse mortelle" aveva avuto la gioia di ricevere in una modesta locanda (à ma vilaine auberge) la visita inattesa di Silvio Pellico, l'eroe dello Spielberg che aveva entusiasmato la sua giovinezzaromantica. Amava l'Italia ma non comprese tutte le implicazioni della causa nazionale italiana, si oppose con asprezza alla politica di Cavour e con decisione avrebbe fino all'ultimo avversato l'esito storico del Risorgimento. Tra il 1848 e il 1849 era stato tra i principali promotori della expédition de Rome che avrebbe posto termine all'esperienza della Repubblica romana. Ci fu forse da parte sua un'eccessiva difesa della sovranità temporale. Ma non va sottovalutato il trauma per la coscienza non soltanto cattolica causato dagli eventi di Roma del novembre 1848: Pellegrino Rossi (che era stato collega di Montalembert alla Chambre des Paris) pugnalato davanti al palazzo della Cancelleria; Pio IX costretto a fuggire dopo che la folla in tumulto era arrivata ad uccidere uno dei suoi segretari, incautamente affacciatosi a una finestra del Quirinale... Il giudizio di Montalembert sul processo storico attuatosi a partire dalla Rivoluzione è complesso. Da un lato riconosce il valore delle libertà da essa scaturite e la rivista da lui rifondata, il Correspondant, avrebbe rivendicato la matrice cristiana dei princìpi di libertà e di eguaglianza. Al tempo stesso ravvisava il germe che si sarebbe poi definito totalitario che quegli eventi contenevano. L'autore politico che probabilmente egli amava di più era Edmund Burke, il primo grande critico della Rivoluzione francese. Montalembert ebbe dunque una vita di straordinaria intensità. I suoi scritti apparsi sulla prestigiosa Revue des deux-mondes su quella che oggi chiameremmo la "difesa del patrimonio" avrebbero contribuito a sensibilizzare l'opinione pubblica per il restauro di tanti monumenti dell'arte gotica, a partire dalla cattedrale di Notre-Dame, allora in stato didecadenza e di rovina (è una campagna che avrebbe condotto in sintonia con Victor Hugo, prima della clamorosa rottura politica). Mi ha chiesto poc'anzi quale potrebbeessere considerata 'l'opera principale' di Montalembert. Certo, tra gli scritti pubblicatidurante la sua vita e dal punto di vista del l'influenza sulle successive vicende della cultura politica e religiosa fino al Concilio Vaticano II, i due discorsi di Malines hanno un'importanza cruciale. Ma c'è un'opera, di assoluta originalità, che sotto altri profili, può essere considerata il 'capolavoro' letterario di Montalembert: si tratta del Journal intime, un diario pressoché quotidiano che copre oltre cinquant'anni, dal giorno della prima comunione all'immediata vigilia della morte. Sono migliaia di pagine raccolte in otto volumi l'ultimo dei quali apparso pochi anni fa che da un lato rappresentano l'affresco di un'epoca, e dall'altro -unitamente alle numerose lettere, solo in parte edite, che Montalembert scrisse a interlocutori illustri o sconosciuti- un' intera vita vista al microscopio. Che interagisce con tutti gli eventi del XIX secolo: dalle prime rappresentazioni delle sinfonie di Beethoven a Parigi alle rivoluzioni che avrebbero portato al potere Luigi Filippo d'Orléans, i repubblicani del '48, infine Napoleone III. Con sullo sfondo, basso continuo della vita tumultuosa di Montalembert, la battaglia per il rinnovamento della Chiesa e la sua conciliazione con la società moderna e i suoi ideali di libertà. Nei suoi appunti quotidiani Montalembert parla di sé e del mondo in cui vive, con sobrietà e con passione, senza autocompiacimenti ė senza fronzoli letterari. Davvero, un documento unico. Il volume si chiude con alcune belle pagine dell'abbé Jean de Montalembert, non solo discendente ma in un certo senso anche custode ed interprete di quella tradizione intellettuale e familiare (viene in mente l'ethos aristocratico che, come aveva auspicato Tocqueville, assume ai nostri giorni forme e caratteri diversi). L'abbé de Montalembert è uomo di cultura e autore di diversi libri e ha vissuto a lungo in Argentina, come cappellano della comunità francofona. Immagino che debba avere avuto una qualche frequentazione con l'arcivescovo di Buenos Aires. A chi sul piano storico ha rilevato l'immensa importanza del ruolo di Charles de Montalembert in uno dei più critici momenti della storia della Chiesa e del mondo, può anche venire l'idea che, in un prossimo concistoro, una nomina cardinalizia nel nome di Montalembert sarebbe non priva di significato simbolico. In verità, se c'è una cosa che la lontana vicenda del 1832 insegna è che dare consigli a un papa è l'ultima cosa che sia prudente fare (anche se, a dire il vero, con papa Francesco varie cose sembrano meno impossibili rispetto al passato...). Mi limito dunque a una considerazione, esclusivamente di carattere storico: la conciliazione del cristianesimo e dell'idea di libertà, in tutte -nessuna esclusa- le sue molteplici implicazioni intellettuali e morali è da tutti considerata oggi un grande valore per il mondo contemporaneo. Essa ha avuto in Montalembert un coraggioso testimone e un interprete in grande anticipo sui tempi. In momenti difficili, quasi da solo ha indicato la strada giusta, che poi è stata quella effettivamente intrapresa. Ha ricevuto da parte dell'istituzione da lui per tutta la vita appassionatamente difesa, un riconoscimento adeguato?






SUL LAVORO, LA COMPLESSITÀ
E LA DECISIONE POLITICA
di Fulvio Papi
Fulvio Papi parla con Gaccione (a sinistra di striscio) a destra
il poeta F. Esposito, sul tavolo "Odissea". Stresa, luglio 2011
Non c’è giorno che, a livello della comunicazione sociale, non si senta dire giustamente che il problema centrale del paese, per quello che potrebbe essere il suo equilibrio sociale, è quello del lavoro. Non è certamente una nozione nuova quella che ci ricorda come in un ambiente storico dominato dallo scambio economico, esista una larghissima quantità di persone che possono scambiare solo la possibilità di una propria qualità di lavoro. Se non esiste questo scambio, appare all'orizzonte nelle forme sociali che ha assunto nel tempo, la famosa “legge dei poveri” tanto avversata in Inghilterra nella rivoluzione industriale poiché rischiava di sottrarre forza-lavoro al processo di espansione capitalistica. Il principio di “compassione” per chi si trovava ai margini della vita, era stato resuscitato dalla tradizione morale inglese, dal più rigoroso neoliberismo che così risolveva il problema di ordine sociale. Tanto si dovesse agli emarginati, nel mentre il mercato avrebbe funzionato bene con chi vi aveva un ruolo adeguatamente adeguato. Questa prospettiva fa parte dell'individualismo di tradizione anglosassone, nota proprio a livello della rivendicazione della autonomia economica rispetto ai poteri dello Stato centrale e assolutistico. Già nel Settecento l'Inghilterra a livello dei poteri politici ed economici trovò un equilibrio accettabile dalle due parti che poi socialmente furono la proprietà fondiaria e il capitalismo industriale.

In primo piano Fulvio Papi. Stresa, luglio 2011

La nostra tradizione (così poco amata dai “fondamentalisti” americani) è tutt'altra. Noi parliamo non solo della necessità del lavoro ma del diritto al lavoro come elemento che, nel nostro mondo, fonda la dignità della persona. Questo spiega perché nel nostro paese la mancanza di lavoro venga non solo considerata, almeno dalle persone civili, come la caduta nelle condizioni di povertà, ma come un rischio serio per quanto riguarda la comunità nazionale. Anche se, a questo proposito, il discorso dovrebbe essere più complesso. In ogni caso quella considerazione, genericamente etica, viene ripetuta in tutte le sedi della comunicazione sociale, da quelle più autorevoli alla chiacchiera mediatica così che essa finisce col produrre una retorica simile a quella che necessariamente commenta in modo pietoso i disastri di un terremoto o di qualche altro disastro naturale. Questo stile provoca un'abitudine e un effetto deplorevole, quello di un abbassamento della conoscenza. Il “perché” -e poi sono numerosi i perché- vi sia in Italia (come in altri paesi, se pure con morfologie differenti) una disoccupazione così rilevante non è per lo più un problema di obiettiva analisi storica, ma l'occasione per suggerire rimedi superficiali e generici che servono, per lo più, solo a tenere in vita gli attori di queste enunciazioni. Non voglio dire affatto che manchino le persone molto più informate e più attrezzate culturalmente di quanto non sia io su questi problemi capaci di dare sia la genealogia che le ragioni attuali di questo dissesto. Sostengo soltanto che queste prospettive non appartengono al sapere che viene diffuso da quelle forze sociali che hanno il potere di far diventare queste analisi, nella loro essenza, come opinione diffusa. L'atteggiamento assunto a questo riguardo, sia per convenienza demagogica o per penuria di elementi analitici, finisce col complicare la situazione. Spesso non si misura quanto possa esservi nella diffusione di luoghi comuni o di semplificazioni immaginarie, di diseducativo dal punto di vista sociale. Poiché “cittadino” non si è né per nascita, né per diritto divino, e nemmeno attraverso una congelata garanzia giuridica, ma tramite una consapevolezza aiutata a svilupparsi nei modi in cui possa esservi un'attenzione particolare per una conoscenza che diventi un luogo comune condiviso. E su questi temi andrebbe discussa la questione della libertà di informazione che non nasce storicamente secondo il criterio del “dico quello che voglio” o della merce che si vende di più.

Fulvio Papi al centro della foto con in mano "Odissea".
A sinistra Gaccione, a destra F. Esposito. Stresa, luglio 2011

Se si circoscrive il problema del lavoro si dice comunemente che esso può essere risolto a livello di un incremento degli investimenti, della semplificazione dell’amministrazione pubblica malata di elefantiasi, di intelligenza solo giuridica, di mancanza di iniziativa propositiva. Si aggiunge l’esigenza di una riforma del lavoro e di in abbassamento della tassazione alle imprese e a soggetti sociali differenti. Sono tutte comunicazioni in astratto vere e in concreto utili a qualche soggetto sociale. Ma per lo più non vengono pensate nell’insieme di relazioni che occorre prevedere nel caso di una loro realizzazione. Credo anch’io che vi siano sprechi di danaro pubblico sia nell’insieme della rete politica centrale e locale, ma, al di là di queste modifiche, come si può formare il bilancio dello stato diminuendo la spesa pubblica? Che cosa in concreto della spesa pubblica si può tagliare, se non si vuole arrivare a quelle privatizzazioni che consentono una scuola e una salute garantita solo a chi possiede risorse private? In questo caso sarebbe bene dire che il potere economico privato è un bene che annulla i famosi “diritti di cittadinanza”. Ma in questo modo nemmeno i più spregevoli barbari riescono a organizzare il discorso e così circolano stupidaggini e ingannevoli banalità. Piuttosto perché non cerchiamo di capire come si è costituito uno spazio pubblico troppo caro per la sua scarsa efficienza? Perché non guardiamo allo specchio la vita positiva delle iniziative pubbliche e il loro senso nel processo storico della nostra democrazia?
Qualche riflessione: i finanziamenti. Sono ovviamente necessari ma vanno compresi bene nella loro possibilità (da dove e come possono venire i denari?) e in un loro scopo efficace. Non basta ripetere l’equazione puerile: finanziamenti uguale sviluppo quindi occupazione. Questa equazione senza un senso storicamente e socialmente determinato diviene una chiacchiera ideologica che ha consentito un uso delle risorse non solo sbagliato, ma spesso vergognoso, irresponsabile e idiota (che etimologicamente vuol dire privato). I segni sono in un territorio pieno di opere inutili, incompiute, inutilizzate, segno di finanziamenti sbagliati gestiti da cricche locali e consentite da una cultura civile inesistente. Da noi una politica economica keynesiana (che, contrariamente a quello che pensava Keynes, ha un suo spazio astratto) ha condotto a risultati del genere, quanto non ha sbagliato completamente obiettivi in piena buona fede come, per esempio, è accaduto nel caso di Taranto. Bisogna leggerla questa storia perché ci pesa addosso come la condizione materiale ineliminabile del significato dei discorsi dell’oggi: sarebbe bello che questo non avvenisse se gli enunciati di giovani signore invece che di antichi navigatori dello spazio politico, annullassero questa dipendenza. Anche se capisco che, a livello della comunicazione sociale, si parli solo dei sintomi attuali di una storia, e mai della storia stessa. Quanti sanno rispondere alla domanda: chi ha scritto il libro sulla storia come pensiero e azione? So che l’emozione è di moda e il pensiero sembra un abito usato, ma l’azione politica richiede un “panorama simbolico” della situazione. Non lo dico io (che non conta proprio nihil) ma, se ci pensate, “la cosa stessa”. Altrimenti, mi spiace per i giovani illusi della democrazia informatica, ma sono solo chiacchiere pericolose che nel mondo circostante si diffondono con urla da circo o con sorrisi triviali.

Fulvio Papi ultimo a destra. Biblioteca Sormani,
decennale di "Odissea"
 Milano, 27 settembre 2013
(foto di Fabiano Braccini)

I finanziamenti: tutti sanno che di un finanziamento (a parte il caso di imprese che hanno già un buon funzionamento) è un investimento di capitale che a priori calcola la sua efficacia in quanto anticipazione dei costi di produzione, attraverso la velocità di rotazione in quanto prodotto per un mercato, attraverso la concorrenza, ecc.: tutti calcoli necessari per ipotizzare un profitto. L’investimento non prescinde mai da questi calcoli. E senza fare l’elenco di diseconomie storiche, credo si possa dire che da noi un rapporto che consenta la massimizzazione dell’effetto economico secondo una linearità tra capitale investito, tecnologie, rapporti con il credito, ambiente sociale, forme sociali del lavoro, prodotto, mercato, non è certo dei migliori. Direi che, salvo eccezioni, è una situazione molto complessa che probabilmente occorre correggere in alcune fondamentali cause materiali. Non si può solo dire o sottintendere che occorre rivedere gli oneri riflessi sul costo del lavoro. Poiché, al contrario, si potrebbe citare il caso di imprese che sono diventate cooperative tra lavoratori che, con un salario calcolato in modo solidale e adeguato, restano bene nel loro mercato. Certo c’è caso e caso. Ma poi quando si parla genericamente di finanziamenti bisognerebbe dire anche per produrre cosa, come, a quali condizioni, per quale mercato. Di solito l’analisi di questi fondamentali elementi di conoscenza per una qualsiasi impresa economica vengono risolti nel linguaggio pubblico con la parola “competitività”, come se le altre necessarie conoscenze fossero note, cosa che invece non pare vera. La parola in questo caso diventa retorica. Ovviamente non chi investe che questi conti li sa fare benissimo, ma per chi dovrebbe favorire l’investimento a favore del lavoro e contro la disoccupazione, queste conoscenze sono necessarie, almeno quanto le affermazioni generali che indicano una via di principio, dal punto di vista etico, pienamente comprensibile. So bene che il rapporto indicato nella Costituzione tra libertà di iniziativa, utilità sociale e dignità del lavoro è, per parlare filosoficamente, un’idea trascendentale che come tale non ha mai potuto evitare contrasti e collisioni che in concreto hanno caratterizzato la storia del lavoro. Inoltre non è un sapere segreto che la mondializzazione economica e finanziaria ha favorito molto di più di quanto non fosse nel passato l’autonomia della sfera economica rispetto a quella politica. I fatti poi hanno dimostrato che quest’ultima si è adattata alla nuova situazione con i risultati notissimi che nelle aree più povere vi è stato un miglioramento e, al contrario, un peggioramento nei ceti intermedi delle aree più ricche.
Papi e Gaccione, Milano 6 gennaio 2014
nello studio del filosofo (foto di D. Pericolosi)

Allo stato delle cose, poiché è fallita la provvidenzialità sociale del mercato, come era ovvio, non c’è nessuno che con un colpo di genio o di forza possa dominare questo stato di cose che se viene proiettato in una dimensione futura, secondo un rapporto tra demografia, produzione, stato del territorio, non può che apparire ancora più difficile. Per quanto riguarda il nostro paese chi usa lo slogan “rifare l’Italia” è costretto a sapere che non picchierà la testa solo contro abitudini, privilegi, rappresentazioni lobbistiche presenti nelle istituzioni politiche, ma, più in generale, contro la resistenza del modo in cui è stata costruita una storia che, di contingenza in contingenza, ha raggiunto l’inerzia di una necessità. La quale comprende il modo in cui si è strutturata la comunicazione che è la formazione del senso comune. Esso non è in grado di separare gli elementi realistici dalla finzione, luogo equivoco dove prosperano personaggi pubblici, più o meno ripugnanti. E allora? In questo discorso il lettore deve accontentarsi dell’immaginazione intellettuale di un filosofo. Ma a rigore, su questi temi dovrebbero cimentarsi i politici, fedeli alla etimologia del termine e quindi studiosi delle cose come sono e dei valori sociali come dovrebbero essere (è un’indicazione a chi ha vinto le elezioni). Magari lo si dice poco, ma è certo che noi abbiamo un paese da “ristrutturare” materialmente. Dobbiamo chiudere i guasti, le incurie, la pessima connivenza di interessi, custodire il nostro migliore passato e preparare il paese a una nuova condizione materiale che va dalle clamorose e pericolose mutazioni climatiche, alle nuove esigenze energetiche, alla difesa del territorio, a una trasformazione delle condizioni “normali” dell’esistenza che comporta un diverso consumo delle risorse. Questo mi pare un compito fondamentale per chi abbia una nozione del tempo che superi lo spazio di un anno e la sorte di un gruppo politico. Senza trascurare alcuna connessione e riforma a livello europeo, noi abbiamo uno spazio “autarchico” che è un’occasione fondamentale per investimenti, per tecnologie, per innovazioni, per lo sviluppo dell’occupazione. E se è consentito, per mettere davanti agli occhi dei cittadini la realtà del paese e così ottenerne il risveglio possibile. È un pensiero troppo in grande? Pur parlando di cose materiali, si sfiora il pensiero utopico? La risposta non è una sola, a meno che non si inganni la teoria. La risposta è piuttosto morale poiché i progetti e il loro senso derivano dal prendere decisioni, e le decisioni misurano i mezzi, e così si misurano le possibilità nel tempo. Una ragione non enfatica trova questi problemi. Se restiamo in tutte le dimensioni contemporanee del futile, rischiamo di più di quello che possiamo immaginare.       


[Le foto di luglio a Stresa sono state scattate da Mirella Gaccione] 

                                          


IL TEMPO E LA SUA QUALITÀ SOCIALE
Di Fulvio Papi


I fascisti della prima ora amavano gridare: “Me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenire”. Cercherò di spiegare il violento sintagma perché il tempo passa, e la cultura storica diviene molto rara, soprattutto dalle parti di Montecitorio dove dovrebbe essere ricca come i conti dei ricchi nelle banche straniere. “Me ne frego” vuol dire qualcosa in più di “non me ne importa”, infatti sta a significare uno stile personale che si compiace della sua aggressiva specularità.
“Non me ne importa” lo può dire un funzionario di banca o delle assicurazioni. “Me ne frego” è un’espressione di qualcuno che immagina se stesso come un guerriero di giusta e superiore barbarie, cioè un fascista dello squadrismo, quello che come oscura nostalgia, simile a una vendetta, nasce nel giugno del 1944 quando Pavolini militarizzò il partito fascista repubblicano. Quanto a Bombacci è stato dapprima socialista, dopo il gennaio del 1921 divenne comunista, e poi divenne dirigente del partito fascista immagino per problemi di una coerenza nota soltanto a lui stesso o a pochi amici stretti. Ebbe in sorte di essere fucilato alla fine di aprile del 1945 indicato come “supertraditore” dalla “Radio di Milano liberata” che ascoltai nella casa di un compagno di scuola che confinava con la sponda del lago Maggiore. Ma l’interessante della spiegazione sta nel rapporto tra il sole e l’avvenire. Il sole, come donatore di vita ebbe culti in quasi tutte le religioni dell’antichità, e nel neoplatonismo per un tema comunissimo che ebbe il suo trionfo urbanistico ne “La città del Sole” di Campanella. Poi rimase sempre come un elemento donativo di felicità, persino nella letteratura nordica. Niente di strano dunque se la sua immagine si ripete nella mitologia popolare del movimento operaio. Tuttavia qui con una coniugazione importante, quella del tempo. Il sole sorgerà nel cielo del prossimo avvenire che l’idea e la militanza del movimento operaio stanno preparando nel presente.
Per lo squadrista fascista il presente è tutto, è il tempo che conta, quello in cui può misurare l’efficacia delle sue gesta aggressive e le conseguenze penose per i suoi avversari. Credo che psichicamente assomigli a una crisi delirante. Il tempo di sinistra invece assomiglia a una fede che ha invaso gran parte dell’Occidente: verrà il regno di Dio. Naturalmente socialisti e comunisti non avevano una prospettiva religiosa, ma ritenevano che l’avvenire avrebbe portato a una società più giusta per tutti: il presente era un momento di passaggio destinato a preparare un futuro migliore per tutta la società. Per la verità il fascismo, come forma istituzionale dello Stato, non poté ripetere lo stile di aggressivo vitalismo dei suoi progenitori. Ma qui non è un problema le differenze ideologiche che convivevano nel potere autoritario del fascismo con le sue demagogie e i suoi tribunali speciali, ma piuttosto una concezione del tempo. Una cosa è certa: il sole dell’avvenire, come mitologia di una società veramente giusta, magari se lo sognano non pochi, ma non ci crede nessuno. Sono stati i poteri della storia economica, sociale e politica contemporanea che hanno tagliato i ponti verso l’avvenire nell’opinione comune. Il tempo è molto più breve. Questa prospettiva la posso anche argomentare e condividere. Tuttavia rimane, in un tempo molto circoscritto, la differenza tra il meglio e il peggio come condizione condivisa della vita. Ci sarà una differenza tra il vivere in un luogo distrutto dall’immondizia anche tossica, e il vivere in un luogo pulito. Ci sarà una differenza veder distrutto dalle frane e dalle alluvioni un territorio ricco di importanti tracce d’arte e di sapienza architettonica e conservarne la memoria come propria identità e tesoro da mostrare a un mondo che cambia, piuttosto che assistere alla sua distruzione.. Ci sarà una differenza tra organizzare un lavoro decoroso e un’assoluta incuria degli esseri umani ridotti puramente a costi di produzione. E così molte altre differenze. Che non appartengono solo alla “letteratura” degli uomini di una vecchia cultura, ma sono scelte che hanno a che vedere con l’immediata sicurezza della vita e del suo valore.
Se fosse utile argomentare in termini di una storia controfattuale, direi che, dopo la ricostruzione del paese, l’unico momento politico che avrebbe potuto avere un autentico effetto riformistico sarebbe stato quand’era possibile coniugare una programmazione economica con una politica dei redditi. A tanti anni di distanza mi pare tuttora chiaro che la programmazione aveva incorporato alcuni pregiudizi intorno al progresso industriale, piuttosto che nascere come sviluppo che usava di un metodo razionale tenendo presente le caratteristiche strutturali del paese. In ogni caso da nessuna parte vennero osservazioni di questo tipo, ma ci fu uno strillare che proveniva, occasionalmente, dai parti opposte. Non credo poi sia il caso di parlare dell’ultimo ventennio quando la comunicazione demagogica, ripetendo all’infinito slogan liberisti che erano noti altrove e avevano alle spalle altre tradizioni storiche, rubò ogni spazio pubblico a una ragionevole critica e favorì lo sperpero, l’incompetenza, l’interesse privato e il dilagare di un costume di potere che confinava spesso con le inchieste penali.



Torniamo però al tempo e al meglio e al peggio. Il meglio è più difficile di quanto non credano in molti. Richiede un chiaro progetto intellettuale intorno alle priorità del paese, una forte solidarietà sociale che superi il potere di organizzazioni potenti e di demagogici particolarismi, un uso proporzionato delle poche risorse. Per queste ragioni il meglio richiede una pur sempre controllata dimensione del tempo futuro, un lavoro continuativo, paziente, costante dove i vertici politici godano, nel progetto, di un credito intellettuale e, e fondamentalmente morale. Noi oggi siamo quasi all’opposto di una condizione del genere senza la quale non ci sono indici economici che possano segnare la fine di una divisione tra privilegi, luoghi dei privilegi e collere mediatiche prive per loro natura di alcuna efficacia che non serva, a sua volta, i più abili protagonisti.

Così l’attuale abolizione del tempo non evocherà un bellicoso “me ne frego”, ma, purtroppo, un barbaro e silenzioso “a me non importa, non è un fatto mio”. È il lessico privo di arditismo, ma pur sempre efficace perché ha un rapporto con la vita comune dove interi ceti stanno precipitando economicamente, il mercato “tiene” solo attraverso un peggioramento dei consumi, l’intelligenza sociale è paralizzata dalla spettacolarizzazione universale, e sono indotte abitudini a convivere con la spazzatura e a gratificarsi con microtecnologie che, nell’insieme, collaborano all’abolizione del tempo. Che, tra altre caratteristiche dell’esperienza, è una qualità sociale.       


                                           


CETO POLITICO E MORALITÀ
Dovrebbe sentirsi investito dei più alti doveri
non fatto segno a privilegi materiali 


Ernst Toller

Ernst Toller è un autore di opere teatrali credo poco conosciuto in Italia. Ricordo una rappresentazione al Piccolo Teatro di Milano negli anni Cinquanta di “Oplà wir leben” che ebbe una buona accoglienza ma non uno strepitoso successo. Nel 1933 Toller pubblica ad Amsterdam (nel Reich nazista le sue opere servono per alimentare i giochi politici) il libro “Una giovinezza in Germania” dove racconta la storia di un giovane studente che, come gli studenti del romanzo di Remarque (“Niente di nuovo sul fronte Occidentale”), accecato dai bagliori dell’impero tedesco e dal diritto della Germania di partecipare al banchetto imperialista del mondo, si arruolò volontario e finisce per un anno in mezzo all’orrore delle trincee delle due parti dove si consuma una guerra di posizione dopo il fallimento della prima grande offensiva tedesca che doveva arrivare a Parigi. La storia di Toller poi cambia completamente orientamento, e come socialista di sinistra (allora si diceva socialista “indipendente”) partecipa a tutte le vicende delle “due”  rivoluzioni in Baviera, l’una senza un ordine e una strategia precisa con i comunisti critici di questa situazione, la seconda (non è solo una seconda fase) dove i comunisti hanno la prevalenza nelle cariche direttive ma il disordine strategico non cambia. Quello che il libro di Toller permette di vedere con assoluta chiarezza è che la rivoluzione ha la totale adesione della classe operaia bavarese (il che non vuol dire una lunga, uguale, solida persistenza della propria identità storico-politica. Brecht in “Madre coraggio” diceva che è necessaria una “rabbia lunga”) e l’opposizione intransigente e anche feroce di ogni strato della borghesia, dell’esercito regolare aiutato dal governo di Berlino che aveva già chiaro la sua partita con la rivoluzione spartachista con l’uccisione di Liebnecht (che si era sempre opposto alla guerra) e di Rosa Luxenburg. Il libro di Toller, a fronte dei manierismi letterari correnti, è da leggere, non fosse altro per non dimenticare quel tratto di storia tedesca che in Baviera vede le prime prove politiche di Hitler, e per capire come i sogni rivoluzionari (allora si pensava Baviera + Austria + Ungheria) abbiano avuto in Europa risvegli negativi e crudeli, proprio immaginando di poter ripetere quella che era stata la congiuntura favorevole della rivoluzione bolscevica.
Sono cose che si dovrebbero sapere con una certa chiarezza, il che non vuol dire affatto che la politica della maggioranza del partito socialdemocratico tedesco nel 1914 come nel 1919 “avesse ragione”. Le vicende storiche sono molto complicate anche se richiedono spaventosi sacrifici umani. Toller paga il prezzo del suo comportamento politico, ma riesce ugualmente ad essere uno scrittore che fa parte del nostro migliore Novecento.
Toller
Ma se devo dire la verità, non è questa rievocazione che più che tanto mi solleciti a scrivere, quanto il desiderio di citare un brano del libro di Toller “Senza dubbio il socialismo su un determinato piano significherà uguaglianza, nel senso che ciascuno avrà uguale diritto al nutrimento, all’alloggio, all’istruzione, ma su un altro punto sarà proprio il socialismo a condizionare una società differenziata, in quanto gli uomini che hanno particolari attitudini politiche sociali e culturali verranno a costituire non già una aristocrazia della nascita, bensì l’aristocrazia dello spirito (Thomas Mann intendeva “nobiltà dello spirito”), della capacità creativa, della produttività. Saranno investiti di più alti doveri, non fatti segno a privilegi materiali”.
Tutto ciò appartiene a quella storia dell’utopia che qualcuno cerca di scrivere. Ma anche in una società come la nostra continuo a pensare (il diritto di pensare) a un ceto politico che dovrebbe sentirsi investito “dei più alti doveri, non fatto segno a privilegi materiali”. Se non è così, se coloro che passeggiano al sole davanti Montecitorio non si sentono così, allora non meritano una chiassosa e volgare indignazione plebea, ma un silenzioso e tuttavia definitivo disprezzo.
Fulvio Papi    
                             


                                             


CADUTA DEI CONSUMI E SOBRIETÀ
di Fulvio Papi



Sarà perché quand’ero giovane, e non solo, sono stato perseguitato da problemi di metodo -metodo della storiografia, delle scienze, della filosofia, della psicoanalisi-, ma oggi quando la televisione dà una notizia in percentuale vengo immediatamente invaso da un sentimento di incredulità se non di ostilità. Chi avrà fornito alla tivù quei dati e attraverso quale metodo li avrà mai acquisiti? Questi sentimenti forse sono esagerati ma su un punto credo di avere ragione senza dubbio. I consumi natalizi dice la tivù sono diminuiti dell’8 per cento circa. Questo dato suppone che consumi e consumatori appartengano a una identica unità, il che è un errore teorico e una superficialità comunicativa che non fa un buon servizio per la famosa utenza. Il dato va disaggregato in due direzioni: quali consumi e quali consumatori. Combinando insieme i due elementi si può avere, sempre approssimativamente, qualche dato interessante dal punto di vista sociale e non da quello di una statistica in cui tutte le vacche sono nere come diceva Hegel del primo Schelling. Per esempio se i beni di lusso non avessero avuto flessioni, mentre quelli medio-bassi relativi all’abbigliamento fossero calati del 20 per cento, avremmo una informazione interessante che corroborerebbe un’ipotesi che, peraltro, ha avuto una sua realizzazione nella forma di mercato in Inghilterra che si costituì al tempo del fanatismo liberista, quando il mercato fu diviso in due parti: l’una corrispondente alla riproduzione sociale dei ceti medio-alti, l’altra -il 30 per cento- esclusa ed emarginata, salvata dalla paupertas (non dalla inopia) dalla benevolenza pubblica. I dati disaggregati possono darci un’idea se anche noi siamo condizionati dal medesimo destino che non è poi una notizia trascurabile.
Nelle statistiche televisive appare un dato molto interessante: il settore dove la flessione dei consumi si è rivelata quasi nulla è stato quello dei giocattoli per i bambini. È una osservazione benevola quella che afferma: gli adulti avranno rinunciato a qualche leccornia o a qualche capo di vestiario alla moda, ma hanno desiderato che i bambini non soffrissero privazioni, e che il loro babbo Natale non fosse diventato molto più avaro rispetto alle loro aspettative. Sui giocattoli c’è una ormai antica posizione romantico-idealista che dice: sono buoni giocattoli quelli che sollecitano l’immaginazione creativa dei bambini, non sono buoni quelli che esigono solo una esecuzione passiva. Dicevo che è un’antica concezioni, in fondo debitrice di una concezione del mondo non solo astratta, ma anche sbagliata, perché l’immaginazione infantile non è un dono dell’età sempre uguale per tutti e in ogni situazione. Anche l’immaginazione infantile è una variabile storica. Basta un esempio: i famosi soldatini, dono natalizio delle infanzie degli anni ’30-’40, era in questa prospettiva, un gioco senz’altro positivo, perché l’immaginazione infantile era stata educata alla guerra. Ora si tratta, molto migliorati e più costosi -i soldatini- di oggetti da collezione. Quanto alla quantità di giocattoli contemporanei dominati da sistemi elettronici, sarebbe un gusto passatista sostenere che sono solo elementi di esecuzione passiva. Da quello che ho potuto vedere molti di questi giocattoli propongono una capacità reattiva, e una possibilità di apprendimento che interessano sia elementi della contemporaneità che quelli del mondo immaginario infantile. Naturalmente un’analisi più approfondita condurrebbe a informazioni più interessanti. Ma c’è un problema che purtroppo mi interessa di più. I genitori e i nonni hanno cercato di impedire, quando potevano, la frustrazione dei bambini e di continuare anche ora quel clima festivo per i bambini che è nella mitologia pubblica e nella realtà sociale.
Le proiezioni della nostra futura realtà sociale, tenuto conto dell’insieme delle modificazioni economiche del mondo -fondamentale la distribuzione planetario del lavoro- che tutti più o meno, sanno, per noi non sono gradevoli. Temo che andremo incontro a una congiuntura verso il basso (come dagli anni Sessanta per un trentennio, per svariate ragioni, anche non tutte positive, abbiamo avuto una congiuntura verso l’alto). Credo sarebbe utile che gli adulti potessero trovare soddisfazione anche in una forma di vita più sobria che nel passato. Non è difficile, è solo questione di educazione che, sino a certi livelli, quindi a parte le condizioni infami di vera povertà, non provoca alcuna sofferenza, proprio perché i beni in eccesso abituano a una effimera felicità.          Lo stesso discorso credo vada introdotto nel mondo infantile. Non sto varando la bassa retorica della palla fatta di pezze di stoffa. Sto pensando a una gioia infantile che possa rimanere quale è, anche in un consumo, e quindi a una appropriazione minore, di oggetti. Educare vuol dire “trarre fuori” e non solo da un periodo “infame” della vita naturale, ma da una situazione ad un’altra. Questa possibilità la considererei un problema. E per quanto mi riguarda, se questa nota autobiografica può interessare in un Natale precedente la guerra, ricevetti come unico regalo, con una grande gioia, un tamburo. Non fu però una gioia per i miei genitori e per i vicini di casa.  

  

                                   






LO SGUARDO CORTO DEL POTERE
di Fulvio Papi





Da quello che si riesce a capire da parte di chi non è uno specialista di analisi economiche pare (nel senso di apparire) che l’economia che domina l’Occidente, cioè quella americana, passato il peggio della bufera, ricominci ancora dal punto in cui era cominciata la famosa “crisi”. Le cause per l’intelligenza critica erano ben note, anche se devo riconoscere che i libri dei grandi economisti americani che ho letto terminavano sempre con una terapia di natura etico-politica che concludeva degnamente il lavoro, ma apriva in una direzione antropologica che era fuori controllo rispetto ai poteri materiali che, senza essere profeti, si poteva immaginare avrebbero cercato, e anche facilmente, di riprodurre se stessi. A questo proposito avverrà probabilmente che i più sosterranno che questo modo di produzione, con tutti i suoi aspetti, finanziari, tecnologici, di mercato, ecc, appartengono a una inevitabile natura non proprio come tra Settecento e Ottocento, perché storica.    E altri esperti, probabilmente i meno ricchi, riprenderanno, aggiornate, le loro analisi critiche. Da un punto molto generale, tenuti presenti gli studi dei competenti, si può forse dire che le prossime limitate catastrofi potranno essere medicate facendo pagare i costi a chi càpita càpita, tra le chiacchiere, spesso volonterose, e per questo non prive di dignità, di chi, in un paese marginale come il nostro, ormai alle prese con una sua storia disastrosa, dominata da intraprese errate e da criminalità diffuse, desidera mostrare che la vita migliorerà. Per quello che resta della nostra vita potremmo procedere in questa commedia che la televisione mostra come realtà, e Internet fa risuonare di opinioni che derivano da più che comprensibili lamenti, ma sono anche utopiche, sconsiderate, paranoiche, quando non addirittura promosse da animi meschini, menti povere e linguaggi volgari. Tutto questo può durare a lungo, e addirittura formare un costume. Ma quando, a causa del riscaldamento dell’atmosfera, l’acqua invaderà inevitabilmente terre abitate, e vi saranno un miliardo e trecento milioni di profughi?
Per fare una previsione anche modestissima, bisognerebbe avere una mappa geografica di questa catastrofe per capire l’insieme di effetti che verranno provocati. Tuttora temo che esse esistano negli studi degli scienziati specializzati, ma non sulle scrivanie dei “potenti” del mondo che, in una prospettiva del genere, mostrano una potenza molto limitata o, addirittura teatrale. Che libri leggono questi personaggi importanti, quali riviste, quali relazioni, a chi danno ascolto?
L’impressione è che, per lo più, siano autogeni, creano il proprio mondo vedendolo riflesso sui mezzi di comunicazione dove la prospettiva temporale è quella del giorno dopo e poi dell’oblio, e quindi di un nuovo inizio. Il tempo del resto non è un ente, appartiene al modi di pensare e al modo di essere. E quindi può essere adattato facilmente a una solitudine che, per il luogo dove è, e per come è in quel luogo, si può considerare autosufficiente e un poco divina.
Faccio solo un caso di vicende che credo di conoscere dalla riforma Gentile in poi in un modo raro tra i “dirigenti” di adesso, e cioè la questione universitaria. Non sto a discutere vent’anni di errori dovuti a culture fuori luogo, a incompetenze clamorose, a programmi in realtà destinati a distruggere l’Università pubblica per favorire enti privati, ecc. ecc. Mi limito a notare che tempo fa un filosofo italiano, forse il più illustre, scrisse che le misure relative alla selezione del personale universitario erano “demenziali”. Ora penso che se qualcuno dicesse dei miei scritti che sono poco perspicaci, incompleti, deludenti, mi terrei la critica e ci penserei. Ma se leggessi che sono “demenziali” sarei costretto almeno a difendere il mio stato di natura mentale. Invece il Palazzo, comunque frequentato, tace sempre.
E allora è solitaria presunzione del potere secondo cui tu leggi, studi, scrivi, pubblichi, ma resti come la natura in Plotino “prope nihil”, oppure si può dire volgarmente, ma non mi va, in un dialetto della penisola.

  

                                     





QUAL È IL BERUF DEI POLITICI CONTEMPORANEI?
di Fulvio Papi


Beruf è una parola che si trova negli scritti politici di Max Weber e che un tempo (non so adesso) qualsiasi studente del primo anno di discipline politico-filosofiche sapeva tradurre con professione-vocazione, sapendo anche che la traduzione irrigidiva nel significato italiano quel tanto di impegno vitale che ha nella sua origine filosofica. Ricordo anche che tanti anni fa un filosofo, molto valido per la sua qualità intellettuale, anche se oggi, a mio gusto, troppo impegnato a tenzoni mediatiche che non aggiungono nulla al suo livello mentre promuovono degli imbecilli nella considerazione pubblica, mi disse: “Vorrei conoscere il Beruf degli attuali uomini politici”.
Mi parve, allora, un po’ troppo severo, perché la dedizione personale è un compito che talora può essere anche un po’ inferiore -si capisce non troppo- al disegno operativo che è sottinteso nella parola weberiana. E se oggi ci rivolgessimo la stessa domanda?  Sono certo che, a livello medio-colto, molti risponderebbero che l’insieme della vita politica ha subìto un deterioramento così ampio che l’uso di questa parola sarebbe un po’ ai margini di una indagine sociale. E, aggiungerei, magari per complicare le cose, quale dei significati possibili ha assunto oggi la parola “popolo”.



Poiché nel discorso il significato delle parole è costretto a una sua coerenza, non solo volubile, ma anche portatrice, proprio nella sua coerenza, di una vera contraffazione rispetto ai significati originari. Beninteso, si può parlare e comunicare usando la contraffazione come coerenza: l’interprete, alla lunga, non ha più molti dubbi, e l’inconscio desiderio di credere, soprattutto se condizionato da un mitragliamento mediatico, finisce col prevalere. Così, per tornare a una osservazione precedente può capitare che degli imbecilli siano presi per menti originali, cosa che si diceva non potesse, ai bei tempi di Roth o di Zweig, capitare a Vienna, anche se, purtroppo, poteva capitare il contrario.
Se rileggiamo una pagina di Fogazzaro del 1895 troviamo che un patriota veneto, alla vigilia della guerra del 1859, dice a Luisa, protagonista del romanzo “Piccolo mondo antico” facendo riferimento ai coraggiosi volontari in partenza: “Le paion teste di far l’Italia?”
Neppure suo marito sa, ma per fare l’Italia niente. Vedrò quello che verrà fuori. I nostri figli ci faranno il monumento, ma dopo verranno, lei mi capisce, con licenza, quelle porche figure dei nipoti, che mi pare di sentirli: Come l’han fatta da cani, diranno, quei vecchi insensati l’Italia”.
Lo scrittore, con il vantaggio dei tempi, fa diventare il suo personaggio un profeta della critica, un po’ superficiale, del modo, tutto sommato volgare in cui è stata governata l’Italia unita rovinando il patrimonio di intelligenza e di moralità del periodo risorgimentale. Se qualcuno ricorda il finale de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, la scena è la stessa. E del resto l’autore del romanzo non deriva un po’, nell’aura morale, da quel “Padri e figli” di Pirandello (1913) che mostra come gli ideali “garibaldini” fossero finiti in ipocrite celebrazioni che coprivano uno spirito d’affari privati all’ombra dei poteri dello stato, e delle cariche pubbliche?



Un Beruf” non lo si improvvisa con generici, anche se ammirevoli, ideali politici. Esso è un’attitudine individuale e collettiva a creare una buona legislazione a favore del proprio popolo: non per niente Weber che era, si direbbe, un moderato, ammirava il ceto politico degli avvocati socialdemocratici che erano presenti nel Parlamento tedesco. Da noi invece prevalsero due casi differenti: dalla idealità risorgimentale derivò un’idea di popolo molto retorica e ridondante che fu propria del nazionalismo e, poi, un tema centrale del fascismo. Così quel popolo che, per la prima volta nella guerra mondiale si era “trovato unito nella vita tragica delle trincee e degli insensati assalti, diveniva la “prova empirica” di una ideologia totalitaria, aggressiva che proclamava un’ “Italia proletaria e fascista in piedi”, e Giovanni Gentile, dal canto suo, riprendendo il tema della filosofia italiana di Spaventa puntava su una continuità ideale del fascismo con la cultura risorgimentale. E, come tutti sanno, Gabriele D’Annunzio portò il suo contributo storico-retorico, però non si deve buttare tra la spazzatura la sua eredità poetica. Se non fosse che tutto questo portò alla tragedia della guerra, si potrebbe descrivere come un rapporto tra minoranze ideologiche e masse popolari simile a gigantesche rappresentazioni teatrali che non escludevano dedizioni di fede.
All’ombra delle quali, nonostante i tentativi di moralizzazione di Starace (ma quanti vi credono?), fioriva la seconda caratteristica dalla scena politica italiana che escludeva lo spirito del “Beruf”, e di cui gli scrittori “siciliani” avevano colto subito, anche favoriti dall’ambiente sociale, le caratteri-
stiche centrali: l’affarismo, l’uso privato di poteri pubblici, il proprio interesse personale all’ombra della politica.
L’antifascismo -e qui adopero la parola in modo molto elementare- fu una cultura, nelle sue differenze, di minoranze colte che nel rinnovato clima politico portavano proprio lo stile di un “Beruf” ch’era anche educativo per un paese che doveva rinascere. Fu ancora questa minoranza che cercò di dare al “popolo” una identità positiva nel lavoro inteso come modalità originaria dell’essere umano e che, storicamente, accanto ai doveri impliciti, apriva il cammino per il riconoscimento di diritti che trasformavano il cittadino “giuridico” in un cittadino che, attraverso il lavoro, l’estensione dei suoi diritti, la partecipazione politica, costruiva una comunità nazionale. Certo molti fattori contribuirono alla ricostruzione, ma nessuno può negare a quel ceto politico l’esercizio di un Beruf autentico. E certamente fu questo senso attivo, intraprendente, vocazionale, intelligente che rese possibile la nascita della Costituzione del 1947. La Costituzione, come ogni documento storico che cerchi di organizzare, come legge suprema, l’ordinamento dello stato, subisce l’entropia che deriva dal tempo storico. Diverso il caso di costituzioni che enunciano solo alcuni principi generali derivati da una visione antropologica. E come ogni costituzione di questo tipo acquista la sua forza nella applicazione. Poi, ed è la storia della decadenza dalla prima repubblica in poi, sono intervenute nuove e radicali condizioni storiche che hanno selezionato in modo diverso da quelli precedenti, il ceto politico dirigente. Detto in due parole: l’assoluta prevalenza della dimensione economica e finanziaria acquistava poteri così ampi, anche nelle relazioni internazionali, da condizionare in modo molto rilevante l’autonomia politica dello stato. E poi: la conseguente fine di una selezione politico-culturale di una minoranza capace di proporre valori sociali collettivi e forme concrete della loro realizzazione. Terzo elemento: la dissoluzione di una attiva unità nazionale in forme di privatizzazione dell’esistenza, quelle privilegiate con una feroce difesa di se stessi, quelle che vivono del proprio lavoro (quando c’è) nella chiusura quasi necessaria delle proprie prospettive per interpretare una situazione che inizialmente ne fece dei “consumatori” e poi ne declinò decisamente la figura sociale.



In queste condizioni nasceva quel costume politico che tutti conosciamo che ha rappresentato la decadenza intellettuale e morale della repubblica. Studiare le ragioni di questo fallimento nazionale è compito difficile, affidabile a competenti, e certamente non a personaggi spregevoli che proiettano nel passato interessi e domini dell’agire politico del presente, fruendo di comunicazioni di massa che non hanno affatto le caratteristiche di una presenza critica, ma sono solo casse di risonanza utili per ipnotizzare nell’ignoranza quella che nella tradizione occidentale, almeno teorica, era l’opinione pubblica. E questo proprio in un momento in cui la trasformazione radicale della “storia del mondo” richiede una consapevolezza seria di quello che è destinato a capitare alla nostra forma di civiltà. Un silenzio o delle notizie che non fanno sapere pubblico, e tanto meno consapevolezza politica.
È con questi contenuti che dovrebbe nascere un attuale Beruf, cosa impossibile. Confesso che, quando sento parlare deputati di nuovo conio, giovanotti “di belle speranze”, e signorine (quasi sempre) di gradevole aspetto, non percepisco nemmeno l’eco di quella minoranza colta e capace che possano dare una identità al paese nel mondo contemporaneo. A parte le azioni violente che possono far pensare all’”aula sorda e grigia” con quello che segue, mi paiono figure che, nel gioco della politica, recitino la parte necessaria per trovare “il loro posto nel mondo”, per usare eufemisticamente, un’espressione filosofica di un secolo fa. E questo non ha niente a che vedere con il weberiano Beruf, che, almeno da noi, mi pare appartenga ad un altro mondo.



                                                  



CRISI E CONSUMI
di Fulvio Papi


I dati di cui disponiamo parlano di una contrazione dell’economia italiana dello 0,2 e in questa prospettiva la base annua del Pil scende dello 0,3. A mio modo di vedere, nonostante il calo è calcolabile equamente sull’industria, sull’agricoltura e sui servizi, per avere un’analisi corretta bisognerebbe disporre di informazioni “scorporate”, magari per poter intervenire con saggezza politica in modo più efficace. Resta il fatto che se il Pil (con tutti i limiti ben noti di questo criterio di informazione) diminuisce è ovvio che vengono meno le possibilità prossime di un pareggio del bilancio. La conoscenza molto generale dei dati dice che la domanda interna non cresce, mentre, purtroppo, quello esterno diminuisce: per esempio gli ordinativi tedeschi mostrano una diminuzione del 3,2 per cento. L’insieme di queste condizioni dà luogo a quella “conoscenza speculativa” quale viene registrata nella Borsa e nello spread che incide in maniera negativa sulle finanze pubbliche. Vale la pena di osservare che la natura contingente di questi dati, e non può essere altrimenti, mostra una totale indifferenza a livello storico, e una psicologia del consumatore troppo elementare. A mio parere sarebbe bene riflettere sulla trasformazione dei consumi nell’ultimo decennio. Essi non sono diminuiti solo per il rapporto tra disponibilità monetaria del consumatore e i prezzi di mercato. Ha avuto luogo, almeno per certi settori non trascurabili, una mutazione radicale nella modalità stessa del consumo. Chi dimentica che il “consumismo” fu una categoria di analisi sociale fondamentale che, riassumendo un po’ grossolanamente la questione, era il flusso di un’abbondanza nel consumo che inglobava una forte percentuale di spreco. Lo spreco era senz’altro un elemento che teneva alto il livello dei consumi, almeno a livello di tutti quei ceti che non erano considerati poveri. Ora questa tendenza non esiste più: ogni consumo è più attento e vigilato, e per di più diffusa una corretta ideologia sociale che penalizza l’eccesso consumistico come elemento che, in modo più diretto o meno, ha conseguenze su quelle trasformazioni note della vita naturale del pianeta. Non credo né che i famosi ottanta euro sarebbero stati gettati sul mercato con effetti “positivi”, né che sono stati risparmiati in attesa di venire di nuovo sottratti per nuove tasse. Penso semplicemente che nella maggioranza dei casi siano stati accumulati per acquisti di maggiore costo, più necessari, e che possono aver luogo in tempi successivi. Il problema è cercare di capire quali siano le dotazioni ritenute primarie dalle famiglie, il che comporta la conoscenza di un rapporto tra “concezione della necessità” ed elaborazione culturale della medesima. So che è difficile, ma il contrario è il  frutto di una psicologia del consumatore di tipo primordiale che in tonalità diverse, è sempre stata tipica dell’economia politica. In parole molto semplici l’analisi della domanda interna va considerata secondo una pluralità di fattori che devono essere inclusi perché fanno parte della trasformazione del tessuto sociale italiano nella pluralità delle componenti che incidono sulla qualità, quantità, temporalità, immaginazione, identità sociale, fattori tutti tutt’affatto indifferenti nella comprensione del consumo. Altrimenti la parola ha un astratto significato di comunicazione settoriale, simile a quella che gli analisti filosofici rilevavano nel lessico della metafisica privo di senso. Solo che nel nostro caso il vuoto di conoscenza e la sua riduzione semantica provoca effetti peggiori. Una considerazione differente va fatta sull’export che è in crisi. In generale qui si fa questione di lavoro più flessibile, di meno poteri burocratici, di una giustizia che non appartenga all’autostima di una corporazione piuttosto che alla sua efficacia sociale, che ora funziona con tempi di natura biblica. Tutti fattori che hanno un riflesso sulla formazione di prezzi che non sono competitivi sul mercato mondiale. Ora credo bisognerebbe stare molto attenti, in un’epoca di grandi trasformazioni, anche su come cambia la domanda sui mercati mondiali, e qui la flessibilità riguarda la capacità di adeguare la produzione alle modifiche della domanda. Non è un fatto da nulla, per esempio, il crollo delle esportazioni italiane nei paesi extra UE. Rispondere ragionevolmente a un “perché” non riduttivo alla competitività dei prezzi, è una forma di cultura economica più attrezzata. Sono conoscenze da giornali il fatto che l’Africa, a dispetto delle locali guerre endemiche, è un continente in pieno sviluppo economico soprattutto dominato dall’espansione cinese (che a dispetto di Obama il quale ora vuole “aprire” all’Africa, appare, per lo meno “appare” meno imperiale di quello che è sempre stata l’espansione estera degli USA e i cui episodi anche violenti sono universalmente noti). È stato notato che le misure prese contro la Russia per la questione ucraina hanno contato sulla nostra esportazione. Anche qui adotterei una maggiore prudenza, lasciando perdere le “votazioni” del ministro degli esteri USA sulla nostra politica estera. Sulle esportazioni c’è ancora una considerazione da fare. A suo tempo Tremonti sosteneva che un euro sopravvalutato frenava le esportazioni. Era una teoria che riprendeva l’antica consuetudine italiana di svalutare la moneta (e di non pagare le tasse e di incrementare il lavoro nero) per essere competitivi. Con l’euro non si può fare, e del resto nell’euro-zona vi sono paesi che riescono ad avere uno sviluppo delle esportazioni mentre l’Italia nel caso migliore è ferma. Qui la questione non è solo di analisi economica. L’Italia è un paese che da decenni per astrazioni culturali, depressioni sociali, culture inadatte, poteri malavitosi, consensi drogati, politiche demagogiche (perché non facciamo una storia dei bilanci dello stato da cui avremmo la biografia della inettitudine del ceto politico rispetto a un’idea generale di bene collettivo?) elefantiasi amministrative, localismi infetti, ha provocato una serie di strutturali diseconomie che non si possono guarire né in 100 giorni e nemmeno in cinque anni. Sono la nostra storia nella quale è compresa la politica sindacale che ha ripetuto verità morali condivisibili, ma che nella pratica hanno generato effetti perversi nelle iniziative di corporazioni già sufficientemente protette, iniziative che hanno il loro peso nell’efficienza socio-economica del paese. Un’ultima osservazione riservata a un commentatore de “La Stampa” di Torino che scrive: “Solo chi non ha la minima idea dei problemi di un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere possa dipendere da un aumento dello 0,2 o anche dello 0,5 della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa”. Il problema va visto in relazione ai “prelievi” in altri paesi della zona euro, e, soprattutto, all’uso sociale di questi denari che potrebbe essere importante anche per lo sviluppo delle imprese. Non dimenticherei nemmeno il basso livello culturale del ceto imprenditoriale (solo il 10% laureati). Il che ha la sua importanza nella considerazione di un’area più ampia o diversa di opportunità rispetto a quella stabilizzata da tempo. È ovvio, fin troppo, che garantire un più elevato profitto per esempio con la diminuzione delle tasse, dà un impulso produttivo e anche psicologico all’impresa. Così com’è ovvio domandarci se quello che viene ritenuto un eccessivo prelievo fiscale non sia un elemento, considerata la tradizione politica e la sua logica del consumo, che vada a incrementare qualche diseconomia storica. Ma, tornando all’industria, perché non parlare mai, almeno in sede teorica, di progetti di Olivetti, e perché non ricordare, e qui il problema è più prossimo, Schumpeter e i suoi capitani d’industria ecc. ecc.? 

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FARE POESIA IN SERENI
di Fulvio Papi




Non ricordo esattamente l’anno, ma di certo la “Fondazione Corrente” non era da molto in attività. Il mio compito allora, come adesso, era quello di organizzare delle conversazioni che, in modo piuttosto vago, possiamo dire di estetica. Era in questa circostanza che costrinsi, con molto garbo e non minore affetto, Sereni a parlare del  “mestiere del poeta”. La conferenza ebbe poi una larga risonanza perché fu ripresa in sedi universitarie italiane e straniere. Avevo un grande interesse per quella conversazione perché la composizione della poesia di Vittorio aveva avuto certamente trasformazioni stilistiche che chiunque percepiva chiaramente, ma in ogni caso esse nascevano sul terreno stesso del “fare poesia” considerato come un settore di cultura che non ha dipendenze da altre zone del sapere, o, peggio, da campi ideologici.
Una concezione del genere del fare poesia, vissuto intensamente, ma privo della generalità di un tessuto astratto o teorico, rimetteva al centro l figura dell’autore, il suo modo di sentire le varie forme dell’esperienza, la possibilità di ripetizione di quel loro senso e la relazione con il linguaggio.
Era certamente questa situazione che spiegava la reticenza di Sereni; parlare di poesia voleva dire essere costretto a mettere in primo piano non un oggetto, come potrebbe fare un matematico a livello astratto o un fisico in modo referenziale, ma il modo in cui procedeva in silenzio il laboratorio segreto di se stesso.
Oggi per me non sarebbe difficile ripercorrere quella famosa conferenza. Tuttavia prenderò un’altra strada e altri “documenti” per mostrare quel “fare poesia” che non sia, e non era, una teoria della poesia. Non che Vittorio mancasse di verve teorica, anche se non amava farne uno stile di discorso dove poteva assumere l’aspetto di una possibile affermazione capace di mettere a distanza l’interlocutore. Tuttavia la volta che lo vidi impegnato in una conversazione teorica, non aveva nulla da invidiare ai professionisti della simbologia astratta. Quello era un patrimonio della propria storia intellettuale.
Alla fine degli anni Trenta, Vittorio, assistente volontario di estetica, parlava talvolta della sua poesia con il maestro Banfi. E Banfi gli suggeriva che il suo fare poetico fosse una “immediatezza oggettiva”. Non è facilissimo spiegare bene questo sintagma, ma, nell’essenziale, è così. l’immediatezza è il modo in cui si percepisce un campo di esperienza. L’aggettivo “oggettiva”, vuol dire che essa doveva mantenere un carattere di oggettività. In questa relazione poteva (e doveva) nascere quel linguaggio della poesia che non apparteneva ad alcun altro genere di comunicazione, senza essere un puro gioco del linguaggio.
Ci sono alcuni versi di un “Posto di vacanza” che, a rovescio, riproducono questa concezione del fare poetico, anche se in quest’opera la mediazione intellettuale mi pare più prossima a uno storicismo etico. In ogni caso nel suggerimento di Banfi mancava un elemento essenziale della poesia di Sereni, e cioè, il tempo. Senza il lavoro interiore della temporalità, la ricerca del linguaggio con il suo celebre “togliere”, è priva del suo luogo di nascita.
Ora cercherò di trovare questa relazione in due proposizioni che mi disse Sereni. La prima è di ritorno da un viaggio, e Vittorio mi disse: “L’Egitto mi lavora d’entro”. È il caso dell’esperienza immediata che però deve sedimentare la sua oggettività in una temporalità. Non si tratta di esprimere una conoscenza sensibile, come nell’idealismo, ma di un “ritornare” come linguaggio poetico. La seconda proposizione fu l’occasione che il “Corriere della Sera” gli offrì di seguire, a suo estro, il campionato mondiale di calcio. Vittorio mi disse che aveva rifiutato perché gli pareva di sprecare le parole. Ognuno di noi parla e scrive, ma per il poeta Sereni le parole sono il ritorno poetico dell’esperienza dal percorso interiore del tempo. Il trovare nel lavoro della memoria quelle parole era la stessa possibilità della poesia.
In questo breve percorso non abbiamo trovato una “poetica” ma, piuttosto, il lavoro costante, talora incerto come provano le numerose varianti, sempre personale e un poco segreto del fare poesia di Sereni. Quanto a me ripeterò un verso del Sereni giovane e lirico che mi è sempre parso, nella sua semplicità, aver a che fare con i labirinti del destino: “Il tuo sorriso limpido e funesto”.



                                                      

DALLA PARTE DI MARX
di Fulvio Papi

La centralità umanistica e il denaro

Al tempo della crisi finanziaria che, con la sua bancarotta salvata in Usa dall’intervento monetario dallo stato, mostrava un nuovo assetto del capitalismo mondiale, divenne un luogo comune parlare di un “ritorno a Marx”. Poi subito cancellato per il timore, soprattutto nel mondo anglosassone, ma anche europeo, che potesse risorgere politicamente una qualsiasi prospettiva dalla antica tradizione socialista, ritenuta una specie di colpa storica della modernità. Si trattava, più che altro, di trovare un nome e una dottrina classica per qualificare il proprio disagio e la propria protesta. Che cosa voleva dire questo generico e pubblicistico “ritorno a Marx”? Sostanzialmente era il ritorno di una centralità umanistica contro il dominio del denaro che riproduce se stesso e il proprio potere. Questo desiderio di un capovolgimento dell’esito attuale della storia contemporanea mostrava una sua ricchezza retorica: veniva rievocata la “dignità” dell’uomo con una parola che va dal Rinascimento a Kant senza rendersi conto che i significati di valore hanno un senso sociale determinato che è intuitivo solo a un gruppo intellettuale. Spesso questa dignità veniva identificata con i diritti della “persona” che storicamente è una parola decisiva della tradizione religiosa cristiana.
Da sinistra: Gaccione, Papi e Esposito a Stresa nel luglio 2011
Leggo in un’opera recentissima di un filosofo rosminiano: “L’unica insostituibile e ineliminabile realtà ontologica è la persona umana”. Si può dire anche che si veniva creando una atmosfera morale e intellettuale che riprendeva, senza alcuna analisi, ma in una nuova aura emotiva, la concezione marxiana della alienazione. Con una differenza fondamentale. L’alienazione nel giovane Marx è la relazione tra l’essenza dell’uomo, capace di costruire nel mondo un suo “mondo” e le condizioni di lavoro coatte nella condizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Parlare genericamente di “alienazione” indicava piuttosto la condizione attuale della vita umana, il suo modo d’essere in una civiltà caratterizzata dal dominio del denaro, con tutte le conseguenze naturali, sociali e antropologiche che ci sono ben note: la distruzione dell’ambiente naturale, le differenze di vita più che ingiuste vergognose, l’affermazione di un individualismo meschino, egoista e pericoloso.
Un filosofo contemporaneo di derivazione lacaniana, con la suggestività dei giochi linguistici possibili a livello filosofico, parla del potere di un fantasma, cioè il potere del capitale finanziario informatizzato, sull’insieme delle possibilità naturali umane. La potenza reale del virtuale, sulla realtà possibile di una vita collettiva con i suoi criteri di autonomia e di giustizia. Al contrario, l’intelligenza di destra degli Usa soleva dire che, in ultima analisi, questa atmosfera intellettuale derivava a noi europei da Kant. Cioè dal credere a una universalità ideale come vincolo dell’uomo alla sua propria capacità di autodeterminazione. Del tutto opposta la loro visione, derivata, retrocedendo storicamente, da Hobbes, con la competitività naturale propria dell’uomo nei confronti di un altro uomo, competitività che nello sviluppo del pensiero americano si identificava con la libertà e con il diritto di ognuno di realizzare la propria felicità. Sono queste le figure sociali mitologiche dell’individualismo occidentale, -che non è quello di Stuart Mill- le quali hanno sempre partita vinta quando si ritenga che alla proposizione filosofica, secondo cui la vita umana è strumento a se stessa, possa corrispondere l’idea di una realizzazione, di uno stato di cose materiale. Invece questo è solo il caso del pensiero che si libera dal peso della materialità della vita. È il pensiero che ripete, nel mondo, come diceva Adorno, l’argomento di sant’Anselmo e di Cartesio sull’esistenza di Dio. La possibilità ideale indica una esistenza reale. Purtroppo la relazione tra pensiero e realtà non è così, e richiede lo studio di relazioni particolari e non totalizzanti.
Il fatto è che l’uomo è un corpo che ha necessità e limiti, e la “vita” non è fatta da singole individualità, ma sempre da un insieme sociale. Sono prospettive decisive per Marx, il quale, proprio ne “Il Capitale”, notava che la ricchezza prodotta dal lavoro di ognuno non poteva ritornare intatta a ciascuno per il suo consumo, poiché vi debbano essere risorse sia per la riproduzione economica, sia per l’incremento di una condizione di civiltà. Del resto Freud negli anni Trenta avrebbe detto che non può esistere alcuna società senza un livello di repressione del desiderio. C’è una certa analogia tra i due discorsi.

Marx e l’umanesimo

Ora cercherò di individuare il tema dell’umanesimo in Marx vedendone la natura teorica che è sempre pensata nel luogo ideale della “storia”. Una storia che, anche quando è pensata nelle sue condizioni materiali relative alla riproduzione sociale, mantiene tuttavia la concezione di una temporalità che ha un suo fine immanente. Una società umanistica appartiene in potenza alla essenza stessa dell’uomo. Il problema è il superamento dell’ostacolo, dell’inerzia storica. Tutto ciò è fondamentalmente filosofico. Credo tuttavia che anche Marx, negli ultimi anni della sua vita, avesse più di un dubbio intorno alla possibilità di un processo obiettivo del genere, che apparteneva, nella sua radice, all’umanesimo filosofico tedesco. Marx vecchio diceva che in futuro vi sarebbero stati molti cambiamenti, e penso che questi cambiamenti avrebbero mostrato la complessità produttiva, sociale e culturale del mondo capitalista, anche al di là delle categorie intellettuali che, nel suo stesso lavoro, gli avevano consentito di tracciare la figura teorica del “modo di produzione capitalistico”. Che ha il valore di una scansione epocale. Del resto già Marx negli appunti preparatori per “Il Capitale” vedeva molto bene lo svilupparsi del capitale che avrebbe avuto conseguenze sociali molto complesse a cominciare dagli effetti della riduzione della scienza, da verità di tipo aristotelico, a forza produttiva di natura tecnologica, fondamentale nello sviluppo capitalistico. Il che, in prospettiva, come mutazione del rapporto tra capitale fisso e capitale variabile, metteva in crisi non solo la forma filosofica dell’originaria concezione della alienazione, ma la stessa concezione centrale della teoria del valore.
Non sono in grado di dire quanto questi aspetti teorici -al di là delle cattive condizioni di salute di Marx- abbiano avuto un rilievo nella mancata pubblicazione del 2° e del 3° libro del “Capitale”, dove lo sforzo di produrre un oggetto teorico classico dell’economia politica, era l’obiettivo scientifico di Marx. Posso invece con certezza ricordare quanto Marx fosse lieto della traduzione francese del I libro del “Capitale”, inteso fondamentalmente come patrimonio di identità sociale e politica della classe operaia, in particolare per quanto riguarda la teoria del valore, dove la condizione lavorativa degli operai risalta bene nella relazione tra tempo sociale del lavoro e salario. Tema che era stato centrale per Marx sino dal 1847.
Papi con la De Monticelli alla Sormani nel 2013
in occasione del decennale di Odissea
Nella storia del capitalismo, Marx aveva un’ampia esperienza della rendita fondiaria, della proprietà manifatturiera nella quale si trasformava il tradizionale mercantilismo, ma conosceva molto bene la formazione dell’industria moderna nella quale con la gestione manageriale del capitale produttivo, trasformava la forma più antica (e personale) della proprietà privata. Marx vedeva molto bene negli anni Sessanta la possibilità di emissione di titoli non corrispondenti ad alcuna ricchezza reale, nell’ormai famoso capitolo 23 del terzo libro del “Capitale”. Ma sempre nel terzo libro la situazione di ogni forma di ricchezza sociale alla dimensione del rapporto tra valore e plusvalore mostrava gravi difficoltà. Emergeva realisticamente tutto il tessuto attraverso il quale avviene lo scambio e quindi la complessa e dinamica dimensione del mercato. Il profitto stesso diventava una variabile capace di identificarsi con il plus-valore quando il mercato avrebbe messo in crisi una determinata produzione. I prezzi di produzione determinati (non a livello di una totalizzazione mondiale) non si potevano calcolare solo attraverso la concezione del valore in relazione al tempo complessivo della produzione. Questo insieme di variabili avevano come effetto filosofico (la referenza che agisce sul modello) quello di togliere dalla scena la figura del “soggetto storico” ma non certamente la realtà sociale della working class. Andava perduta la dialettica, non l’azione positiva delle Trade Unions per migliorare le condizioni dei lavoratori, anche Marx, nonostante l’amicizia di qualche dirigente, mostrava più di una perplessità in questa azione sindacale, e anche temeva un imborghesimento della classe operaia inglese.
Al di là della tragedia della Comune (che non posso qui prendere in esame), negli anni successivi, specie in Germania, dopo la fine delle leggi di Bismark, prendeva spazio la dimensione politica della rappresentanza dei lavoratori nel sistema parlamentare che aveva lo stesso scopo emancipativo della classe operaia. Questa, com’è noto, è stata la strada degli anni estremi di Engels il quale, storicamente, vedeva con chiarezza come la loro (sua e di Marx) visione politica-dialettica fosse il rinnovarsi del sogno della rivoluzione francese.
Ora, facendo scorrere il nastro del tempo, possiamo dire che quelle prospettive furono spazzate via dalla guerra del 1914, successivamente da una rivoluzione che, al di là del disegno filosofico-politico, cambiò in pochi anni completamente le sue finalità originarie che qui non posso esaminare; poi vennero gli stati totalitari, e, infine quello sviluppo capitalistico, sempre più potente che noi conosciamo bene e che ha gravemente indebolito la sfera politica.
Dunque, per noi occorre tornare al tema dell’umanesimo di Marx non solo privi di alcun lieto fine, ma in una piena crisi culturale dell’umanesimo della tradizione, il che non vuol dire essere senza senso. Probabilmente va cercato un senso comune che vada al di là di quella che è stata la totale discesa culturale nel futile e nell’effimero, e anche al di là di quella misura di saggezza filosofica, non trascurabile affatto, ma che diviene uno specchio pedagogico che tiene presso di sé l’ombra della verità, sempre incerta, dell’individuo. Un umanesimo come emancipazione del filosofo.

Da sinistra: Esposito, Papi e Gaccione
Toccherò ora alcuni temi essenziali dell’umanesimo marxiano. Nel tardo 1843 nel saggio “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, Marx scrive: “La filosofia è la testa dell’emancipazione dell’uomo, il proletariato è il cuore. La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, e il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia”.
Proposizione idealistica di un giovane filosofo neohegeliano che in Germania (a parte qualche industria tessile nella Slesia) non poteva aver mai visto un proletariato, che era un concetto filosofico importato che veniva dalla prima lettura dei socialisti francesi. Siamo in un umanesimo filosofico che immagina una sua realizzazione storica. La proposizione più nota è questa: “il proletariato è l’erede della filosofia classica tedesca”. Questa posizione è precisata meglio dalla concezione marxiana dell’uomo come essere naturale, tra esseri naturali, il cui “genere” meglio “l’essenza del genere”, ha una sola qualità differenziale, il lavoro, che trasforma il mondo e, in questa prassi, trasforma se stesso. L’uomo è un essere naturale che diviene. È un’antropologia che per essenza diventa storia, dato che l’uomo naturale non può che riprodursi attraverso modi storici di produzione; nei “Grundrisse” vengono indicati: l’asiatico, il greco-romano, quello feudale dove il lavoro umano nella sua esecuzione è sempre condizionato alla relazione con la terra. Contrariamente alla relazione artificiale con le macchine nel capitalismo.
Alla sua figura storica appartiene sempre un potere politico, da cui socialmente dipende e del quale deve temere la punizione corporea. È di certo ancora un’eco della dialettica servo-signore della “Fenomenologia” di Hegel.
La svolta della modernità è data dal fatto, del tutto nuovo nella civiltà, dell’autonomia della sfera economica dal classico potere politico, una vicenda iniziata con la rivoluzione parlamentare inglese.
La storia dello sviluppo e dell’ampliamento sociale della sfera economica è anche la storia sociale moderna dell’uomo, la sua trasformazione e, contemporaneamente la nascita di un sapere economico -l’economia politica- che ne costruisce il modello teorico. Marx, erede dell’umanesimo filosofico tedesco, ritiene che per trovare l’uomo con la finalità che appartiene all’essenza del suo genere, occorre dare luogo alla critica dell’economia politica che riduce un rapporto storico-sociale che fonda la produzione materiale della vita, a una falsa condizione di natura. L’economia politica nella sua forma teorica naturalizza la storia. L’effetto diretto di questa critica è -in Marx- la nascita di una figura epocale dell’antropologia. L’uomo di un “tempo”, non un generico uomo di natura economica, come di natura morale o teorica.
Ora devo essere schematico. Ricardo, l’economista classico intorno alla cui opera, soprattutto sul tema del plus-valore, Marx si impegnerà più a fondo, vede la formazione delle classi sociali nel processo di distribuzione della ricchezza che nasce dal lavoro: la rendita fondiaria, il profitto, il salario. Marx rovescia il rapporto e mette la forza-lavoro (come trasformazione produttiva di ogni generica antropologia) e il suo tempo di lavoro, come relazione sociale, come fondamentale nella produzione della ricchezza secondo le classi sociali. Questo è il quadro ben noto che emerge nel I libro del “Capitale”: vi è un tempo socialmente necessario per produrre una merce che entra nel mercato (altrimenti non è una merce) come valore, di cui solo una parte viene pagata come salario per la riproduzione della forza lavoro. Questo tema è l’essenziale che passa in vari modi alla storia del movimento operaio.
Nessuno oggi potrebbe ragionare in questo modo, sia per le trasformazioni accadute al processo produttivo , anche senza necessariamente cadere nella formula un po’ambigua dell’ “economia della conoscenza”. Molto semplicemente ogni teoria, e quindi anche quella di Marx, ha un suo delimitato campo referenziale, per il quale è la situazione della classe operaia inglese dalla rivoluzione industriale agli anni ’60. Mi pare persino ovvio che la concezione del valore che, genealogicamente, nasceva dalla ibridazione di una categoria umanistica con una determinata situazione storica, dovesse scontare una crisi teorica già individuata filosoficamente nel primo Novecento. Anche se va detto che Engels nelle prefazioni alla sua pubblicazione dei due grandi inediti marxiani (il II e il III libro del Capitale) difese radicalmente contro ogni critica la teoria del valore, anzi estendendola (a mio modo di vedere impropriamente) allo scambio mercantilistico.
L’elaborazione teorica di questa crisi è un fatto culturalmente rilevante, ed è un pensiero comune che Sraffa con la sua concezione della produzione di merci attraverso merci, risolve le aporie marxiane della teoria del valore. Qui lasciamo in ombra le conseguenze a livello teorico che si possono trarre dai valorosi allievi della scuola di Napoleoni. Qui possiamo dire che la fondazione umanistica del mondo di Marx è certamente perduta. C’è tuttavia una risposta elementare che però non bisogna ridurre a un colpo di ingegno metafisico, come talora accade, poiché in questo caso tutto si riduce ad un gioco linguistico. Ed è la valorizzazione del concetto di “lavoro vivo” che, secondo una interpretazione corretta (anche Engels una volta corresse in “lavoro attuale”) vuol dire che ogni lavoro produttivo costituisce una selezione delle possibilità che appartengono alle forme di vita dell’uomo, e quindi una “competenza” che entra in un sistema obiettivo di relazioni economiche, sociali e culturali in trasformazione. Quindi dalle grandi agricolture all’attuale produzione informatizzata. In ogni caso vi è una selezione produttiva delle potenzialità del corpo umano che deriva dal ruolo produttivo, e che socialmente assume la forma del salario. Il quale deve essere però ripensato in relazione all’insieme di situazioni contingenti che costituiscono la forza lavoro concreta. Non si può mai pensare il salario nella forma universale come è accaduto con il concetto di moltitudini omogenee di un proletariato mondiale, comunque lo si voglia immaginare. Che cosa ne risulta? Ne risulta che una storia mondiale esiste (come del resto l’immaginava anche Marx giovane con il concetto di “mercato mondiale”), ed è il dominio del capitale, delle sue dinamiche, delle sue trasformazioni, del suo potere mondiale. Ma non esiste invece alcun soggetto universale. Invece esistono molte storie, e molte figure di soggettività culturali e sociali, in ciascuna delle quali si riflette il capitale, ma in modo diverso secondo le culture, le religioni, i poteri politici. E quindi le possibilità di contrasto.
E allora dell’umanesimo di Marx -così europeo, così continentale- che cosa resta?
Resta l’idea, l’identità, che la figura dell’uomo nella nostra cultura occidentale, può dare di se stesso. Ma non è un’idea che appartenga al lessico teatrale filosofico, importante e combattivo nel suo spazio, ma poco rilevante nella effettualità della vita sociale, dominata per lo più da altri condizionamenti che appaiono anche nella forma del linguaggio, il quale codifica una prevalente situazione sociale. Un umanesimo deve tentare di “trascendere” (la parola è anche di un economista come Ruffolo) quella condizione spontanea. E, in modo pratico e sociale, cerca di elaborare una propria identità come essere materiale (il sistema dei bisogni fondamentali e collettivi) e culturale (la dimensione del proprio senso). È sul consumo, sulla sua selezione e qualità che l’antico umanesimo dei filosofi, ha la sua realtà materiale. Non è una questione facile per nulla, perché occorre alterare, anche di poco, la nostra figura di consumatori di un mondo che viene consumato e distrutto in una riproduzione sociale che è dominata dalla dimensione del profitto economico, il cui pendant è la dimensione del privato come pratica di vita e di diritto sociale.

Esistono tuttavia le condizioni intellettuali, e anche emotive, per una nostra identità nel mondo. Esiste già una cultura che chiamerei enciclopedia critica degli effetti del capitalismo contemporaneo: dalle abissali diseguaglianze, alle rapine delle ricchezze mondiali, all’emarginazione di milioni di uomini, agli effetti perversi del capitale finanziario su quasi ogni area sociale, alle catastrofi ecologiche in progressivo aumento, ai problemi dell’energia, del consumo, della comunicazione, della programmazione educativa. Sono tutte risorse di un’intelligenza umanistica che, nel loro manifestarsi, avrebbero la possibilità di divenire socialmente, quello che Gramsci chiamava una “egemonia”. E se non una egemonia, granellini di sabbia nella “macchina”. Anche perché se invece accade passivamente il contrario, allora temo che sarà probabile, quasi inevitabile, affrontare catastrofi progressive in un mondo “nostro” solo per modo di dire.





LA VERITÀ, LA FEDE E IL MICROSCOPIO
di Angelo Gaccione

 Un'affermazione straordinaria necessita
di una dimostrazione altrettanto straordinaria

                                                         Carl Sagan

C’è una verità incontrovertibile e che dovrebbe suonare ovvia: su ciò che non conosciamo, nulla è possibile dire. Se ritenete eccessivamente brutale ed asseverativa questa constatazione, possiamo affrontare la questione in altro modo, partendo cioè da un semplice interrogativo, ma vedrete che la sostanza non cambia: che cosa si può affermare con certezza intorno a qualcosa di cui nessuno ha conoscenza? Anche posta così, la domanda ha ancora una sola, ovvia, sensata risposta: nulla. Dunque, ciò che non conosciamo non può essere discusso, né essere sottoposto a qualsivoglia speculazione intellettuale. La logica e il buonsenso ci suggeriscono, quanto meno, un atteggiamento di prudenza per non incorrere in grossolani errori, in arbitrarie congetture, poiché il passo verso la deriva visionaria, l’eccitazione immaginativa può essere molto labile e nuocere al criterio di verità.
Se lo facessimo, ci avventureremmo su un terreno infido e, nella migliore delle ipotesi, azzardato: un azzardo del pensiero, un esercizio dell’immaginazione.
Ma qual è la cosa per eccellenza, l’entità di cui in assoluto non abbiamo conoscenza?
È quell’ente che per la filosofia era un semplice logos, una convenzione del discorso, definito sin dalle origini con il termine theós, (con tutte le sue ambiguità e menzogne) e che ben presto è stato rivestito di tutti gli attributi possibili fino ad arrivare alla caricatura di darne una rappresentazione iconografica: il triangolo, l’occhio, la nube irraggiata dal sole. Quello che per le grandi religioni monoteiste diventerà Dio, e che la visionarietà dei grandi pittori al servizio della Chiesa trionfante, trasformerà in un omaccione barbuto e muscoloso, dalle fattezze fisiche possenti.
Da un esercizio dell’immaginazione è sorto dunque quell’ente a cui la filosofia ha attribuito il nome di théos. Si dirà: l’uomo ha bisogno di immaginare, è una sua insopprimibile necessità oltre che un suo inalienabile diritto; è un’esigenza del suo spirito, del suo animo poetico.
Si dirà anche: ciò che ancora non conosciamo non è detto che col tempo non lo conosceremo, né se ne può negare l’esistenza solo perché ancora non lo conosciamo. Per un tempo lunghissimo nessuno aveva conoscenze delle Americhe, e tuttavia quei continenti esistevano, così come i microbi ed i batteri esistevano prima dell’invenzione del microscopio e degli altri strumenti di indagine. Di tante altre cose non abbiamo né esperienza né conoscenza, e tuttavia con molta probabilità esse esistono da qualche parte ed hanno una sostanza che le caratterizza, un corpo, un peso, una forma, un volume. Tutto molto sensato e tutto molto vero.


E per l’ipotesi Dio? Per ora resta un’ipotesi indimostrabile nata, come abbiamo cercato di argomentare, da un esercizio dell’immaginazione e dalla visionarietà poetica. Un’ipotesi che si può accogliere solo per fede, ed il pensiero, davanti alla fede, cede il passo e si arresta prima della sua soglia.


Angelo Gaccione
allo Spazio Tadino
12 Ottobre 2013  


                                       






UN PENSIERO NECESSARIO

Il movimento libertario può vantate alcune pubblicazioni di grande interesse culturale, soprattutto per la molteplicità dei temi messi a fuoco, per gli ambiti che va a toccare, per l’atteggiamento aperto con cui li affronta e per lo spazio che concede a collaboratori non necessariamente anarchici. Valga per tutte “A Rivista Anarchica”, giunta al suo 385° numero.
Lo stimolante e ricco annuario 2014 propostoci da Luciano Lanza, che ne è il curatore, e che porta il titolo: “L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario” (Mimesis Edizioni, pagg. 230 € 18,00. www.mimesisedizioni.it; email redazione@libertaria.it; tel. 02-24861657; 02-24416383) si colloca in questo solco. Fra le firme, alcuni nomi storici dell’anarchismo, sia italiani che stranieri, e poi una serie di studiosi che seppur non militanti attivi, sono comunque contigui alle idee libertarie, o ne hanno una forte simpatia. Possiamo qui ricordare, assieme a Luciano Lanza, personalità del calibro del grande linguista americano Noam Chomsky, di Marianne Enckell o del teorico della decrescita, il francese Serge Latouche, senza trascurare alcune figure come Amedeo Bertolo, Salvo Vaccaro, Eduardo Colombo che sono presenti da sempre sulla stampa libertaria. I saggi di questo numero sono parecchi e, trattandosi di un annuario, spaziano in diversi campi. Vediamoli in dettaglio: Chomsky si intrattiene sul “declino americano”: La paranoia del “declino americano” è il titolo della sua conversazione, sollecitato dalle domande di David Barsamian; Michael Albert (Occupy e la sua teoria) traccia una mappa orientativa del concetto di teoria; Stefano Boni (Trasormazioni dei dispositivi di potere in tempi di crisi) incentra la sua riflessione sui dispositivi molteplici del potere; David Graeber e Andrej Grubacic (L’anarchismo, o il movimento rivoluzionario del ventunesimo secolo) mostrano come sempre più le radici dei movimenti di trasformazione, si alimenteranno al pensiero anarchico; la tesi sostanziale di Francesco Codello (L’educazione libertaria alla prova dei fatti) affronta ciò che oramai dovrebbe essere evidente a tutti: la scuola autoritaria ha fallito su tutta la linea e dunque, la pedagogia libertaria è la sola che può dispiegare la forza d’urto metodologica e pratica, per mutare le cose; dell’analisi di quella che oggi chiamiamo società videocratica, si incarica Alberto Giovanni Biuso (La società videocratica), mentre Fabrizio Eva (La reciproca sfida dell’anarchismo e della geopolitica) invita a riconsiderare il suo quadro concettuale (dell'anarchismo) alla luce di ciò che è avvenuto, in termini di cambiamento geopolitico, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Latouche (Stato e rivoluzione della decrescita) sparge diversi semi stimolanti per la riflessione su un tema divenuto attuale e che sta prendendo piede negli ambienti più diversi. La decrescita si configura come una “rivoluzione” radicale, come una rottura con gli attuali sistemi economici esistenti, ma anche con quelli politici, dal momento che non si tratta di sostituire un potere ad un altro, ma di tenerlo a bada e superarlo. Pietro Adamo e Giulio Giorello, partendo da un assioma di Jefferson: “Preferirei vivere con i giornali senza un governo che sotto un governo senza giornali”, mostrano come la libertà di espressione sia il germe fecondo da cui nascono tutte le altre libertà. Di grande interesse poi il robusto saggio di Massimo Amato (Per un pensiero metafisico del politico), quello di Salvo Vaccaro (Genealogia del pensiero destituente) che prova a rileggere molti aspetti di un autore per nulla inattuale come Etienne de la Boétie, il sulfureo indagatore della servitù volontaria; quelli di Eduardo Colombo (Le due rappresentazioni dello Stato), di Saul Neuman e Verana De Monte, entrambi di taglio più filosofico; quello di Neuman postula una ontologia post-anarchica, quello della De Monte parte da Kant e traccia un parallelo fra il concetto di libertà del filosofo di Königsberg, con quello del pensiero dei teorici della tradizione anarchica classica, da Bakunin a Proudhon, da Malatesta a Godwin, da Stirner a Kropotkin.
Come vedete c’è materia per molte riflessioni affrontabili da varie angolazioni, e tutte decisamente stimolanti. Io vorrei brevemente soffermarmi su alcune buone idee di Luciano Lanza, riportate nel suo scritto che introduce il volume, dal titolo La sfida libertaria. Intanto la sua constatazione che “il pensiero anarchico si presenta come uno dei più originali e convincenti”, nel momento in cui tutte le ideologie che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli, Ottocento e Novecento, hanno fatto bancarotta: sono divenute apertamente omicide, hanno riprodotto (spesso in peggio) quanto volevano cambiare, sono avversate in mezzo mondo e il loro stesso nome è divenuto sinonimo di oppressione, dittature, gulag e campi di concentramento. Dunque, hanno perso ogni fascino, qualunque attrattiva popolare e di massa. Il pensiero libertario, al contrario, proprio perché non è un’ideologia, ma una pratica di vita e di liberazione, avrà sempre un cuore giovane ed appassionato, e si ribellerà in ogni tempo ai sistemi chiusi, rigidi, spietatamente definitori. Mette al centro la libertà e l’uomo con la sua intera consapevolezza: lo responsabilizza a partire da se stesso, dal suo agire quotidiano, dal mutamento personale che influisce sul mutamento della società nel suo complesso, sulla vita nella sua concretezza. Se è una pratica di vita, se mette al centro la vita e non i sistemi, esso non può tollerare nulla che mortifichi la vita, e sarà ostinato come quelle piante che bucano l’asfalto ed emergono prepotenti a riaffermarla. Ecco perché ogni volta che un movimento nuovo prende piedi e si affaccia sulla scena della società e della storia, della pratica libertaria assume i caratteri, anche se spesso non ne è culturalmente consapevole; ma è lì che si alimenta per mostrarsi diverso, per differenziarsi. È a quella fonte che attinge se vuole mostrarsi nuovo e diverso, se vuole restare aderente alla vita e alle sue ragioni. Che altro è il rifiuto di capi, capetti, leader, bandiere, strutture organizzative esterne che non nascano dall’interno del movimento stesso? Che cos’è quella voglia di gestire direttamente le proprie lotte? quel partire dal basso? quella coordinazione orizzontale che ritroviamo ogni volta nelle rivolte che si accendono in ogni angolo di mondo?  Se sempre più segmenti considerevoli della società, saranno capaci di affiancare a tutto questo, quello che Lanza chiama “nuova socialità, nuova convivialità” (ancora una volta due istanze inseparabili dalla nostra vita concreta), la vecchia solidarietà sociale ed umana che rende uomo un uomo, allora le ragioni del cambiamento saranno a portata di mano e coloro che le propugnano, saranno invincibili.   
Angelo Gaccione     






"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE".
di Giuseppe Cacciatore

Un intervento del filosofo Giuseppe Cacciatore
 sul volume di Federico La Sala


Contursi Terme (Salerno). Il “luogo d’inizio” di questo libro* di Federico La Sala (filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo milanese) è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi. Qui sono stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille, profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. E’ da questo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione.
Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno, di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica.
Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto” suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico” degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa di S. Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli: storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico - accompagnato, tra le altre citazioni a mò di esergo, da una lunga e profetica pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le “case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere: quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere, cioè della indicibilità e inesprimibilità.
Quello che, tuttavia, a me interessa molto del percorso interpretativo attivato da La Sala, è la funzione non solo simbolica e iconografica dell’immagine, ma anche e soprattutto filosofica, gnoseologica ed etica.
Resto convinto che si debba ancora oggi discutere filosoficamente il problema dell’immagine, nel senso di una sua inaggirabile valenza che è in prima istanza mentale e neuroscientifica, per diventare poi fatto antropologico ed etico-politico. Ed è proprio il lavoro svolto negli ultimi decenni dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze a confermare ciò che già Vico ad esempio aveva intuito, e cioè che l’immaginazione non è più relegabile nel mondo separato della res cogitans.
Spinoza, Vico Kant, ognuno per suo conto e anzi con diverse modalità di pensiero, hanno sostenuto che ogni atto di coscienza, e persino ogni percezione, si presenta come un’esperienza creativa - il poietico che si fa poetico - ed anche i meccanismi e gli atti della memoria non sono solo fenomeni scientificamente descrivibili e misurabili, ma anche ed essenzialmente prodotti immaginativi.

Ho citato Vico perché La Sala è autore di una serie di interessanti osservazioni sul pensiero e l’opera del filosofo napoletano. Ho già avuto modo di esprimere privatamente il mio interesse per talune sue analisi, anche se, come ho già avuto modo di dirgli in una mia lettera, io resto, per formazione e struttura mentale e disciplinare di storico della filosofia, legato all’organizzazione sistematica del discorso più che al pur rispettabile stile dell’aforisma e del frammento.
Ho anche io - in molte pagine dedicate a Vico - insistito sulla centralità che nella sua opera ha l’idea di una metafisica della mente umana commisurata alla debolezza delle passioni e alla finitudine del fare umano.
La Sala parla nelle sue incursioni nell’opera vichiana di “mente accogliente” (che è anche il titolo di un suo libro che, non a caso, si apre con la famosa immagine della dipintura che fa da premessa iconologica e sinottica al capolavoro di Vico).
La “dipintura” allegorica (progettata da Vico e realizzata dal pittore Domenico Antonio Vaccaro), è la straordinaria summa figurativa di una profonda intuizione filosofica.
All’immagine si accompagna un’introduzione in forma di spiegazione, dove si ragiona sul significato simbolico assegnato ai molteplici segni che, nel loro insieme, costituiscono la dipintura, e dove si staglia in una posizione di centralità la donna dalle tempie alate, la metafisica. Questa, anche per la posizione significativa di medium concettuale e iconologico, non si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”, ma osserva anche il mondo delle menti umane.
Ciò è importante perché conferma che Vico non nega in alcun modo il ruolo della Provvidenza nella vita degli uomini, ai quali tuttavia spetta un margine di autonomia, di facere individuale. Proprio per questo il globo posto ai piedi della donna è poggiato su un solo lato dell’altare, e simbolicamente rappresenta il fatto che avendo i filosofi “contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte”, trascurando quella “ch’era già propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli”.
La Sala ha ripreso e sviluppato, dal suo punto di vista questi temi in un commento alla recente edizione Bompiani del capolavoro vichiano che raccoglie insieme le tre edizioni della Scienza nuova (1725, 1730, 1744).
Ma torniamo ai contenuti del libro che a me pare convergano su una lettura classica della tradizione umanistica neoplatonica (a partire da Gemisto Pletone) incentrata in modo particolare sull’idea di Prisca Theologia e di profetismo preparatorio al Cristianesimo, visibile in quella tradizione ermetica così sapientemente studiata dalla Yates.
È in questo contesto che si inserisce la ricerca di La Sala sulle tracce di alcuni esempi di arte figurativa raffiguranti motivi profetici dell’avvento del Cristianesimo (com’è il caso dei mosaici nella cattedrale di Siena che ritraggono Ermete Trismegisto e le sibille). Ancora più significativo è il caso degli affreschi del Pinturicchio nell’appartamento Borgia, commissionati da Alessandro VI che fu convinto difensore di Pico della Mirandola e della sua astrologia filosofica. In essi ritroviamo le dodici sibille che profetizzano l’avvento di Cristo e i dodici profeti ebraici, ma poi ricompare anche il Trismegisto.
Fu, tra gli altri, Fritz Saxl, come ricorda la Sala, a considerare quegli affreschi come la manifestazione evidente di una tendenza che intendeva dimostrare che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane. E gli esempi di raffigurazione di profeti e sibille citati da La Sala continuano: la cappella della Madonna dell’acqua di Rimini; la cappella Sistina con la mirabile rappresentazione di uno schema narrativo che va da Dio alla Sacra Famiglia, con le sibille e i profeti.
Ma io vorrei tornare ai contenuti filosofici del libro di La Sala. Questi si mostra giustamente convinto - come lo sono alcuni dei filosofi che hanno segnato la riflessione sulla crisi della modernità - della necessità di un radicale mutamento di paradigma rispetto a ciò che la tradizione dei padri ci ha trasmesso.
Ma il passaggio non è facile, perché come acutamente osserva il nostro autore, una nuova teoria, come già sapeva Kant, nasce, come un nuovo sistema solare, solo dopo una lunga gestazione e da una primordiale nebulosa, quasi come il raggio divino della dipintura vichiana che rompe l’oscura notte di tenebre delle origini del mondo. Per questo, sostiene La Sala, occorre impegnarsi per una nuova cultura che sappia porsi “all’altezza del nostro presente storico”.
Fin qui il mio pieno accordo con La Sala, ma nel passare dall’enunciato alla sua chiarificazione e praticabilità, confesso di essermi disperso - probabilmente per limiti miei di comprensione - nei tanti, e sicuramente interessanti, rivoli della sua fantasmagorica argomentazione che trova il suo nocciolo - se ho ben capito - nel saper pensare insieme la molteplicità delle cose e il Principio. Così dopo un percorso apparentemente intricato si torna al vero padre fondatore della filosofia moderna e, per me, e lo dico provocatoriamente, anche di quella post-moderna: Emanuele Kant.
Dunque, la fine della storia - come dice La Sala - comincia proprio quando la ragione kantiana ha compiuto la grande svolta filosofica e antropologica: l’unione di terrestrità e cielo stellato, coscienza sensibile e coscienza intellegibile, entrambe racchiuse nell’unità del corpo-soggetto (vere duo in carne una).
Già a partire da Kant veniva messa in discussione l’idea di una ragione pura, metafisica e assoluta e venivano poste le premesse della ragione impura, storica, civile, cosmopolitica, capace ancora una volta di pensare corporeità e intellegibilità, differenza (anche sessuale) e identità.
Concludo con due citazioni. La prima è tratta dalla Sacra Famiglia di Marx e Engels (ed è uno degli eserghi scelti da La Sala). “Come poteva la soggettività assoluta, l’actus purus, la critica pura, non vedere nell’amore la sua bête noire, il Satana in carne e ossa, come poteva non vedere ciò nell’amore, che per primo insegna veramente all’uomo a credere nel mondo oggettivo fuori di lui, che non solo trasforma l’uomo in oggetto, ma perfino l’oggetto in uomo”. E mi verrebbe da dire: alla faccia del nuovo realismo!
La seconda citazione è di La Sala: “L’indicazione di Kant non è affatto trascurabile, né sottovalutabile: è carica di teoria come di futuro: E’ un’intenzione e un invito a ricominciare da capo, senza tornare al di qua o andare al di là dell’orizzonte critico, e senza abbandonare il corpo e la Terra (...) Dopo Schopenhauer, dopo Feuerbach, dopo Marx, come dopo Nietzsche e Freud, oggi, forse, siamo finalmente più preparati e pronti per rispondere. Riusciremo a portare a compimento la rivoluzione copernicana e ad abitare la terra serenamente?”.

Federico La Sala
DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE
Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo   Barberi (1481) e la domanda antropologica
Prefazione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00



           


LA CITTA' FRA REALTA' E UTOPIA

 di Franco Toscani

Com'è noto, il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer (1907-2012) voleva costruire edifici e città che, nelle loro forme, nelle loro curve libere e sensuali, assomigliassero quanto più possibile a quelle di un bel corpo di donna. Per lui l'architettura non ha un'ispirazione razionalista-funzionalista, ma è arte, costruzione nella bellezza, invenzione rivolta al superamento della città disumana e alienante, verso un mondo migliore, attenta alla disposizione spaziale, imprevedibile come la vita. L'architettura è sorretta da uno spirito teso alla sorpresa, allo stupore, all'inatteso ed è intimamente legata alla coscienza e ai progetti politici.
Come rappresentante e protagonista concreto, sul campo, dell'architettura contemporanea, Niemeyer ha cercato di dare espressione alle analoghe idee sull'architettura, alle utopie architettoniche espresse da Ernst Bloch in Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza, 1959).  
Qui Bloch rintraccia nell'architettura un fermento utopico, una peculiare ντελέχεια, un' "utopia dello spazio"; gli edifici tendono a rappresentare un mondo migliore, le case sono "costruzioni del desiderio" e del sogno; l'architettura è "il tentativo di produrre una patria umana - a partire dallo scopo di fornire un'abitazione sino a quello di far apparire un mondo più bello nella proporzione e nell'ornamento". 
Il filosofo tedesco insiste sul nesso molto stretto fra architettura, pensiero critico, società e storia nel modo seguente: "l'architettura molto più delle altre arti figurative è e resta una creazione sociale e non può fiorire nello spazio vuoto del tardo-capitalismo. Solo gli inizi di un'altra società rendono di nuovo possibile un'autentica architettura, un'architettura compenetrata dalla propria volontà  artistica costruttiva e ornamentale al contempo"  .
Nel criticare duramente l' "architettura funzionalistica", che "riflette e raddoppia (...) il mondo freddo come il ghiaccio degli automi della società delle merci, della sua estraneazione, dei suoi uomini vittime della divisione del lavoro, della sua tecnica astratta" (PS 857-858), Bloch domanda, facendo un bilancio dell'architettura del XX secolo: "come può nuovamente essere edificata nella chiarezza la pienezza umana? Come si lascia compenetrare dal vero albero della vita, dall'ornamento umano l'ordine di un cristallo architettonico?".
In Das Prinzip Hoffnung Bloch fa un elogio della pianificazione urbanistica, che non è da confondere con la tentazione autoritaria di chi concepisce l'organizzazione della città come il riflesso di un sistema precostituito di idee.
E conclude, accennando alla "difficile armonia" e al "mondo migliore" come compiti della grande architettura: " Il mondo migliore, cui il grande stile architettonico dà forma, riproducendone i tratti in forma anticipatrice, esiste (...) in modo del tutto non mitico, come compito reale vivis ex lapidibus, dalle pietre della vita" .
Riflettendo sulla città di Roma, ha rilevato a sua volta Franco Ferrarotti: "Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti. (...)
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell'ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica".
La direzione è qui chiaramente accennata verso un'idea di città aperta, solidale, conviviale, vivibile, dove la sovranità torni ad essere di tutti gli abitanti, sottraendola al dominio del profitto, del capitale  e della mercificazione totale.
Si tratta della città come bene comune. Essa può essere concepita come un insediamento abitativo che raccoglie la sfida per realizzare una migliore qualità della vita, per la convivenza tra i diversi, per una comunità di liberi ed eguali, nel rispetto per i luoghi e i territori, nell'attenzione alla bellezza dell'opera umana.
È questa l'idea della cosmopoli, della città e della civiltà dell'uomo planetario.
Hanno o ritroveranno le nostre città e metropoli ancora un' anima? La vera crisi della città è da mettere in relazione all'incapacità di abitare dell'uomo odierno, ossia alla sua incapacità di essere all'altezza della propria essenza e dignità di mortale.
Noi potremo davvero affrontare questa crisi solo se sapremo tornare ad abitare, se cercheremo di imparare nuovamente ad abitare il pianeta che ci ospita.







LETTERATURA E NAZIONALISMI
di Fulvio Papi*
Joseph Roth
Se c’è ancora qualcuno che ama leggere la letteratura mitteleuropea del primo Novecento, scopre facilmente che in alcuni autori vi è la convinzione sulla superiorità etica del sovranazionale impero austriaco rispetto alle affermazioni delle singole nazionalità. L’impero, con l’efficienza della sua celebre burocrazia, consentiva una vita pacifica e tollerante alle diverse popolazioni che vi facevano parte rispetto alla reciproca aggressività delle diverse nazionalità divise e competitive. Al di là della nostalgia di un autore importante come Zweig (e dei suoi ripetitori italiani di una volta con il “complesso dell’imperatore”), credo di non essere lontano dalla verità se considero questo mito come un’elaborazione di una parziale verità storica. Per esempio non dimentico l’ “azione parallela” de L’uomo senza qualità di Musil dove l’inconcludente e formale iniziativa celebrativa non riuscendo a diventare un progetto, declinava nella ripetizione e nella estensione delle sue pratiche formali, quasi simbolo della vita viennese che ascoltava se stessa, le proprie passioni, i propri teatri interiori ed esteriori, le proprie procedure come un corpo chiuso in una conchiglia. Ma, al tempo, le povere comunità degli ebrei polacchi erano libere nelle loro tradizioni religiose, costumi di vita, rapporti sociali. Un mondo che qualche decennio dopo nel dominio di un grande Reich, fondato sull’unità di sangue, di lingua, di popolo, sterminò con una ferocia ideologica che un grande scrittore come Joseph Roth, prima di morire (nel 1939) riuscì perfettamente a comprendere e a odiare. Credo di sapere anche che culturalmente il nazionalismo nei Balcani, spesso così atroce e pericoloso, derivò dagli scrittori nazionalistici tedeschi dell’Ottocento. E sono anche sicuro che è un grandissimo errore scambiare l’affettivo e comunitario luogo della propria vita, la Heimat, con il superbo e aggressivo Vaterland.
Questa pericolosa confusione non è solo nella propaganda che per anni ha impestato l’Europa ma talora anche in persone di ottimo intelletto quando, per tara di pregiudizi, non riescono a distinguere. Oggi il diritto di cittadinanza a chi nasce nel nostro paese è il superamento di una patria chiusa e aggressiva. La storia si rinnova, e bisogna distinguere il positivo dal negativo, anche se nella realtà non sono come A e non-A nella logica formale.
L’impero non era in grado di integrare quelle minoranze rigorose che desideravano una loro identità simbolica (nazionale e anche repubblicana), e quivi il conflitto diventava molto grave.
Ricordiamo tutti i grandi (Stuparich, Slataper, ecc.), e anche nella mia famiglia triestina due miei zii (oggi dimenticati da tutti) fuggirono dalla città per unirsi all’esercito italiano, e poi morirono nella terribile guerra sul Carso. Ma a me che vivo qui non dispiace ricordare che, quanto agli imbrogli, la legislazione dell’impero era molto severa, e ogni lettore di Svevo ricorderà che il cognato del suo protagonista Zeno, si uccide per evitare l’immagine del carcere che poteva attendere i falsificatori di bilanci.
Jean Jaurès
Tutte queste chiacchiere sull’impero per concludere dicendo che i nazionalismi di stato furono la catastrofe dell’Europa. Un suicidio che nella prima guerra mondiale non fu minimamente compreso dagli accademici tedeschi, fedeli al potere guglielmino e persuasi dell’opposizione tra “Kultur” e “civiltà”, che invece gli intellettuali francesi ritenevano di incarnare e di difendere contro i nuovi barbari. E chi ricorda più l’assassinio di Jaurès, grande leader socialista francese che aveva tentato (e tentava sino all’ultimo) di impedire la catastrofe?
Tredici milioni di morti nella prima guerra mondiale, e cinquanta milioni nella seconda furono il prezzo tragico che fu necessario (ma perché necessario?) pagare perché l’Europa dopo il 1945 cercasse di inventare un’ altra strada (che socialisti come Spinelli e Colorni avevano indicato). In fondo fu trovata nel modo più semplice: il terreno fu quello economico. Dopo il piano Marshal e la ricostruzione, la strada, a parte le indubbie capacità politiche dei capi di stato, non fu complicata, e in certo senso mostrò una sua linearità storica: i trattati sul carbone e l’acciaio, il mercato comune, la moneta unica, e un tentativo di architettura politica del continente, tuttavia insufficienti per dirigere una economia integrata non solo nella dimensione del mercato, ma relativo ad un identico apparato legislativo nei settori fondamentali. Era un’impresa difficilissima che non è stata realizzata con il risultato, del tutto prevedibile, che in una crisi sarebbe rinata una dimensione nazionalistica a livello economico. La diversa forza produttiva di ogni paese, e rapporti sociali, la conduzione politica (dove la democrazia spesso è diventata demagogia di ceti oligarchici), le diseconomie - che in Italia meritano un libro a parte - sono tutti fattori che non possono non provocare forme di nazionalismo economico, terapizzate solo in parte dalle reciproche dipendenze di mercato.
Altiero Spinelli
Dobbiamo fare gli stati uniti d’Europa, dicono i saggi. Non sarà facile, ma così restando le cose con una direzione economica liberista senza una buona programmazione, è quasi certo che ci possiamo anche avviare verso il secondo suicidio dell’Europa e della sua tradizione culturale e sociale.
Mentre la storia del mondo, che è l’espressione dei nuovi capitalismi -dall’Asia all’America del Sud- mostra che in Africa si è sviluppato un nuovo potente colonialismo che ha messo in crisi quel principio di “autodeterminazione dei popoli” che fu l’ideologia un po’ ingenua del nostro anti-colonialismo.
Così va il mondo” diceva Hegel, ma sarebbe bene saperlo con chiarezza.

* Filosofo, vice-presidente della Casa della Cultura di Milano
e presidente della Fondazione Corrente.





UOMINI BUONI

Alla memoria di Camillo Russo (1953-2010) e Sandro Vettori (1958-2012)

di Franco Toscani

 
Che cos'è la bontà? Esistono, possono esistere uomini buoni? Moltissimi, oggi, negano risolutamente sia che abbia qualsivoglia senso la parola bontà sia che possano esistere uomini buoni. La bontà e gli uomini buoni vengono sovente irrisi.
E' a tutti evidente che gli uomini buoni, le azioni buone e giuste non solo oggi non abbondano, ma non sono mai abbondati in qualsiasi tempo.
Non è qui mia intenzione fare l'elogio del "buonismo" né cercare di dimostrare che sia facile diventare buoni. Al contrario, tutti sperimentiamo - non solo da oggi - quanti mali, orrori, violenze, ingiustizie, errori, crudeltà, stupidità e stolidità ci circondano in ogni angolo del pianeta Terra.
E nondimeno occorre ribadire con forza questa verità: per quanto pochi, esistono esseri umani buoni e virtuosi, che con la luce del loro cammino, con la testimonianza concreta della loro esistenza garantiscono speranza e conforto a tutti, soprattutto al nostro presente così corroso dall'aridità e al futuro così incerto e minacciato della nostra umanità. Posso dire di avere avuto la fortuna di conoscere alcuni di questi uomini buoni, alla cui memoria questo scritto è dedicato. Posso dire di aver potuto godere della frequentazione e dell'amicizia di alcuni uomini buoni e giusti. Posso dire, a confronto con loro, di essermi vergognato delle mie lacune e inadempienze come uomo. Posso però anche aggiungere che a contatto con loro mi sono sempre sentito stimolato a dare il meglio di me stesso. Queste persone sono infatti un esempio per tutti. Forse un po' della luce degli uomini buoni si riversa e riverbera su di noi, sino al punto, talvolta, di rimettere in discussione tutte quelle corazze e armature con cui ricopriamo i nostri volti. Perciò noi non finiremo mai di ringraziarli. Perché essi ci ricordano quel senso dell'umanità, della bontà e della giustizia che abbiamo perduto o rischiamo costantemente di perdere e resta nondimeno - ce ne rendiamo conto o no - vicino a noi, alla nostra portata.




 
                            Ultimi balli dell'estate (foto liviaci)
                                          Milano - corso Vittorio Emanuele

Le marionette dell'Occidente sono alte circa 80-100 cm e pesano quasi 8 kg. a figura intera, testa scolpita, mani in legno e braccia di stoffa imbottite di segatura, gambe di legno articolate alle ginocchia e ai piedi, solettati di piombo.
E' necessaria una lunga preparazione per l'animazione delle marionette, che avviene tramite fili collegati a croce di legno (bilancini).






UNA DIVERSA PROSPETTIVA

Non vorrei dire delle banalità, ma, poiché su questi argomenti si parla moltissimo e da diverse prospettive che hanno alle loro spalle paradigmi teorici - più o meno consci - che non credo di condividere, cercherò di riassumere per larghissimi tratti la questione. Il problema del nostro paese (capisco il limite, poiché il discorso dovrebbe essere rivolto ai paesi dell'Europa, uniti nella moneta ma soggetti a loro proprie relazioni finanziarie, produttive ecc.) è, come tutti sanno e ripetono, quello di una ripresa considerevole del lavoro e un aumento della produttività. Solo attraverso un impiego più ampio della forza lavoro è possibile dare luogo a un circuito economico ascendente. Non credo sia una grande novità, poiché sappiamo dalla economia classica che senza lavoro non esiste alcun valore. Il paradigma è generale, ma continua a valere in modo più stringente per quei paesi, come il nostro, la cui produzione nasce in buona parte da processi di trasformazione. Quindi “centralità del lavoro”. Ma questa affermazione è molto generica, poiché occorre che i prodotti abbiano una loro circolazione e che il loro consumo sia individuato razionalmente come finalità da considerare come mercato e come scopo sociale.
Adesso che, nella recessione in atto, sembra rinascere l’idea (già condivisa in altri tempi) dell'unità dei produttori, questa prospettiva diviene fondamentale. Però, a mio modo di vedere, se il problema di un allargamento della produzione deve accadere sulla vecchia “linea della automobile” senza una radicale trasformazione dell'oggetto che elimini le sue clamorose controfinalità, allora sarà un buco solenne. Lo stesso vale per il famoso “mattone”: anche qui, senza una visione almeno economica (non azzarderò urbanistica, sociale, estetica) delle costruzioni, andiamo incontro a colossali sbagli che già si vedono in territori occupati da manufatti scadenti e praticamente inusabili, frutto della proliferazione edilizia, senza piani regolatori, tipica degli anni Sessanta e Settanta. Sono del resto vent'anni che architetti e urbanisti sostengono la necessità di un adeguamento del costruito come risparmio del consumo del territorio. Qui non apro nemmeno il problema della salvaguardia del paesaggio come bene estetico collettivo.
Oggi un problema da affrontare subito è quello di “ecologizzare” la città in relazione alle nuove condizioni storiche in cui ci troviamo rispetto allo sviluppo, più che di città, di agglomerati urbani. Si tratta di interventi che consentano la produzione locale di energia per il consumo necessario (quindi non lo spreco) e delle attrezzature utili per evitare al massimo il consumo di energia nella dimensione domestica. Abbiamo ampia informazione tecnologica, architettonica e urbanistica che deriva da queste iniziative, nel Nord Europa ma anche dalla vicina Svizzera. Credo che la trasformazione delle città sia un obiettivo molto importante e l'apertura di uno spazio produttivo e occupazionale straordinario. Capisco benissimo che vi sono anche enormi problemi finanziari, ma una “programmazione” degli interventi, delle modalità, dei costi e dei tempi dovrebbe consentire di non considerare il problema come un ostacolo insormontabile. Capisco anche che il paradigma culturale che sostiene questa posizione è intellettuale, intenzionale e sociale, fuori quindi dai calcoli che garantiscono - quando lo garantiscono - un profitto a breve termine. Non vorrei che la parola “programmazione” generasse panico nei numerosi relitti del neoliberismo senza scopo, senso e tempo. La programmazione è un atteggiamento razionale che misura le concrete possibilità sociali in relazione a scopi collettivi, la cui esecuzione interessa l'iniziativa industriale privata. È il classico caso della collaborazione tra pubblico e privato, tra intelligenza e dimensione economica. Non credo che dovrebbe sembrare strano se solo una programmazione seria, in una efficiente e anti-burocratica alleanza tra produttori e potere politico (come garanzia della possibilità e dell'efficienza), possa aprire un nuovo mercato interno e quindi una trasformazione della vita sociale.
Al mercato interno appartiene il problema di un razionalizzazione (altro che architettura anti-metaforica!) del nostro territorio, ponendo fine per quanto possibile a frane, alluvioni, disastri sismici, guardando ai dati e ai modelli che ci informano delle attuali e future modificazioni climatiche. Connesso a questo è il problema dell'utilizzazione migliore dell'acqua attraverso interventi sulla rete idrica. Sono tutte cose del tutto fattibili nella collaborazione tra forze sociali, capitali finanziari, potere politico. Certo, se le persone che dovrebbero essere interessate a questi problemi sono grandi o piccoli delinquenti che rubano, sotto qualsiasi forma, le risorse economiche e corrompono il costume sociale, è impossibile prendere una strada del genere. Bisogna mettersi in mente che l’onestà e la cultura dei poteri pubblici e del mondo economico è di fatto una risorsa straordinaria. Poiché qui da noi esistono “diseconomie” fondamentali, tra le quali le più importanti sono certamente la presenza costante della malavita nel rapporto tra il potere politico e l'iniziativa economica, l’evasione fiscale di ceti certamente abbienti, le inutili e barocche complicazioni burocratiche, l’incompetenza quasi generale del ceto dirigente, la demagogia come forma di comunicazione pubblica che fa scomparire ogni ethos comunitario tra la popolazione. Desidererei che i competenti traducessero la fine di queste diseconomie in termini di ricchezza nazionale: credo che scopriremmo un altro paese. Vorrei anche che fosse finita l'epoca in cui volgari e violenti sistemi di potere divulgano il linguaggio e lo stile di una triviale teologia atea che ha rovinato moralità pubblica e privata.
A livello internazionale abbiamo subito in negativo il processo di globalizzazione economica e, ovviamente, la bancarotta finanziaria che è derivata (con il consenso politico) dalla politica delle grandi banche americane. La globalizzazione ultraliberista ha completamente mutato i criteri originari dei finanziamenti ai paesi in via di sviluppo e li ha considerati in un'ottica immediata di mercato, creando problemi produttivi e sociali tipici di una nuova forma di colonialismo. In questo clima internazionale abbiamo assistito a una quasi perfetta collaborazione in Cina tra economia capitalistica e potere autoritario, sì da attivare in quel paese un colonialismo (in senso proprio tradizionale) che ha inserito parte dell'Africa nel famoso circuito materie prime (petrolio) e esportazione di merci.
Nei paesi europei abbiamo assistito a privatizzazioni più ideologiche che calcolate economicamente (bisogna capire che l'economia pubblica fallisce non perché è pubblica, ma perché è gestita da interessi privati che si valgono dei poteri pubblici). Ne segue inoltre la demolizione delle forme assicurative dello Stato, la deterritorializzazione del capitale produttivo in luoghi dove è più bassa la voce del salario nel calcolo dei costi produttivi. Processo ovvio in una circolazione mondiale del capitale. Sappiamo tutti gli effetti che ne sono derivati: il tasso di profitto nel settore finanziario di natura autoreferenziale è gigantesco, l'industria media e piccola è quasi tagliata fuori dalla circolazione del credito, la disoccupazione che ne consegue è in aumento continuo. L’effetto è un peggioramento delle condizioni di vita che è sbagliato mostrare statisticamente in relazione ai “consumi”, ma che, complessivamente, occorre considerare in relazione all’insieme degli stili di esistenza che mostrano non “la bellezza del buon tempo antico”, ma il degrado rispetto ai livelli di civiltà raggiunti, anche se non sempre condivisibili. Sarebbe comunque bene ricordare come congiunturalmente fu raggiunto questo stato di cose. Come tutti sanno, siamo un paese che, dal tempo del “miracolo economico” sino a una trentina di anni fa, fu sempre aiutato economicamente dalle esportazioni, garantite da una continua svalutazione della moneta, e da un mercato interno favorito da una spesa pubblica solo apparentemente keynesiana, ma in realtà condizionata dagli equilibri politici, quindi priva di un efficace controllo sulla sua capacità di creare condizioni durature di efficienza economica. Era il tempo dello spreco favorito dal capitale che così rendeva più veloce il suo processo di rotazione, non contrastato da una fondamentale cultura sociale priva di derive demagogiche. Sarebbe una buona cosa raccontarci con schiettezza questa storia.
Per fortuna (o per merito) ancora oggi, in una situazione profondamente diversa da quella che ho ricordato, abbiamo ancora un aiuto economico rilevante dai settori produttivi che riescono a realizzare una favorevole esportazione e quindi una propria capitalizzazione, cosa che si è verificata impossibile con i beni e i servizi erogati al settore pubblico come cliente. E qui bisogna porsi culturalmente il problema del mercato internazionale e della possibilità di attuare una politica di scambi con la nostra produzione di valori d'uso (per riprendere la classica espressione) che sono appetibili in varie zone del mercato mondiale. Ma noi abbiamo una conoscenza pubblica, almeno approssimativa, degli spazi di mercato e delle possibilità di una offerta che solleciti poi la stessa domanda? Sappiamo tutti che l’asse della storia mondiale sta mutando, e allora? Penso in questa situazione all'importanza che può avere il credito che, com’è nella tradizione storica delle banche, può appoggiare le iniziative sul mercato interno e su quello internazionale.
Sono problemi difficili, di cui bisogna produrre una conoscenza analitica pubblica che mi pare difficile da realizzare nel quadro delle incompetenze politiche dominanti. Chiunque si sarà accorto che questa elementare rassegna cerca di mostrare quali siano i nodi da risolvere per riuscire a migliorare la condizione generale non in base a una visione, comprensibile ma troppo semplificata. della “crescita economica”. Il compito è quello di una trasformazione necessaria del paese nella sua struttura abitativa, idrogeologica, produttiva e culturale, dove l'efficienza è al servizio della giustizia e della libertà. Non sono obiettivi né facili né tali da poter essere perseguiti senza un ampio consenso: per questo, oltre alla collaborazione dei produttori, essi implicano anche il nostro modo di essere “soggettività”. Non desidererei che questi argomenti facessero solo parte della infinita serie di esercizi critici sulla contemporaneità. Si tratta di una progettazione che è contemporaneamente possibile, giusta e - possiamo anche aggiungere - obbligatoria, se vogliamo tramandare un livello “nostro” di civiltà. L'altrimenti è penoso a pensarci. Basta aggiungere che la visione produttiva del profitto privato a breve termine conduce all'arricchimento ulteriore di chi già dispone di mezzi imponenti e si avvale di un mercato qualitativo che, ovviamente, genera un mercato più largo ma incomparabilmente molto più povero, con un continuo peggioramento dei prodotti per mantenere bassi i costi di produzione e quindi prezzi accessibili a una domanda impoverita. Così che le distanze sociali - in ogni senso possibile -diventano abissali secondo un processo già in corso.
Credo di aver tentato un piccolissimo disegno economico che deriva da quella filosofia che chiamo “realismo storico”, erede di quel rapporto tra effettualità e virtù, consapevole che ogni esperienza o iniziativa vive in un contesto storico dove incontra la resistenza inerziale della “microfisica dei poteri”. Una storia (se è necessario dirlo) priva di qualsiasi “filosofia della storia” o, al contrario, di una esclusiva ottatività morale indirizzata a soggetti immaginari.
Anonimo Lombardo




Magia per la via
Estate a Milano - Via Dante
foto liviaci

Decennale di ODISSEA - Sala del Grechetto (Palazzo Sormani)

27 ottobre 2013

(foto Livia Corona)

Dalla Chiesa - Scaramuzza - Colombo

 Sala del Grechetto - Il mito di Orfeo (particolare)
                                  
Dalla Chiesa - Scaramuzza - Colombo - De Marticelli - Papi    

Gaccione introduce gli ospiti


Sala del Grechetto - particolare                                                           
                                  
Bianchi - Scaramuzza - Colombo

Sala del Grechetto - particolare


Casa Verdi - Milano
foto Livia Corona





Annuale riunione di perenni migranti prima
del lungo viaggio verso cieli più caldi
foto livia corona