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CIAK

CINEMA
di Gabriele Scaramuzza



In occasione della pubblicazione del suo ultimo libro.

Ci dev’essere un filo conduttore che guida i tuoi interessi, che attraversano autori e mondi culturali a prima vista davvero disparati: da classici della filosofia novecentesca quali Bergson, a temi rilevanti dell’estetica legati al brutto (l’orrore nelle arti); dalla cultura egizia al cinema fino al pensiero di Parinetto?

Mi pare che il filo rosso sia rinvenibile nel “pensare per immagini”, che, anche sulla scia del tuo insegnamento, mai ho ritenuto inferiore o in opposizione al pensare per concetti. É solo un pensare altro, che non rinuncia alla sostanza estetica delle realtà singole, considerate nelle loro irriducibili e imprescindibili diversità sensibili, da cui prende avvio. In Bergson c’è una specie di platonismo nel ricorso a immagini che introducono o completano riflessioni astratte; il cinema è per Deleuze una filosofia per immagini, e proprio a Bergson notoriamente si rifà in questo, come per Kracauer i film sono “geroglifici simbolici” che, piacciano o meno, illustrano il presente; in proposito, i geroglifici esprimono idee in immagini (Hornung ha scritto cose tra le migliori) e peraltro il cinema muto richiama l’antica lingua egizia. Parinetto, tra i miei ultimi interessi, risulta in parte eccentrico a tutto questo; è stata una scoperta quasi casuale che mi ha aperto nuovi orizzonti di studio: le sue ricerche sulla stregoneria e su Verdi sono per me ascrivibili all’ambito dell’estetica del brutto, in un’ottica adorniana, oserei dire.

La tua laurea ha avuto per oggetto Bergson e a lui hai dedicato il tuo primo libro, spostando il suo pensiero su temi di grande attualità (immagine, percezione, metafisica, cinema). Cosa ti lega ancora a lui, anzi ti è stato di stimolo durante il tuo intero percorso di studi? 

Ho scelto di partire da Bergson nella mia tesi di laurea perché mi affascinò un esame sostenuto con Franco Fergnani sulla questione del nulla e del giudizio di negazione affrontati nel capitolo quarto dell’Evoluzione creatrice. Tuttavia, ciò che mi colpì nella fase di studio preliminare fu meno la dimensione esistenzialista, e maggiormente la questione dell’immagine trattata in Materia e memoria, un testo ancora poco esplorato dalla critica nostrana. Di quest’opera trovo che sia molto attuale essenzialmente la concezione del virtuale: un reale inattuale, non un irreale fantasmatico. In una società della trasparenza, come ha scritto Byung Chul-Han, è fondamentale aver chiaro che cosa accumuni e distingua la realtà dalla virtualità. Chiunque si occupi di virtuale dovrebbe prima leggere Bergson. Ma credo che a lui mi leghi ancora il tema del rapporto tra memoria e immagine, un tema che ho rivisto nella civiltà egizia (i geroglifici come scrittura della memoria e testimonianza del potere) e in parte nel cinema di Fellini.

Al complesso e stimolante problema dei geroglifici hai dedicato L’enigma dei geroglifici e l’estetica. Da Oropallo a Bacone, da Vico a Hegel; e ora dedichi il tuo ultimo libro. Cosa ti ha indotto a occupartene? Da quale momento del tuo iter culturale sei stato stimolato a dedicarvi le tue ricerche?

Ho seguito per anni alla Statale corsi di medio egiziano per mera curiosità; quando poi ho vinto il dottorato, ho cercato di coniugare passione e ricerca, anche stimolato dai richiami che ai geroglifici incontravo nei testi moderni. Due libri in particolare mi hanno dato l’impulso a seguire questa direzione: Le sterminate antichità di Paolo Rossi e La ricerca della lingua perfetta di Umberto Eco. L’intenzione, nel libro che citi, era quella di verificare una intuizione, secondo cui le origini delle teorie settecentesche dell’analogon rationis, che poi fondano l’estetica, potessero farsi risalire a un percorso alternativo a quello leibniziano-wolffiano, e, appunto, si rivenissero nel mistero dei geroglifici che dal Rinascimento arriva a Hegel. Nell’ultimo libro, Geroglifici e cinema, ho tentato di vedere nella scrittura egizia una chiave di lettura di alcuni aspetti della contemporaneità: i film, come geroglifici, sono testimonianze oblique del presente, proprio come voleva Kracauer.

Uno dei tuoi autori è indubbiamente Vico: che cosa ancora lo rende attuale a tuo avviso?

Senz’altro due aspetti. Prima di tutto la “logica poetica”, che, mi piace ricordarlo, prende corpo nei geroglifici egizi, per Vico “universali fantastici”; oggi mi pare sia in atto un revival di tendenze scientiste, la stessa filosofia sembra cedere il passo al complesso delle cosiddette “scienze umane”, che impiegano metodi empirici modellati sui paradigmi epistemici delle scienze “esatte”. Una logica poetica sembra oggi un ossimoro ridicolo, quando non blasfemo, ma la sensibilità resta irriducibile alla misura. In secondo luogo, trovo attuale l’idea dei ricorsi storici, anche tragici. Il razzismo, per esempio, attesta una deriva umana che Vico chiamerebbe “barbarie della riflessione”; peraltro proprio certe “riflessioni” sembrano mascherare la barbarie.

La passione per il cinema che ti ha accompagnato tutta la vita. È un dato scontato da più di un secolo a questa parte. Ma nel tuo caso personale come caratterizzeresti la passione per il cinema, in che luce la collocheresti? Inoltre, tra i tuoi registi preferiti c’è indubbiamente Rainer Werner Fassbinder, come mai? E quali altri ti hanno attratto? E quanto ad attori? Cosa guida i tuoi gusti in questo ambito? Ne sono molto curioso.   
I film ricompongono nel loro insieme aspetti di me che sembrano inconciliabili, e danno forma a ciò che si fatica a raccontare di sé: apprezzo Fellini, qualcosa di Leone (o forse il Morricone delle colonne sonore) e di De Sica padre, tutto l’espressionismo tedesco, ma anche Totò e Monicelli, oltre che i gialli degli anni Trenta e Quaranta (le serie di Charlie Chan su tutti). A volte sono gli attori a emozionarmi (la Liz Taylor di Chi ha paura di Virginia Woolf ?, il Marlon Brando di Fronte del porto, la Monroe in genere, River Phoenix: in ciascuno vedo qualcosa di me), altre le colonne sonore: Luci della città senza La violetera che cosa sarebbe? Fassbinder è stata una scoperta liceale; non edulcorava, ai miei occhi di allora, la disperazione, aveva quasi una funzione catartica su di me. Berlin AlexanderPlatz mi sconvolse. Ne ho visto la vicinanza ai dannati della Terra, ma senza mascherare la brutalità dei poveri e le frustrazioni dei diversi, e senza nemmeno manifestarne una compassione direi paternalistica; però ha anche saputo illustrare una via per il riscatto dicendoci che il desiderio è inalienabile e va assecondato. Techiné mi pare che ne abbia in parte raccolto l’eredità, e per questo lo sento oggi forse più vicino alla mia sensibilità.

Lievemente eccentrica, una “deviazione”, diciamo, è la tua attenzione verso Luciano Parinetto. Hai scritto su di lui un libro importante (che ho segnalato su “Odissea”), ti sei occupato anche del suo amore per Verdi - un amore che condivido peraltro, e su cui ho molto volentieri collaborato con te.  

Troppo spesso, anche in ambiti non legati alla fenomenologia, mi è capitato di leggere sul valore del “corpo proprio” di cui scriveva Husserl, dando però per scontato che esista un corpo unico, generale, i cui tratti non sono affatto precisati, come fosse un paradigma astorico. Parinetto, in verità distanziandosi soprattutto dall’operaismo leninista, ha smascherato l’ideologia sottesa a una qualunque concezione astratta della corporeità, e che abbia pretese di universalità. Partendo da una sorta di “marxismo senza marxismi”, ha denunciato le omologazioni storiche di tutte le diversità. Nulla di più attuale, credo, e tutt’altro che acquisito. E di Verdi ha dato in quest’ottica una lettura che mi ha fatto piacere vedere da te apprezzata nei tuoi lavori.

Vuoi tracciare le tappe per te fondamentali del tuo impegno, della tua vita magari? A quali ricerche ti dedicherai ora? E, infine, come vedi il tuo futuro, il futuro del tuo lavoro di insegnante nel mondo accidentato che ci si profila davanti? 

È una domanda complessa che richiede una risposta difficile per me. Credo di aver raggiunto qualche obiettivo, nello studio soprattutto, e nella qualità di vita che un lavoro come l’insegnamento consente. Un traguardo come il dottorato, scontato per qualcuno, è stata una conquista non facile per me, cresciuto in una famiglia operaia non senza difficoltà economiche. E arrivare addirittura a insegnare, oltre che a pubblicare i miei studi, mi ha dato l’impressione, forse illusoria, di aver tentato un riscatto dei miei famigliari, che solo per la povertà e poi per la guerra non hanno studiato, non per altro. Peraltro l’insegnamento diventa sempre più fagocitante, la burocrazia dei progetti non è motivante, e le promozioni facili, per fare “bella figura”, ancora meno. Ma, da un lato, continua a premermi la volontà di aprire gli occhi sulle contraddizioni del mondo, di stimolare qualche interesse e di motivare al senso del dovere, del lavoro cesellato, dall’altro ho comunque intenzione di proseguire la ricerca: vorrei tornare alla cultura egizia, per indagare la relazione tra scrittura, memoria e potere.

Manuele Bellini   
Geroglifici e cinema.
Il film come “universale fantastico”,
Mimesis, 2019,
Pagg. 135, € 11.oo


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Elsa Schiapparelli, una donna fuori dal coro
di Mila Fiorentini
Una scena dello spettacolo

Elsa Schiapparelli, l’artista che faceva vestiti, come la definì con disprezzo Coco Chanel, facendole involontariamente un complimento, sarà protagonista dello spettacolo Schiapparelli life, in prima nazionale al Napoli Teatro Festival con due repliche. In scena il racconto autobiografico di una donna italiana dimenticata che ha cambiato il gusto nella moda femminile e con esso lo stile di vita, per certi aspetti la vita stessa delle donne. A riprova del fatto che nessuna attività umana è neutrale, la sua creatività, folgorante, innovativa, dotata per altro di un grande senso pratico e fiuto del mercato, è diventata un manifesto politico vivente, come l’ingresso prepotente del colore che è vita e libertà d’espressione. Concetti come molti altri oggi perfino banali ma incredibili per una donna nata nell’Ottocento.
Ne abbiamo ripercorso la storia con l’attrice che ne sarà interprete, Nunzia Antonino, che ci ha raccontato “il fascino di una storia di coraggio, forza, insieme grande praticità, una donna forte, irregolare, soprattutto per la società, ma non sregolata. E’ più facile stupire andando contro. Elsa Schiapparelli ha sempre lottato invece con una visione lucida della vita, determinata a costruire la propria strada, non tanto a distruggere l’esistente o a scandalizzare”. A volte lo scandalo c’è stato certamente, ma non perché nascesse da una volontà provocatoria, piuttosto dalla miopia altrui.

Come nasce intanto il titolo dello spettacolo? “Il richiamo dello spettacolo – con la regia di Carlo Bruni - è alla sua autobiografia, scritta in inglese, Shocking life, poi pubblicata in italiano da Donzelli - Shocking life Autobiografia, Traduzione di Lilia Grieco, meledonzelli 2016, pp. 282 – che a sua volta si richiama all’invenzione per la quale è più conosciuta, il rosa shocking, tonalità che poi ha spopolato e che ebbe un successo immediato, quanto un effetto dirompente in un’epoca in cui il rosa era il rosa pallido, cipria, contente una nota di blu Cina e ispirato alle tonalità orientali. La sua storia mi è stata regalata da due amici stilisti e collezionisti di costumi che in questa artista hanno trovato la loro musa ispiratrice Luciano Lapadula e Vito Antonio Lerario. L’autoritratto che emerge è quello di una donna molto particolare, per certi aspetti folle, pieno di molte sfaccettature che al centro, in un mondo storico arretrato, trovava la propria centratura nel lavoro, inteso non solo come attività remunerativa quanto espressione di sé.”

Chi è Elsa Schiapparelli?

“Una donna fuori dal coro, insofferente fin da bambina del suo mondo familiare borghese per quanto intellettuale e affascinante. Nella sua autobiografia racconta ad esempio che detestava il cibo della scuola, proteste che non ricevevano ascolto in casa; fu così che un giorno d’accordo con la cuoca della scuola, portò a casa della brodaglia servita per pranzo e la offrì a tavola. I genitori capirono e da quel giorno le mandarono sempre il pranzo.”

Nondimeno la famiglia intellettualmente era un crogiuolo di idee.

“Certamente e anche se i rapporti con i genitori non furono idilliaci rimase sempre legata soprattutto al padre. Nata a Roma il 10 settembre 1890 a Palazzo Corsini da una famiglia di intellettuali piemontesi trasferitisi nella Capitale, la piccola Elsa sognava di diventare attrice, ma i genitori ritennero più conveniente farle studiare filosofia e lettere. Suo zio Giovanni era stato un famosissimo astronomo, scopritore dei canali su Marte che portano il suo cognome; suo cugino, tra i fondatori del museo Egizio di Torino, frequentava la sponda sud del Mediterraneo; mentre suo padre Celestino era uno stimato intellettuale che insegnava lingua e letteratura araba, profondo conoscitore dell’oriente, che influenzerà indirettamente Elsa che conoscerà questo mondo dai colori e disegni delle stoffe riportate da viaggi. La mamma, invece, vantava ascendenze medicee. In Tunisia il padre, da adolescente,  l'aveva condotta in viaggio, dove un pretendente nell'occasione l'aveva corteggiata e da grande lei aveva scelto quella terra come rifugio: un intermezzo lento, lontano dalla frenesia di Parigi, Londra e New York.”
Quale fu la sua prima passione artistica?
“Prima e costante, la scrittura. Fin da ragazzina scriveva moltissimo ritirandosi nella sua piccola stanza, circondata da paraventi che poi divennero un leit motiv delle sue boutique dove, racconta, scriveva forsennatamente. Fu così che adolescente scrisse delle poesie che lette dal cugino furono portate all’editore milanese Riccardo Quintieri che le pubblicò. Poesie passionali che raccontano l’esplosione del desiderio di una passione che non trova parole, la cui fiamma non si spenga, in una giovane come ne Gli indifferenti e ne Il grido dell’amore, di cui cito alcuni passaggi nello spettacolo. Al padre sembrano troppo licenziose così compra tutte le copie del libro per ritirarle dal mercato e spedisce la figlia in un collegio in Svizzera per ‘rieducarla’ dove, ricorda la Schiapparelli, le facevano fare il bagno vestita finché lei comincia uno sciopero della fame che piega i genitori.”
Il matrimonio allora era per una figlia il solo modo di emanciparsi.
“In realtà parte per Londra per andare da un’amica di famiglia ad aiutarla nella gestione della figlia. Ad una conferenza incontra un conte squattrinato, filosofo, William de Wendt de Kerlor, che sposò nel 1914 in brevissimo tempo. I due si trasferirono a New York dove nacque Maria Luisa Yvonne Radha, detta Gogo, una piccola destinata purtroppo ad ammalarsi di poliomielite. In realtà il marito poco equilibrato la lascia incinta in un mare di guai. La sua grande capacità però di tessere relazioni e amicizie, non così facile allora per una donna sola, la salva. Sulla nave verso l’America, ad esempio, aveva conosciuto la moglie di Picabia, l’artista Dada, che la sosterrà molto.”
Quando arriva la vocazione per la moda?
“La sua vena artistica comincia fin da bambina e finisce per esprimersi nell’abito come un quadro da indossare, mentre la moda come mestiere non è una scelta ma la felice intuizione che in questo campo la sua creatività potrà sostenerla ed Elsa ha bisogno di un lavoro per mantenersi. Non rientra infatti in famiglia e anche in Italia ci sarà poco, dando vita ad un modello di donna decisamente insolito per il tempo. Entra alla fine degli Anni venti nella maison di moda di Paul Poiret, grande personaggio conosciuto per la sua audacia e quando apre il suo primo atelier nel 1935 è già conosciuta come Schiapparelli. La famosa boutique di Place Vendôme, chiusa dalla stessa Schiapparelli, è stata riaperta qualche anno fa da Diego Della Valle che ne ha acquistato il marchio, ed è stata un luogo simbolo di incontro di cultura e costume, anche in questo precorrendo i tempi.”
Cosa si sa della Schiapparelli madre?
“Che voleva diventarlo certamente, che si è dedicata e ha curato la figlia facendola studiare nelle migliori scuole anche se la lasciava spesso per lavorare ma anche perché riteneva che in Italia i figli restino troppo attaccati alla famiglia. Certo alla fine della sua vita, quasi a risarcimento del tempo non dedicato sufficientemente agli affetti, sogna di stringere le manine della sue due nipotine, Marisa nata nel 1947, diventata poi Marisa Berenson, attrice e modella e Berinthia, morta nell’aereo che si è gettato contro le Torri Gemelle. In effetti non si sa nulla dei suoi amori e se ne abbia avuti. Per lei la vita era il suo lavoro, che era la sua arte e le amicizie che ruotavano intono all’attività”.
Anche il tema dell’amicizia che tra gli intellettuali è sempre esistito non era così consueto per una donna, fuori delle frequentazioni familiari. Eppure non ha mai dato scandalo?
“Le sue amicizie erano strette, intime, non ambigue, quelle con Salvador Dalì e Jean Cocteau in particolare e in generale con i Surrealisti con i quali si diverte nello sperimentare com’è il caso dell’invenzione del cappello scarpa nato dalla provocazione del mettersi una scarpa in testa. Per Elsa però prevale il fiuto del gusto nuovo, il senso pratico di non liberare l’energia creativa in modo dirompente disperdendola ma accudendola, come fa una madre con il talento dei figli”.
Quali sono le sue innovazioni e soprattutto cosa raccontano metaforicamente?
“Il rosa shocking che è appunto una tinta forte, irruente e pure così tipicamente femminile ma rivisitata rispetto al senso romantico tradizionale di questo colore. Nello stesso modo il cuore associato all’idea romantica viene trafitto e poi sarà Moschino a riprendere questo gusto. Le zip anche sugli abiti da sera che Mussolini censurò perché le riteneva licenziose, “chiusure adulterio” le chiamava per la semplicità con le quali si potevano aprire. Nondimeno invitò Elsa Schiapparelli per conoscerla che senza batter ciglio né timore alcuno rifiutò. Durante la guerra, come una buona padrona di casa che sa cucinare bene anche con ingredienti modesti, riutilizzando gli avanzi, cercava di fare abiti che con particolari accorgimenti potevano essere corti e lunghi, da giorno e da sera, e non trovandosi più decorazioni, utilizzò le catene dei cani per guarnire i vestiti. Particolari che oggi sono del tutto consueti ma allora sconvolsero l’idea stessa del gusto e del mercato cominciando a mettere in luce come il successo era legato a fattori non sempre determinati da una qualità in senso stretto quanto dall’originalità. Fu questo probabilmente il contributo più importante alla storia del costume che proprio una donna poté dare”.
Qual è un altro tratto singolare per il tempo per una donna? “La passione e la naturalezza con le quali viaggia. Per la Schiapparelli il viaggio è una dimensione essenziale della vita, per rigenerarsi”.

Dopo la guerra come si è adattata ai tempi moderni?

“Capendo che la società era cambiata e il suo estro non era più indossabile dalle nuove clienti. Fu così che nel 1954 chiuse l’attività, vivendo comunque delle royalties, soprattutto sul famoso profumo “Shocking”, la cui bottiglia era a forma di busto, quello ispirato all’attrice Mae West (nata Mary Jane West) per un abito poi mai realizzato. Allora acquistò una casa ad Hammamet, dove trascorreva gran parte del suo tempo. Dopo invenzioni strepitose come la gonna pantalone per una tennista che fece scandalo e molte altre trovate che evidenziano come la moda racconti e segua una società sentì che non sarebbe più riuscita ad esprimersi in sintonia con i tempi”.

Anche in questo ha dimostrato la sua intelligenza di donna che riconosce il passare del tempo.


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Juliet Nacked, tutta un’altra musica
di Mila Fiorentini


Dal romanzo di Nick Hornby Tutta un’altra musica - il libro è uscito per le Edizioni Guanda nel 2009 - è stato tratto il film Juliet Nacked, dal 6 giugno al cinema per la regia di Jesse Peretz, regista cinematografico e televisivo, autore di video per The Breeders, Jack Black e Foo Fighters, ex bassista e fondatore dei Lemonheads,  stralunato, ironico, spassoso, il ritratto senza sconti di passioni che diventano ossessioni come quella del marito della protagonista per Tucker Crowe, interpretato da Ethan Hawke. Anche la musica può essere una dipendenza che annulla ogni altra cosa, come un matrimonio, sia per chi la esercita sia per chi la ascolta. È questo il lato più forte del film che per certi aspetti sembra un docufilm, per come è girato, per altri una commedia: le debolezze umane, le fissazioni anche quando sono ingenue, rischiano di azzerare tutto. Tutt’altro che banale nell’analisi psicologica, porta alla ribalta i grandi temi universali della maternità e paternità, tra desiderio a volte anch’esso compulsivo, paura per immaturità, egoismo o senso di inadeguatezza, così come la difficoltà e la fatica di coltivare un amore, indispensabile per altro nella vita di tutti come l’ossigeno. In fondo è l’intreccio tra la fragilità e la forza rispetto alle quali un sentimento profondo ci mette a contatto, una commedia rock sulle chance che la vita può continuare ad offrire perché è chiaro che se il cuore è vero che può spezzarsi, né d’amore né di dolore si muore.
Al di là di questo Juliet Nacked è un film musicale, sul potere della musica, anche autodistruttivo come dimostra la vita di molti musicisti.
Annie (Rose Byrne) trascina da tempo una relazione abitudinaria con Duncan (Chris O’Dowd), docente universitario ossessionato dalla musica indie e soprattutto da Tucker Crowe (Ethan Hawke), rocker di culto scomparso misteriosamente dalle scene venticinque anni prima. L’uscita del demo acustico di Juliet, Naked, ultimo leggendario album inciso da Crowe, porterà a un incontro destinato a cambiare le vite di tutti.
La soundtrack, con brani inediti di Ryan Adams, Conor Oberst, Robyn Hitchcock e Nathan Larson interpretati dallo stesso Ethan Hawke, è un omaggio appassionato alla scena musicale indipendente dei primi anni Novanta. Un film da ascoltare, oltre che vedere, più che da raccontare.

Juliet Nacked, tutta un’altra musica
Regia: Jesse Peretz

Interpreti: Rose Byrne, Ethan Hawke, Chris O’Dowd

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LA CADUTA DELL'IMPERO AMERICANO
di Mila Fiorentini

La caduta dell’Impero americano, un film di Denys Arcand, dal 24 aprile al cinema, è notevole per la sceneggiatura e la qualità dei dialoghi, oltre che l’interpretazione decisamente credibile dei personaggi. Una storia in qualche modo banale, a tratti surreale, non presenta il classico lieto fine ma scivola in una dimensione di sogno che proprio per questo è credibile, sotto un profilo diverso dal semplice principio di realtà. E’ un film ben fatto che scorre senza che ci si accorga del passare del tempo, con un ritmo elevato che non perde mai il filo e che racconta proprio attraverso un lato incredibile, a tratti ingenuo, la deriva della società americana, il meccanismo inceppato del successo, il valore dei soldi. Lo fa in modo originale, non moralistico, attraverso un personaggio impacciato ma di grande intelligenza, originale, che legge la vita attraverso la filosofia, materia nella quale è laureato, preferendo però fare il fattorino al professore perché il guadagno è migliore. Evidente che una società che paga meglio chi consegna pacchi invece che chi insegna a pensare è una società di “imbecilli che amano i cretini” e quindi per il cittadino modello la vita è senza speranza. Allora tanto vale approfittare di un’occasione offerta dal caso, illecita forse, ma che può fruttare qualche buona azione perché chi è precario non può certo diventare un santo. Una sorta di Robin Hood metropolitano, con una casa piena di libri e un amore improbabile per una escort che converte al volontariato è la scommessa del film. Per dirci che l’intelligenza arriva dove il buon senso si arrenderebbe molto prima.
Dopo Il declino dell'impero americano e Le invasioni barbariche, il Premio Oscar Denys Arcand chiude la sua trilogia satirica sull'Occidente in crisi con un irresistibile "polar" venato di commedia. Niente concessioni al thiller, nessuno indugio sul sesso: è un film con un’ironia graffiante ma bonaria al tempo stesso, colto nella sua spontaneità e conferma il valore di questo regista e sceneggiatore canadese. Si impone all'attenzione internazionale con Il declino dell'impero americano (1986), premio FIPRESCI alla Quinzaine des Réalisateurs nel 1986 e candidato all'Oscar per il miglior film straniero. Tra i suoi film di maggior successo Jésus of Montréal (1989), Premio della Giuria al Festival di Cannes e una seconda nomination all'Oscar, e Le invasioni barbariche (2003), che dopo il debutto a Cannes, dove conquista i premi per la Migliore sceneggiatura e la Migliore attrice, inizia un percorso costellato di riconoscimenti, tra cui l'Oscar per il miglior film straniero (e la nomination per la migliore sceneggiatura), tre César e un David di Donatello. 
Il film è la storia di Pierre-Paul, 36 anni che, nonostante un dottorato in filosofia, deve lavorare come fattorino per tirar su uno stipendio appena decente e continuare il trend della sua famiglia, da sempre precaria, in un’America che non regala più sogni, lontana dalla meritocrazia. Un giorno, durante una consegna, si ritrova suo malgrado sulla scena di una rapina finita male, che lascia sull'asfalto due morti e altrettanti borsoni pieni di soldi. Cosa fare? Restare a mani vuote o prenderli e scappare? Il dubbio dura una frazione di secondo, giusto il tempo di caricare il malloppo sul furgone. Ma i guai sono appena iniziati: sulle tracce del denaro scomparso, infatti, ci sono due agenti della polizia di Montreal ma soprattutto le gang più pericolose della città. Per uscire da un sogno che rischia di diventare un incubo, Pierre-Paul dovrà fare gioco di squadra con un team di improbabili complici: una escort che cita Racine, un ex galeotto appena uscito di prigione e un avvocato d'affari esperto di paradisi fiscali. Insieme, scopriranno che i soldi non danno la felicità ma…aiutano molto. Il gioco è nell’ambizione di possederli e che questo è il motore della vita, un sogno condiviso, al di là della meta.



La caduta dell’Impero americano
Regia: Denys Arcand
Cast: Alexandre Landry, Maripier Morin, Rémy Girard, 
Louis Morissette, Maxim Roy, Pierre Curzi, Vincent Leclerc


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Ricordi?
La memoria tra incanto e sortilegio
di Mila Fiorentini




Ricordi? è un film di genere drammatico del 2019, diretto da Valerio Mieli, con Luca Marinelli e Linda Caridi, in uscita al cinema il 21 marzo 2019 sul ricordare, con una fotografia che incanta soprattutto per il montaggio magistrale. Una spirale e altri momenti un sogno nel quale lo spettatore è preso: la scrittura racconta lo stesso contenuto del film. Non solo ricordi e memoria ma il ricordare, il meccanismo del ricordo e l’influenza che esercita nelle nostre vite. Siamo quello che siamo stati e quello che è stato il nostro mondo: al centro la famiglia e l’infanzia serbatoio del diventare adulti e del futuro, che a un certo punto arriva. Il tema del ricordo necessariamente connesso al tempo mette in discussione l’eterno: se vivessimo in un futuro senza fine che senso avrebbe immagazzinare ricordi, stratificazioni su stratificazioni? Il film - presentato alla Biennale di Venezia 2018 nelle Giornate degli Autori, Selezione Ufficiale ha vinto il Premio del Pubblico BNL, la Menzione Speciale FEDIC e il Premio NuovoImaie (Linda Caridi) - sembra una fiaba anche se è calato nella difficoltà delle relazioni affettive contemporanee e disegna in tralice l’affresco di famiglie che dietro le quinte diventano inconsistenti. Il mondo esterno sembra come sospeso, l’angolatura decisamente originale: l’idea è che i ricordi inghiottiscono la realtà, trasformandola perché sono un tesoro interiore e anche le persone in fondo sembrano valere per quello che ricordiamo. I due protagonisti, antagonisti ad un certo punto, coppia, poi scoppiata e ricomposta - quasi come in un sogno - denunciano proprio quest’ambiguità. La memoria è tutto per ciascuno di noi, è l’identità dell’io, la sua consistenza, talvolta la sua prigione, eppure, disegna il nostro rapporto con gli altri e al contempo ci rende unici perché, esclude gli altri dalla nostra interiorità. Se è vero che gli opposti si attraggono, il protagonista maschile interpretato da Luca Marinelli (34 anni) ha solo ricordi brutti mentre la ragazza interpretata da Linda Caridi (31 anni) solo bei ricordi, tanto che non riesce a trovarne uno brutto. Gradualmente la storia svelerà che quel suo sguardo sempre sorridente sul mondo è comunque deformante e non sempre veritiero, tanto che qualche nuvola comincia ad apparire nella sua memoria.
Valerio Mieli, regista romano, classe 1978, alla sua seconda prova, ha esordito con Dieci inverni, e mette in scena è una lunga grande storia d'amore, raccontata però sempre solo attraverso i ricordi, più o meno falsati dagli stati d’animo, dal tempo, dalle differenze di punto vista, dei giovani protagonisti. È il viaggio di due persone negli anni: insieme e divise, felici, infelici, innamorate tra loro, innamorate di altri, visto in un unico flusso di colori ed emozioni. I due si conoscono raccontandosi fantasiosi episodi d’infanzia. Anche la festa in cui si incontrano però è ricordata, e in due versioni: il mondo di lui, malinconico, quello di lei allegro e ancora incantato.
Passano gli anni. Lo sguardo di lui si trasforma, si alleggerisce. Quello di lei matura, si fa più complesso e più scuro. Lui prende un po’ della sua allegria, lei della tristezza di lui, ma non si avvicinano proprio perché il rapporto che sembrava consolidarsi rischia ora di perdere magia. Inizia una crisi. Nel corso del film i due ragazzi crescono e cambiano: lui scopre che è possibile un amore che dura nel tempo, lei conosce la nostalgia.
Verso la fine il film ha qualcosa di confuso ma non perde il suo fascino, quello soprattutto di un profumo che va dritto al cervello e al cuore e riaccende la realtà, senza mediazione.  Luca Marinelli conferma le sue doti ed è perfetto in questo ruolo; mentre la protagonista femminile mostra la potenzialità di una grande versatilità espressiva, tanto da trasformarsi anche fisicamente dalle prime inquadrature, una sorta di Amélie nel suo “magico mondo”, fino ad una donna matura che sa essere dura e prendere in mano la vita. Interessante è la partitura del film e l’affiorare dei meccanismi della mente e le conseguenti interazioni, senza nessuna tesi. Il regista non spiega, non giudica, forse nemmeno racconta, sta a guardare ma in quello sguardo c’è un mondo. Il film, è interessante soprattutto per la sintassi, con dissolvenze, la macchina da presa che ruota su stessa e cambia prospettiva e la visione delle cose, tagli netti come black out della memoria, o alternanza tra ricordo e visione, dove ci sono momenti di silenzio quasi “assoluto”.

Ricordi?
Regia e sceneggiatura Valerio Mieli,
con Luca Marinelli e Linda Caridi

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CAFARNAO CAOS E MIRACOLI
di Mila Fiorentini

Cafarnao,  film di genere drammatico del 2018, diretto da Nadine Labaki, con Nadine Labaki e Zain Alrafeea in uscita al cinema il 11 aprile 2019, duro e crudo, perché affronta il tema dell’infanzia negata per la mediocrità, l’aridità e l’incapacità degli adulti in un clima di miseria sconcertante, a tratti disgustoso e in certi momenti lirico per la capacità di alcuni personaggi di dare decoro alla vita al di là degli stracci, degli scarti e della sporicizia dai quali sono circondati i personaggi. Una miseria che abbrutisce ma che non scalfisce il senso profondo del coraggio e della dignitià di un bambino, cresciuto troppo in fretta, che decide di battersi per se stesso, per la sorella ‘uccisa’, per i bambini del mondo. Film neorealista libanese che ha momenti di tenerezza, perfino di ironia che si insinuano in un generale squallore al quale la maggior parte dell’umanità si arrende. Assolutamente da vedere per lo sguardo impietoso della regista che non fa sconti, a nessuno, senza lieto fine, senza ammiccamenti, senza messaggi a tesi: solo la lezione del bambino in tribunale è un piccolo saggio di filosofia, violento a suo modo perché senza il pudore dell’età adulta, senza mediazioni.  Magnifica la fotografia e l’uso della luce, atmosfere coloratissime, rumorose, disturbanti, dai toni lividi.
È il terzo lungometraggio diretto dalla famosa regista e attrice libanese Nadine Labaki, che col suo primo film, Caramel, nel 2007 partecipò alla Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes, certo totalmente diverso da questo, anche se il lato sociale della difesa dell’emancipazione femminile, della sfida dei tabou c’erano già come elementi in nuce di una battaglia. cafarnao è il primo film apertamente drammatico della regista, che fino ad ora aveva affrontato anche temi diversi religiosi e politici, sotto le spoglie della commedia. Il suo secondo film, E ora dove andiamo?, del 2011, partecipò di nuovo al festival nella sezione Un cértain régard e vinse il premio del pubblico a Toronto e molti altri riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 2015 fu invitata a far parte proprio della Giuria di Un certain régard e con Cafarnao, nel 2018, è stata promossa al concorso principale, vincendo il Premio della Giuria e il premio ecumenico oltre a 15 minuti di standing ovation dopo la proiezione ufficiale. Il film è stato anche candidato al Golden Globe 2019 come miglior film straniero.
Il piccolo protagonista, Zain Al-Rafeea, è un profugo siriano, rifugiato in Libano, alla sua prima esperienza di recitazione, è straordinario, a parte le phisyque du rôle, il suo sguardo parla da solo: profondo, dolente, cresciuto anzi tempo, arrabbiato, può diventare temibile, e di una dolcezza sconfinata, come il suo senso di prendersi cura degli altri. Vive adesso in Norvegia coi genitori e ha imparato a leggere e scrivere, cosa che all'epoca delle riprese non sapeva fare. Il film non ha solo aiutato il piccolo Zaid a rifarsi una vita, ma anche altri ragazzi coinvolti nelle riprese, che vivevano in condizioni estreme. Labaki e il produttore Khaled Mouzanar hanno istituito una borsa di studio per offrire loro una possibilità di vita migliore. Nel 2016 il Libano contava quasi un milione di profughi siriani.
L'idea alla base del film, ha raccontato Labaki, è questa: “A conti fatti quei bambini pagano un prezzo altissimo per i nostri conflitti, le nostre guerre, i nostri sistemi e le nostre stupide decisioni e governi. Ho sentito il bisogno di parlare di questo problema e ho pensato: “se questi bambini potessero parlare, cosa direbbero? Cosa direbbero a noi, a questa società che li ignora?”. Le riprese del film sono durate ben sei mesi per 600 ore di riprese e il primo montaggio era lungo come una serie tv, dodici ore, ridotte a poco più di due nell'arco di due anni. Così Nadine Labaki spiega il titolo, che perde il suo doppio significato nella traduzione italiana: “In origine è francese, Capharnaüm significa «caos», è un termine usato nella letteratura francese con questo significato. È un villaggio biblico che è stato maledetto per essere troppo caotico, o qualcosa del genere. E poi abbiamo iniziato a usarlo per significare caos, inferno, disordine. Il titolo mi è venuto in mente ancor prima di cominciare a scrivere, quando ho iniziato a buttar giù i temi che mi ossessionano al momento: i diritti dei bambini e l'ingiustizia nei loro confronti, l'assurdità delle frontiere, del dover avere dei documenti per dimostrare la propria esistenza ecc. Ho buttato tutto giù e a un certo punto ho detto “questo è un gran Capharnaüm, è l'inferno, viviamo all'inferno”.
  
Cafarnao caos e miracoli
di Nadine Labaki
Con Zain Al Rafeea e Nadine Labaki
Regia: Nadine Labaki


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PEPPERMINT
L’angelo della vendetta o della giustizia
di Mila Fiorentini



Un’accusa feroce al sistema americano, dalla giustizia ai cartelli della droga, come dire dal cosiddetto simbolo del “ben” al cosiddetto simbolo del “male”. Peppermint, l’angelo della vendetta, un film di Pierre Morel, è solo apparentemente un film d’azione, intensa, con colpi di scena, qualche effetto splatter che non disturba più di tanto, né sorprende: è un film sull’effetto devastante di un trauma violento sulla mente umana. L’angelo sterminatore non uccide per piacere, non forse per vendetta, ma per sete di giustizia, senza arrendersi mai come chi non ha nulla da perdere. Al cinema dal 21 marzo, distribuito da Lucky Red e Universal Pictures, è un gusto di gelato, quello che per il suo compleanno mangia la bambina figlia della protagonista, poco prima di essere uccisa. Il sottotitolo è il soprannome della madre in uno dei quartieri più malfamati di Los Angeles, Skid Row, dove questa donna comune, madre e moglie modello, si trasforma dopo la barbara uccisione del marito e della figlia in paladina di giustizia, si rifugia; vivendo in un camioncino trasformato in arsenale. Sarà l’oggetto di un murales, un omaggio dei diseredati del luogo che finalmente sono al sicuro dopo che la nuova giustiziera del quartiere riesce dove polizia, FBI, Delta hanno fallito, per codardia, incapacità o corruzione e la rivelazione sarà terribile. Al di là del giudizio sul comportamento di chi uccide per farsi giustizia da sola, con danni collaterali limitati, questo è un elemento importante, senza nessuna vocazione stragistica, è toccante la situazione paradossale di una vittima, del danno e della beffa in una società che non tutela. La storia narra di Riley North, moglie felice e madre modello, che assiste impotente all’omicidio del marito e della figlia per mano di alcuni narcotrafficanti. Gli autori del brutale omicidio vengono catturati ma durante il processo, nonostante la sua testimonianza, le accuse vengono fatte cadere e gli assassini liberati grazie all’intervento di un giudice corrotto e di avvocati e poliziotti collusi.  Quando Riley decide di vendicarsi, il suo obiettivo non saranno soltanto i carnefici della sua famiglia ma tutto il sistema, dalla giustizia americana ai potenti cartelli della droga. La produzione ha fiutato il potenziale successo di questo tipo di film tanto più che l’idea era legata ad un regista noto del thriller indipendente francese, dirigendo tra l’altro Io vi troverò - Taken, Banlieu 13 e Casino Royale. Agli esordi, quando ha lavorato con Luc Besson, vale la pena ricordare tra i suoi dfilm From Paris WEith Love, e lo spy drama The Gunman.
L protagonista Jennifer Garner è una pluripremiata attrice sia al cinema sia sul piccolo schermo, simbolo anche per la sua attività filantropica e Jaun Pablo Raba che interpreta il narco-trafficante Diego Garcia, uno degli attori latinoamericani più ricercati che ha attirato anche l’attenzione del mercato americano.
Interessante la richiesta di immedesimazione totale richiesta dal regista per cui la protagonista ha accettato di girare tutte le scene senza controfigure e la scelta dell’ambiente, non potendo per motivi di sicurezza, girare nel quartiere nel quale si ambienta la vicenda, si è ricostruito l’ambiente nel quartiere adiacente e malgrado tutte le accortezze, sul set c’erano i topi. L’immersione è stata totale, anche per lo spettatore.


Peppermint
l’angelo della vendetta
Regia di Pierre Morel
Sceneggiatura di Chad St. John
Con Jennifer Garner e John Ortiz

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Vite cancellate
di Mila Fiorentini

Abbiamo avuto l’occasione di vedere in anteprima per la stampa Vite cancellate, traduzione di Boy erased, film americano, in uscita il 14 marzo al cinema (l’uscita negli Stati Uniti il novembre scorso), tratto dal libro di memorie Boy Erased A Memoir di Garrard Conley del 2016, del quale l’adattamento cinematografico sviluppa le prime cinquanta pagine. È un film di genere biografico, drammatico del 2018, diretto da Joel Edgerton, con Nicole Kidman, Lucas Hedges e Russell Crowe, distribuito da Universal Pictures, tratto da una storia vera, l’aspetto drammaticamente interessante del film: ne emerge il quadro desolante dei trattamenti cosiddetti medici e psicologici ‘rieducativi’ diffusi negli Stati Uniti, dove ancora in 36 stati è permessa la cosiddetta ‘riconversione’ per i soggetti omosessuali od orientati sessualmente in modo diverso rispetto all’eterosessualità che è toccata allo stesso autore Garrard Conley. Impossibile non pensare a Sissy Boy di Franca De Angelis, a cura di A. Segre, pubblicato da Editore More Nocturne Books nel 2018 - libro di cui abbiamo parlato su Odissea lo scorso anno, un altro caso tragico americano, tratto da vicenda realmente accaduta, il cui protagonista si suicida. In effetti anche i pazienti della terapia ripartiva, secondo i dati della Campagna per i Diritti Umani, hanno una probabilità 8 volte più alta di tentare il suicidio, di soffrire di alti livelli di depressione, di far uso di droga e perfino di essere soggetti a malattie sessualmente trasmissibili. In Vite cancellate, invece, il quadro familiare si ricompone e non come in una commedia italiana dal lieto fine, ma nella compostezza della difficoltà della vita.
Il film racconta la storia di Jared, figlio di un Pastore in una piccola città della provincia americana la cui omosessualità è rivelata ai genitori all’età di 19 anni, quando si trova a fronteggiare il dilemma: seguire una terapia di riconversione o essere rifiutato dalla sua famiglia, nonché dagli amici e dall’intera comunità per sempre. È la storia vera della battaglia di un giovane per costruirsi mentre tutti gli aspetti della sua identità sono rimessi in gioco. Un viaggio interiore alla ricerca dell’io autentico che porterà il ragazzo a trasferirsi a New York dove si occupa di editoria di genere per la difesa dei diritti LGBT. È significativo non solo il quadro travagliato interiore che attraversano le persone, una serie di adolescenti, di fronte a pulsioni che non sono considerate ‘nella norma’ se non normali e in particolare lo smottamento della famiglia che si regge spesso sul riflesso che si vede negli occhi degli altri. Ben interpretato dai tre protagonisti, è un’evidente sottolineatura della capacità femminile di accoglienza e riconoscimento della diversità nell’amore, della madre verso un figlio, ma anche talora della debolezza che non consente ad una donna di esprimersi liberamente di fronte al marito, del quale come in questo caso è in qualche modo succube. Emerge in particolare l’amore del padre-pastore nei confronti una moglie bella, devota, valida padrona di casa, madre accorta trasmette in termini di gratificazione, così come dell’unico figlio. Toccante il dialogo finale tra padre e figlio perché rappresenta una lezione di umiltà e di grande schiettezza, dove il figlio ammette che non cambierà, perché non può mutare la propria natura e che se non si arrivasse ad un dialogo trasparente, probabilmente sia il padre che il figlio se la caverebbero ma sarebbe un peccato. Da parte del padre il coraggio di un’accoglienza che alla fine è senza riserve anche se non condivide totalmente il figlio e trovo che questo sia un aspetto di grande onestà.
Un’ultima osservazione vale la pena sulla specificità del College rieducativo dove viene rinchiuso Jarred insieme ad altri ragazzi perché la cosiddetta terapia è ammantata di spiritualità e si configura come un percorso per recuperare la vicinanza a Dio. È essenziale sapere che il direttore di quella struttura, nella realtà, l’ha lasciata anni dopo per sposarsi poi con un uomo. Evidentemente chi non è risolto in se stesso manifesta una grande aggressività rispetto a quello che non accetta di sé e vede riflesso negli altri. Come spesso nelle carceri la disumanità dei secondini, delle guardie o dei direttori nasconde peccati maggiori di quelli dei condannati. Il film, seppur con qualche lentezza iniziale, analizza molto bene il metodo di rieducazione nella sua perversione che come ogni sistema punitivo arbitrario risponde all’idea che esiste un pensiero unico, l’unico accettabile.

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Anna Magnani, un urlo senza fine
di Mila Fiorentini

Italo Moscati dipinge una donna, il cinema italiano 
e la società dal dopo guerra.


Ci sono letture che nascono da incontri, come in questo caso. Metti una sera a cena per il recente Festival dell’Eccellenza Femminile a Genova con Italo Moscati, autore di Anna Magnani, un urlo senza fine, libro che ha presentato quella stessa sera in occasione di una mostra fotografica dedicata all’attrice. Un omaggio per aprire una porta sull’Italia dagli Anni Trenta nel Novecento agli Anni Settanta, con un focus sul cinema, specchio e stimolo di una società in fermento. Il regista, scrittore e sceneggiatore - che molti avranno ascoltato recentemente, intervistato su RaiNews 24 in occasione della morte di Bernardo Bertolucci – segue il filo della vita di Anna Magnani dalla nascita nel 1908 a Roma e non come si è favoleggiato per diverso tempo ad Alessandria d’Egitto fino a quel 26 settembre del 1973 quando la malattia ne fiaccò l’eccezionale carica vitale. Il testo corre tra binari paralleli, non solo quello dell’attrice e della donna, personalità complessa, con una vitalità straordinaria, dirompente, pronta a scenate di gelosia, capricciosa nella sua spontaneità, non come lo può essere una diva, sempre alla ricerca di andare oltre per misurarsi con le proprie capacità più che per annoverare successi; ma quella del cinema, del teatro e dello spettacolo italiano. Il nesso interessante è nello scambio tra realtà e palcoscenico, quanto il cinema e il teatro siano specchio della società e quanto abbiamo contribuito a loro volta a trasformarla. Emerge dal libro, che non definirei né una biografia in senso classico né un saggio, un affetto e una stima profonda, in certi momenti perfino una tenerezza verso la figura di Anna Magnani con una giusta distanza, però, tipica del regista di livello.
Il libro si muove con una certa libertà avanti e indietro nel tempo, tornando su alcuni episodi e spettacoli per regalarci un affresco storico di settant’anni che hanno trasformato l’Italia, da quell’Italietta fascista che nel 1937 inaugura la Hollywood sul Tevere, Cinecittà, fino al Paese moderno, dov’era arrivato il vento della contestazione del Sessantotto, le crisi petrolifere, i tentativi timidi di compromessi tra centro sinistra al governo, il peso dell’industrializzazione che aveva determinato l’iscrizione del Belpaese tra le potenze mondiali e creato emigrazione, emarginazione, disoccupazione, inquinamento, traffico e altri disagi, dopo la rinascita dalla Seconda Guerra Mondiale e il boom economico. Con la leggerezza della macchina da presa, Moscati offre mille spunti e tante sfaccettature della società. Ripensandoci è un libro che si legge con molta piacevolezza ma non leggero perché molto denso soprattutto per chi quegli anni non li ha vissuti se non attraverso documenti, film recuperati e racconti familiari ed è un libro difficile da raccontare perché ripercorrerlo significherebbe farne il riassunto senza riuscire a restituirne lo spirito. L’avvio è con la Liberazione di Roma, città libera, ma soprattutto di soffrire, per il film che ha reso Anna Magnani celeberrima, Roma città aperta, e che forse non ha consentito di prestare abbastanza attenzione alla poliedricità di questa figura che forse nel teatro ha trovato maggiormente se stessa ricoprendo ruoli estremamente vari, con un apprezzamento particolare per la rivista e un bel sodalizio con Totò. Prima della ricostruzione, al di là dell’entusiasmo per la fine della guerra, l’Italia è devastata dalle macerie e città come Napoli, la città del mare, del sogno della stessa Rondinella, un simbolo della Magnani. Città per altro dolente come quella raccontata ne La pelle di Curzio Malaparte, scritta nel 1949, città di “fame, stenti, puttane, femminielli. Vite in vendita.” La vita di Anna è nel segno dell’amore, quello per gli uomini dai quali viene per lo più ferita, quegli uomini che non smette mai di cercare; per Luca, il figlio affetto da poliomelite che si cresce sola, perché il padre Massimo Serato, attore, giovane, è fuggitivo nelle responsabilità; per gli amici, tanti come Suso Cecchi d’Amico, Paolo Stoppa e Totò tra gli altri; e per il suo lavoro al quale non ha mai rinunciato. Anna di amore ne ha ricevuto tanto anche se, forse, non dagli uomini, con i quali i rapporti sono stati turbolenti e deludenti (quasi tutti attori registi), amata sia a Roma sia in America, donna dai mille volti, troppo spesso ricordata come “simbolo di una Roma popolaresca e schietta”, un volto autentico ma non certo sufficiente a descriverla. Questo libro rende giustizia ad un grande personaggio del Novecento italiano restituendole per così dire la tridimensionalità. E’ anche il racconto di una donna, delle sue fragilità, del dolore che si porta dentro di una madre assente che l’ha dimenticata e di un padre sconosciuto, di una vita complicata e faticosa che non le ha mai regalato nulla. Oggi il suo ricordo è soprattutto legato a grandi film, nel bene e nel male, come a Mamma Roma di Pasolini ma la sua anima era per il teatro, dove ogni attore, secondo quanto sosteneva Vittorio Gassman, ritrova se stesso e il suo io più profondo.

Italo Moscati
Anna Magnani, un urlo senza fine
Lindau Ed. 2015
pp. 222 Euro 19,50

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Seguimi, un film di Claudio Sestieri
di Mila Fiorentini

La solitudine in cerca di evasione a tutti i costi  “confonde” arte e vita.

Il labile confine tra sogni e realtà e l’arte a fare da ponte, una storia intrigante e inquietante, con risvolti psicoanalitici, che non racconta solo la storia di tre persone ma diventa lo specchio di una società profondamente sola e malata. Nello scambio tra arte e vita, rappresentazione ed essere, il disagio profondo assume l’odore della morte e dell’autodistruzione, come la condanna a preferire il sogno anche quando è un incubo pur di non affrontare la verità. Seguimi, il film di Claudio Sestieri con Angelique Cavallari, Maya Murofushi, Pier Giorgio Bellocchio e Antonia Liskova, nelle sale dal 22 novembre con Stemmo Production, porta sul grande schermo proprio questo disagio. Lo fa in un modo convincente, con una grande ricerca estetica mai stucchevole, intrigante, creando una sospensione del respiro fino all’ultimo e lasciando lo spettatore senza soluzione, in un finale aperto come la vita, solo da vivere, da rischiare. Sceneggiato dal regista insieme a Patrizia Pistagnesi e Nicola Molino, è prodotto da Bruno Tribbioli e Alessandro Bonifazi per Blue Film ed Eur Film in associazione con Green Film e in coproduzione con Gris Medio e realizzato con il contributo del Mibact - Direzione Generale per il Cinema.
Il titolo è emblematico, è l’invito silenzioso delle prime sequenze di una donna ad un’altra, poi ricambiato con un invito esplicito dall’altra; è ancora l’invito del pittore alla modella (la prima donna, una giapponese misteriosa e sfuggente) nello scambio di sguardi ed è proprio in questa reciprocità mancata che si sceglie solo l’io o l’altro, diventando, rispettivamente, soli o perduti. Nell’arte dimensione onirica, spesso incubo, arte e realtà si fondono e si confondono ma anche gli artisti sono persone e questa “confusione” ha l’odore della morte. Intrigante e a tratti quasi disturbante, come la critica ha sottolineato, non sembra un film italiano. C’è una dimensione fascinosa e inquieta, nordica, che come indica il titolo costringe lo spettatore a seguire il filo che non porterà da nessuna parte perché il titolo sembra anche un codice di istruzioni per l’uso. Un invito ad abbandonarsi al mistero della vita, a perdersi, come in una città nuovo per poter andare oltre. Con una colonna sonora notevole, a tratti ossessiva, in altri punti molto raffinata, come una lama che ferisce, il film è altamente estetico mai stucchevole, raffinato, sussurrato, sospeso come la città di Matera, scuro, crepuscolare, ombroso.
Solo le prime sequenze, a Barcellona, allargano il respiro, la città giovane, del cambiamento che si è reinventata. Matera è la città della storia, del peso profondo del passato, la cui riscoperta è valorizzazione non liberatoria. In qualche modo le due ambientazioni appaiono come una metafora dei due paesi mediterranei, la Spagna e l’Italia.
Al centro del film lo scambio tra sogno e realtà che può essere solo fantasia o voglia di evasione, incapacità di aderire al reale o malattia, in un crescendo nel quale la scomparsa della modella giapponese porta ad una verità che ribalta tutto il film e svela il bisogno di sognare e di affidarsi a qualcuno, forse addirittura ideale della donna protagonista, Marta. A dire il vero ci vorrebbe un punto interrogativo, forse due, perché la donna italiana, nuotatrice di professione è solo apparentemente l’asse portante della storia e non si sa realmente la fine dell’altra donna. Due personalità ma anche l’illustrazione di due mondi, quello orientale etereo e violento, avvolto in un mistero nero, giocoso all’apparenza e triste come un fumetto manga, l’erotismo al centro della vita, travolgente e glaciale, come un esercizio di stile; e quello occidentale con il suo legame forte alla famiglia che non ammette di venir deluso: la morte dei genitori che lascia l’individuo senza la terra sotto i piedi e una sorella dalla quale si vorrebbe un conforto che non c’è o forse che non è abbastanza, presa dalla sua famiglia e, soprattutto, dalla sua carriera. E’ ancora il confronto tra una società di monadi, che si relazionano in una dimensione di educazione, ruoli, servigi, intrighi e passioni, quella giapponese; e la dimensione mediterranea che vede la persona nel suo nucleo familiare, accudita e coccolata. La fragilità del primo è risolta nell’aggressività anche verso se stessi fino alle conseguenze estreme ma non cerca appiglio altrove, semmai presta il sostegno a uomini soli non per sesso, come confessa la modella giapponese, ma solo per una tazza di thé e una carezza e a chi incontra sulla sua strada. Quello mediterraneo invece non si rassegna, grida la propria rabbia, con umiltà chiede aiuto, talora lo pretende e annega nell’abbandono perché il sogno è solo illusione.
C’è un elemento noir, una trama aperta, senso di spaesamento, con simboli criptici come la farfalla nera che entra con l’apparizione in carne e ossa della donna giapponese e la ragazza pallida e bionda, Marta, e quando Hura, il nome come un respiro sparisce, lasciando una vasca da bagno con acqua che sgorga insieme a macchie rosse (sangue? Non è dato sapere). Qualche critico lo ha definito un thiller, ma senza assassini, senza colpevoli – tutti conniventi – senza vittime nel senso tradizionale, dove la vittima è la vita e ogni indagine assurda.
Infine c’è la riflessione sull’arte e sulla bellezza che a volte non salvano il mondo ma lo condannano proprio come l’amore, uno sguardo spietato per quanto altamente poetico sulla realtà attuale, una società malata.
Il film ha recentemente vinto tre premi al Festival Internazionale del Cinema dei Castelli Romani: Miglior Regia, Miglior Attrice (Angelique Cavallari) e Miglior Fotografia a cura di Gianni Mammolotti. Inoltre, ha vinto i premi come Miglior Film, Miglior Sceneggiatura, Miglior Attrice (sempre Angelique Cavallari), Miglior Musica e Miglior Fotografia all’Umbrialand - Indie Film Fest di Terni. Presentato in concorso al Taormina Film Fest, ha vinto anche il premio come Miglior Sceneggiatura al Terra di Siena Film Fest. Interessante l’interpretazione di Piergiorgio Bellocchio, in un ruolo solo apparentemente prepotente, di grande fragilità e dolcezza, personaggio complesso e contorto, che non si dà pace per il suo amore perduto che è anche la sua unica musa, un personaggio che si addice bene all’attore.
Seguimi” racconta di Marta Strinati, tuffatrice olimpionica, che, dopo essersi seriamente infortunata in piscina, si ritrova sola e disorientata. Lascia Barcellona e si trasferisce a Matera. Qui riapre la casa-studio di suo padre, un pittore morto poco tempo prima e incontra Sebastian (interpretato da Piergiorgio Bellocchio), uno dei tanti artisti del borgo, uomo e pittore dal carisma indiscutibile, dal carattere magnetico e ombroso. Durante una mostra scopre i suoi dipinti, tutti ispirati dalla stessa musa, una ragazza giapponese perturbante che subito le ispira un forte senso di dejà vu. All’improvviso, la modella dei quadri è al suo fianco, e l’incontro con Haru, modella di tutte le tele iperrealistiche della mostra, si trasforma per Marta in una relazione di cui non può fare a meno, una sconvolgente ossessione fisica e mentale. Un caso estremo di Sindrome di Stendhal o solo un amore forte come la morte? 


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“Papa Hédi”, Jouini le Frank Sinatra tunisino
di Mila Fiorentini


Hédi Jouini, un’icona tunisina, intramontabile, un grande classico che ha saputo aprirsi alla contaminazione linguistica, unendo in modo originale e nuovo vari generi musicali. Detto il “Frank Sinatra” della Tunisia o forse il Jacques Brel tunisino, come si dice nel film,  Papa Hédi. The man behind the microphone è il ritratto di uno dei musicisti più apprezzati della Tunisia del secolo scorso, un viaggio poetico attraverso gli occhi della sua nipote inglese, Claire Belhassine, regista, sceneggiatrice-produttrice, cresciuta in Inghilterra dove ha avuto pochi legami con la famiglia tunisina.
Un documentario contemporaneo che unisce l’aspetto giornalistico alla delicatezza del ritratto d’epoca, della rievocazione senza essere didascalico e pesante per cogliere l’anima di un personaggio per il quale la musica era vocazione, passione amorosa che gli consentiva di entrare in scena sempre con il sorriso. Papa Hédi. The man behind the microphone, film -della durata di un’ora e 26 minuti- che ha visto il concorso della Tunisia, Regno Unito e Qatar, è stato proiettato in anteprima nella regione del MENA, al Dubai International Film Festival come al Festival des cinémas arabes a Parigi, uscito nell’agosto 2017 e presentato lo scorso luglio a Tunisi sarà nelle sale della capitale tunisina dal 26 settembre sottotitolato in francese, è stato sostenuto fortemente per la realizzazione dalla Fondation Rambourg. Girato in inglese, è sottotitolato quando ci sono interventi in francese e in arabo. Se la regista non ha voce, è la figlia il narratore vero che tiene insieme le fila della storia, soprattutto sotto il profilo delle emozioni che fa emergere la personalità di Jouini anche nella sua vita intima, oltre il personaggio, senza sconti agiografici. L’obiettivo, al centro della missione della Fondazione Rambourg, è di preservare il patrimonio e la tradizione tunisina della quale Jouini fa parte a pieno titolo. Elegante signore, sempre vestito in modo impeccabile, grande conquistatore del cuore delle donne, lascerà una tradizione musicale importante che dagli anni Trenta nel Novecento, accompagna ancora oggi il sentire musicale locale e non solo. Contro la volontà del padre, da piccolo, decide di seguire la via della musica. E’ la mamma che gli regala un mandolino, racconta la figlia nel film, la sua nonna che, al rifiuto del marito che rompe lo strumento perché i musicisti sono tutti degli sciupa femmine, divorzia perché è una donna emancipata che non si rassegna al volere del marito. Così sarà anche Jouini che canterà l’amore e l’apertura, ad altre culture prima di tutto che ne rappresentano la cifra caratterizzante. Il suo repertorio musicale conta su centinaia di arie ispirate al flamenco, ai mouachahates - dalla ricerca andalusa - al timbro più propriamente tunisino, ma anche l’assorbimento della cultura europea delle nuove sonorità che lo rendono internazionale nel gusto. Eppure non tutti ne accettarono l’innovazione. Racconta in un passaggio la figlia perché molti avrebbero voluto continuare solo a sentire la musica tradizionale.
Al secolo Mohamed Hédi Ben Abdessalem Ben Ahmed Ben Hassine, nato il novembre 1909 a Tunisi nel quartiere della medina antica vicino a Ba bel-jedid e deceduto il 30 novembre 1990, è stato un cantante, suonatore di ‘oud e compositore tunisino. Durante la sua lunga carriera, Jouini ha composto circa 1070 canzoni e 56 operette.
Non termina neppure le scuole elementari, come racconta sua Naoufel Belhassine, autore del libro Hédi Jouini, la trace d'un géant, in un’intervista con Jamel Heni.
Jouini incontra la moglie Ninette nel suo stesso ambiente musicale ed è un colpo di fulmine, rapito dalla sua bellezza, una differenza di 22 anni e soprattutto lei è ebrea. I genitori di entrambe le famiglie si oppongono duramente al matrimonio. Il sodalizio sarà molto forte soprattutto all’inizio quando lei lo introdurrà alla canzone anche se la vita non sarà facile, soprattutto con l’arrivo della guerra. Partorirà in un sotterraneo nel 1942 dopo l’allarme di bombardamenti mentre Jouini è lontano, a Parigi, perché a Tunisi per un musicista mancava il lavoro. E lontano lo sarà a lungo dalla famiglia, come racconta uno dei figli, malgrado la sua gioia, i regali. Crescendo, ammette la figlia, conquista la consapevolezza che suo padre sarà suo quanto del pubblico, come accade per ogni uomo di spettacolo. Per altro la carriera della moglie viene sacrificata alla sua gelosia e ai figli, che cerca di allontanare dalla musica soprattutto la figlia che avrebbe voluto intraprendere una carriera nel cinema dopo l’incontro con il regista Rossellini. Tanti i successi di Jouini che però non riuscì a lavorare con la grande cantante egiziana Oum Kulthum che fu chiamata negli Stati Uniti per un’operazione agli occhi proprio quando Hédi arrivò in Egitto e così tornò indietro. Era destino, el-maktoub, una delle sue composizioni più celebri. 
Belle le riprese di grande semplicità ma eleganti che riescono a restituire il fascino della Tunisia d’antan, l’intimità della vita familiare, senza restituire immagini oleografiche e soprattutto si intonano allo stile della storia narrata.
Perse anche il concorso del 1957 per l’inno nazionale tunisino con l’arrivo del presidente Habib Bourguiba, forse per motivi politici.



Papa Hédi. The man behind the microphone
Regia, sceneggiatura e co-produzione Claire Belhassine
Nominations: Muhr Feature Award for Best Director, Special Jury Prize Muhr Feature Award, Best Muhr non-Fiction Feature Award
Distribution : Adel Jouini, Hamadi Jerad, Afifa Belhassine, Samia Belhassine, Ferid Belhassine, Nanou Belhassine, Faouzia Jerad
Uscita 6 agosto 2017
Presentazione a Tunisi 12 luglio 2018
Uscita nelle sale tunisine 26 settembre 2018

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AMOR SACRO
opera prima di Marco Zarrelli
di Mila Fiorentini 



Opera prima di Marco Zarrelli, Amor sacro, è un film forte, a tratti violento, e delicato ad un tempo. Colpisce indubbiamente per l’immagine che non è solo fotografia, che restituisce il senso del sublime, una bellezza rarefatta di luoghi quanto una profonda solitudine. È un film girato in modo extra-ordinario, come rallentato, con la macchina da presa che si posa sui dettagli a lungo, insiste, a volte esaspera lo sguardo. All’inizio è un film che disorienta e che nella forma riesce a rispecchiare perfettamente il contenuto di una vita ascetica, distaccata dai rumori del mondo eppure a suo modo tormentata. Il racconto è fatto per immagini e voci con un rimando simbolico al film, rispettivamente all’arte che è anche contemplazione della bellezza della natura e di voci, in particolare la musica sacra cantata in latino; ma anche voci e ascolto che disegnano il dolore e l’empatia dell’uomo.
Protagonista della vicenda è Padre Innocenzo, monaco cistercense di 39 anni che osserva uno stile di vita austero ed è ceramista dell'abbazia presso cui vive. Inoltre, avendo una bella voce, oltre ad officiare con i confratelli, viene talvolta richiesto da altre chiese per cantare musica sacra in latino. Il trasferimento del parroco del paese comporta per il monaco nuovi impegni (celebrazioni di messe, benedizione delle case, confessioni dei fedeli, manutenzione delle chiese), che lo distolgono dalla sua rarefatta solitudine, con suo grande disappunto. Innocenzo pare infastidito da qualsiasi cosa lo distolga dal suo mondo di estasi ma forse anche di isolamento, in parte probabilmente compiaciuto, in parte cercato come forma di bellezza e piacere, forse anche anelato come uno spazio protetto nel quale rifugiarsi.
Il regista, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, ha una grande capacità nel girare con gli sguardi dei personaggi che rivelano più delle parole, soppesate, rarefatte.
Qualche volta si ha l’impressione di vivere in tempo reale la scena del film com’è il caso della confessione, uno dei momenti più notevoli dal film. Allora sparisce quella lentezza che ci rende lontani da “un mondo fuori dal mondo”, per essere catturati. 
L’avvio del film è una scena metropolitana, dinamica, assolutamente contemporanea che restituisce la misura della vita affannata. Poi ci si trasferisce in spazi ampi, silenziosi, dove la presenza umana è sapientemente dosata. Il film è in gran parte girato ad Amaseno, oltre che Latina, della quale si riconosce la grande piazza in una scena, Fossanova, Prossedi, Sermoneta e Ninfa. I paesaggi accompagnano il viaggio interiore del protagonista, insieme ai suoi colori che diventano visioni, oniriche in certi momenti, accompagnato dalla mistica della musica sacra rinascimentale del coro maschile “Odhecaton” diretto dal Maestro Paolo Da Col.
Malgrado lo sforzo e il desiderio di separazione, l’essenza sociale dell’uomo si riaffaccia con tutta la complicazione di emozioni e sentimenti dai quali nemmeno un mistico sembra potersi esimere. Il film è delicato e raffinato, senza ribaltamenti, turbamenti ossessivi, rovesciamenti e terremoti; il monaco viene a trovarsi faccia a faccia con la complessità della vita della comunità, che in passato aveva accuratamente evitato, familiari compresi, ma che  ora non può più evitare. Eppure nel senso di inadeguatezza con il quale si trova costretto a fare i conti, non rinuncerà alla propria responsabilità, per rimettersi in gioco con una lieve ironia. Anche la mano del regista è lieve, senza scivoloni nel facile “lieto fine”, senza attenzioni morbose. È un crescendo molto sottile che inizia con inserti e inciampi involontari nella vita reali degli altri. Difficile il confronto con la sorella fioraia che si considera la pecora nera della famiglia, giudicata, in cerca di rifugio presso il monaco che per lei resta pur sempre un fratello. Il suo tentativo forse maldestro di riavvicinamento, passa per una confessione intima, l’incidente della gravidanza, la richiesta della comunione durante la messa, il tentativo fallito di confessione che suscita l’ira di Innocenzo ma scava in lui.
Uno dei momenti più toccanti del film la cui lentezza si apprezza totalmente è la confessione dell’amico, la cui nuora è la sorella dell’abate, una confessione esistenziale, disperata, di un uomo che vuole suicidarsi perché pur amando la moglie, i figli ed essendo riuscito a creare qualcosa nella vita, anche se poi si ritrova un artigiano fallito, non trova più il senso di continuare. È quella la prova più difficile per il protagonista che non vediamo più come il mistico con la tonaca chiuso nel suo silenzio, ma come un uomo che sente la propria impotenza nell’aiutare un amico. Qualcosa dentro di lui accade evidentemente e sarà l’inizio di un viaggio senza ritorno. Ma lo si intuisce soltanto. Riunirà le due sorelle per una passeggiata nei prati, dove si rivelerà semplicemente come il fratello, oltre il proprio ruolo di religioso, eppure le parole non servono e nulla si esplicita perché il regista sembra dire che la vita anche le svolte sono comunque incerte, procedono a passi timidi e non c’è bisogno di dire tutto.

Struggente la scena finale, nella penombra illuminata da una luce calda, in chiesa durante una funzione la sorella “pecora nera” si avvicina a Innocenzo, timida, titubante per poi sedersi accanto mentre le due spalle si toccano senza esitazione. Un gesto che in un film d’amore leggeremmo come una prima apertura al corteggiamento.

Un film per tutti, se vogliamo anche popolare, che fa riflettere sulle scelte radicali e definitive della vita e sull’impossibilità di astenersi dalla contaminazione. È sì un film d’autore ma non necessariamente di nicchia che il produttore ha scelto di proporre in una serie di sale cinematografiche particolari come l’Apollo 11 a Roma per un breve periodo: un reportage interiore con momenti di grande tenerezza.