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FUORI LUOGO

L’ANNIVERSARIO


La bacheca della Biblioteca Sormani
con la locandina di "Odissea (27 settembre 2013)
























Max Luciani (a sinistra) Angelo Gaccione (a destra)

















Nell’estate del 2013 “Odissea” cartacea compiva 10 anni di vita.
Il 27 Settembre di quello stesso anno, alla presenza di tanti amici
e collaboratori, in una Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani
di Milano bella piena, un incontro pubblico tirava le somme di quella
esperienza, e decideva di passare ad una nuova fase: dal cartaceo alla Rete;
da Gutenberg a Bill Gates, come avevamo titolato la prima pagina dell’ultimo
numero, con la lettera ai lettori che abbiamo poi riprodotta sulla prima pagina
dell’edizione on line. In quell’incontro, presero la parola diversi amici:
dal filosofo Fulvio Papi al filosofo Gabriele Scaramuzza; dal saggista e scrittore
Giovanni Bianchi al saggista e critico d’arte Giorgio Colombo, dal filosofo
Roberta De Monticelli al sociologo Nando Dalla Chiesa. Tante anche le testimonianze
di affetto, i messaggi, le presenze qualificate in quella Sala.
Dalla Chiesa, che intervenne subito dopo il direttore Angelo Gaccione, accolse la
decisione di quel passaggio con molto entusiasmo, e predisse un’espansione esponenziale
di contatti e di lettori a seguito dell’immissione in Rete del giornale. Cosa che è davvero
e fulmineamente avvenuta, sia per la disponibilità di “Odissea” a sostenere tutte le battaglie
civili e culturali possibili come aveva fatto con l’edizione cartacea, sia per la sua autorevolezza
morale che ne fa un punto di riferimento e di vicinanza ideale per gli strati sociali e culturali
più diversi. Ora siamo qui a festeggiare un altro anniversario: il primo di “Odissea” in Rete,
testata rossa come il suo appassionato rosso cuore. In questo primo anno gli scritti ospitati sono stati tantissimi (solo la prima pagina ne ha ospitati circa 500) e i contatti sono diventati decine di migliaia. Probabilmente sono cambiati i lettori, altri se ne sono aggiunti e sicuramente il mezzo
virtuale della Rete è molto diverso dallo strumento cartaceo. In più, concepito come strumento
di Rete, “Odissea” ha finito per svolgere, accanto alla funzione di analisi e riflessione a più lungo termine che aveva già, anche una funzione tipica del quotidiano. Da questo punto di vista è incredibile la quantità di materiale che arriva dalla società civile, dai movimenti sociali e dagli ambienti culturali. “Odissea” ha sempre sostenuto questa ricchezza e questa pluralità e continuerà a farlo. Sarà sempre dentro la conflittualità dialettica, fuori dagli intrighi di potere che combatterà, e in prima fila per la difesa dell’etica pubblica e degli interessi collettivi. Più di un amico ha segnalato che fra i meriti di “Odissea”, c’è quello di aver messo al centro della sua azione, la moralità pubblica; per noi è un motivo di orgoglio e di onore, soprattutto in anni di degenerazione etica della politica. È un compito che ci siamo assunti e a cui non verremo meno. “Odissea” continuerà ad essere la coscienza critica e morale della Nazione, ai lettori chiediamo di essere solidali e di difendere assieme a noi queste ragioni.
Angelo Gaccione


CENTO AUTORI PER ODISSEA


DON LUIGI CIOTTI



 





FULVIO PAPI

Fulvio Papi



















NOBILTÀ DELLA POLITICA E BENE PUBBLICO

Quando (raramente) capita di ascoltare alla tivù un dibattito politico si ha l’impressione che i limiti del lessico e le modalità dell’argomentazione, ovviamente dal punto di vista formale, non siamo molto lontani dalle discussioni dei giornalisti sportivi intorno a una partita di calcio. Se si fa eccezione del mio caro e vecchio amico Cacciari, filosofo autore di opere che hanno avuto una loro sicura importanza nella nostra cultura, che ha l’aria di un principe stizzito e costretto (perché mai?) a discutere con i suoi bovari sul rendimento del latte del suo parco mucche. Tuttavia poiché, in ultima analisi, è sempre il campo oggettivo del discorso, il suo sedimento, le sue regole e i suoi fini, a orientare la modalità del linguaggio, è obbligatorio dire che è la forma attuale della politica a dettare implicitamente le forme dell’argomentazione, il suo tesoro informativo e il suo desiderio di una comunità vincente.
Uno storico di grande valore disse recentemente che al tempo di Luigi XIV gli intellettuali erano tutti dalla sua parte. Se non ci si rendesse conto che la proposizione aveva uno scopo divulgativo, si potrebbe discutere sulle parole, ma sarebbe una chiacchiera vana, perché l’essenziale è ampiamente condivisibile. Un discorso a parte si dovrebbe fare per gli autori di filosofia politica che soprattutto facevano tesoro della loro cultura classica, è certo però che il teatro del “grande secolo”, così come la poesia, le opere letterarie, la pittura, come la filosofia, che, nel sapere culturale, abbandonava del tutto le modalità della logica aristotelica, e nel campo religioso apriva spazi per una interiorità individuale, non avevano niente a che fare con un discorso che sfiorasse la legittimità del potere assoluto del re. C’era certamente il problema dell’efficacia di quei corpi intermedi che già Montaigne considerava positivamente nella sua Bordeaux, ma che lo stato si identificasse con la centralità regale era un’opinione comune come quella che, a livello astronomico, considerava la luna come appartenente all’universo. Un pensiero non cambia se non c’è una ragione materiale che con la scoperta della sua forza non muti un equilibrio concettuale. Non è ovviamente la stessa cosa a livello epistemologico quanto muta un paradigma scientifico, attraverso processi molto complessi teoricamente e socialmente rispetto al livello politico quando una realtà sociale, squilibrata rispetto all’ordine esistente, fa valere i propri scopi come diritti oggettivi e legittimi che, sia a livello concettuale che a livello delle istituzioni politiche, devono venire riconosciuti dal potere politico.

Angelo Gaccione e Fulvio Papi

La storia dell’equilibrio politico in Inghilterra tra potere regale e potere del parlamento, il “compromesso” di Locke come spesso si dice, deriva da una conflittualità storica che segna il passaggio dallo stato assoluto allo stato moderno che, in forme diverse, si articola sui famosi tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. I quali poteri, come stancamente si ripete, non furono teorizzati da Montesquieu, ma indicati da Montesquieu come migliore sistema politico raggiunto nella situazione inglese. Anche se il potere giudiziario non doveva essere tanto ben costruito, se Bentham si pose il problema della sua riforma. Ora qui, proprio per i limiti del discorso, non è possibile seguire le vicende delle varie formazioni dello stato moderno, dove “politico” è l’atteggiamento dei discendenti americani dall’antica emigrazione nei confronti della corona inglese, sino alla guerra. Politico fu il potere del discorso filosofico intorno ai diritti naturali dell’uomo nei confronti del diritto divino conferito al potere regale. Questa tesi di Furet, quanto alla Francia, è stata criticata, ma è certamente il momento storico in cui la teoria filosofica diventa un diritto politico. Altrimenti che cosa faceva Hegel a Tübingen con il suo albero della libertà?
Perché vi sia politica nella modernità occorre sempre che una solidarietà sociale, oppure con lessico filosofico, vi sia un soggetto storico che a livello simbolico rappresenti i propri diritti, e, a livello pratico si impegni per la loro realizzazione: l’alleanza tra proletariato, intellettuali socialisti e rappresentanza parlamentare fu l’asse, almeno europeo, della politica tra Ottocento e Novecento che poteva condurre a una forma elevata di civiltà. Dico “poteva” perché l’idea che nel 1914 vi sia stato il suicidio dell’Europa è condivisa ormai in un’area più vasta che non era quella della letteratura “asburgica”. Poi i 60 milioni di morti come prosecuzione della prima guerra mondiale in un altro conflitto (1939-1945), le stragi criminali dei regimi totalitari e razzisti. E poi, ancora la nostra storia, molto complessa e da studiare analiticamente ma purtroppo spesso oggetto solo di chiacchiere da mercato editoriale. Domandiamoci, solo qual è il tema dominante di questa vicenda.


Già i deputati del parlamento inglese del 1930 sostenevano che la pressione degli interessi economici sul legislativo, rendeva molto difficile l’esercizio politico. Prendo questo piccolo esempio sostanzialmente per mostrare come non sia un’assoluta novità storica il fatto che l’estensione dei poteri economici, produttivi, di mercato, finanziari, diventino elementi fondamentali che entrano in relazione diretta con il potere politico, anzi sono molto spesso la forza obiettiva che seleziona l’élite politica. Ho detto precedentemente che, nella modernità, occorre l’energia sociale di un soggetto che si autoriconosce, per dare un volto all’azione politica. Oggi una proposizione siffatta non è vera.
L’espansione del potere economico ha certamente i suoi operatori (spesso privilegiati non solo senza merito ma con gravissime colpe comuni alla loro ingordigia), ma appare più simile alla metafora di una macchina (ho trovato la metafora nei Nobel dell’economia) che detta le sue leggi agli operatori, di quanto non assomigli a quella volontà morale che al vecchio Kant sembrava la molla di una nuova storia. È questo l’ambiente in cui la politica trova il suo spazio e i suoi interpreti. E qui naturalmente giocano le storiche e tradizionali differenze tra stato e stato o tra luogo e luogo. Non in Italia, dove siamo purtroppo in una incompiuta unità statale, e da questo punto di vista va considerata la nostra storia, la situazione relativa al dominio dell’economia diventa ancora più grave perché esso si manifesta secondo potenti equilibri locali che costituiscono la base di una diffusa corruzione che ha acquistato ancora più forza (anche se pare paradossale) quanto più si sono incrementate le autonomie locali, tanto care all’idealismo politico del nostro Cattaneo.


Di fronte a una frana così disastrosa viene voglia di ricordare che la politica è la ricerca del maggior bene possibile per una comunità. Impresa così difficile che persino, ai suoi tempi, per mostrare questa finalità, Platone ha dovuto scrivere la “Repubblica”, un’opera che “in assoluto” può costituire un modello, ma nella relatività del mondo è sempre stata ritenuta una straordinaria utopia.
Se ci guardiamo allo specchio, a noi tutto ciò non serve tanto, ma piuttosto una puntigliosa “gute Wille” (buona volontà) kantiana, unita però a una conoscenza, a una vera conoscenza teorica, di quale sia il bene pubblico e la via per conseguirlo. La formazione di una élite politica passa di qui, dove la tivù non è conoscenza, ma può essere utile; dove Internet non è democrazia, ma può servire.
Altrimenti al di là delle chiacchiere “da qualsiasi parte vengano”, è bene ripetere il celebre verso di Vittorio Sereni: “non sempre giovinezza è verità”. 
[Le foto (archivio Odissea) sono state eseguite da Fabiano Braccini nello studio di Fulvio Papi il 7 luglio 2014]





FABIO MINAZZI

 
Fabio Minazzi



















L’IMMAGINE EINSTEINIANA DELLA CONOSCENZA




Questo è il disegno con cui Albert Einstein, il 7 maggio 1952, rispondeva ad un suo amico (Maurice Solovine) che gli chiedeva: per te che cosa è la conoscenza scientifica? In primo luogo è singolare che per rispondere a questa domanda concernente la scienza Einstein ritenga opportuno ricorrere ad un disegno. Nel disegno la linea E indica il Lebenswelt, ovvero il mondo della vita e del senso comune, mondo in cui tutti noi siamo sempre inseriti (premi Nobel inclusi). Tuttavia, poco sopra questo mondo del senso comune, osserva Einstein, qualcosa fluttua nella nostra mente. Si tratta della nostra fantasia, ovvero della capacità creativa con cui l’uomo immagina alcune idee e giunge ad alcuni assiomi (per esempio all’idea che E=mc2 ovvero che l’energia sia equivalente al prodotto della massa moltiplicato per la velocità, al quadrato, della luce). Da questa idea possiamo poi costruire, deduttivamente, una teoria scientifica. Come la costruiamo? Attraverso una deduzione logicamente coerente, deduzione che Einstein indica con i tratti continui che da A scendono ad S, S’ e S’’. Poi da questa conseguenze ricavate entro una determinata teoria si cerca di tornare al piano del mondo della vita e del senso comune. Tuttavia, in questo caso Einstein traccia una linea tratteggiata. Perché? Perché questo “ritorno” al mondo della prassi – mediato dalla dimensione sperimentale e dalla tecnologia – costituisce sempre un passo assai problematico, non privo di insidie e di molteplici incertezze.
Ebbene, guardando complessivamente ed unitariamente questo disegno, Einstein sottolinea come questa costituisca la sua immagine della conoscenza scientifica. Se infatti guardiamo questo disegno in modo unitario e globale ci appare subito chiaro che il sapere scientifico si costruisce intrecciando criticamente (ovvero: motivatamente, attraverso precise argomentazioni) due polarità affatto opposte e contrastanti: quella del pensiero e quella dell’esperienza. Non solo: il disegno di Einstein mette in chiara evidenza come il cuore della scienza sia rappresentato da quel piano concettuale entro il quale costruiamo le teorie, le cui conclusioni ci permettono poi di costruire un ponte verso il mondo della vita. Questo piano decisivo per il pensiero scientifico costituisce il suo orizzonte concettuale e di pensiero. Pace quei filosofi – come Heidegger - che sostengono invece che la scienza non sarebbe in grado di pensare. Al contrario Einstein ci dice invece che il cuore pulsante della scienza è proprio il suo pensiero concettuale con cui ogni elemento deve superare il vaglio di una critica pubblica. Poi, come si è visto, Einstein non dimentica affatto il ruolo, altrettanto decisivo e fondamentale, della tecnologia. La scienza non è infatti solo la costruzione di un linguaggio specialistico che ci parla del mondo attraverso alcune teorie, perché la scienza configura anche una manipolazione attiva ed operazionale del mondo. Attraverso questo intervento tecnologico il mondo è messo del resto nella condizione di confermare, o falsificare, le nostre stesse teorie, esercitando un ruolo di primaria importanza. Infine, ma non da ultimo, si vede come per Einstein tutto il complesso del procedere scientifico riconosca un ruolo, affatto fondamentale e decisivo, anche alla fantasia e alla capacità creativa del pensiero umano, grazie al quale possiamo appunto immaginare nuove teorie e nuove idee con cui scopriamo aspetti inediti del mondo. Né basta: lo schema di Einstein ci fa anche comprendere come l’andamento del pensare scientifico sia, al suo interno disciplinare, “ciclico”, muovendosi entro una feconda spirale sempre aperta e senza fine: si parte così dall’esperienza comune per collocarsi ai suoi antipodi per poi ritornare – attraverso alcune precise e rigorose mediazioni critiche, teoriche ed anche tecnologiche – al mondo dell’esperienza. Ma, naturalmente, il punto di arrivo non coincide mai con quello di partenza. Esattamente entro questo “scarto” critico si situa il guadagno di conoscenza che ogni disciplina arreca al nostro patrimonio tecnico-scientifico, contribuendo in tal modo a modificare la nostra stessa percezione della vita, del mondo e dell’universo. Per questo si può in primo luogo concludere, con Einstein, che la scienza pensa e che il suo è un pensiero forte, in grado di modificare la nostra stessa condizione vitale.
Ma lo schema einsteiniano ci permette anche di comprendere come l’oggetto scientifico di cui si occupa ogni disciplina, costituisca sempre un costrutto teorico, mediante il quale possiamo cogliere aspetti differenti del mondo. Meglio ancora: ogni disciplina scientifica opera un “ritaglio” del mondo, costruendo il proprio oggetto di studio e di ricerca. In altri termini lo schema di Einstein ci aiuta a vedere come ogni disciplina scientifica istituisca sempre un proprio autonomo “universo di discorso”, entro il quale elabora un suo determinato linguaggio, sue specifiche categorie concettuali, sue peculiari regole di deduzione, suoi particolari criteri protocollari (di verificazione e di falsificazione), etc. Insomma, per dirla con una felice immagine di un filosofo del Novecento come Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia, ogni particolare disciplina istituisce una sua propria, specifica ed autonoma, “ontologia regionale”, per mezzo della quale il patrimonio tecnico-scientifico dell’umanità si amplia e si dilata, secondo molteplici curvature. Il che non apre affatto al relativismo, perché, semmai, ci ricorda, invece, come ogni verità, propria di ciascuna disciplina, si radichi sempre entro un determinato e circoscritto “universo di discorso e di operatività tecnica”. Con la conseguenza che tutte le verità scientifiche risultano essere “assolute” unicamente in relazione alla particolare teoria entro la quale vengono definite. In tal modo l’assolutezza di una conoscenza entro un determinato ambito disciplinare rinvia all’oggettività di ciascuna conoscenza scientifica.
Questo fecondo suggerimento einsteiniano ci consente così di comprendere, epistemologicamente, come la conoscenza umana scaturisca sempre non dalla generalizzazione, per astrazione, delle esperienze (secondo la classica immagine induttivista), bensì da una particolare teoria o da una particolare idea, mediante la quale siamo in grado di costruire, prescrittivamente, un determinato oggetto-della-conoscenza. I trattini con cui ho scritto “oggetto-della-conoscenza” indicano che questo “oggetto” non può essere compreso se viene rescisso dalla teoria entro la quale si struttura e si norma questo stesso oggetto scientifico. Naturalmente questo approccio prescrittivo richiede di confrontarsi con la dimensione sperimentale, che ci consentirà, appunto, di controllare il suo preciso valore predittivo, ovvero la sua capacità di saper anticipare, in modo corretto, il comportamento del mondo secondo determinate leggi. In ogni caso questa impostazione ci fa capire che per conoscere il mondo non ci si può limitare ad osservalo passivamente, perché, al contrario, per conoscere il mondo occorre possedere delle idee (feconde) mediante le quali possiamo scoprire nuovi aspetti, inediti, della realtà. La conoscenza scaturisce sempre da nuove idee e da nuovi pensieri che devono sottoporsi ad un doveroso controllo sperimentale. Lo slogan “fatti, non teorie” è quindi del tutto fuorviante, perché senza “parole” non avremmo neppure i “fatti” scientifici…
                                                                                 
   






ADAMO CALABRESE
L'IMMORTALITA' DELLA NEVE


















Hamelin, che disegnava paesaggi con boschi e castelli per l’illustrazione di fiabe, faceva la punta alle matite davanti alla finestra ed ogni tanto alzava gli occhi guardando scorrere la sua vita. Era l’inizio dell’inverno e c’era già stata qualche nevicata, subito sciolta in pioggia.
Prima della successiva neve Hamelin prese la corriera per il paese di sua madre e gli parve di tornare indietro nel tempo, di essere ancora il ragazzo che accompagnava la madre in visita alle sorelle. Come allora fu il solo a scendere alla fermata prevista sulla strada provinciale e di là s’incamminò lungo la stradina che seguiva il canale. Via via allungava  il passo cercando di sfuggire alla pioggia incombente. Arrivò ansimante davanti alla casa. Faticò con la chiave nella serratura arrugginita. Spinse la porta ed entrò.
Strofinò un fiammifero suscitando remoti sentori di zolfo. I suoi genitori lo attendevano seduti al tavolo della cucina. Erano serenamente assorti come nella foto del loro sposalizio. Le loro mani teneramente congiunte. Lei col cappello e la veletta, lui con la stilografica d’oro nel taschino della giacca. Quando il fiammifero si spense Hamelin cercò la candela che trovò sulla cornice del camino; la accese sprigionando una  fiamma da vetrata ecclesiastica. Nella fuga delle ombre erano spariti anche i suoi genitori. Sul tavolo era rimasto il grave librone di suo padre con le commedie di Shakespeare.
Intanto la pioggia si era infittita ed il suo costante fluire ricordò ad Hamelin l’antico diluvio. Hamelin salì la scala di legno che portava al piano di sopra. Ad ogni passo la scala bisbigliava, ma la sua voce era così confusa con gli scricchiolii del legno che Hamelin si dovette fermare e tendere l’orecchio.
“Ti ascolto.” disse Hamelin e la scala raccontò di quell’inverno quando era caduta tanta neve da seppellire il paese, lasciando fuori solo i camini più alti.  Hamelin sorrise e riprese a salire.

Al piano di sopra la camera da letto dei genitori lo accolse con sussiegoso inchinarsi di ombre. Nel centro vegliava il maestoso letto matrimoniale, gonfio per l’abbondante trapunta dorata. Soffici i cuscini, due al posto del padre, uno al posto della madre. Hamelin cercò sui cuscini le impronte dei genitori ma non vi riscontrò alcun segno come se lì avessero dormito fantasmi senza peso. In terra, ai piedi del letto, la scaldina di legno con il vassoio di rame per il deposito della brace ancora colmo di cenere. Hamelin si chinò e affondò la mano nella polvere grigia che volò via come soffiata da un improvviso respiro. Davanti al letto la toilette con lo specchio. Hamelin passò la mano sul piano di marmo dove erano allineati spazzole e pettini, poi alzò lo sguardo. Nello specchio incontrò gli occhi ridenti di suo fratello bambino. Hamelin lo salutò con un cenno, l’immagine ricambiò e si dissolse lasciando nel cristallo l’alone del suo sorriso.
Hamelin si inginocchiò davanti allo specchio, chiuse gli occhi e ascoltò la pioggia che scorreva sul tetto, scivolava nei camini, scendeva dentro le grondaie con voce umile e paziente, come se non volesse dar peso alla fatica del viaggio che aveva intrapreso sopra oceani e monti per finire su quella casa appena rischiarata dalla candela.
Hamelin si rialzò e si accostò al dignitoso armadio di legno dove erano custoditi gli abiti dei genitori. Schiuse le ante in un fuggi fuggi di tarme che si inabissavano nei tessuti. Hamelin accarezzò gli abiti del padre che dondolarono come se pudicamente gioissero. Poi, con cura, cominciò a spogliarsi per indossare i vestiti paterni. Si tolse le scarpe, si cambiò la biancheria, si infilò una camicia di lana, gli scuri pantaloni, una giacca a doppio petto. Infine si attorcigliò intorno al collo e alla testa lo scialle che suo padre usava d’inverno, a tarda sera, quando la stufa era ormai spenta e lui restava desto ancora a lungo a leggere nonostante sua moglie lo chiamasse più volte, ma non ottenendo risposta  si addormentava nel suo tenue sonno popolato da animali parlanti.


L'immortalità della neve (dis. di Adamo Calabrese)



Il mattino dopo Hamelin tornò in città. La pioggia si era mutata in nevischio a segnale dell’inverno che si avvicinava a grandi passi. Hameli raccolse i suoi disegni dedicati ad “Hansel e Gretel”, chiamò un taxi e si fece portare all’aeroporto. Prese il volo che aveva prenotato per Francoforte. Sull’aereo parlò con il vicino di posto, un viaggiatore che andava al Capo Nord per
 l’annunciata eclissi di sole. A Francoforte salì sul treno per Hanau dove i fratelli Grimm lo aspettavano. Viaggiò per tutta la notte mentre il finestrino del treno si copriva di ghiaccio. Nello scompartimento, di fronte ad Hamelin, era accucciato un vecchio che parlottava nel sonno, si svegliava di frequente e allarmato chiedeva dove fosse. Hamelin gli rispondeva approssimativamente nominando qualche stazione che aveva visto fugacemente passare in un lampo di sfocati fanali. Il vecchio scuoteva la testa:
“Quando arriveremo a Betlemme?” sospirava.

Giunto ad Hanau, Hamelin prese un tram  che lo condusse alla casa dei Grimm. Suonò il campanello. Un cane abbaiò chissà dove. Suonò ancora. Silenzio. Chiamò dalla strada enunciando il proprio nome. Si schiuse una finestra. Apparve suo padre: molto vecchio, più vecchio di quando era morto: i baffi ingialliti, un cappuccio di lana calato fin sulla fronte, gli occhiali in bilico sul naso che stavano per cadere. Hamelin sbottonò il cappotto e allargò le braccia per mostrare gli abiti che indossava. Il vecchio riconobbe i propri vestiti e lo invitò esultante: “Sali, Sali!”
e, a sua volta, protese le braccia. Stavano così quando si udì la voce della madre che chiamava il marito: “Vieni a letto, fa freddo, vieni a letto!”
Il padre si ritrasse. La porta era socchiusa. Hamelin entrò, salì la scala e giunto di sopra fu in una vasta stanza.

Adamo Calabrese a sin. a des. Seregni in piedi Gaccione

I suoi genitori erano nel loro letto matrimoniale con la trapunta dorata, stavano seduti contro i cuscini addossati dietro le spalle. Con un filo di voce suo padre leggeva il librone di Shakespeare. Sua moglie lo ascoltava, protendendosi verso di lui, ora accarezzandolo, ora voltando le pagine del libro.
Il fratellino di Hamelin, era in piedi davanti alla finestra, sorrideva e aveva levato il braccio indicando la neve che cadeva fittissima: le torri, i campanili, i camini, i tetti, i monumenti nelle piazze, le insegne degli alberghi, le cupole dei teatri, i tendoni dei circhi, gli alberi tutto, tutto era immacolato e silente, tutto era immortale come un paesaggio dipinto.
(Luglio 2014)





 FRANCO DIONESALVI


Franco Dionesalvi
















                                                     Ho trovato
Ho trovato un volantino del mago Sapienza
dice che è della dinastia dei maghi egiziani
pratica scienza talismanica, chiromanzia e telepatia
se siete infelici telefonate.
La foto che vi è apposta in bianco e nero
ha le sembianze
di un impiegato del catasto un po’ svagato.
Chissà se è vera maga la sapienza,
se sa darsi conforto
dal suo fato di stare sempre sola.

 


 ADELE DESIDERI
Adele Desideri


Cinque testi poetici inediti










DI SANGUE E SUDORE 

C’è un momento nel quale
ogni parola è sale,
ogni gesto un taglio
che il volto deturpa.

C’è un momento nel quale
il pozzo - che l’orto nasconde,
risucchia speranze e virtù.
I piedi legati,
il corpo segnato dai colpi,
sprofondi nel fango, nel buio.

Di sangue e sudore il petto bagnato,
- i graffi sul ventre,
oscilli sul muro di sassi 
tra il tempo perduto
e le meste riprese del nulla.

Non c’è porto, né fine,
solo questi tuoi giorni
e l’attimo che ti ha donato
il respiro, la libera scelta, la colpa.


Luna bugiarda

Montmartre, via Madonnina 27, Milano

Mi trafiggi la nuca,
mi imbrigli nel lutto.
Ma in tre, tu sai,
questo gioco non vale.

Sono la donna di picche,
aggrumo dolori,
nel castello dei pazzi
il re semina orrore.

La luna - tu non lo sai -
è calante, bugiarda.
Ti sfido a tressette,
la lotta è ferina,
acceco i tuoi occhi,
ti vinco, ti anniento.

Nella zuffa mi avvedo
di un sole annerito.
Sei teatro, finzione,
sei una luce sfumata.

Mi dileggi? Se vuoi,
cambiamo le carte.
Perdi tu, io proseguo,
nel cappello altre storie.

Sei un disegno incompiuto
- io volevo il tuo amore.


Una stella non la vedi

La vita l’hai imparata a poco a poco:
non hai occhi per cercare le pulci, combatti
i leoni con fucili a salve. Quando
il cielo si fa buio, tu scorgi il sole,
ma una stella non la vedi. Mi hai offerto l’armatura
- prete senza crocefisso.
                                   Non il bosco,
l’ombra, le sorgenti, ma il vento lieve
tra i monti sussurra questo male
che non so dire. Sarò con te nell’incedere
dei passi stanchi - poi ti indicherò
l’ultimo respiro, lo spettro, la luna.



L’arciere omicida

Sfilo la freccia dal petto.
Tendo l’arco: miro al cuore.
E non scocco, acuminata
- la freccia.

Ma ricordo il sospetto
- diffido, aggiro l’intrigo.

Siedo a tavola - mi nutro.


Visioni barocche

La stoffa crespata reclina spettrale
- riecheggia un pianto sconsolato. Il lume
nel ventre si accende - un trono,
quattro segni di acquerello. Il capitello
a lato regge un muro incurvato.

Nel legno persiste il dolore, il principio
di un amore.
                     Un quadro appeso, la vita.


 


GIUSEPPE BONURA 
Poesie di  Seconda mano

Giuseppe Bonura
I giochi poetici che qui pubblichiamo, avrebbero dovuto apparire su “Odissea” cartacea, dove Bonura aveva una sua rubrica fissa. Ne ho sempre rimandato la pubblicazione perché
i lunghi testi saggistici e satirici (la sua rubrica si chiamava Satyricon) erano sempre molto taglienti e legati all’attualità politica e culturale del Paese: si veda il libro in cui abbiamo
raccolto quegli scritti (Giueseppe Bonura “Satyricon”, Ed. Biblioteca di Odissea, 2011, pagg. 128 € 10,00), e questi mi sembravano un gioco, un puro divertissement.
Li avevo tuttavia conservati con l’intento di farne buon uso alla prima occasione. Lo faccio ora che lui non c’è più; vi troverete tutta la gioiosa ironia che lo contraddistingueva.
Angelo Gaccione

                       ***                 
         


Il poeta perseguitato

Settembre, andiamo, è tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i creditori
fanno schiamazzi e mi voglion linciare.

 

Ars amandi

Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia quand’ella altrui saluta
Che è arduo capir ch’è una puttana astuta.

Poesia civile

Italia mia, poiché il nuotar è indarno
Mi tuffo dal ponte e annego nell’Arno.

 

L’ultimo canto del tossico

Sono solo nel cuor della Terra,
trafitto da un ago di pera,
ed è subito nera.

La puledra previdente

O cavallina, cavallina storna,
portavi sfiga e facevi le corna.

 

Rimembranze

Sempre cara mi fu quest’ernia all’inguine                                                                                             che mi riporta al tempo in cui                                                                                                                 mi amò una vergine.



Inconvenienti fisici
Meriggiare pallido e sordo
Sotto una gronda rotta
E ritrovarmi lordo.

 

Il pastore metafisico

Che fai tu, lana, in ciel?
Dimmi, che fai, silenziosa lana?

Il genio incontentabile

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Continuo ad avere un sacco di paturnie.

Effetti sismici

Ei fu. Siccome un mobile
si staccò dal muro,
lo centrò in pieno
e ci rimase duro.

Tragedia del falegname

Nel mezzo del cammin nel duro legno
a un tratto si spezzò la vite,
e col martello fu aspra lite. 







Insoliti luoghi per il mondo: aforismi a più voci
A cura di Cesare Vergati
Ippocrate


1.Claudia Azzola: La maggior parte degli eventi che fanno il vivere sono velati sotto
                           il tumulto degli eventi manifesti.

2.Meeten Nasr:  Gli aforismi sono i fiori del deserto della poesia.

3.Angelo Gaccione: Un cieco ne accompagna sempre un altro.
                              È per questo che la Storia procede a caso, anzi a tentoni.

4.Angela Passarello: Il talento era una moneta sorda.

5.Cesare Vergati: Chiedono apatia i passionali tardivi.

6.Alberto Casiraghy: Oggi mi sento un giocattolo inquieto.

7.Rinaldo   Caddeo: L'angoscia è l'ora esatta di un orologio guasto.

8.Roberto Carusi: In hoc sogno vinces.





GIUSEPPE DE VINCENTI
IN MEMORIA DEL PADRE




Ritratto al pastello 1

Ritratto al pastello  2
Ritratto al pastello  3


Ritratto a matita


                                         




LEONARDO NOBILI
OLTRE LA SOGLIA 
Leonardo Nobili





















Oltre la soglia


Il video ispirato dall’universo Dantesco, (Inferno, Purgatorio, Paradiso), tratta i problemi, i sentimenti e le contraddizioni umane, che nonostante il passato dei secoli, sono attuali anche oggi.
Le anime erranti, cercano liberazione dal buio alla luce verso la purificazione attraversando “La porta del cielo” alla ricerca della libertà.












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L'opera video rappresenta una sorta di viaggio nella memoria, attraverso la lettura simbolica di un libro di piombo, forma materica che conserva il passato e diviene così contenitore del tempo. Attorno a questo centro propulsore prendono vita pagine strappate da vecchi libri, scolorite e ingiallite dal tempo, ma portatrici di messaggi e pensieri sempre attuali, che durano in eterno.

Scrive Ives Celli del lavoro performativo di Leonardo Nobili:

“Nobili, artista concettuale eclettico, approfondisce le versioni dell’umano nel cammino verso le forme coercitive del profondo. La sua ricerca nell’arte non si ferma nell’icona rituale di un contesto puramente formale, ma oltrepassa il senso dell’estetica conservando un’etica di richiamo nel conservare il rito e il simbolo, di una cultura di appartenenza. Nobili ha impegnato la sua carriera nella ricerca dell’identità  collettiva dell’uomo, sempre più contaminato dal frenetico cambiamento ambientale, dove nascono i conflitti dell’interiore. Le sue opere appartengono alla cultura introspettiva e rappresentano un viaggio nella memoria. In questo contesto emergono le composizioni che risultano letture del ricordo. Nobili è interessato a conservare il passato e lo proietta in forme materiche dove si possa documentare l’evento emotivo con forza espressiva, per non disperdere  la lacerazione del tempo nella propria evoluzione. 
I libri materici dell’artista appaiono in questo percorso testimoni del  passato che trasmette la cultura del presente. Le lettere, la poesia, la scrittura emergono come messaggi di un timbro regale che accompagna  l’uomo nel cammino spirituale verso la conoscenza.
Le opere di Nobili diventano la ragione del conservare per non disperdere le identità del vissuto,
per ricordare ciò che non si può cancellare, sigillando in questo modo la memoria.
Nell’esposizione emerge il protocollo della storia, come catalogazione e come mistero di ciò
che scompare, per riemergere, incatenando il concetto del tempo che appare  inesorabile.
L’arte di Nobili esprime proprio questo; un’alternanza tra quello che è già passato e quello che deve avvenire in una lenta e angosciante ricerca del ricordo e della perdita di esso, che inclina l’emozione
a cogliere nei materiali, la capacità di trattenere quello che fugge nella nostra ragione e che in qualche modo appartiene al nulla. Quindi l’artista nelle sue opere esalta la pulsione interiore, come l’esule esalta i ricordo e l’appartenenza senza via d’uscita.
Nobili sostiene: “Ciò che ci appartiene fa di noi testimoni di ciò che siamo, nel cammino del vivere”   





DARIO PERICOLOSI












IL RE DEL PARCO LAMBRO


Era una mattina di dicembre di qualche anno fa. La notte aveva nevicato tanto e, alle prime luci del giorno, un manto bianco e soffice ricopriva gli oltre 770.000 mq del più grande polmone verde di Milano. Il fiume Lambro, da cui prende nome questa piccola “Amazzonia” nella giungla metropolitana, era una scura e gelida vena che tagliava in due l'enorme parco. Passato il ponte, mi trovai davanti alla “Capanna dello zio Tom”. In questo locale ci sono venuto tante volte con gli amici e i vari amori della vita. Camminavo con una certa fatica, e lasciavo dietro di me le impronte sulla bianca pelle di quella che era la strada lunga circa 2.500 metri. La strada delimitava il perimetro del parco urbano progettato da Enrico Casiraghi e inaugurato nel 1936. Ippocastani, robinie, sofore, cipressi calvi, olmi, pioppi, platani, salici piangenti ecc. erano ovattati da una candida veste natalizia. A un certo punto, vidi venirmi incontro di corsa Gianni, un runner che tutti conoscono, anche la flora del parco. È il re del Parco Lambro: corre tutti i giorni sul perimetro stradale con il caldo, il freddo, la pioggia, la neve. Sembrava l'uomo delle nevi quella mattina con il suo abbigliamento scuro: correva sulla neve, nei punti dove le ruote di un auto avevano segnato un binario naturale. Mi passò vicino salutandomi, io feci altrettanto con la mano guantata. Il parco sembrava una vallata del Trentino Alto Adige. Le cinque cascine sparse all'interno dell'area verde avevano l'aspetto delle baite di alta montagna. L'aria pulita dava la percezione di non essere in un parco dentro la metropoli, bensì in un'oasi incontaminata con flora e fauna. Tornai a casa con il cuore gonfio di felicità come un bambino. Tenevo in una mano una manciata di neve che si sarebbe sciolta nella mia mente come ricordo di quel bianco luccicante parco e del suo re.
L'ingresso della Capanna dello zio Tom



STEFANO RAIMONDI

Stefano Raimondi a casa Fornasetti, maggio 2013
















Dalla raccolta inedita:
Le sole

                        *
 Lascia che le pietre dicano
gli scorci dei perdoni.
                        *

Come sei bella Milano
lasciata qui sola tra le vie
nella luce dell'estate che annaspa
come una cicala nelle urla
fragili ed acute delle ore.

Come sei bella Milano
cacciata dentro le tue rovine:
angoli perduti sotto il manto, cripte
di San Giovanni in conca dappertutto.

E non ti resta altro che un reperto
di cielo incorniciato
a far da garante al tuo-mio
stato di profugo e testimone
di silenzio messo in pace
che si ruba piano piano
come i merli scuri fanno
quando tolgono il mattino
lenti lenti dalla notte.


[4 luglio 2013]






MORANDO MORANDINI 
IL MIO LUTTO

Morando Morandini (foto: Fabiano Braccini)














È uscito in traduzione italiana, un libro piuttosto corto (128 pagg., 14 euro) del francese Philippe Forest “Anche se avessi torto” che ancora non ho letto, da di cui so qualcosa grazie a una nota di Elisabetta Rasy uscita su “Il Sole 24Ore”. Partiamo da Freud che nel 1917 pubblicò “Lutto e melanconia” nel quale descrive quel che dovrebbe essere il lavoro -o elaborazione- del lutto.
Da parte di chi ha subito una grave perdita consiste, in sostanza, nell’ubbidire “al comando della realtà”. Consiste nel fare in modo che tutto ritorni come prima: ritirare la libido -dice Freud- da tutto ciò che è connesso all’amato perduto e dedicarla a qualcosa o a qualcun altro. Poco importa se, una decina d’anni dopo, sembra che avesse cambiato idea quando gli morì la figlia Sophie; in una lettera del 1929 scrive a un amico nelle sue stesse condizioni, che in questi frangenti “si rimane inconsolabili, non si troverà alcun compenso”.
Secondo Forest, nella seconda metà del secolo scorso, il lavoro del lutto diventa imperativo, un dovere sociale per obbedire all’aspirazione al benessere. Nel suo libro -titolo preso da un dialogo de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij- lo scrittore smaschera questa ideologia del “diritto al soddisfacimento” per affermare il proprio personale e irriducibile dolore per la morte della sua bambina Pauline, avvenuto dieci anni prima, per impedire “che tutto ciò che è stato scompaia nel gelo nauseante dell’oblio”. Forest l’aveva già fatto nei libri precedenti: scrivere per trattenere, non per perdere, rivivere il dolore contro il lavoro del lutto che definisce “evacuativo”. Per rivendicare il dolore che, citando Kierkegaard, ci fa cadere dal “generale e ci restituisce alla nostra impervia e solitaria singolarità.
Nel suo ultimo libro, però, Forest diventa meno personale, più oggettivo: analizza “l’ostilità del contesto”. Secondo lui, la nostra è una società allergica al dolore. Lo esorcizza in molti modi: spesso espliciti e spettacolari, talvolta subdoli, più perversi. Fa un esempio concreto: per chi lo conosce o, in generale, per la “gente”, è difficile capire perché sua moglie Hélène, giovane e forte, non voglia avere un altro figlio. Per loro è imbarazzante la fedeltà al dolore. È l’ideologia dell’ottimismo a tutti i costi, della ostilità alla dimensione tragica dell’esistenza, dell’obbligo della rimozione, dello sforzo di rendere produttivo il dolore e renderlo un’opportunità di trasformare il suo patetico destino in una success story.
Pur dichiarandosi d’accordo con Forest, la Rasy nel suo articolo avanza un dubbio: sì è così, eppure non è così. L’evacuazione del tragico, quel cerchio perfetto che vuole racchiudere la nostra vita     
-dalla politica alla pubblicità- esiste, ma c’è sempre stata e continua a esserci in ogni comunità, una dissidenza, una insubordinazione, una insofferenza che si sottraggono agli imperativi del tempo e che oppongono le verità individuali e la nuda voce della vita agli imperativi del tempo e della società. Non a caso conclude, citando la lettera scritta da Freud nel 1929: “Tutto ciò che può subentrare, anche se riempisse il posto rimasto vuoto, resta qualcosa di diverso. E, a dire il vero, è giusto che sia così. È l’unico modo per proseguire l’amore da cui non si vuol desistere”.
Come ho risolto io questo dilemma? Non è facile rispondere per diversi motivi. Anzitutto il mio caso personale è diverso da quelli finora citati. Non ho perduto un figlio, ma una moglie che era già, con me, in età avanzata, dopo più di mezzo secolo di convivenza. Mi è venuto da dire, anzi da scrivere pubblicamente, nel 2004, meno di un anno dopo: “Toccava a me andarsene per primo”.
Senza dubbio ero sincero nell’esprimere quel sentimento, quello stato d’animo. Eppure c’è un’ambiguità in quella frase: in fondo, per una coppia, andarsene per primi significa evitare, scaricare sull’altro un dolore più o meno grande.

A sin. Angelo Gaccione, a des. Morando Morandini
(foto: Fabiano Braccini)










Inoltre in questi ultimi anni non riesco bene a distinguere quanto questo lavoro sia dipeso dalla mia volontà e quanto dalle circostanze, dal mio prossimo. Il Dizionario dei film Zanichelli¹ è un dizionario di famiglia. Dal 2004 a Levanto facciamo il “Laurafilmfestival”, una rassegna cinematografica di famiglia. Allargata, però. Sui massa-media fanno quasi sempre il nome mio, attribuendomi meriti e responsabilità, mentre in realtà la maggior parte del lavoro di preparazione e organizzazione è svolto da Amedeo Fago e dalla sua compagna di vita, Lia Morandini, mia figlia primogenita, lavoro svolto a Roma dove abitano, lavoro al quale contribuiscono mia figlia Luisa, e (durante il suo svolgimento in Levanto) mia nipote Francesca Fago e le sue amiche, oltre al contributo molto apprezzato in cucina del nostro amico, l’attore Giovanni Vettorazzo. Nel 2009 sono stati pubblicati “Dall’uno all’altra”, libretto di poesie/fotografie di M.M. e Francesca Fago, nonno e nipote, edito da Barbieri Selvaggi di Manduria (Taranto) e il “Dizionario del cinema junior”, firmato da M.M. e Luisa Morandini (Gallucci ed. Roma) nel quale il lavoro è stato svolto in gran parte da mia figlia. Nel 2010 è uscito (con cd accluso) il libro “Il Morandini delle donne” (Editore Iacobelli) scritto con il mio nipote omonimo Morando Morandini jr. sulla presenza femminile (registe, attrici, scrittrici, ecc.) nel cinema italiano dal 1945 a oggi. Zio e nipote, un altro libro di famiglia.
In questi ultimi anni di solitudine non pochi amici o conoscenti mi hanno domandato: come stai? come ti senti? Quasi sempre rispondo che sono protetto su due lati dal dolore: il lavoro (non poco, anzi in certi giorni anche troppo) e gli affetti: delle mie figlie (mio figlio Paolo abita da molto tempo a Cuba sebbene quasi ogni anno ritorni a Milano, in casa mia) e dagli amici.
L’iniziativa di fare un piccolo festival di cinema a Levanto è nata in forma spontanea, collettiva, famigliare. Non saprei rispondere con precisione a chi mi domandasse: a chi per primo è venuta l’idea? In nessuno di noi esiste, credo, una forma di idealizzazione di Laura, moglie, madre e nonna. È un modo per farla restare tra noi per qualche tempo ancora, a Levanto dove ci siamo conosciuti e anche sposati nel 1951, e dove, al cimitero, sono raccolte le sue ceneri insieme con quelle del suo amatissimo padre.
Il tema del dolore di ricordare in opposizione alla necessità di dimenticare mi ha sempre interessato a vari livelli, privati e pubblici. Per concludere questo discorso con parole semplici: credo di aver riversato sui miei figli e nipoti, continuandolo, una parte dell’affetto che avevo per Laura. Li amavo, ovviamente, anche prima. Oggi più di prima.

Morandini e Gaccione (foto: F. Braccini)




















[ ¹Il Dizionario “Il Morandini”, annuario critico sui film della stagione è compilato con la collaborazione della figlia Luisa, ma porta ancora il nome della moglie Laura. Nota di A. G.]   





ATTILIO MANGANO 
POESIA DIFFUSA

Attilio Mangano




Ancora una volta, navigando in rete, ho riscoperto o constatato l'enorme diffusione delle poesie nel nostro paese (e non solo, credo si possa parlare di un fenomeno globale). Certo tutti sono più o meno a conoscenza dell'esistenza di un vero sottobosco, che va ben oltre la pura e semplice stampa di volumetti di poesia presso tipografie locali oltre che in molteplici collane editoriali gestite da piccole e grandi case editrici. Chi segue da tempo questo universo si ricorda che esistono una decina e forse più di collane meritatamente famose con case editrici importanti, che hanno un loro circuito stabile, tale per cui i poeti davvero affermati, "quelli che contano" e che finiscono con l'entrare nelle antologie scolastiche, non sono poi tantissimi e si possono riconoscere abbastanza facilmente. Ma questo vuol dire davvero che occorre banalmente distinguere tra i "poeti laureati" (Montale) di serie A, e un susseguirsi di serie B, C, D etc., che puoi riconoscere dal loro stesso curriculum, dal fatto di aver vinto uno o più premi letterari e di avere fatto a loro modo carriera. Chi obiettasse che volersi limitare a un tipo di analisi "sociologica" del problema, magari anche per ironizzare su stili, mode, sub-culture e via discorrendo, rischia di commettere un errore interpretativo e una certa faciloneria interpretativa, ha dunque ragione: in fin dei conti è pur sempre vero che il mondo di coloro che vogliono essere o sono davvero "scrittori" è un campo variegato in cui coesistono grandi e piccoli autori,che non può essere giudicato con semplici unità di misure mercantile (libri stampati, libri venduti, riviste specializzate, presenza nelle librerie etc.) e che ogni giorno ha le sue novità e le sue sorprese, i suoi successi speciali, i suoi fan, i suoi critici professionali. La morte precoce di uno scrittore di grande successo come Giorgio Faletti è oggi il caso del giorno e ci conferma come sia sempre possibile l'emergere di nuovi e importanti scrittori di successo accanto a una rete più vasta Ma in fondo si osserva anche che ciò che vale spesso per romanzieri e scrittori anche di tipo giornalistico non vale allo stesso modo per i poeti, che non arrivano a vendite clamorose di migliaia di copie (anche se  casi come quelli della poetessa Alda Merini, coi suoi solenni funerali di massa, esistono e contano a loro volta). Il problema vero è capire se si è compiuto anche per il campo della poesia un salto di qualità grazie a internet e alla rete, per cui contano meno di un tempo i volumetti, le tipografie, la partecipazione a concorsi e premi letterari e conta sempre di più  la presenza di siti e blog, sicché solo a provare a indicare nei motori di ricerca la voce poeti italiani contemporanei si rimane davvero sbalorditi per il numero, per la scoperta di come sia difficile contare, calcolare, riconoscere. E' il fenomeno dei MOLTI IN POESIA, come lo ha definito un amico (e poeta a sua volta) come Ennio Abate con un blog omonimo che raccoglie parte di questo sterminato mondo multiplo  e affida loro lo spazio che essi stessi cercano e si meritano. A me oggi è successo, ma non era e non è la prima volta, di andare alla ricerca di questo universo in rete e di incappare subito, primo esempio ma per niente unico e raro, di un sito intitolato SCRIVERE( <http://www.scrivere.info/>) che ogni giorno pubblica decine o centinaia di nuove poesie inviate da lettori e autori, che si alternano nel commentare e partecipare. Mi sono permesso di segnalare questo episodio  in quanto emblematico, non so io stesso cosa dire e pensare oltre ciò che ho fatto finora, ma mi piacerebbe davvero che altri intervenissero, che nascesse una  discussione, non tanto per polemizzare (con chi, di grazia?) ma per capire le implicazioni e rispondere alla domanda  su cosa significa e rappresenta  questa presenza dei molti in poesia, una svolta, una rivoluzione culturale, una moda, un tic? E quanto un processo del genere è destinato (per cosi dire "dal basso") a cambiare culture di massa e pratiche sociali nel nostro paese nell'epoca della globalizzazione?






MARIA GABRIELLA CARBONETTO


Maria Gabriella Carbonetto

















“Pasolini poeta”

L’unica legittimità di un discorso circoscritto alla sola poesia viene dal fatto che esso può recare un contributo alla comprensione di una delle personalità tra le più complesse del ‘900”, scrive F. Baldini nell’Introduzione a “Tutte le poesie” di P.P. Pasolini (Meridiani, Mondadori. Milano, 2009).
Mi sembra necessario, pertanto, estrapolare alcuni aspetti di un’analisi di un altro grande poeta “del paesaggio” e “della natura” -mi piace definire anche Pasolini in questo modo-, Andrea Zanzotto[1], che ha scritto pagine molto ispirate e originali sul nostro autore. Questo, allo scopo di conoscere meglio il terreno, l’humus da cui trae origine e sviluppo la poesia di Pasolini, soprattutto dei primi e degli ultimi tempi della sua vita-scrittura.
è giusto qualificare Pasolini soprattutto col nome di poeta? Sì (…) La ricerca, lo sperimentalismo di Pasolini, coincidendo con lo stesso destreggiarsi fisico di un corpo-psiche…nel mondo per sopravviverci, sono stati rischiati secondo la figura del poeta”. Pasolini “puntò alla poesia totale”, come superamento delle divisioni del campo artistico in una superiore “unità «superpoetica» e forse la identificò nel cinema…senza perdere di vista il parlare-scrivere, o meglio, l’«affabulazione» come fattore essenziale della poesia”. Continua Zanzotto: “La prima fase della poesia di Pasolini, quella del dialetto friulano, in coincidenza del linguaggio materno col linguaggio popolare (mentre coesisteva la lingua «alta» della borghesia), poté davvero essere edenica e colorata di riverberi felibristici e decadentistici…Era una poesia che poteva sentirsi “pura”, in sintonia con i miti degli anni ’30-’40, perché nell’alone dell’inizio le gioie e i dolori “divini” di Narciso tutto inglobavano come nuclei concentrici, nel modo più latteo. In questa fase l’io-corpo, il paese, il tempo circolare della campagna, costituiscono un mondo nel quale ognuno, più che compagno (quale potrà forse essere domani) è “fratello”, couterino di ogni altra persona, anche nelle ramificazioni delle parentele reali (e linguistiche) e nella omogeneità delle esperienze. Pasolini non uscì mai del tutto da questo sfero, in cui da ogni ferita e da ogni peccato si diffonde tuttavia un riverbero celestiale”[2].
La conclusione dell’analisi della prima poesia pasoliniana spetta a Nico Naldini, curatore con Zanzotto di questo libro, e sperimentatore con il cugino Pier Paolo Pasolini della realtà della terra friulana, condivisa sia dal punto di vista esistenzial-linguistico che letterario, come, ad esempio, è stata l’esperienza dell’Accademia di lingua friulana: “La consuetudine con il mondo contadino divenne presto, per P.P. Pasolini, visionarietà o nostalgia di immagini antiche con usanze secolari di una lingua che, prima dell’influsso veneto, era scaturita da antiche sorgenti romanze, da liturgie religiose piene di sentimento, di carità”.
Ritornando a Zanzotto, il suo studio sulla poesia del contemporaneo e quasi conterraneo Pasolini così si intreccia con la propria ispirazione lirica. Le raccolte poetiche successive, “L’Usignolo della Chiesa cattolica”, controcanto in lingua nazionale “alta” marcata sul versante religioso, e “Le ceneri di Gramsci” su quello politico, “non avrebbero mai potuto avere la meglio su questa intensità di piacere primo, anche se intriso di morte… morte nominabile, però, (che) sta a due passi dal poeta, in un cimitero campestre in cui tutto è accarezzato e quasi richiama la risurrezione, cellula tra le cellule viventi”. Così è il paesaggio intorno con i profumi e i colori dei fiori e delle piante, “secondo la ricca botanica delle varietà locali” raccolte ne “La meglio gioventù”.
La constatazione del “fallimento dei miti rivoluzionari (ceneri gramsciane), l’utilizzazione della propria diversità psico-sessuale come baluardo contro la depersonalizzazione di singoli e gruppi nel clima della massificazione neocapitalistica (…) sono i temi sui quali Pasolini mobilita la sua passione che genera poesia (…) restando sempre maestro fanciullo, ideologo impossibile, infine poeta civile[3]. Egli non rinuncia a sondare altre vie,…passa sulla testa delle avanguardie a quell’aldilà della lingua che il cinema metaforizza, pur accentuandosi in lui, l’invariante poetica pura, l’amore per la poesia fatta di parole”.
La stessa “inutilità ed emarginazione della poesia gliela faranno apparire come l’unica possibile resistenza alla marea della massificazione”, fino a un ripiegamento alle sue origini dialettali. Il dialetto e le culture locali, di nuovo viste come unico polo di opposizione al progressivo cancellarsi di ogni identità ed etica personale e comunitaria. “La nuova gioventù” è un ricamminare sopra “La meglio gioventù”. Quel passato lontano era futuro anche se non si realizzò, perché era sepolto nel proprio nutrimento (verità in accordo con un bioritmo cosmico), era sotterra come è sotterraneo il seme: fatto marcire anziché fiorire. “La disperata vitalità di Pasolini era pur sempre attiva e i fatti di poesia che nascevano da questo ritorno sono di alto, inatteso valore. Si tratta ancora del sogno d’un procedere più che mai solo e nudo, come agli inizi del suo parlare, di ogni vero parlare”.




      
  Note                                                                                   

1.Pasolini, “Poesie e pagine ritrovate”, a cura di A. Zanzotto e N. Naldini, Lato Side 25. Roma, 1980
2.Altri autori così commentano questa fase: “Autentico félibre, …linea melodica carica, ma semplice, il poeta inventa una nuova fisicità verbale, materia di poesia”. (Contini, “Dialetto e poesia”). “L’uso del dialetto trascina all’indietro dal figlio alla madre…alla scoperta di un tempo che torna su se stesso, conformandosi ai cicli delle stagioni, con la compresenza dell’antico nel nuovo, …della morte nella vita”. (Asor Rosa, “Scrittori e popolo”). La poesia in dialetto si fa portavoce di ciò che sta morendo (la cultura contadina), sguardo rivolto all’indietro, alle origini, alla madre, a ciò che è passato insieme, sia dal punto di vista individuale che storico-antropologico. (Mengaldo, “Problemi”).
[3] Dal ’55 al ’70, dopo “Le ceneri”, le altre raccolte riferite a questo periodo sono “La religione del mio tempo”, “Poesia in forma di rosa” e “Trasumanar e organizzar”. Zanzotto definisce questi quattro libri, scritti a Roma, “densi, sbalzati, acremente collegati al moto reale e contraddittorio degli eventi nei quali essi tendono a incidere, ad agire”.







LISA ALBERTINI
LIMONI DI SICILIA 

Lisa Albertini














Rosario, in distinto abito nero si muove grossolano, parlando forte e sconnesso sulla strada bianca di luce. Tra due file di case basse e quadre, nel giallo polveroso di terra. Guarda, dietro gli occhiali a specchio, ogni raro passante. Gli si rivolge, gesticola, sembra aggredirlo. Nel suo intimo, tuttavia, non vi è protervia. Dice parlando  a caso, sparando al sole. Lo guardano di rimando, gli occhi s'interrogano, chiedendo tranquillità.
Da Santa Tecla, alta su un infinito di mare, con sassi neri di lava a margine dell'acqua e macchie verdi e gialle di mirto e ginestra sui colli intorno, arriva a un bivio con il cartello. Diretto a Scilichenti, cammina di buon  passo. Ora non parla. Percorre la strada stretta accosto a un campo di limoni.
Vicino, abita Rocco. Coltiva fiori e limoni da una vita, ma solo oggi sembra accorgersene. Guarda la piante fiorite con sorpresa, quasi non le conoscesse. Stanno tra i fusti carichi di limoni. In piccole rotonde a colori solari, fra sassi in cerchio. Rosario si ferma. Incerto, chiede a Rocco la strada per Silichenti. L'altro è sorpreso. Di solito non parla, agli occhiali a specchio. Ma fa eccezione.
“Avanti sempre e poi, quando finisce il campo di limoni, gira a destra”.
Rosario sembra non capire. “Beh, se vuole l'accompagno”. Insieme, vanno avanti un poco. Rocco si ferma.
“Qua c'erano i resti di una casetta greca. Si vedevano i muri e persino il riquadro d'ingresso. L'abbiamo trovata molti anni fa. Ero giovane, allora, e continuavo a scavare. Ma poi la vide uno dell'intendenza e avvisò che mi avrebbero tolto il campo, per cercare reperti. La interrai e dissi che non l'avevo vista. Che era un groppo di vecchi sassi dell'Etna. Ci cresce sopra questa pianta di limoni. C'erano qui i Greci, molti anni fa. La nostra terra tra colli e mare piaceva. Vi facevano anche il teatro, la pòlis, la loro vita, insomma. Li sento, sa? Nelle notti di plenilunio c'è un borbottio sotterraneo che emerge dal terreno, qua, tra i limoni. Nessuno lo sa. Me lo tengo per me, per non perdere la terra”.
Rosario taceva, ma ora dice “Ah!”. Rocco, solo adesso sembra accorgersi di fatto dell'altro. Si chiede chi sia, comprende di aver troppo parlato e zittisce.
Sono ormai verso la fine del campo. Rocco parla di nuovo.
“Ecco, ci siamo, adesso gira di qua, a destra, e tra una mezzora arriva a Scilichenti.”
Si avvia, per tornare ai suoi fiori. Chissà se ha visto il limone della casetta, pensa. Magari ne parla a qualcuno. Non gli rimane tuttavia il tempo di preoccuparsi. In fondo alla curva si volta per salutarlo e vede Rosario inciampare e cadere a terra, senza rialzarsi. Accorre. Deve essersi imbattuto il un ferro che sporge tra i sassi. E' svenuto. Per bagnargli il capo gli toglie gli occhiali.
Un occhio è chiuso e l'altro non c'è più. Poco dopo, al risveglio, quello chiuso si apre appena e rimane strizzato; le immagini sembrano entrarvi a fatica da una fessura. Rocco lo guarda stranito.
“Stai meglio, ora?”. L'altro si vorrebbe alzare, ma lui lo ferma. “Il sole picchia, rimani un po' qua, all'ombra.”
Discorrono di limoneti, dei Greci e poi del mare. Rosario si è rimesso gli occhiali e ora riprende a parlare forte, con tono sarcastico, come se recitasse in una commedia dell'arte.
“Mi cerco una pianta di limoni per me. Voglio ricominciare a vivere. Gli anni che ho vissuto sino ad oggi: uno schifo. I limoni dolci di Sicilia sono vita, speranza. Mi hanno detto che, a Scilichenti, un tale ne vende le piante, ha il vivaio”.
Rocco lo guarda con aria assente.  Un tipo strano è costui, pensa. E come farà a portarla, a piedi e senza un occhio. Ma l'altro si alza e riprende il cammino. Rocco lo saluta.
“Prendi la corriera!”, gli grida dal tornante di sotto.
Accosto alla nuova strada c'è un aranceto. Rosario annusa il profumo di zagara che ne esce. Dolce, inebriante. Vacilla, ma si tiene a un ramo. Cammina, ora abbastanza spedito. Vuole arrivare prima di pranzo.
Nel pomeriggio la corriera blu passa e suona, alla curva stretta sotto il sicomoro. E' mezza vuota. Dietro, un tipo con vicino una bella pianta di limoni si sbraccia dal finestrino. Lo vede la gente in attesa, alla fermata di Santa Tecla. Saluta tutti, ha gli occhiali a specchio. Dice che la vita è bella e i limoni portano fortuna. Quelli che li hanno vicino, campano più a lungo.
“Fortunati voi, non morrete”, continua a dire sorridente, sbracciandosi dal finestrino.

“Sole, mare e limoni vicini, non morrete. Non morrete, siete salvi…”
  
  
 
                                                                                                    

PAOLO MARIA DI STEFANO  
BORGHI UMBRI
pensieri  e parole di terra e di fuoco

Paolo Maria Di Stefano















“La ceramica è il parlare dell’anima della terra e della sua gente, quella che i poeti cantano “spirito del tutto e dell’insieme” – dice Alessandra – “è una lingua nata dall’incontro della terra con il fuoco.”
Credo di essermi perduto tra le colline, pentito del fastidio arrecato al silenzio  dal pur contenuto mormorio di un motore irrispettoso.  E da un tempo per me infinito.
“Le distanze non si misurano in chilometri, ma in orizzonti da superare”: Alessandra ricorda l’insegnamento del nonno pianista, felice anche perché la strada trascorre danzando con quella lentezza che per il musicista era l’essenza della conoscenza e della interpretazione. Sorride, Alessandra.
“Mi sembra di sentire il pianoforte di nonno Tullio. Secondo me, suona con la natura.
Come se fosse in concerto. Ti ricordi del pianoforte nella limonaia?”
Poi, d’improvviso appare Compignano, borgo di un’Umbria costruita sul modello amato dai trovatori e dai poeti e dai pittori e dai retori d’un cuore verde vivo ancora forse perché in fondo trascurato da un progresso che sembra avere grandi difficoltà ad aprire le menti e il cuore  di persone che hanno trovato il proprio ideale di vita negli orizzonti disegnati dalle onde cullanti delle colline dal canto sommesso di armonie secolari, grandiose nella assoluta semplicità. E che nel trascorrer quasi immobile del tempo si nutre di tranquilla sicurezza, di immutabili certezze.
Forse, la parte più viva della libertà. Che è fatta, la libertà, anche dalla consapevolezza di inserirsi nella natura senza forzarla, lasciandosi accogliere.
Così, a Compignano – come anche in altri borghi di questa Italia quasi sconosciuta – sembra che le case e le vie siano il prolungarsi istintivo dei colli e della armonia della natura.
Quel “sempre” in attesa vive nel lampione e si nutre degli alloggiamenti dei vasi, vuoti di nuovo e immobili, forse anche ricordo di un tempo che potrebbe tornare.
E il vicolo digradante verso un infinito annunziato dai fiori, una promessa ripetuta dai rampicanti poco più lontano, alti come a fuggire il contatto con la plastica estranea della sedia.
E l’armato impietrito al sommo dell’arco che apre il borgo, quasi un altolà ad un presente invasivo e non ancora passato, forse anche ricordato dal fantasma in degrado, ma non per questo meno minaccioso.
Anche eco di una antica saggezza: cancellare ciò che è stato non è possibile; trasformarlo in monito certamente sì. E non credo sia stato un caso che poco più in basso, incastonate a terra, vivano ancora le foglie cadute un infinito fa. Proprio come le conchiglie fossili che abitano Milano, con le quali Alessandra da sempre ha parlato e dalle quali ha ricevuto i principi vivi del suo essere architetto.
Principi soprattutto di semplicità, che ispirano il lavoro di Maria Pia Imperiali che da Compignano ha ricevuto ed a Compignano ha lasciato una parte dell’anima, e che forse dalle foglie impietrite nell’argilla ha tratto l’amore per la ceramica e per l’essenziale semplicità di un fenomeno elementare perché naturale, ma proprio per questo di complessità assoluta.
Perché la terra che diviene terracotta e gres e porcellana a contatto con il fuoco è forse quanto di più naturalmente semplice si possa immaginare, seppur frutto di reazioni chimico-fisiche che trasformano argille, feldspato di sodio e di potassio, sabbia silicea, ossidi di ferro, allumina e quarzo in quella ceramica che da sempre ha impegnato gli uomini in sforzi così di ulteriori trasformazioni come di elaborazione di forme e decorazioni, così anche facendo della terra cotta un linguaggio d’arte. Fin dalla notte dei tempi. E forse proprio per vincere la notte qualcuno ha cominciato a cuocere la terra alla luce del fuoco ed a decorarla in modo che rimanessero cristallizzati temi e piaceri e deliri espressi in segni e colori divenuti sempre più complessi.
E forse non è un caso che proprio la ceramica sia divenuta l’arte che meglio sembra esprimere lo spirito d’una terra e dei suoi abitanti, divenendone paradigma.
Ma che sembra aver prodotto un effetto in qualche modo distorto: un diffuso immobilismo nelle forme e nelle decorazioni, naturalmente con più di una eccezione. Certo è, comunque, che quando si fa riferimento ad Orvieto, a Gubbio, a Deruta (come a Bassano, a Faenza, ad Albisola, a Caltagirone, a Capodimonte, a Faenza, a Mondovì, a Vietri, a Torrita di Siena e via dicendo - i comuni che in Italia hanno parlato con la ceramica sono almeno una settantina) l’immagine rarissimamente esce dai confini creati da uno stile cristallizzato e comunemente accettato. Quando lo fa, il riconoscere l’opera e l’autore come descrittori dell’anima  del territorio è certamente difficile. Dal che, anche, la carenza di innovazione.
Così, le ceramiche raccontano di sé perpetuandosi in una clonazione infinita.
Tra le ceramiche umbre, i piatti di Orvieto sembrano i più sobri, mentre quelli di Deruta devono almeno in parte la propria notorietà ad un grado di complessità decorativa mai più superato, seppure in qualche modo presente con variazioni anche importanti in più di un territorio.
Perché ogni terra del  mondo si rivela costruendo personalità diverse su di un linguaggio comune. E come accade per il seme lasciato al vento, che germoglia in un grano di terra fertile tra sassi immoti, parla a chi è in grado di ascoltarlo e genera espressioni d’arte che la raccontano.
Ecco, allora, che borghi ignoti e fuori dal tempo si rivivono nella poesia dei figli più attenti e pronti, e Compignano narra di sé nella ceramica di Maria Pia Imperiali.
Tra passato e presente ogni  contraddizione  scompare, e la semplicità degli inizi torna all’oggi  e diviene creatività. Così accade per questo vecchio che ascolta e impara dalla giovane creatura, forse un angelo, che lo guarda negli occhi, tesa a sua volta, forse, a scoprirne i pensieri segreti e le nostalgie.
E poi, la dolcezza del profilo di una gentildonna forse evocata a Compignano, dallo sguardo carico di nostalgia, tono su tono perché espressione di tutto un mondo rapidamente tracciato nell’intreccio della natura che avvolge il borgo.
E Compignano creato, come quel volto, dal paesaggio stesso,  espressione viva delle ondulate colline nate dall’infinito e all’infinito dirette. 


Compignano



Compignano
















































  1. (Le foto di Compignano sono di Paolo Maria Di Stefano.
  2. Per le ceramiche, fotografie di repertorio
  3. Per i lavori di MP Imperiali, foto dall’artista)



ANNALISA BELLERIO
IL PAESE SENZA MERAVIGLIA


Annalisa Bellerio















“Cat, dog, horse, snake, bird, fish, rabbit…
Seduta su un cuscino in camera sua, con il libro di inglese aperto davanti, Alice ripeteva la lezione per la terza volta. Doveva prepararsi al compito in classe.
Guardò la buffa figurina del coniglio e sospirò. Che bello potersi inserire dentro la testa un file della lingua inglese e così ritrovarsi a saperla perfettamente senza bisogno di studiarla e fare fatica. E così anche per le altre materie. Tutto scaricato direttamente nel cervello, in un colpo solo. Fine della scuola, dei compiti, dei voti, e un sacco di tempo a disposizione per divertirsi.
Continuò a fantasticare osservando il coniglietto bianco (o era lui a osservare lei?), finché il libro le cadde di mano.
Il coniglio scappava fuori dalla pagina e Alice non poteva fare a meno di seguirlo. Correvano, non sapeva verso che cosa.
Quando si sentì troppo stanca, si fermò e si guardò intorno. Dove si trovava? Il paesaggio era irriconoscibile. Era forse capitata nel paese delle meraviglie, o su un altro pianeta. Oppure era sempre sulla Terra, ma in un futuro imprecisato. Non erano solo le caratteristiche ipertecnologiche del luogo a impressionarla, ma anche l’aspetto dei suoi abitanti. Erano bellissimi. Le donne sembravano tutte modelle, gli uomini attori o atleti.
Il coniglio riprese a correre e lei a seguirlo fino all’interno di un edificio e giù, in un sotterraneo. Un ambiente da film di fantascienza. Un signore con una specie di tuta spaziale le andò incontro.
“Sì, lo so, ti sei prenotata per l’inglese. Solo quello? Posso scaricarti anche quattro o cinque lingue contemporaneamente. Comunque c’è da aspettare”, la avvisò indicando una porta, e ritornò in una grande stanza con tre poltrone su cui erano sedute tre persone con degli apparecchi sulla testa, come addormentate. Sembrava una scena di Matrix.
Alice entrò nella sala d’attesa, dove c’era una ragazza. Si sentì subito in imbarazzo, lei così piccolina, col caschetto castano e la sua aria paffuta di fronte a quella stangona dal fisico perfetto e una massa di strepitosi capelli rossi. Si sedette un po’ tesa.
“Per cosa sei qui? – si informò la ragazza – Io per l’aggiornamento in fisica nucleare. Mi chiamo Scarlet.”
“Io sono Alice. Voglio imparare subito l’inglese. Ho saputo che si può fare, anche con altre lingue contemporaneamente.”
“Certo, ma non l’hai fatto da piccola? Tutti sappiamo sei o sette lingue, ma appunto per questo non ci serve più a niente perché non c’è più nulla da tradurre. Ma tu non sei di qui, vero?” le chiese Scarlet, guardandola dalla testa ai piedi e facendola arrossire.
“No, io…”
In quel momento entrò un tipo atletico, che le ricordò qualche personaggio famoso.
“Gli allenamenti virtuali sono qui?” domandò.
“No – rispose la ragazza rossa – è l’altro corridoio, a sinistra.”
Il tipo rivolse ad Alice un’occhiata incuriosita e se ne andò.
“Allenamenti virtuali?” si stupì lei.
“Che c’è di strano? Per mantenere muscoli, tono eccetera. Possiamo farci inserire anche la pratica degli sport, ma poi c’è il mantenimento.”
“Be’, allora non conviene fare i veri allenamenti?”
“Ma così non si fa fatica. Puoi anche migliorare l’aspetto fisico cambiando un po’ le caratteristiche scelte dai tuoi genitori. Io ora vorrei provare i nuovi modelli di occhi, quelli argentati.”
Alice sgranò i suoi, e osservò meglio la ragazza che aveva di fronte. A guardar bene, il colore blu elettrico degli occhi faceva un po’ a pugni col rosso dei capelli, che a sua volta stonava con la pelle abbronzatissima. L’argento che effetto avrebbe fatto?
Cercò di cambiare argomento. “Ti interessi di fisica nucleare?”
“No, ma sono rimasta indietro. A dire il vero, anche in ingegneria aerospaziale, in biologia marina e in tecniche artistiche. E in taglio e cucito. Un po’ alla volta, devo mettermi in pari.”
Alice era atterrita. “Come fai a trovare il tempo per dedicarti a tutte queste cose?” chiese con un filo di voce.
“Non mi dedico a nessuna di queste cose, ma se non le so e gli altri sì, come faccio? Il problema è trovare il tempo di sottoporsi di continuo al loading, col rischio di interferenze e di intolleranze.” La voce di Scarlet tradiva l’ansia. “Volevo una camicia bianca e l’altro giorno ho preso la tela per farmela da sola. Poi invece mi sono ritrovata non so come a dipingerci sopra coi colori acrilici. E di recente ho scoperto che l’inserimento del violino mi ha procurato un’allergia.”
Alice non sapeva come alleggerire la tensione. “Vedo che suoni anche la chitarra”, disse notando lo strumento appoggiato nell’angolo dietro una sedia. “Io sto imparando, mi piace molto. Hai voglia di farmi sentire qualcosa?”
Senza entusiasmo, Scarlet imbracciò la chitarra e suonò un virtuosistico pezzo di arpeggio.
“Sei davvero brava”, riconobbe Alice. Tecnicamente, l’esecuzione era ineccepibile, ma fredda, meccanica, priva di personalità. “Poi vai a suonare da qualche parte? Hai un gruppo?”
“Oh no. Tutti sanno suonare nella stessa maniera e così a nessuno interessa ascoltare nessuno. La chitarra mi serve come contenitore per tenerci dentro i grilli.”
“I grilli?!?” Alice credeva di avere capito male.
“Sì, i grilli che vado a cercare e poi vendo. Ma ormai ne sono rimasti pochi e così li allevo e li faccio cantare. Sono l’unica a farlo e alla gente piace ascoltare i grilli. È il mio lavoro.”
“Il tuo lavoro? Ma se sai sette lingue, sei un pozzo di scienza, suoni, dipingi…”
Già, si interruppe Alice. Ma anche tutti gli altri sapevano le stesse cose. In quel mondo non c’erano scuole, insegnanti, traduttori, scienziati, poeti, artisti, atleti… Tutti potevano essere tutto, senza fatica e senza talento, e dunque non c’era bisogno di nessuno, non si provava ammirazione per nessuno. Niente interessi, emozioni, passioni. In quel paese delle meraviglie mancava la meraviglia.
Così Scarlet si era costruita un’abilità solo sua, e con i suoi grilli era riuscita a stupire, oltre a lei, anche tutto quel popolo di saputelli imbottiti di sterili nozioni. 
Voleva andar via da quel posto. Voleva scappare via veloce, come un coniglio…
Alice si risvegliò, accoccolata sul cuscinone in camera sua. Accanto a lei per terra c’era aperto il libro di inglese, con le figure e i nomi di animali. Il coniglio la guardava… divertito?
Rimase ancora un po’ in silenzio, pensierosa. Poi raccolse il libro e, con pazienza, ripeté: “Cat, dog, horse, snake, bird, fish, rabbit…”.

 



 ADAM VACCARO

Adam Vaccaro - Firenze 2013-



















Altro oro

Quando il danaro non è più segno d'oro splendore
di sole chiarore di sale di valore riflesso del fare
ma solo mina vagante tra le dita di invisibili croupier
sul tavolo dell'immenso magma dei debiti imposti
al mondo – vuoto che risucchia e vomita come
ventre di balena ogni minuta vita nel suo vortice 
che pare privo di uscite - tocca alle sue vittime
cercare ancora ancora e ancora scarto e scatto
di riprendersi la vita senza più aria come smarrita
provando ancora a ridarle valore e altro oro.


 


TOMASO KEMENY
IL MITO DELLA “NUOVA” AZIONE POETICA  



Tomaso Kemeny














Le avanguardie e le neo-avanguardie hanno teso ad abbagliare la tradizione per aprire nuovi sentieri alle forme ad ai valori. Nella nostra epoca dell'Impero del Brutto non è rimasto nulla da decostruire, devastare, ridicolizzare, distruggere. Ovunque trionfa il vuoto intellettuale e formale, mentre il disgustoso, l'immorale e la mancanza di talento vantano il proprio dominio. Non rimane che vivere secondo i dettami di una “bellezza sovversiva” e lottare per la nascita di un mito in grado di rivalutare-accettare di essere deboli-sconfitti in attesa di una “impossibile” liberazione dall'Impero del Brutto fondato sulla corruzione globalizzata. E' l'ora di rivalutare un destino che non sia volontà trascendente e a noi esteriore, ma che invece sia una volontà-desiderio che sia interno a noi. Se la cinica consapevolezza condanna il mondo alla perdita di ogni capacità di creare il futuro, sia la “fede poetica” a garantire quella sospensione dell'incredulità che è in grado di farci aderire incondizionatamente a quelle “illusioni”, che secondo Ugo Foscolo, ci “fanno camminare sulle stelle”, favorendo quell'appetito dell'impossibile e del prodigioso che ci porta e porterà alla rivolta contro l'Impero del Brutto e contro quelle insensatezze che fanno sprecare la vita a tutti i contemporanei.
Il mito potrà nascere da serie di azioni poetiche propositive in grado di sfidare la profonda stanchezza di un'epoca dovuta alle eclissi di quelle attese utopiche fondamentali per le condizioni eroiche dell'essere umano che come tale, fino dalle origini mitiche, da quando Prometeo s'immolò per concedergli il “fuoco”, ha sempre teso al superamento del dato. Ed è ingiusto, tuttavia, addebitare totalmente la spossatezza spiritual-culturale alle nostre società, allo sconfinato Impero del Brutto in cui ci troviamo a vivere, poiché ognuno di noi è, invece, responsabile della rinuncia a una vita vissuta all'altezza delle possibilità umane, lasciandoci arruolare nella schiera dei “morti-viventi”.
Contro il cinico buonsenso non si può che aspirare a una vita conflittuale con le relazioni proposte-imposte dalla “realtà”, per essere pronti a contribuire alla nascita di un mondo fondato sulle fulgide esigenze di una mitica bellezza ancora ignota, metamorfica trasfigurazione della grande tradizione non del tutto sradicata dal corpo di un Italia idealmente incoronata dallo splendore. Dare forma a una bellezza ignota sarà realizzabile solo quando, come già intuì Plotino nelle sue Enneadi, al di là dell'identità e della differenza, le persone vivranno le esigenze metamorfiche della bellezza oltrepassando i confini del noto. Chi vede il bello come altro da sé, non contribuirà alla nascita trionfale del nuovo mito. (Per la condizione metamorfica della bellezza, basti ricordare alcune sue apparizioni storiche: la bellezza romanica, rinascimentale, barocca, romantica surrealista ecc.). A 150 anni dall'Unità dell'Italia, sentendo l'improrogabile epifania della futura nascita di un mito rigenerante, consapevole che nessun Dio, nessun governo avrebbe mosso un dito contro l’Impero del Brutto, colsi la scintilla nel vento per stilare il “Manifesto per l'Italia Unita nella Bellezza”, invitando i cittadini ad arruolarsi come volontari per la conquista dell'Infinito, l'Infinito venendo incarnato in Italia dal colle dell'Infinito a Recanati, nelle Marche, cantato da Giacomo Leopardi. Giunsero messaggi di adesione da tutto il mondo di poeti, artisti, filosofi, psicanalisti libertari e lacaniani, insegnanti, galleristi, studenti e anche un sacerdote cattolico (Marco Lunghi) reduce dal monte Sion. Dall'Uruguay arrivò il messaggio di Clemente Padin, uno dei padri del mail-art. Erano messaggi di adesione alla battaglia perché l'Impero del Brutto non avesse un dominio simbolico definitivo sul globo. Questi messaggi furono, prima della spedizione dei “mille” (se non fosse stato mortale, Garibaldi ci avrebbe condotto in modo inimitabile) a Recanati esposti all'attenzione del pubblico presso “Gli eroici furori di Arte Contemporanea” di Silvia Agliotti a Milano. La spedizione risulta documentata nella pubblicazione Recanati: l'Italia Unita nella Bellezza (17 marzo 1861 – 17 marzo 2011) a cura di Tomaso Kemeny, Arcipelago Edizioni, Milano, 2011.
Ridano pure di queste righe gli affossatori del desiderio dell'impossibile. Con Pascal Picq ricordo che “la ricerca della bellezza risulta comune a tutta l'umanità”. C'è da temere che l'Impero del Brutto ci transiti tutti in un’epoca post-umana, in cui tutto avrà un prezzo e nulla un valore.








Una poesia-fiaba di Franco Manzoni
dedicata ai bambini ebrei morti nel lager di Terezin


FRANCO MANZONI      
LA FARFALLA E IL TOPOLINO   
ovvero sogni bambini a Terezin

Franco Manzoni


                                             

















una lampadina accesa
in questa notte di serpenti
niente serrature
si potrebbe correre assieme
giocare a nascondino
nel gelo prigioniero
di un topolino in gabbia
sotto luce fissa febbre di fuga
quando se ne andrà
l’ultimo bacio dalle labbra
volerà  in alto oltre i confini
di arcobaleni  e bambini morti
di pigiamini a righe stesi ad asciugare
partoriti sullo spinato filo
in quei silenzi che mai hanno volato
sarà l’ultima farfalla gialla gialla
nata su questo petto di stella
ci penserà lei a raccontare
piangendo rugiada
il sapore idiota del male
quando ci spaccano la faccia
a suon di sberle tante
se non facciamo il militare saluto
alla razza padrona che usa lo sputo
sulle teste rasate dei piagati piccini
segnando a gesti il cammino
l’ombra oscura della nostra strada
in fila con la gavetta in pugno
per uno spicchio di patata
quando va bene o acqua
che puzza  di merda e serva
per superare col respiro
un altro giorno da raccontare
ho visto con divelti occhi
il mio compagno di nove anni impiccato
dimostrazione per gli altri condannati
oh il profilo delle sue ossa
disperate sbriciolate un burattino
anche lui come me gridava
cercando la mamma che non c’è
più non c’è più non c’è
l’albero di sangue cresce
al centro del nostro cuore si serra
nel giardino inchiostro dei senza terra
lo confesso oppresso dalla rabbia
sono io quel topolino in gabbia
mentre le guardie bevono uccidono
teschi di piombo di risa scoppiano
stanotte sognerò di scappare
mi metterò a cavalcare
zitto sulla farfalla gialla gialla
di andarmene con lei verso il sole
a lavarmi il sangue incrostato nel mare
mi porterò dietro il cuscino di paglia
leggeri leggeri la farfalla e il topolino
vinceranno i pugnali neri
per sentieri occulti sgusceranno via lontano
tenendosi per mano nella penombra
fermeranno pistole e mitra
alzeranno una bandiera  in alto
in alto seppur ferita
si sposeranno domani uscendo dal fango
si uniranno con odore e saliva di stella
si daranno carezze a non finire
dal sudario faranno dei figli nel tepore
un topolino giallo da tenere nel taschino
una farfalla rosea e grigia lì vicino

 


FABIANO BRACCINI

Fabiano Braccini



















L’ISOLA PROVVISORIA

A questa sponda d’isola remota                 
m’ha traghettato un’onda forte e tesa:                           
sulla distesa tiepida di sabbia
faccio morbido letto nelle chiare
 notti di stelle.
Resto in trepida attesa di un segnale,
d’un messaggio sussurrato dal vento,
prima che il sole
svanisca oltre la linea del tramonto.

Sul masso di granito levigato,
all’ombra rarefatta delle palme,
traccio il quadro d’ogni giorno passato                    
e rimango adagiato anche per ore                 
a meditare                                                                                     
con pensieri che scorrono la vita,
contornano d’un velo di languore
i volti amati,
vagheggiano i misteri dell’eterno.     

Può darsi che domani all’improvviso
dal silenzio mi chiami un’Alta Voce:         
allora io dovrò  – senza esitare -                 
trovarmi preparato ad affrontare                   
l’ultimo viaggio
per l’infinito, inesplorato mare.
Con la speranza d’aver lasciato qui,        
del mio passaggio,
un gesto dignitoso, un buon ricordo. 

               ***

IL GRANO DI GIUGNO

Spighe gonfie di chicchi
e già bionde di sole
come onde si muovono
al soffiare
dei venti
piegandosi arruffate
per ritornare poi
quieto mare di giallo.

Affiorano qua e là   
di tanto in tanto  
le teste rosse dei papaveri:
fiammanti
pennellate
a creare con l’oro del grano
le impressioni eternate      
dai quadri di Van Gogh.        

           ***


PADRE, SE TU FOSSI QUI

Padre, io da bambino mi credevo           
troppo lontano e poco somigliante 
a quel tuo tratto dolce ma deciso,
alla severità verso te stesso,
alla serenità nell’affrontare   
istante dopo istante la tua vita.

Ma sempre ti ho tenuto poi vicino,                      
ho portato con me il tuo messaggio,
l’educazione che mi hai consegnato.

Se tu fossi qui adesso, in questo tempo,         
ad osservare come vivo il mondo,             
vedresti rispecchiati in me i valori
e gli ideali dei quali mi parlavi,                    
sentiresti da me tante opinioni                           
che tu affermavi spesso con fervore.

E percepiresti, dalla mia mano    
che ti sorregge il passo e che ti guida,                                     

la fierezza di un figlio per suo padre.

 

  RINALDO CADDEO

   SOGNO


Rinaldo Caddeo










Una forma oscura s’è staccata dal disegno di un muro scrostato e ha cominciato a camminare per la città. E più cammina e più cresce fino a diventare un gigante: la testa, il collo, le spalle, sopra i tetti delle case, il busto e le gambe tra le strade. Con le mani prende i passanti, le automobili, i tram e li scaglia. Prende un cane. Il cane lo morde e lui lo schiaccia tra le dita, fino a fargli uscire gli occhi dalle orbite,
i denti dalle gengive.
Tutti fuggono terrorizzati ma lui è un bambino, un gigantesco bambino, fatto di ciuffi di schiume di fumo (unghie rabbie fiamme), che vuole solo giocare. E si alimenta con tutti gli scarichi della città che lo fanno aumentare.
Solo una bambina non scappa e lui gioca con lei senza farle del male. Lei lo fa entrare in camera sua 
e lui si riduce alle dimensioni di un bambino quasi normale.
Lei lo convince a diventare ancora più piccolo. Lo fa entrare in una scatola e lo chiude dentro.
E lui esce soltanto la notte per le vie della città a spargere paura, quando la bambina dorme. 
Entra nelle case. S’infila per i cunicoli, le fessure, gli stipiti. Passa attraverso il naso, le palpebre, 
le orecchie e imperversa facendo urlare la gente.
Così tutte le notti.
Qualcuno si sveglia pensando: «Ho fatto un sogno. È stato un bel sogno. Peccato che sia finito».
Qualcun altro, invece, si sveglia pensando: «Ho fatto un sogno. È stato soltanto un brutto sogno. 
Per fortuna la realtà non è così».     
Ma di giorno il sogno rientra nella scatola per giocare con la bambina.


 



ARTURO SCHWARZ
L'ETICA SURREALISTA

Arturo Schwarz (Foto: Dino Ignani)

  














Un luogo comune solidamente radicato nella sinistra, rivoluzionaria e non, vuole l’azione politica di Breton e dei suoi amici dilettantesca e superficiale. Per confutare il pregiudizio e documentare fino a che punto la loro attività fu ragionata e aderente alle necessità di una prassi autenticamente rivoluzionaria basta seguire la cronaca degli eventi. Si vede allora come il surrealismo, lungo l’arco di ben quarant’anni, sia stato autorevolmente presente in tutti i momenti chiave -piccoli o grandi che fossero- della storia contemporanea con prese di posizione chiarificatrici. Nessun altro movimento culturale può rivendicare una tale continuità di interventi politici, altrettanto lungimiranti e su un periodo di tempo così lungo. Il sogno a occhi aperti dei surrealisti non fece mai perdere loro di vista la realtà nella quale lottavano.

Il primo proclama del gruppo riprende una classica rivendicazione del pensiero anarchico: “Aprite le prigioni. Sciogliete l’esercito. Non esistono reati di diritto comune”. Vi si legge tra l’altro: “Le costrizioni sociali hanno fatto il loro tempo. Niente, né la constatazione di un fatto compiuto, né il contributo alla difesa nazionale potrebbero costringere l’uomo a fare a meno della libertà. L’idea di prigione, l’idea di caserma hanno oggi pieno corso; queste mostruosità non vi sorprendono più... Non abbiamo paura di confessare che noi attendiamo, che noi auspichiamo la catastrofe. La catastrofe consisterebbe nel persistere di un mondo in cui l’uomo ha dei diritti sull’uomo. L’unione sacra dinanzi ai coltelli o alle mitragliatrici: come fare appello più a lungo a questo argomento squalificato? Restituite ai campi i soldati e i galeotti. La vostra libertà? Non c’è libertà per i nemici della libertà. Non saremo complici dei carcerieri”[1].

La “Dichiarazione del 27 gennaio 1925”, stampata su un volantino al quale fu data grande diffusione, redatta molto probabilmente da Antonin Artaud, fu firmata dal gruppo surrealista al completo: Louis Aragon, Antonin Artaud, Jacques Baron, J.-A. Boiffard, Joë Bousquet, André Breton, Jeaq Carrive, René Crevel, Robert Desnos, Paul Eluard, Max Ernst, T. Fraenkel, Francis Gérard, Michel Leiris, Georges Limbour, Mathias Lübeck, Georges Malkine, André Masson, Max Morise, Pierre Naville, Marcel Noll, Benjamin Péret, Raymond Queneau, Philippe Soupault, Dédé Sunbeam, Roland Tual.
Il documento è di grande importanza in quanto precisa che il surrealismo non è una nuova scuola letteraria, ma un movimento ideologico rivoluzionario:

“1. Non abbiamo niente a che vedere con la letteratura. Ma, se necessario, siamo capaci, come tutti, di servircene.
“2. Il surrealismo non è un nuovo o più facile mezzo di espressione, e neppure una metafisica della poesia; è un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che gli somiglia.
“3. Siamo ben decisi a fare una Rivoluzione.
“4. Abbiamo accoppiato la parola surrealista alla parola rivoluzione solo per dimostrare il carattere disinteressato, distaccato e persino del tutto disperato, di questa rivoluzione.
“5. Non pretendiamo di cambiare niente nei costumi degli uomini, ma certo riteniamo di dimostrare la fragilità dei loro pensieri e su quali assise instabili, su quali fondamenta abbiano stabilito’ le loro case vacillanti.
“6. Lanciamo alla Società questo solenne avvertimento: che faccia attenzione ai suoi errori, a ogni passo falso non la mancheremo.
“7. A ogni svolta del suo pensiero, la Società ci ritroverà.

“8. Siamo degli specialisti della Rivolta. Non c’è mezzo d’azione che non siamo capaci di usare, se necessario.
“9. Diciamo più particolarmente al mondo occidentale: il surrealismo esiste.
“– Ma cos’è dunque questo nuovo ismo che ci si appiccica?
”– Il surrealismo non è una forma poetica.
“È un grido dello spirito che si rivolge verso se stesso ed è ben deciso a distruggere disperatamente le sue catene, e se necessario con martelli materiali!”[1].

Arturo Schwarz (Foto: Dino Ignani)

La prima guerra mondiale, che ha fatto incontrare i surrealisti, provoca in loro una presa di coscienza che determinerà tutta l’evoluzione del movimento. “Questo macello ingiustificabile, quest’inganno mostruoso, è ciò che mi ha persuaso che la parola scritta non doveva essere solamente strumento per piacere, ma che piuttosto doveva aver presa sulla vita”[2]. Il prolungarsi del conflitto non faceva che rendere più totale il rifiuto “degli imperativi e delle costrizioni... che diventavano di giorno in giorno più cinici e intollerabili... Mi aspettavo che la poesia, per sua essenza ferocemente ostile a tutto ciò che avevamo patito, mi desse lo stimolo necessario a questa lotta”[3].

Questa prima presa di coscienza è di carattere ancora generico. “In questo momento il rifiuto surrealista è totale, assolutamente inadeguato a lasciarsi convogliare sul piano politico. Tutte le istituzioni sulle quali si fonda il mondo moderno e che hanno avuto la loro risultante nella prima guerra mondiale sono considerate da noi aberranti e scandalose. Per cominciare, ci scagliamo contro tutto l’apparato di difesa della società: esercito, ‘giustizia’, polizia, religione, medicina mentale e legale, scuola... Ma per combattere con qualche speranza di successo è necessario attaccarne la struttura portante, la quale, in ultima analisi, è di ordine logico e morale: la pretesa ‘ragione’ di uso corrente, la quale ricopre con un’etichetta fraudolenta il ‘buon senso’ più logoro, la ‘morale’ falsificata dal cristianesimo allo scopo di scoraggiare ogni resistenza contro lo sfruttamento dell’uomo”[4].

Un altro conflitto, ora di carattere coloniale, vede la Francia mandare un corpo di spedizione in Marocco per domare Abd el-Krim. Questa volta la guerra è ancora più sporca, non si tratta della rissa tra banditi che vogliono assicurarsi una parte maggiore del bottino, si tratta di una guerra fatta per privare un popolo della sua libertà e della sua dignità, una guerra per mantenere in schiavitù altri esseri umani. La protesta assume per la prima volta un carattere politico. L’ “Appello ai lavoratori intellettuali” è elaborato in collaborazione con il gruppo della rivista paracomunista Clarté (Georges Altman, Jean Bernier, Victor Crastre, Marcel Fourrier, Victor Serge ecc.) e con il gruppo “Philosophies” (Georges Friedman, Henri Lefebvre, Georges Politzer ecc.). Vi si afferma: “Turbati e disgustati dalle atrocità c ommesse da ambo le parti sul fronte dell’Uergha, constatiamo che questi crimini sono di tutte le guerre. Ed è quindi la guerra che bisogna disonorare... Proclamiamo, un’altra volta ancora, il diritto dei popoli, di tutti i popoli, a qualsiasi razza appartengano, a disporre di se stessi” (L‘Humanité, 2 luglio 1925).

André Breton commenterà: “In presenza di un fatto così brutale, ripugnante, impensabile [la guerra marocchina], l’attività surrealista sarà condotta a interrogarsi sui suoi mezzi, a fissarne i limiti; saremo costretti ad adottare un atteggiamento preciso, esterno a essa, per continuare a far fronte a ciò che va al di là di tali limiti. Questa attività è entrata ora nella sua fase ragionante. Sente improvvisamente il bisogno di saltare il fossato che separa l’idealismo assoluto dal materialismo dialettico”[5].
È necessario precisare che nel 1925 la conoscenza da parte dei surrealisti dei classici del marxismo era sommaria. Gli echi della Rivoluzione d’ottobre cominciavano a malapena a raggiungere la Francia. E quanto succedeva in quel momento in URSS, la battaglia dell’Opposizione di sinistra, le posizioni di Trotskij ecc., era completamente ignorato. Breton ricorda: “In Francia la polizia intellettuale è stata ben vigilante se queste idee hanno impiegato tanto, quasi otto anni, per arrivare sino a noi! Sino al ‘25 è notevole che la parola rivoluzione, in quello che può avere per noi di esaltante, non evoca nel passato che la Convenzione e la Comune”[6].

A questo riguardo ricordiamo che, sino al 1925, gli unici accenni dei surrealisti alla Rivoluzione d’ottobre sono fatti da Aragon. Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dall’uomo che fu l’unico surrealista a resistere per ben quarant’anni nel Partito comunista francese, i suoi accenni sono spregiativi. Nel 1923 egli definisce il bolscevismo “rispettabile, ma piuttosto ristretto”[7]. Nell’ottobre 1924, all’indomani della morte di Lenin, Aragon, in un manifesto contro Anatole France, definisce quest’ultimo “il letterato oggi acclamato sia da quel tapiro di Maurras, sia da Mosca la rimbambita”[8]. Questa sortita gli viene rimproverata da Bernier, amico di Aragon, sulla rivista Clarté. Aragon replica con ancor maggiore improntitudine: “La rivoluzione russa? Lei non mi può impedire di rispondere con una alzata di spalle. Dal punto di vista delle idee essa appare, tutt’al più, come una vaga crisi ministeriale”[9]. Finalmente, nel novembre 1925, in risposta a un attacco di Drieu La Rochelle, egli scrive. “Non voglio risponderti che non ho gridato: Viva Lenin! Lo sbraiterò domani, visto che mi si vieta di farlo”[10].

Questa volta la misura è colma per Breton. Nell’estate aveva letto il Lenin di Trotskij. Le guerra del Rif gli aveva fatto maturare posizioni politiche più precise. Una puntualizzazione della questione gli appare indispensabile. “Tra noi, anche gli spiriti più estranei alla politica, vedevano, in questa affermazione, ‘un pezzo di bravura’ indifendibile... C’è da credere che ciò mi fosse rimasto sullo stomaco, se in quell’epoca fui indotto a riaprire completamente il dibattito. L’occasione mi fu offerta da un resoconto dell’opera di Trotskij su Lenin... Questo scritto ha segnato innegabilmente il primo passo, un passo decisivo (benché si sia detto spesso in seguito che fu da parte mia e da parte del surrealismo un passo falso) verso una migliore comprensione delle idee e degli ideali di cui la rivoluzione russa era stata la risultante... Tra noi, dicevo, lo spirito generale restò teso soprattutto verso la realtà rivoluzionaria in modo da arrivarci con tutti i mezzi ed ad ogni costo. E come se questa allusione al recente comportamento di Aragon mi sembrasse ancora insufficiente, me la prendevo direttamente con lui aggiungendo: ‘Libero Louis Aragon, di far sapere a Drieu La Rochelle, in una lettera aperta, di non avere mai gridato Viva Lenin, ma che lo sbraiterà domani (sic) perché questo grido gli viene impedito. Libero anch’io... di pensare che significa facilitare il gioco dei nostri peggiori detrattori lasciar loro supporre che agiamo in questo modo solo per sfida: Viva Lenin, al contrario, e solo perché è Lenin”[11].
La recensione da parte di Breton del volume di Trotskij ha una influenza decisiva sul gruppo surrealista. “Mi è lecito dire che godevo del necessario ascendente perché di colpo questa posizione fosse adottata assai largamente tra i surrealisti e perché Aragon non vi trovasse niente da ridire, che dico, ma fosse, anzi, il primo ad associarvisi”[12].
Per tornare al 1925, il volantino “La rivoluzione innanzitutto e sempre” (21 settembre) è frutto della collaborazione tra i surrealisti francesi, i gruppi dei surrealisti belgi attorno a Correspondance (Camille Goemans e Paul Nougé), quello della rivista Clarté e il gruppo “Philosophie”. Vi si legge:

“Ben consci della natura delle forze che attualmente turbano il mondo, prima ancora di contarci e di metterci all’opera, vogliamo proclamare il nostro assoluto distacco e in qualche modo la nostra purificazione dalle idee che sono alla base della civiltà europea ancora assai vicina, e così pure da ogni civiltà basata sui principi insopportabili di necessità e di dovere.
“Più ancora del patriottismo, che è un’isteria come un’altra, ma più vuota e più mortale di un’altra, ci ripugna l’idea di Patria, che è veramente il concetto più bestiale e meno filosofico in cui si tenta di far entrare il nostro spirito.
“Siamo certamente dei Barbari perché una certa forma di civiltà ci disgusta.
“Dovunque regni la civiltà occidentale, tutti i vincoli umani sono venuti meno, tranne quelli che hanno una ragion d’essere nell’interesse, nel ‘duro pagamento in contanti’. Da più di un secolo, la dignità umana è ridotta al rango di un valore di scambio. È già ingiusto che chi non possiede sia asservito da chi possiede, ma quando questa oppressione supera il quadro di un semplice salario da pagare e assume come esempio la forma di schiavitù che l’alta finanza internazionale fa pesare sui popoli, è una iniquità che nessun massacro riuscirà a espiare. Non accettiamo le leggi dell’Economia e dello Scambio, non accettiamo la schiavitù del Lavoro e, su un piano ancora più ampio, ci dichiariamo in istato di insurrezione contro la Storia. La Storia è governata da leggi condizionate dalla viltà degli individui e noi non siamo certo degli umanitari, in nessuna misura...

“Noi siamo la rivolta dello spirito; consideriamo la Rivoluzione sanguinosa come la vendetta ineluttabile dello spirito umiliato dalle vostre opere. Non siamo degli utopisti: questa Rivoluzione non la concepiamo che in forma sociale. Se esistono in qualche luogo uomini che abbiano visto levarsi contro di loro una coalizione tale che non ci sia nessuno che non li disapprovi (traditori verso tutto ciò che non sia la Libertà, ribelli di ogni genere, prigionieri di diritto comune), non dimentichino che l’idea della Rivoluzione è la migliore e più efficace salvaguardia dell’individuo”[13].

Ritroviamo le firme dei surrealisti assieme a quelle di altri intellettuali in calce a una serie di appelli contro la dittatura e il ricorso sistematico alla tortura in Polonia (L’Humanité, 8 agosto 1925); per protestare contro la persecuzione del governo rumeno contro le minoranze etniche in Bessarabia (L’Humanité, 28 agosto 1925); per solidarietà con il Comitato centrale d’azione che anima la protesta contro la guerra del Rif (L’Humanité, 16 ottobre 1925); per denunciare le torture e la corte marziale in Ungheria (L’Humanité, 17 ottobre 1925).

Il momento di massima adesione e impegno dei surrealisti nell’ideologia comunista è in una lettera del gruppo pubblicata su L’Humanité dell’8 novembre 1925. Vi si legge tra l’altro: “Non c’è mai stata una teoria surrealista della rivoluzione. Non abbiamo mai creduto a una rivoluzione surrealista... Noi desideriamo la Rivoluzione, e quindi vogliamo i mezzi rivoluzionari. Nel qui e ora questi mezzi da chi sono detenuti ed esercitati? Solo dall’Internazionale comunista, e per la Francia dal PCF”.

Venendo al 1926, il testo politico più importante è la plaquette “Legittima difesa”. Breton vi denuncia il pericolo di quello che Kruscev chiamerà, quarant’anni più tardi, il culto della personalità: “Continueremo nostro malgrado a fare delle riserve sull’abbandono completo a una fede che, come ogni altra fede, presuppone un certo stato di grazia”. Vi si critica il deplorevole livello teorico e politico del quotidiano del PCF: “Non so perché dovrei astenermi ancora dal dire che L’Humanité – puerile, declamatorio, inutilmente cretinizzante – è un giornale illeggibile e indegno della funzione educativa che pretende di svolgere nei confronti del proletariato”. Il settarismo e il dogmatismo dei comunisti francesi sono attaccati con uguale vigore: “Non posso capire come sulla strada della rivolta ci siano una destra e una sinistra... Dico che la fiamma rivoluzionaria si accende dove vuole e che non spetta a un piccolo numero di persone, nel periodo di attesa che viviamo, stabilire che può accendersi qui o là solamente”[14].
 
Arturo Schwarz (Foto: Dino Ignani)

Nell’opuscolo dal quale abbiamo tratto il passo sopra citato Breton riafferma la possibilità di conciliare la lotta rivoluzionaria con le esigenze della ricerca intellettuale, che non deve piegarsi agli imperativi politici: “Sul piano dei fatti nessun equivoco è possibile da parte nostra: non c’è nessuno tra di noi che non si auguri che il potere passi dalle mani della borghesia a quelle del proletariato. Intanto, non è per questo meno necessario, secondo noi, continuare con le esperienze della vita interiore, e ciò, ben s’intende, senza alcun controllo, neppure marxista. Il surrealismo, del resto, non tende forse, al limite, a fare di questi due stati un solo stato, facendo giustizia della loro presunta inconciliabilità pratica, con tutti i mezzi, a cominciare dal più primitivo di tutti, il cui impiego incontrerebbe difficoltà a essere legittimato se così non fosse: intendo parlare del richiamo al meraviglioso?”

Nel 1927 si ha l’adesione per un breve periodo dei surrealisti al PCF che però non impedisce a Breton e ai suoi amici di stigmatizzare ogni passo falso dei comunisti francesi. Il volantino “Au grand jour” (maggio) riporta la lettera al PCF di Louis Aragon, André Breton, Paul Eluard, Benjamin Péret e Pierre Unik. I cinque, pur confermando la loro adesione al partito, ne denunciano i due mali cronici. Da un lato l’assenza di ogni libera discussione: “All’interno di un partito rivoluzionario e finché la situazione non è insurrezionale, non ci possono essere buone ragioni per privare qualcuno del diritto di critica, nei limiti in cui questo può validamente essere esercitato”. Dall’altro, il processo di burocratizzazione che ha già snaturato il PCF: “Ma intendiamo anche dire quanto sia penoso che l’organizzazione del Partito comunista in Francia non gli consenta di utilizzarci in un ambito in cui ci sia possibile realmente renderci utili e che nessun’altra decisione sia stata presa nei nostri confronti oltre a quella di segnalarci un po’ dovunque come persone sospette”[15].

Di André Thirion, molto vicino ai surrealisti in quegli anni, c’è una testimonianza precisa sull’atmosfera politica nella quale si muovevano Breton e i suoi amici: “I migliori tra gli intellettuali comunisti degli anni ‘20, per i quali Marx e Lenin non erano solamente dei nomi, avevano quasi tutti aderito alle tesi dell’opposizione trotskista, o si preparavano a sottoscriverle. Questi uomini furono i primi membri del partito che Aragon e Breton incontrarono, tra i quali vi era Marcel Fourrier, uno dei principali redattori di Clarté. Breton apprezzò subito la sua modestia, la sua gentilezza, il suo buonsenso... Già nel 1926 divenne un trotskista moderato, pur mantenendo dei contatti con il partito, ma irriducibilmente ostile allo stalinismo. Fourrier presentò Boris Souvarine a Breton. L‘influenza di questo spirito brillante – che aveva avuto rapporti personali con tutti i grandi rivoluzionari d’ottobre, escluso sin dal 1923 dal partito, redattore di Le Bulletin Communiste, l’organo d’opposizione meglio scritto e più letto – ebbe un peso decisivo nell’orientamento di tutti i surrealisti in favore delle tesi di Trotskij... Victor Serge, entrato in contatto con quelli di Clarté, non deponeva neppure lui in favore di Stalin. Vecchio anarchico, amico di Bonnot, di Garnier e di altri, era stato processato, e con lui tutta la banda, nel famoso caso giudiziario. Questo episodio lo valorizzava agli occhi dei surrealisti, tanto più che il suo disinteresse aveva ricevuto una chiara consacrazione dalla Corte d’assise. Le testimonianze di questi oppositori ebbero maggior peso dei commenti ufficiali sulla crisi russa pubblicati dall’Humanité. Ma ne11926, i trotskisti erano ancora tutti nel partito, considerato allora il fulcro della rivoluzione. La solenne adesione di Aragon, Breton e alcuni altri al Partito comunista, alla fine del ‘26, si realizzò in nome di Hegel, di Marx, di Lenin e di Trotskij”[16].

Nel 1927 Artaud pone l’interrogativo: “Il surrealismo stesso non è morto il giorno in cui Breton e i suoi seguaci hanno ritenuto giusto di dover dare la loro adesione al comunismo e cercare sul piano dei fatti e della materia immediata lo sbocco a un’azione che avrebbe potuto di norma avere luogo solo nelle strutture intime del cervello?”[17]. Queste critiche sono ingiustificate; si è visto con quanta coerenza Breton abbia sempre saputo evitare sia il pericolo di un’adesione acritica a posizioni dogmatiche, sia l’alibi artistico che giustifica il “superbo isolamento” nella torre d’avorio. Del resto, lo stesso Artaud lo riconoscerà nel 1936, come ricorderò più avanti.

Quando Trotskij viene esiliato, nel 1929, Breton è vivamente preoccupato per la sua sorte. Il movimento surrealista sta attraversando una crisi. Egli si trova a combattere su due fronti, contro i politici, come Naville, che rimproverano a lui e ai suoi amici di dare la precedenza alle preoccupazioni letterarie, e contro i poeti, come Artaud, che muovono il rimprovero opposto. Breton avverte la debolezza e la divisione degli intellettuali progressisti, e vorrebbe riuscire a superare le divisioni per esercitare un’azione più determinante. Il gruppo surrealista invia il 12 febbraio 1929 una lettera circolare a numerosi intellettuali. Dopo avere affermato: “Un certo numero di noi si rifiuta di credere alla necessità, alla fatalità di una dispersione dei nostri sforzi e alla eccessiva specializzazione che ne deriva”[18], chiede: “Ritiene che, tirate le somme..., la sua attività debba o no restringersi, definitivamente o no, a una forma individuale?”.

Arturo Schwarz (Foto: Dino Ignani)

In un’altra lettera si propone come tema di discussione l’esame critico della sorte recentemente riservata a Leone Trotskij. Naville, staccatosi dal gruppo un paio d’anni prima, è scongiurato di dimenticare i disaccordi in nome del carattere della questione posta: “Qualunque possa essere per lei il grado d’incisività di un’azione che si sviluppa secondo altri schemi, non le potrà sfuggire che una sua astensione in un simile frangente implica nei nostri riguardi un disimpegno tanto più spiacevole in quanto sarebbe l’atteggiamento adattato da persone contro cui l’abbiamo sempre vista lottare... Siccome ci è parso particolarmente indicato che ognuno si pronunciasse su un fatto che non le è indifferente (la sorte recentemente riservata a Leone Trotskij), non crede che, non foss’altro in qualità di testimone, l’autore di La révolution et les intellectuels dovrebbe essere presente?”[19].

Nonostante la questione non venga sollevata alla riunione che si terrà a Parigi 1’11 marzo 1929 al Bar du Château, Breton non si lascia sfuggire l’occasione per riferire le opinioni di Panait Istrati su Trotskij: “Trotskij, o l’opposizione, è la riserva aurea della rivoluzione russa; senza tale riserva, non so proprio come potrebbe esserci un progresso rivoluzionario in Russia e nel mondo. Saremmo già al ristagno, all’immobilità. Non può, d’altra parte, trattarsi di adottare questa concezione solo per entusiasmo”[20]. La riunione si concluse con un nulla di fatto, Breton sente la necessità di puntualizzare con un testo quanto non vi si è potuto chiarire. Stende il “Secondo manifesto del surrealismo” che viene pubblicato nel numero del dicembre 1929 de La Révolution Surréaliste.
Ricordando le circostanze nelle quali il testo fu elaborato, Breton scrive: “È proprio intorno al 1930 che le menti più aperte avvertono il prossimo, ineluttabile ritorno della catastrofe mondiale. Al diffuso smarrimento che ne risulta, non nego che si sovrappone in me un’inquietudine di altro ordine: come sottrarre alla corrente, sempre più imperiosa, lo scafo che avevamo, in pochi, costruito con le nostre mani, proprio per risalire quella corrente?”[21].

Risalire la corrente, non solo degli avvenimenti che, sul piano delle idee, minacciano sempre più l’integrità rivoluzionaria del pensiero, ma anche della storia che trascina irresistibilmente il mondo verso il 1939 – quella data che, nella sua lettera alle veggenti del 1925, la sensibilità premonitrice di Breton aveva già vaticinato come l’anno d’inizio di un altro conflitto mondiale: “Certe persone si dicono convinte che la guerra abbia loro insegnato qualcosa; ne sanno, in ogni caso, meno di me, che so cosa mi riserva l’anno 1939”[22].

In questa lotta impari, che lo vede isolato con pochi altri, Breton ritrova in un solo uomo politico, Trotskij, le posizioni che difende contro tutti gli altri. Quanto è in gioco è la giustificazione dell’esistenza di un’attività creativa indipendente da imperativi politici. Vi è di mezzo il concetto stesso di cultura. Si oppone una cultura sedicente proletaria alla cultura le cui istanze rinnovatrici vengono tacciate di piccolo-borghesi.

Nel “Secondo manifesto”, a conforto delle proprie opinioni, Breton cita l’autore di Letteratura e rivoluzione: “Le vaghe teorie sulla cultura proletaria, concepite per analogia e per antitesi con la cultura borghese, risultano da paragoni tra il proletariato e la borghesia, cui lo spirito critico è affatto estraneo… È certo che, nello sviluppo della nuova società, verrà il momento in cui l’economia, la cultura, l’arte avranno la massima libertà di movimento – di progresso… Ma a questo arriveremo soltanto dopo una lunga e faticosa transizione, che sta ancora interamente davanti a noi”[23].

Breton non ha mai pensato altrimenti e nel “Secondo manifesto” riafferma: “Non credo alla possibilità di esistenza attuale di una letteratura o un’arte che esprimano le aspirazioni della classe operaia. Se rifiuto di crederci, è perché in periodo prerivoluzionario lo scrittore o l’artista, di formazione necessariamente borghese, è per definizione inetto a tradurle”[24]. Infatti, come si potrebbero difendere una letteratura e un’arte cosiddette proletarie “in un’epoca in cui nessuno potrebbe vantarsi di appartenere alla cultura proletaria per l’ottima ragione che quella cultura non ha ancora potuto essere realizzata, nemmeno in regime proletario”[25]? La coincidenza di vedute tra Breton e Trotskij su questi problemi è tanto più interessante da rilevare in quanto in quegli anni Breton non conosceva, dello scritto di Trotskij Letteratura e rivoluzione, pubblicato a Mosca nel 1923, che le poche pagine tradotte per il fascicolo Clarté del 10 novembre 1923.

Dal “Secondo manifesto” si evince che le preoccupazioni di Breton non sono solo di ordine letterario. Egli segue “con passione la lotta che si sta svolgendo alla testa dell’Internazionale”[26]. Per quanto riguarda il Partito comunista francese, si chiede: “Come non essere terribilmente preoccupati di un tale abbassamento del livello ideologico in un partito che era sorto così brillantemente armato da due delle teste più solide del XIX secolo?”[27]. Riafferma: “Non possiamo evitare di proporci nel modo più scottante la questione del regime sociale sotto il quale viviamo, vale a dire dell’accettazione o della non accettazione di quel regime”[28]. A quelli che potrebbero avere ancora dei dubbi circa l’adesione del surrealismo al marxismo, egli ripete: “Diamo un’adesione totale, senza riserve, al principio del materialismo storico”[29].

La coincidenza di giudizi tra Breton e Trotskij emerge nel commentare il suicidio di Majakovskij il 14 aprile 1930. Breton difende la memoria del poeta contro gli sciacalli stalinisti dell’Humanité, che vedono nella sua scelta un atto coerente con l’ideologia piccolo-borghese e una conferma conclusiva della sua incapacità ad adattarsi ai dettami di una cultura “proletaria”. Breton risponde che il dramma sociale e quello umano sono due drammi ben distinti. Forse che un rivoluzionario non può innamorarsi? “Amare o non amare, ecco la domanda alla quale un rivoluzionario dovrebbe poter rispondere senza esitare... Non è ancora stato dimostrato che l’uomo, avendo raggiunto il più alto grado di coscienza sociale (parlo del rivoluzionario), abbia la migliore difesa contro il pericolo di uno sguardo di donna... Dopo tutto quest’uomo non ha pronunciato un voto per il quale non debba più riconoscersi in quanto uomo. Questo bisogno che possiamo avere della presenza di un essere a esclusione di tutti gli altri costituisce forse una tara tale che quelli che non sentono questa necessità hanno il diritto, ancora una volta da un punto di vista rivoluzionario, di giudicare?... La vita entusiasmante del proletariato in lotta, la vita stupefacente e fragile dello spirito in preda alle belve di se stesso, troppo vano sarebbe da parte nostra voler fare un dramma solo di questi due drammi distinti”[30].

Trotskij risponde sullo stesso tono: “L’annuncio ufficiale del suicidio col linguaggio di un protocollo giudiziario redatto nel ‘segretariato’ si affretta a dichiarare che il suicidio di Majakovskij ‘non ha nulla in comune con l’attività sociale e letteraria del poeta’. Il che equivale a dire che la morte volontaria di Majakovskij non ha alcun rapporto con la sua vita, o che la sua vita non ha avuto nulla in comune con la sua opera poetico-rivoluzionaria, insomma significa trasformare la sua morte in un’avventura di cronaca nera. Ciò è falso, inutile e sciocco! ‘La barca si è infranta contro la vita quotidiana’ scrive, prima di morire, Majakovskij nei versi sulla propria vita intima. Ciò significa che l’ ‘attività sociale e letteraria’ aveva smesso di elevarlo abbastanza sulla vita quotidiana per salvarlo dalle insopportabili scosse personali”[31].

Breton rivendica per Majakovskij la capacità di avere saputo stabilire un legame con la rivoluzione: “Amo senza conoscerli, e cioè con piena fiducia, questi manifesti di propaganda, questi proclami che ha redatto per esaltare, con tutti i suoi mezzi, il trionfo della prima repubblica proletaria”[32]. E Trotskij all’unisono riprende: “Majakovskij ha cercato un legame con la rivoluzione in modo più coraggioso ed eroico di qualunque rappresentante dell’ultima generazione della vecchia letteratura russa”[33].
A quelli che rinfacciano a Majakovskij di non avere scritto un’opera d’arte proletaria, Breton risponde: “Torniamo a domandare: mostrateci un’opera d’arte ‘proletaria’”[34].
Entrambi arrivano alle stesse conclusioni circa l’inesistenza di un’arte proletaria, ma mentre Breton, da poeta, ne individua la ragione al livello del dualismo dei sentimenti, Trotskij, da politico, chiarisce l’altro aspetto della questione: “L’attuale ideologia ufficiale della ‘letteratura proletaria’ è fondata – nel campo artistico assistiamo allo stesso spettacolo cui si assiste in quello economico – sulla completa incomprensione dei ritmi e delle scadenze della maturazione culturale. La lotta per la ‘cultura proletaria’ – una sorta di ‘collettivizzazione totale’ di tutte le conquiste dell’umanità nell’ambito del piano quinquennale – all’inizio della Rivoluzione d’ottobre aveva il carattere di un idealismo utopistico, e proprio lungo questa linea fu respinta da Lenin e dall’autore di queste righe. Negli ultimi anni essa è diventata semplicemente un sistema di ingiunzioni burocratiche all’arte e di devastazione dell’arte... Majakovskij fu non soltanto il ‘cantore’ ma anche la vittima di un’epoca di rottura, la quale, se forma gli elementi della nuova cultura con una forza mai vista, lo fa pur sempre in modo molto più lento e contraddittorio di quanto è necessario per lo sviluppo armonico di un singolo poeta, o di una generazione di poeti che si consacrò alla rivoluzione”[35].

Nonostante Trotskij avesse caratterizzato l’URSS come uno Stato operaio degenerato, egli mantenne sino alla fine la validità della parola d’ordine della sua difesa incondizionata in caso di attacco delle potenze imperialiste. In risposta a un telegramma della primavera 1930, ricevuto dall’Ufficio internazionale della letteratura rivoluzionaria di Mosca circa la posizione dei surrealisti se l’imperialismo dichiarasse la guerra ai Soviet, Breton assume lo stesso atteggiamento, e risponde: “Compagni se imperialismo dichiara guerra ai Soviet nostra posizione sarà conformemente alle direttive Terza Internazionale posizione dei membri Partito comunista francese. Se riteneste possibile in tal caso un migliore impiego delle nostre facoltà, siamo a vostra disposizione per missione precisa che esiga un uso diverso delle nostre persone di intellettuali stop proporvi suggerimenti equivarrebbe veramente a sopravvalutare la nostra funzione e le circostanze. Nell’attuale situazione di conflitto non armato crediamo inutile attendere per mettere al servizio della rivoluzione i mezzi che più particolarmente ci appartengono”[36]. Thirion commenta: “L‘impegno era grande. Nella sinistra o nella estrema sinistra degli intellettuali e degli artisti, non c’erano, all’epoca, altri esempi simili”[37].

È del 1930 un altro episodio che conferma quanto Breton si sentisse legato a Trotskij. Aragon era stato mandato, con Georges Sadoul, a Char’kov in rappresentanza del gruppo surrealista al secondo Congresso internazionale degli scrittori rivoluzionari. Non è questa la sede per descrivere il voltafaccia di Aragon che parte surrealista e torna stalinista. Basti ricordare che in quell’occasione egli firmò con Sadoul una lettera indirizzata all’Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari, il I dicembre 1930, in cui scrive tra l’altro: “Riteniamo di dover precisare che ci collocheremo sempre entro il quadro del materialismo dialettico e che respingeremo ogni ideologia idealista (soprattutto il freudismo). Neghiamo la nostra solidarietà a qualsiasi ideologia confusionale concernente il trotskismo. Consideriamo il trotskismo una ideologia socialdemocratica e controrivoluzionaria. Ci impegniamo a lottare contro il trotskismo in ogni occasione”[38].

Un Breton impietrito ricorderà: “E stata la prima volta che ho visto aprirsi sotto i miei occhi quell’abisso che dopo di allora ha assunto proporzioni vertiginose via via che si è riusciti a diffondere l’idea impudente secondo cui la verità deve cedere il passo all’efficacia o che la coscienza non ha diritto ad alcun riguardo come non lo ha la personalità individuale, o che il fine giustifica i mezzi”[39].

Il 3 dicembre 1930 manifestazioni dei fascisti della Gioventù patriottica e della Lega antiebraica portano al divieto di proiezione del film L’âge d’or di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Il divieto segna il ritorno dei surrealisti alla politica attiva. Essi pubblicano un opuscolo, “L’affare dell’Age d’or” (1931), che denuncia il caso e termina con le seguenti domande: “Da quando in Francia non si ha il diritto di mettere seriamente in questione la religione, i suoi fondamenti, i costumi dei suoi rappresentanti ecc.? Da quando la polizia è al servizio dell’antisemitismo? Dal momento che l’intervento della polizia era un’approvazione del pogrom della lega della Gioventù patriottica, vuol essere un incoraggiamento all’instaurazione dei metodi fascisti in Francia?... Il fatto che L’âge d’or sia stato vietato costituisce un semplice abuso di potere, ancora una volta, da parte della polizia, oppure è una prova dell’incompatibilità del surrealismo con la società borghese? Come riconoscimento di questa incompatibilità si deve considerare il fatto che, dopo che un gruppo di giovani borghesi ha distrutto alcuni quadri surrealisti e rubato alcuni libri surrealisti, dopo che i giornali borghesi hanno pubblicato una lettera provocatoria firmata Le Provost de Launay e incitato alla repressione contro Le Surréalisme au Service de la Révolution e al saccheggio della sede di questa rivista, la loro polizia abbia vietato un film surrealista, così come vieta i film sovietici, così come la polizia di Hitler ha vietato in Germania All’ovest niente di nuovo?”[40].

A partire dalla primavera del 1931 si susseguono quattro documenti, i primi due con titoli che si commentano da soli: “Non visitate l’esposizione coloniale” (maggio) e “Primo bilancio dell’esposizione coloniale” (3 luglio). “Al fuoco” inneggia alla ripresa delle lotte in Spagna: “A partire dal 10 maggio 1931, a Madrid, Cordova, Siviglia, Bilbao, Alicante, Malaga, Granada, Valenza, Algeciras, San Roque, La Linea, Cadice, Arcos de la Frontera, Huelva, Badajoz, ]erez, Almeria, Murcia, Gijon, Teruel, Santander, La Coruña, Santa Fé, ecc., la folla ha incendiato le chiese, i conventi, le università religiose, distrutto le statue, i quadri che questi edifici contenevano, devastato gli uffici dei giornali cattolici, cacciato tra le urla i preti, i monaci, le suore, che passano in fretta le frontiere. Cinquecento edifici distrutti per cominciare non chiuderanno questo bilancio di fuoco. Opponendo a tutti i roghi una volta innalzati dal clero di Spagna la grande luce materialista delle chiese bruciate, le masse sapranno trovare nei tesori di queste chiese l’oro necessario per armarsi, lottare, e trasformare la Rivoluzione borghese in Rivoluzione proletaria... Una chiesa, un prete che possa officiare, sono altrettanti pericoli per l’avvenire della Rivoluzione. Distruggere con tutti i mezzi la religione, cancellare persino le vestigia di questi monumenti di tenebre in cui si sono prosternati gli uomini, annientare i simboli che un pretesto artistico cercherebbe invano dl salvare dalla grande collera popolare, disperdere il pretume e perseguitarlo nei suoi ultimi rifugi, ecco quanto hanno intrapreso spontaneamente, nella loro comprensione diretta dei compiti rivoluzionari le folle di Madrid, Siviglia, Alicante ecc. Tutto ciò che non è violenza quando si tratta dello spauracchio di dio, dei parassiti della preghiera, dei professori della rassegnazione, è assimilabile al patteggiamento con l’innumerevole canaglia del cristianesimo che deve essere sterminata... In Francia l’ampliarsi della lotta antireligiosa aiuterà la Rivoluzione spagnola. Atei francesi, non tollerate che, in nome di un diritto di asilo assolutamente fallace, la Francia, nonostante la separazione della Chiesa dallo Stato proclamata nel 1905, consenta lo stabilirsi sul suo territori di congregazioni che hanno lasciato la Spagna rivoluzionaria. È già abbastanza che all’arrivo del re Alfonso si siano verificate le scandalose manifestazioni di Parigi. Voi imporrete, con un’agitazione che saprà essere degna dei magnifici fasci di scintille apparsi al di sopra dei Pirenei, il rinvio dei religiosi verso la frontiera dove li aspetteranno molto presto i tribunali di salute pubblica. Esigerete nello stesso tempo il rimpatrio insieme con i loro confessori dei regali banditi che devono essere giudicati dai loro sudditi di ieri, loro vittime di sempre. Farete delle vostre rivendicazioni di solidarietà con gli operai e i contadini della Spagna in armi una tappa della vostra lotta per la presa del potere in Francia da parte del proletariato che solo saprà spazzare via dio dalla faccia della terra”[41].

Il 23 novembre 1931 compare su L’Humanité una lettera aperta all’ambasciatore della Cina a Parigi per protestare contro la condanna a morte, dopo atroci torture, pronunciata dal Kuomintang contro il sindacalista svizzero Ruegg e contro l’ergastolo inflitto alla donna la cui unica “colpa” era di essere la moglie del condannato. Tra i firmatari, Aragon, Breton, René Clair, René Crevel, Eluard, André Thirion.

Nel 1933, alle parole d’ordine genericamente pacifiste dei comunisti francesi promotori del Congresso di Amsterdam-Pleyel contro la guerra, i surrealisti oppongono una posizione classista. Dopo aver ricordato quella di Lenin sul pacifismo piccolo-borghese, essi denunciano il carattere equivoco dei promotori del congresso: “Lenin è sempre stato avversario deciso, e non solamente durante la guerra, della parola d’ordine ‘pace’ lanciata in maniera astratta. Riteneva che una propaganda astratta della pace ‘è capace solamente di seminare illusioni, di avere un’influenza perniciosa sul proletariato, ispirandogli una fiducia umanitaria nei confronti della borghesia e rendendolo zimbello della diplomazia segreta dei paesi belligeranti’...”[42], “In risposta al pacifismo ufficiale che trasforma gli angeli custodi della pace in ministri della guerra, in risposta a quello che è il più vecchio degli slogan capitalistici: Se volete la pace preparate la guerra, in risposta inoltre alla falsa parola d’ordine di guerra alla guerra, noi diciamo: Se volete la pace preparate la guerra civile”[43].

Il 16 febbraio 1933 esplode una caldaia alla Renault di Billancourt, uccidendo nove operai e ferendone centocinquanta. L’Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari (AEAR) pubblica una dichiarazione collettiva contro “questo nuovo delitto dell’organizzazione messa al servizio della guerra e del profitto capitalista”[44]. Tra i firmatari, Breton, Crevel, Eluard e Péret.

Nel febbraio 1933 i nazisti danno fuoco al Reichstag accusando del rogo i comunisti e dando così un pretesto a Hindenburg per abrogare i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione di Weimar. Il decreto che mette fine alla repubblica prepara il terreno per la vittoria (truccata) dei nazisti, che in marzo ottengono il 44 per cento dei seggi in Parlamento. Per consolidarne il dominio Hindenburg firma un nuovo decreto che autorizza Hitler a legiferare per quattro anni senza il controllo del Reichstag.

L’AEAR e i surrealisti sono gli unici gruppi di intellettuali che in Francia cercano di allertare l’opinione pubblica. Nell’appello “Protestate!” essi avvertono che il risultato elettorale in Germania è il prologo di un regresso della civiltà, della messa fuori legge di ogni pensiero che non sia retrogrado, del ritorno al più cupo e feroce antisemitismo da medioevo[45]. L’appello auspica un fronte unico di lavoratori e intellettuali per lottare contro il terrore in Germania e contro il Trattato di Versailles, le cui clausole inique hanno favorito, se non provocato, l’ascesa del nazismo. In calce all’appello ritroviamo i firmatari del testo precedente, ai quali si sono aggiunti Max Ernst, Man Ray e Tanguy.
L’anno seguente, le giornate dal 6 al 10 febbraio 1934 segnano l’offensiva del fascismo francese. La reazione di Breton e dei suoi amici è immediata: “È la sera stessa del 6 febbraio 1934, cioè tre o quattro ore dopo il putsch fascista di cui alcuni di noi erano stati a osservare il concreto sviluppo, chi sui grandi boulevards, chi nelle vicinanze della pIace de la Madeleine, che, dietro mio suggerimento, si stabilì di invitare a riunirsi subito il maggior numero possibile di intellettuali dl tutte le tendenze decisi a far fronte alla situazione. Si trattava di fissare immediatamente le misure di resistenza che potevano essere prospettate. Questa riunione − che doveva durare tutta la notte − si concluse con la redazione di un documento intitolato ‘Appello alla lotta’ che scongiurava le organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia a realizzare l’unità d’azione e si pronunciava per lo sciopero generale. Questo appello veniva pubblicato il 10 febbraio, corredato di circa novanta firme”[46].
A causa del clima reazionario instauratosi, e in seguito alle pressioni staliniste, Leone Trotskij, che era arrivato in Francia nel 1933, dopo essere stato esiliato dalla Russia e aver abbandonato la Turchia, è colpito da un mandato di espulsione. La risposta di Breton è subitanea; mobilita un gran numero di intellettuali in Francia e all’estero per protestare contro questo provvedimento e pubblica un volantino dal titolo significativo “Il pianeta senza visti” (il titolo è anche quello dell’ultimo capitolo dell’autobiografia di Trotskij) in cui sottolinea che la disposizione è un ulteriore sintomo dell’involuzione reazionaria del regime: “L’espulsione di Trotskij segna il punto di partenza di misure repressive contro gli immigrati comunisti e prepara l’illegalità delle organizzazioni rivoluzionarie. Già viene resuscitata la legge, che non fu mai applicata dopo il 1848, per procedere contro i giornali rivoluzionari. Il singolare ‘governo di tregua’ imposto dal gesto di forza del 6 febbraio si afferma nemico risoluto della classe operaia. Sul piano economico i decreti-legge provocano una recrudescenza della disoccupazione, portano all’arresto o al licenziamento di centinaia di militanti colpevoli di avere protestato contro la brutale riduzione dei loro mezzi di sussistenza. Sul piano politico questo governo dà egualmente un’esatta immagine di sé espellendo Trotskij, non senza organizzare intorno a lui la provocazione; accetta così di rompere con le famose tradizioni ospitali del nostro paese”[47]. La reazione non è meramente emotiva; come sempre Breton lega il caso singolo al contesto storico: l’uno è il sintomo dell’involuzione dell’altro.
La piega che prendono gli avvenimenti fa temere il peggio. Il 23 marzo 1935 i surrealisti firmano il manifesto del Comitato di vigilanza degli intellettuali per mettere in guardia contro qualsiasi ritorno all’unione sacra. L’unità d’azione delle masse reclamata dai surrealisti viene strumentalizzata in funzione dell’unità degli organismi di partito. Con preveggenza Breton e i suoi amici avevano già intuito a cosa avrebbe condotto un tale governo. L’anno seguente la vittoria del Fronte popolare in Francia darà il via al vergognoso tradimento della Repubblica spagnola e preparerà gli animi alla capitolazione di Monaco.
Tre mesi più tardi, nel giugno del 1935, al Congresso internazionale per la difesa della cultura a Parigi, André Breton, al quale viene negata la parola in seguito alle manovre delle delegazioni sovietica e francese, chiarisce l’ambiguità politica del riavvicinamento culturale franco-sovietico: “Se il riavvicinamento franco-sovietico s’impone, è meno che mai il momento di rinunciare al nostro senso critico: sta a noi controllare da vicino le modalità di questo riavvicinamento. Dato che la Francia borghese vi è interessata, stiamoci attenti: in quanto intellettuali spetta a noi serbarci più particolarmente diffidenti circa le forme che può assumere, nei confronti dell’URSS, un riavvicinamento culturale”[48]. E Breton mette in guardia “contro la piega che può prendere il riavvicinamento culturale franco-sovietico dal momento che il governo borghese di questo paese ne fa del tutto esteriormente la propria causa, e poiché abbiamo motivo di credere che esso si sforzerà di volgerlo contro di noi. Vorrà usare il riavvicinamento per farci abbandonare le idee su cui importava fino a questi ultimi giorni che i rivoluzionari si mostrassero irriducibili. Si sforzerà, grazie al gioco degli scambi culturali, di attentare al morale della classe operaia. Tutt’a un tratto, proprio mentre si stringe la morsa di quelle contraddizioni che evidentemente non la risparmiano più degli altri paesi capitalisti, tutt’a un tratto vediamo la Francia riabilitata, vediamo il sig. Laval tornarsene con il suo piccolo certificato di credenziali surrettizie. Ora la Francia potrà darsi le arie di sorella maggiore della Repubblica sovietica, proprio così, delle arie protettive: non mancava altro che questa maschera all’imperialismo francese per farsi ancora più insolente”.
Alle elucubrazioni patriottarde e alla collusione delle classi difesa dall’Humanité Breton oppone un’intransigente posizione di internazionalismo rivoluzionario: “Noi surrealisti non amiamo la nostra patria. Nella nostra qualità di scrittori e artisti abbiamo detto che non intendevamo in nessun modo respingere l’eredità culturale dei secoli. È spiacevole che oggi si sia costretti a ricordare che si tratta per noi di un’eredità universale che ci fa altrettanto tributari del pensiero tedesco come di qualsiasi altro pensiero. Anzi, possiamo dire che proprio nella filosofia di lingua tedesca abbiamo scoperto il solo antidoto efficace contro il razionalismo positivista che continua a provocare qui i suoi guasti. Questo antidoto non è altro che il materialismo dialettico come teoria generale della conoscenza. Oggi come ieri noi continuiamo a prendercela con il razionalismo positivista. Contro di esso abbiamo intellettualmente combattuto e combatteremo ancora come contro il nemico nel nostro stesso paese. Restiamo decisamente contrari a qualsiasi rivendicazione da parte di un francese del solo patrimonio culturale della Francia, a qualsiasi esaltazione in Francia del sentimento francese. Per parte nostra non intendiamo riflettere, nella letteratura come nell’arte, il voltafaccia ideologico che si è manifestato recentemente nel gruppo rivoluzionario di questo paese in seguito all’abbandono della parola d’ordine: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”[49].
Nella conclusione Breton chiarisce che, per i surrealisti, difendere la cultura “significa prima di tutto prendere in mano gli interessi di quello che intellettualmente resiste a un’analisi materialista seria, di quanto è vitale, di quanto seguiterà a dare i suoi frutti. Non con dichiarazioni stereotipe contro il fascismo e la guerra giungeremo a liberare per sempre lo spirito, come l’uomo, dalle antiche catene che lo ostacolano e dalle nuove catene che lo minacciano. Ma con l’affermazione della nostra incrollabile fedeltà alle capacità di emancipazione dello spirito e dell’uomo, che di volta in volta abbiamo riconosciute e che lotteremo per far riconoscere come tali. ‘Trasformare il mondo’ ha detto Marx; ‘cambiare la vita’ ha detto Rimbaud: per noi queste due parole d’ordine fanno un tutt’uno”[50].
Nel manifesto “Quando i surrealisti avevano ragione” (1935), che segna la rottura definitiva tra il gruppo surrealista e il Partito comunista, Breton e i suoi amici chiariscono ancora una volta le ragioni della loro adesione a questo congresso e, tornando sulla questione della difesa della cultura, affermano: “Il problema non può essere quello della difesa e della conservazione della cultura. La cultura, dicevamo, ci interessa solo nel suo divenire, e questo divenire esige prima di tutto la trasformazione della società mediante la rivoluzione proletaria”[51].
I surrealisti fanno notare come “il Congresso internazionale per la difesa della cultura si è svolto sotto il segno del soffocamento sistematico: soffocamento dei veri problemi culturali, soffocamento delle voci non riconosciute come voci in capitolo... Dichiararsi in disaccordo su questo o quel punto con la linea ufficiale del partito significa non soltanto dare prova di un ridicolo purismo ma anche nuocere all’URSS, voler strappare militanti al partito, offrire argomenti ai nemici del proletariato, comportarsi ‘oggettivamente’ da controrivoluzionari... Andando oltre gli insulti e i tentativi di intimidazione, continueremo noi stessi a volerci intatti, e per questo, senza pretendere di guardarci in qualsiasi circostanza dall’errore, a salvaguardare a tutti i costi la nostra indipendenza di giudizio. Di questo diritto di cui fecero così largo uso i ‘rivoluzionari di professione’ nella prima parte del XX secolo, conserviamo la rivendicazione integrale per tutti gli intellettuali rivoluzionari con la riserva della loro partecipazione agli sforzi di coalizione che può esigere la situazione presente, dominata dalla coscienza della minaccia fascista... Sosteniamo che la libera affermazione di tutti i punti di vista, che il confronto permanente di tutte le tendenze costituiscono il più indispensabile fermento della lotta rivoluzionaria”[52].
Con lucidità estrema il manifesto termina denunciando “il culto idolatra con cui certi zelatori interessati si sforzano di legare le masse operaie non soltanto all’URSS, ma anche alla persona del suo capo”, e la degenerazione dello Stato sovietico: “Limitiamoci a registrare il processo di rapido regresso per cui dopo la patria è la famiglia a uscire indenne dalla rivoluzione russa agonizzante (che ne pensa Gide?). Laggiù non resta altro che restaurare la religione e − perché no? − la proprietà privata perché sia finita con le più belle conquiste del socialismo. A costo di provocare il furore dei loro turiferari, chiediamo se vi sia bisogno di un altro bilancio per giudicare dalle loro opere un regime, in particolare il regime attuale della Russia sovietica e l’onnipossente capo sotto il quale quel regime sta volgendo alla negazione radicale di ciò che dovrebbe essere e di ciò che è stato. A quel regime, a quel capo, non possiamo che significare formalmente la nostra sfiducia”[53].
In questo convegno dominato dagli stalinisti le sole voci di dissenso furono quelle di Waldo Frank, André Malraux, Boris Pasternak, Magdeleine Paz, Charles Plisnier e Gaetano Salvemini. Si tentò perfino di impedire ai surrealisti di leggere la loro relazione, prendendo a pretesto la risposta di Breton (uno schiaffo) a Ehrenburg, che nel suo Visti da uno scrittore dell’URSS aveva descritto i surrealisti come gente che “si rifiuta di lavorare: c’è chi è occupato a divorare un’eredità, chi la dote della moglie... Il loro programma: l’onanismo, la pederastia, il feticismo, e persino la sodomia”. Fu soltanto per la mediazione di René Crevel e in seguito al suo suicidio che fu permesso a Eluard di parlare, ma solo verso l’una del mattino e davanti a una sala quasi vuota.
Nel settembre 1935 inizia il breve periodo di collaborazione tra il gruppo de La Critique Sociale (diretta da Boris Souvarine, al quale si uniscono Georges Bataille e i suoi amici) e quello del Surréalisme au Service de la Revolution. Da questa collaborazione nascerà Contre-attaque, con Bataille ispiratore. Il programma del gruppo sta già nel nome. Alla violenza reazionaria è ora di rispondere con la violenza rivoluzionaria: “Violentemente ostili a ogni tendenza, qualunque ne sia la forma, che s’impadronisca della rivoluzione a vantaggio delle idee di nazione e di patria, ci rivolgiamo a tutti coloro che, con ogni mezzo e senza riserve, siano pronti ad abbattere l’autorità capitalista e quel prodotto della politica che sono le sue istituzioni... La nostra causa è quella degli operai e dei contadini. Affermiamo come un principio il fatto che gli operai e i contadini rappresentano non soltanto il fondamento di ogni ricchezza materiale ma anche di ogni forza sociale. Quanto a noi, intellettuali, andiamo accorgendoci che i lavoratori della terra e delle fabbriche sono privati di qualsiasi possibilità di sviluppo umano da parte di un’abbietta organizzazione sociale... Abbiamo potuto constatare che la reazione nazionalista ha saputo utilizzare, in altri paesi, le armi politiche create dal mondo operaio: intendiamo a nostra volta servirci delle armi create dal fascismo”[54].
Per quanto riguarda la prospettiva della vittoria del Fronte popolare alle elezioni dell’anno seguente, i firmatari non si fanno illusioni: “Noi diciamo che attualmente il programma del Fronte popolare, i cui dirigenti potranno probabilmente salire al potere ma nel quadro delle istituzioni borghesi, è votato al fallimento. La costituzione di un governo del popolo, di una direzione di salute pubblica, presuppone un’inesorabile dittatura del popolo armato[55].
Viene prevista una serie di fascicoli per approfondire questioni ideologiche e politiche. Tra i titoli programmati figura l’ “Inchiesta sulle milizie, la presa del potere e i partiti”, il cui contenuto viene riassunto in questi termini: “Un movimento entusiasta, crescente, violento, di milizie del popolo, un movimento di ‘Volontari della libertà’ − che sfugga al controllo sterilizzante dei partiti − questa è la condizione fondamentale della presa del potere. Il potere apparterrà alla rivoluzione quando le milizie armate offriranno a un gruppo di uomini usciti dal Fronte popolare la base di un’autorità implacabile”[56].
Sono questi intellettuali, la cui lucidità rivoluzionaria è pari solamente alla conferma che la storia porterà alle loro previsioni, che i politici di professione e i burocrati della rivoluzione accuseranno di mancanza di senso politico!
Nel 1936 la congiuntura internazionale diventa esplosiva. Il 18 luglio in Spagna il generale fellone Franco si ammutina e aggredisce la Repubblica: è il prologo della resa delle “democrazie” occidentali alla peste bruna. In Francia la vittoria del Fronte popolare in giugno non frena la corsa all’abisso. Lo stesso anno la Renania è rioccupata.
Quando l’eroica resistenza spagnola viene tradita dal governo del Fronte popolare, sono ancora i surrealisti ad avvertire che l’abbandono della Spagna repubblicana non può essere che il preludio alla realizzazione del piano di egemonia mondiale dei nazifascisti. Essi reclamano una decisa azione prima che sia troppo tardi: “Fronte popolare! Organizza d’urgenza le masse! Costituisci, esercita, arma le milizie proletarie senza le quali non sei che una facciata! È venuto il momento di mettere a profitto il vecchio argomento dei tuoi avversari: l’affermazione concreta della forza è la prima garanzia di sicurezza!”[57].
Nell’evocare questo periodo Breton ricorderà la profonda risonanza che la guerra civile spagnola ebbe tra i surrealisti, e l’immensa speranza che fece nascere tra loro. “Mai la lotta è stata, in partenza, più circoscritta tra le forze dell’oscurantismo e dell’oppressione da una parte e, dall’altra, tutto quello che poteva essere volontà di liberazione, di emancipazione dell’uomo allo stato, per così dire, nativo. Nel momento in cui lo stalinismo non aveva avuto ancora il tempo di allungare i suoi artigli sul proletariato spagnolo e catalano, la situazione era meravigliosamente chiara. Noi potevamo applaudire, senza riserve, indistintamente le vittorie della F Al o del POUM, calcolare quotidianamente le loro possibilità di compiere una rivoluzione che fosse la terza delle grandi rivoluzioni dei tempi moderni e che fosse −chissà − la prima a non conoscere un Termidoro. È abbastanza noto che cosa abbia potuto fare di tutte queste illusioni, di tutte queste speranze l’intervento staliniano... L’iconografia mentale dei primi giorni della rivoluzione spagnola conserva l’immagine di un Benjamin Péret che, seduto dinanzi a una porta di Barcellona con il fucile in una mano, carezzava un gatto sulle sue ginocchia”[58].
Il 3 settembre 1936 e il 26 gennaio 1937 André Breton prenderà posizione sui primi e sui secondi processi di Mosca. Ne rimase così sconvolto che quindici anni dopo la sua indignazione rimaneva intatta: “Non riesco a spiegarmi come oggi, anche con quel minimo di coscienza che può sussistere, non ci si ribelli dinanzi alla sfida impudente non dico a ogni sentimento di giustizia, ma addirittura al più elementare buon senso, costituita dalla messa in scena di quei processi e dalle motivazioni delle sentenze. Continuo a pensare che allora si è lasciata aprire la piaga più spaventosa dei tempi moderni, fatalmente destinata ad aggravarsi. Si è accettato una volta per sempre che la ‘ragione di Stato’ facesse strame dell’innocenza, dell’onore e persino del diritto di certi uomini ai quali andava la gratitudine di tutti. So bene che la guerra è passata, accentuando al massimo l’oblio. Non per questo mi sorprendo e mi spavento meno osservando come, generalmente, si sia passati sopra a questa mostruosa iniquità; come, agli occhi di tutti, questa iniquità non discrediti e non insozzi chi l’ha commessa. Non ho niente da ritirare alla protesta che ho elevato contro la sorte riservata ai vecchi compagni di Lenin e le accuse prive di ogni attendibilità che preparavano da lontano il colpo di piccone sul cranio di Trotskij”[59].
A un convegno di protesta contro i primi processi di Mosca Breton legge una dichiarazione in cui afferma tra l’altro: “Nella nostra qualità di intellettuali dichiariamo di considerare abominevoli e inespiabili il verdetto di Mosca e la sua esecuzione. Neghiamo formalmente con voi la giustizia dell’accusa che gli antecedenti degli accusati dispensano persino dall’esaminare a dispetto delle pretese ‘confessioni’ della maggior parte di loro. Consideriamo la messinscena del processo di Mosca come un’abbietta operazione poliziesca che supera di gran lunga in ampiezza e portata quella che si concluse con il cosiddetto processo degli ‘incendiari del Reichstag’. Pensiamo che tali imprese disonorino un regime per sempre... Questo fatto ci illumina definitivamente sulla personalità di Stalin: l’individuo che arriva fino a quel punto è il grande negatore e il principale nemico della rivoluzione proletaria. Dobbiamo lottare contro di lui con tutta la nostra forza, dobbiamo vedere in lui il grande falsificatore dei nostri tempi − non solo si è dato a falsificare il significato degli uomini ma anche quello della storia − e il più ingiustificabile degli assassini... Salutiamo di nuovo la personalità, assolutamente al di sopra di ogni sospetto, di Leone Trotskij. Reclamiamo per lui il diritto di vivere in Norvegia e in Francia. Salutiamo quest’uomo che è stato per noi, indipendentemente dalle opinioni occasionali non infallibili che è stato portato a formulare, una guida intellettuale e morale di prim’ordine, e la cui vita, dal momento che è minacciata, ci è preziosa quanto la nostra”[60].
Si avrà un’idea di quanto coraggiosa e isolata fosse la posizione di Breton e dei suoi amici quando ricorderemo che, a questo convegno promosso dai dirigenti del Partito operaio internazionalista, e cioè del partito trotskista, Breton poté esprimere il suo pensiero solo per l’intervento di Victor Serge “che era appena sfuggito alle prigioni russe e, trattenuto a Bruxelles, insisteva telegraficamente perché mi fosse data la parola”[61].
Pochi mesi dopo, il 26 gennaio 1937, Breton torna a battersi per difendere l’onore rivoluzionario di Trotskij: siamo giunti ai secondi processi di Mosca. Egli vede in questi procedimenti un attacco mortale non solamente al socialismo in URSS, ma anche all’azione rivoluzionaria in tutto il mondo, e in particolar modo alla rivoluzione spagnola. Dopo aver dimostrato l’inanità delle accuse contro Trotskij, egli mette sotto accusa tutta la politica staliniana degli anni Trenta. Con estrema lucidità politica egli osserva: “Gli attuali processi sono, da una parte, il prodotto delle contraddizioni che esistono tra il regime politico del bonapartismo e l’esigenza di sviluppo di un paese come l’URSS che, nei confronti di Stalin e della burocrazia e in contrasto con loro, resta uno Stato operaio. D’altra parte questi processi sono la conseguenza immediata della lotta intrapresa in Spagna: si fa ogni sforzo per impedire che una nuova ondata rivoluzionaria si riversi sul mondo; il problema è di far fallire la rivoluzione spagnola così come si è fatta fallire la rivoluzione tedesca e la rivoluzione cinese... Non lasciamoci ingannare: le pallottole sulla scala di Mosca, nel gennaio del 1937, sono dirette anche contro i nostri compagni del POUM... Dopo di loro si tenterà di colpire i nostri compagni della CNT e della FAI, con la speranza di farla finita con quanto c’è di vivo, con quanto comporta una promessa di divenire nella lotta antifascista spagnola”[62].
Poco più di un anno dopo Breton parte per il Messico per incontrare l’uomo il cui pensiero politico e il cui rigore morale egli ha ammirato e difeso sin dal 1925, e cioè sin dall’inizio del periodo “ragionante” del surrealismo.
Nel periodo tra le due guerre il Messico esercita una grande attrazione per gli intellettuali francesi. Durante i sette anni della presidenza di Lázaro Cárdenas (1934-1940) il Messico è un’isola democratica in un mondo che va alla deriva. L’asilo politico che Cárdenas concede a Trotskij è una piccola, ma importante, manifestazione della liberalità e dell’indipendenza di un governo − l’unico che abbia resistito al ricatto stalinista concedendo ospitalità a Trotskij − che ha avuto il coraggio di attaccare le due cause principali del sottosviluppo messicano espropriando le compagnie petrolifere straniere e varando la riforma agraria.
Il viaggio di Breton in Messico si situa, cronologicamente, tra quello di Artaud, che vi si reca nel 1936, e quello di Péret, che vi si rifugerà nel 1940. Artaud, che si era allontanato dal surrealismo nove anni prima non condividendo l’impegno politico che il movimento assumeva, dichiarerà: “Sono venuto in Messico alla ricerca di uomini politici, non di artisti. Ed ecco perché: sinora sono stato un artista, e cioè un uomo guidato. Non si può infatti mettere in dubbio che dal punto di vista sociale gli artisti sono degli schiavi. Ebbene, io dico che è ora che questo cambi... Sono venuto in Messico a cercare una nuova idea dell’uomo”[63].
André Breton a sua volta scriverà: “Nel mondo rimane almeno un paese in cui il vento della liberazione non è caduto... Il Messico arde di tutte le speranze che sono state suscitate via via in altri paesi: in URSS, in Germania, in Cina, in Spagna”[64]. Non sorprende se per Breton il viaggio in Messico realizzava una delle grandi aspirazioni della sua vita[65].
La sua visita fu preannunciata da alcune lettere dalla Francia. Una di queste ci illumina sul clima di caccia alle streghe scatenata dagli stalinisti francesi: “L’organizzazione staliniana, derivata dalla AEAR, che si denominava Associazione internazionale degli scrittori per la difesa della cultura e il cui organo a Parigi era la rivista Commune, si era preoccupata di farmi precedere da una circolare spedita per posta aerea ai principali scrittori e artisti messicani. Ne conservo ancora un esemplare. Firmata da René Blech ‘per il segretario internazionale’, vi si leggeva in particolare: «André Breton ha sempre preso posizione contro il Fronte popolare e a questo scopo (sic) si è alleato con gli elementi politici più torbidi. La sua azione contro la Repubblica spagnola ha assunto le forme più perfide...». Uno dei destinatari mi fece vedere la lettera sin dal mio arrivo”[66].
Di carattere ben diverso fu la risposta di Pierre Naville a Jan van Heijenoort, segretario di Trotskij, che gli chiedeva un’opinione su Breton. Naville scrisse che Breton era un uomo coraggioso, non contaminato dallo stalinismo[67].
Per andare in Messico Breton, la cui situazione economica fu precaria per quasi tutta la vita, fu costretto a chiedere una cattedra d’insegnante all’estero[68]. Il poeta Alexis Saint-Léger, più conosciuto con lo pseudonimo di Saint-John Perse, allora alto funzionario del Ministero degli esteri, e il dottor Henry Laugier, che capeggiava la ricerca scientifica in Francia, lo aiutarono a ottenere un incarico dai servizi culturali dipendenti appunto dal Ministero degli esteri. Dietro impegno di tenere un certo numero di conferenze sulla letteratura e sull’arte dal tempo degli enciclopedisti ai nostri giorni, Breton e sua moglie, Jacqueline Lamba, ottennero i biglietti per la nave che doveva portarli in Messico.
Breton pensava che, quale compenso per le conferenze che avrebbe tenuto, si sarebbe provveduto ad assicurargli non solamente le spese del viaggio, ma anche, naturalmente, quelle del soggiorno. All’arrivo in Messico, nel febbraio 1938, i coniugi Breton, trovarono ad attenderli il pittore Diego Rivera e un funzionario dell’Ambasciata francese. Jacqueline Lamba ricorda che, dopo i convenevoli, Breton chiese a questo funzionario dove sarebbero stati alloggiati. Questi non ne aveva la minima idea. Al che Breton disse che, non avendo i mezzi per pagarsi un albergo − aveva in tasca solamente pochi franchi − e avendo invece i biglietti per il ritorno, avrebbe preso la stessa nave, la sera stessa, per rientrare in Francia. Era profondamente angosciato, turbato e furente. Intervenne Diego Rivera: “Ma non c’è nessun problema! Starete con noi, siete nostri ospiti, ovviamente. Trotskij mi ha anche chiesto di trasmettervi il suo invito. Vi aspetta domani”.
L’invito rivolto seduta stante, per un incontro quasi immediato, dimostra quanto Trotskij fosse interessato alla visita di Breton, nonostante questa avvenisse in un periodo molto difficile per lui. Aveva appena ricevuto la notizia della tragica morte del figlio Leon Sedov − probabilmente assassinato da sicari stalinisti in una clinica parigina il 16 febbraio 1937 − nonché quelle del processo a Bucharin apertosi a Mosca.
Breton ricorda con quanta apprensione iniziò le discussioni con Trotskij sull’argomento che più l’aveva impegnato sin dalla nascita del surrealismo. “Per anni, in materia di creazione artistica, io ho difeso per lo scrittore, per il pittore, il diritto di disporre di se stesso, di agire non conformemente a delle parole d’ordine politiche, ma in funzione delle determinazioni storiche specifiche che sono solamente di competenza dell’artista. Mi sono sempre mostrato irriducibile su questo punto... Questa perseveranza da parte mia non implica che io non sia stato portato a disperare qualche volta dell’esito della partita, a pensare che l’incomprensione, la cattiva volontà fossero le più forti. Non ci hanno forse abbastanza ripetuto, ai miei amici e a me, che quest’atteggiamento che a tutta forza volevamo mantenere era incompatibile col marxismo? Qualunque fosse la mia convinzione contraria, non potevo nascondere che vi era qui un punto nevralgico, una ragione d’inquietudine che avevo visto troppo largamente condivisa perché non fossi ansioso di sottoporla al compagno Trotskij. Posso dire di averlo trovato massimamente aperto alla mia preoccupazione. Oh! non si creda che noi si sia riusciti subito a capirci: non è uomo da darla vinta così facilmente. Conoscendo abbastanza bene i miei libri, ha insistito per prendere conoscenza delle mie conferenze e ha offerto di discuterne con me. Qua e là sopraggiungeva tra noi qualche scaramuccia: quando incontrava un nome come quello di Sade o di Lautréamont c’era una battuta d’arresto. Nell’ignoranza in cui si trovava al loro riguardo, mi faceva precisare il ruolo che avevano giocato per me ponendosi dal solo punto di vista giusto, dal punto di vista comune al rivoluzionario e all’artista che è quello della liberazione umana”[69].
Date le premesse, fu possibile “giungere a un accordo circa le condizioni che, da un punto di vista rivoluzionario, dovevano essere riservate all’arte e alla poesia, affinché queste partecipassero alla lotta emancipatrice, pur rimanendo interamente libere nelle loro ricerche. Questa intesa si espresse in un testo pubblicato con il titolo Per un’arte rivoluzionaria indipendente e si concluse con la fondazione di una ‘Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente’ (FIARI). Benché Trotskij abbia voluto, per ragioni tattiche, che al suo nome si sostituisse quello di Diego Rivera, quest’ultimo non ebbe alcuna parte nella sua redazione”[70].
Se le quattro dense e bellissime pagine del testo (il cui titolo, Per un’arte rivoluzionaria indipendente[71], riassume già il contenuto) sono talmente importanti, è perché esse rappresentano il punto d’incontro, mai prima d’allora raggiunto, tra un rivoluzionario e un poeta, entrambi di statura intellettuale non comune. In queste quattro pagine ritroviamo l’essenziale delle idee difese da entrambi, ritroviamo le ragioni stesse della loro lotta. Ma quello che è ancora più emozionante è il vedere come lo scontro dialettico delle opinioni dell’uno e dell’altro abbia potuto dar vita a un testo dove entrambi potessero riconoscersi, pur nella diversità delle rispettive formulazioni originali, che ora troviamo arricchite dal comune apporto.
Rileggiamone il secondo paragrafo: “In ciò che di individuale conserva nella sua genesi, nelle qualità soggettive che mette in opera per dedurre un certo fatto che implica un arricchimento oggettivo, una scoperta filosofica, sociologica, scientifica o artistica appare come il frutto di un caso prezioso, cioè come una manifestazione più o meno spontanea della necessità. Non è possibile trascurare un simile apporto sia dal punto di vista della conoscenza in generale (che tende a far sì che si sviluppi l’interpretazione del mondo) sia dal punto di vista rivoluzionario (che, per arrivare alla trasformazione del mondo, esige che ci si faccia un’idea esatta delle leggi che ne governano il movimento); più particolarmente, non è possibile disinteressarsi delle condizioni mentali in cui questo apporto continua a prodursi e, allo scopo, non vigilare affinché sia garantito il rispetto delle leggi specifiche cui è legata la creazione intellettuale”[72].
Ritroviamo in questo paragrafo l’idea espressa da Breton sei anni prima quando scriveva: “Ogni errore nell’interpretazione dell’uomo implica un errore nell’interpretazione dell’universo e costituisce quindi un ostacolo alla sua trasformazione”[73]. Nel 1935, Breton aveva affermato: “L’attività d’interpretazione del mondo deve continuare a essere legata all’attività di trasformazione del mondo. Sosteniamo che compete al poeta, all’artista, approfondire il problema umano sotto tutte le sue forme, che è proprio la condotta illimitata del suo spirito ad avere in questo senso una capacità potenziale di mutamento del mondo, e che una tale condotta − in quanto prodotto evoluto della sovrastruttura − non può che andare a rafforzare la necessità del mutamento economico di questi mondo”[74].
Di conseguenza la cultura deve essere completamente autonoma dalla politica, “il bisogno di emancipazione dello spirito non ha che da seguire il suo corso naturale per essere portato a fondersi e a ritemprarsi in questa necessità primordiale: il bisogno di emancipazione dell’uomo. Dunque l’arte non può, senza decadere, accettare di piegarsi ad alcuna direttiva estranea e di riempire docilmente i quadri che taluni credono di poterle assegnare, con fini pragmatici estremamente limitati. Val meglio fidarsi del dono della prefigurazione che è l’appannaggio di ogni artista autentico, che implica un inizio di superamento (virtuale) delle contraddizioni più gravi della nostra epoca e orienta il pensiero dei contemporanei verso l’urgenza dell’instaurazione di un nuovo ordine... L’idea che il giovane Marx si era fatto del ruolo dello scrittore esige ai nostri giorni un richiamo vigoroso. È chiaro che questa idea deve essere estesa, sul piano artistico e linguistico, alle diverse categorie di produttori e di ricercatori. Lo scrittore, egli dice, deve naturalmente guadagnare dei soldi per poter vivere e per poter scrivere, ma non deve in nessun caso vivere e scrivere per guadagnare dei soldi. Lo scrittore non considera affatto i suoi lavori come un mezzo. Essi sono dei fini in sé, sono così poco un mezzo per lui e per gli altri che, al caso, egli sacrifica alla loro esistenza la sua esistenza... La prima condizione della libertà di stampa consiste nel non essere un mestiere. È più che mai opportuno valersi di questa dichiarazione contro coloro che pretendono di assoggettare l’attività intellettuale a fini estranei all’attività stessa e, in dispregio a tutte le determinazioni storiche che le sono proprie, di controllare in funzione di pretese ragioni di Stato i temi dell’arte. La libera scelta di questi temi e l’assoluta non-restrizione per quanto riguarda il campo della sua esplorazione costituiscono per l’artista un bene che egli è in diritto di rivendicare come inalienabile. In materia di creazione artistica importa essenzialmente che l’immaginazione sfugga a qualsiasi costrizione, non si lasci imporre una falsariga sotto alcun pretesto. A coloro che ci spingessero, oggi o domani, ad acconsentire che l’arte sia sottoposta a una disciplina che consideriamo radicalmente incompatibile con i suoi mezzi, opponiamo un rifiuto senza appello e la nostra volontà deliberata di far valere la formula: ogni licenza in arte[75].
Per concludere l’esame delle idee chiave di questo manifesto ricordiamo che anche l’affermazione più politica in esso contenuta (“riteniamo che compito supremo dell’arte nella nostra epoca sia di partecipare coscientemente e attivamente alla preparazione della rivoluzione”[76]) è un leitmotiv nell’opera di Breton; ad esempio nel 1935 scriverà: “L’arte autentica di oggi è legata all’attività sociale rivoluzionaria; la prima, al pari della seconda, tende alla confusione e alla distruzione della società capitalista”[77].

Appena rientrato in Francia, Breton si lancia anima e corpo nell’attività per concretizzare i progetti elaborati in Messico. Prima tra tutti, la creazione della FIARI, cioè la Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente. Il manifesto elaborato a Coyoacan viene subito stampato; a fine agosto è stato mandato alla maggior parte degli intellettuali di sinistra. In seguito Breton mette in piedi il Comitato francese della FIARI, i cui componenti sono Yves Allegret, André Breton, Michel Collinet, Jean Giono, Maurice Heine, Pierre Mabille, Marcel Martinet, André Masson, Henry Poulaille, Gérard Rosenthal, Maurice Wullens, e cioè artisti, poeti, scrittori, filosofi, politici delle più svariate tendenze aventi in comune una posizione rivoluzionaria non stalinista. La redazione e l’amministrazione di Clé, l’organo della FIARI, è presso Maurice Nadeau, mentre il gerente è Léo Malet. Il primo numero esce il I gennaio 1939, ma per il precipitare della situazione politica non si andrà oltre il secondo del febbraio successivo.
Nel disegno di Breton Clé avrebbe permesso di “stabilire una discriminazione tra coloro che si associano alla posizione del manifesto del Messico e coloro che, a scopi il più delle volte opportunistici, evitano d’impegnarsi in questa direzione... Se l’attività della FIARI non esercita subito una maggiore attrazione, bisogna imputarlo all’aggravarsi della situazione internazionale a partire da Monaco. Nel comitato nazionale dell’organizzazione che formiamo, benché siano riuniti i rappresentanti di varie tendenze rivoluzionarie non staliniane, è ben lungi dal potersi realizzare l’unità organica indispensabile, di modo che Clé si ferma al secondo numero. Un tale insuccesso, in quel momento, si confonde con molti altri. Tutto si svolge come se l’attività intellettuale nelle direzioni più diverse segnasse un tempo d’arresto, come se lo spirito fosse già consapevole che nulla era più in grado di far arretrare il flagello”[78].
Il volantino che annuncia la pubblicazione del mensile ne precisa gli scopi e il programma riprendendo le idee principali del manifesto elaborato a Coyoacan. “Qualsiasi tendenza progressista in campo artistico viene condannata dal fascismo come una degenerazione. Qualsiasi libera creazione viene dichiarata fascista dagli stalinisti. Troppo numerosi sono gli intellettuali che, o per comodità spirituale, o per docile faziosità, considerano e rappresentano la rivoluzione sociale o come terminata o come irrealizzabile. E giunto il momento di protestare contro il disconoscimento delle realtà che ci stanno intorno e del determinismo che le regola. La rivoluzione sta scritta negli avvenimenti del secolo. Essa avrà luogo a dispetto dei falsari e dei disfattisti che, appena ieri, le giuravano fedeltà. Ma è necessario, proprio nella misura in cui essa è ineluttabile, illustrarla, capirla e porre fine alle confusioni ideologiche esistenti. In forza della cultura che rappresentano e dei movimenti affettivi a cui obbedisce la loro vocazione, gli scrittori e gli artisti sono chiamati in qualsiasi periodo prerivoluzionario a ricoprire un ruolo specifico che non spetta a nessun altro rappresentare; infatti, la rivoluzione che vogliamo noi, quella cioè destinata a ‘cambiare la vita’, destinata a ‘trasformare il mondo’, ha diritto a un concorso che non sia improvvisato ma, al contrario, lungamente meditato prima. Aggiungendosi alle opere del presente, le opere del passato devono contribuire, con il loro potere emotivo, a elevare il tono rivoluzionario indispensabile all’azione creatrice. A questa precisa funzione intende dedicarsi la FIARI. Questa funzione rappresenta la ragion d’essere e d’agire della FIARI. In questo senso Clé, il bollettino della FIARI − al pari delle altre sue attività − servirà anche le cause intimamente legate all’arte, alla rivoluzione, all’uomo. Contro tutte le forze di repressione e di corruzione, siano esse fasciste, staliniste o religiose, noi vogliamo: l’indipendenza dell’arteper la rivoluzione / la rivoluzioneper la liberazione definitiva dell’arte[79].
L’editoriale del primo numero, dal titolo significativo “Niente patria”, è un appello alla solidarietà con gli immigrati stranieri fuggiti ai regimi totalitari e che la Francia si appresta a riconsegnare ai loro boia: “Le ignobili campagne fatte sia sulla parola d’ordine ‘Francia destati’, sia su quella ‘la Francia ai francesi’ cominciano a dare i loro frutti avvelenati. I decreti di maggio di Sarraut, certe disposizioni incluse nei decreti-legge di novembre fanno entrare in vigore a spese degli stranieri residenti in Francia, e specialmente degli emigrati politici, una procedura scellerata, ispirata a quella dei paesi fascisti. Le misure di repressione già prese e i preparativi d’internamento a cui assistiamo mostrano che si va affermando una politica del terrore e del gesto di forza che tende alla costituzione in Francia di un regime ‘autoritario’ e fra non molto totalitario... Testimoniano del rapido contagio da cui sono presi i paesi ‘democratici’ trascinati, a dispetto delle considerazioni umane più elementari, a rinnegare il principio d’asilo, per tanto tempo considerato sacro da loro... L’arte al pari dei lavoratori non ha patria. Preconizzare oggi, come fanno non solo i fascisti, ma anche gli stalinisti, il ritorno all’arte ‘francese’ significa opporsi alla conservazione di questo stretto rapporto necessario all’arte, significa adoperarsi per la divisione e l’incomprensione tra i popoli, significa fare opera premeditata di regressione storica. I nostri compagni artisti stranieri sono oggi minacciati nella stessa misura dei nostri compagni operai stranieri... Denunciamo nei decreti legge che prendono di mira gli stranieri − indesiderabili per la borghesia reazionaria − il tentativo di degradare in questo paese la persona umana creando una prima categoria di uomini senza diritti e dignità legali, condannati a persecuzioni continue per il solo fatto che, avendo opposto resistenza all’oppressione o sfuggito le dittature disumane, non hanno più una ‘patria’ legale”[80].
Questo primo numero comprende testi di André Breton, Jean Giono, Georges Henein, Maurice Heine, Ignazio Silone ecc., e annuncia l’adesione alla FIARI di numerosi intellettuali tra i quali Roger Blin, J.B. Erunius, Claude Cahun, Nicolas Calas, Michel Carrouges, Michel Collinet, Marcel Duhamel, Roger Gilbert-Lecomte, Maurice Henry, Marcel Jean, Simone Kahn (poi Simone Collinet), Pierre Mabille, Henri Pastoureau, Benjamin Péret, Marceau Pivert, Charles Ratton, Yves Tanguy, André Thirion ecc. Le due pagine centrali riportano alcune reazioni al manifesto di Coyoacán, sia quelle negative di Roger Martin du Gard, Gaston Bachelard (motivata dall’isolamento totale in cui lavorava), Paul Rivet, Michel Leiris, Robert Ganzo, Jean Painlevé, sia quelle positive di Herbert Read, Victor Serge, André Marchand, Jef Last, Francis Vian, Gaston Modot ecc. È doveroso ricordare i nomi di quei pochi intellettuali che, in clima di terrorismo poliziesco, ebbero il coraggio di dare la loro adesione a quest’iniziativa.
Nel secondo e ultimo numero di Clé, tra gli altri contributi, venne pubblicata una lettera del 22 dicembre 1938 di Trotskij a Breton. Maurice Nadeau, presso il quale aveva sede la redazione e l’amministrazione di Clé, ne commenta così la fine: “Non era più il momento dell’arte, soprattutto dell’arte indipendente. Inoltre le discussioni interne al gruppo surrealista (esclusione di Georges Hugnet a causa della sua amicizia con Eluard che aveva rotto con il gruppo per riaccostarsi ai comunisti) passarono disgraziatamente nella FIARI. Ci furono poi i ‘proletari’ come Marcel Martinet e Henry Poulaille, i quali scoprirono che i surrealisti esercitavano un’influenza eccessiva sull’organizzazione invece di controbilanciarla con un apporto equivalente, e restarono chiusi nelle loro posizioni”[81].
Ormai siamo arrivati alla vigilia della seconda guerra mondiale. Il 27 settembre 1938 il gruppo surrealista pubblica una dichiarazione: “Né la vostra guerra né la vostra pace!”, dove sono previsti non solo l’approssimarsi della guerra, ma anche la gigantesca mistificazione tendente a far passare questo secondo conflitto imperialista per una lotta tra democrazia e totalitarismo: “La guerra che si annuncia con un moltiplicarsi e ripetersi di misure di sicurezza, la guerra che minaccia di sorgere dall’inestricabile conflitto degli interessi capitalisti da cui è travagliata l’Europa, non sarà la guerra della democrazia, non sarà la guerra della giustizia, non sarà la guerra della libertà. Gli Stati che, per le esigenze del momento e per quelle storiche, pretendono di servirsi di queste nozioni come di documenti personali, hanno guadagnato la loro ricchezza e consolidato il loro potere mediante sistemi tirannici, arbitrari e criminosi. Le prove più recenti dell’infamia di questi Stati sono ancora vive nella memoria collettiva. Hanno lasciato che l’Italia annientasse l’Etiopia perché qualsiasi resistenza vittoriosa opposta all’invasore bianco avrebbe incoraggiato i popoli delle colonie a liberarsi dalla morsa imperialista. Hanno rifiutato alla Spagna del luglio 1936 le armi che aveva il diritto di chiedere loro e che le avrebbero permesso di sconfiggere rapidamente il fascismo perché la vittoria dei lavoratori spagnoli non doveva aprire al proletariato mondiale nuove prospettive rivoluzionarie. Stanno consegnando la Cina all’imperialismo giapponese. Se le potenze pseudodemocratiche si mettono oggi in movimento, lo fanno per difendere uno Stato che hanno creato a loro immagine, uno Stato fondamentalmente capitalista, centralizzato, poliziesco e statico. Tradita da ogni parte, dimentica della sua funzione eversiva, la classe operaia si prepara a partecipare al salvataggio del bottino di Versailles. In risposta a questo atteggiamento suicida, dichiariamo che il solo problema che interessi l’avvenire sociale dell’uomo e che è fatto espressamente per stimolare la sua lucidità e la sua energia creatrice è quello della liquidazione di un regime capitalista che non riesce a sopravvivere a se stesso, a superare i propri paradossi e i propri fallimenti se non con le scandalose complicità della Seconda e della Terza Internazionale. Sia con i colpevoli che con i loro complici, con i giustificatori della guerra come con i falsificatori della pace, nessun compromesso è possibile. Alla folle Europa dei regimi totalitari noi non contrapponiamo la vecchia Europa del Trattato di Versailles, anche se corretto. A queste due Europe contrapponiamo, in pace come in guerra, le forze destinate a ricreare l’Europa da cima a fondo mediante la rivoluzione proletaria”[82].
È sintomatico che l’ultima presa di posizione dei surrealisti, poco prima dello scoppio della guerra, nel luglio del ‘39, sia una protesta contro l’arresto di tre militanti rivoluzionari, nel quale i surrealisti vedono l’annuncio della soppressione di tutte le libertà. “Stiamo bene attenti! L’incarcerazione di questi tre nostri compagni è solo un piccolo saggio. Se riesce, è la fine anche delle poche libertà che ancora ci restano... Invitiamo tutti coloro che non sono stati ancora colpiti da questo ignobile contagio sciovinistico, tutti coloro che osano pensare liberamente, a unirsi a noi per protestare contro gli scellerati decreti-legge che autorizzano lo stato maggiore a far pesare fin da ora la sua dittatura facendo passare per un ‘attentato alla difesa nazionale’, anzi per una operazione spionistica, l’azione di uomini coraggiosi, dell’onestà e della lucidità dei quali rispondiamo noi. C’è di mezzo non la loro libertà, ma la libertà di tutti[83].
Durante il secondo conflitto mondiale l’attività politica dei surrealisti continuerà in Francia, nell’Europa occupata e negli Stati Uniti. Nel 1939 Breton, Char, Frederic Delanglade, Péret e gli altri surrealisti ancora in Francia (Yves Tanguy e Nicolas Calas erano partiti prima del 3 settembre) sono mobilitati.
Péret, scoperto dopo aver costituito una cellula trotskista nell’esercito, è incarcerato nel 1940 a Rennes. Dopo che il 16 giugno Pétain chiede l’armistizio, riesce a uscire dalla prigione militare, il 22 luglio, pagando un riscatto di mille franchi ai nazisti. Raggiunge Marsiglia da dove si imbarcherà per il Messico nel 1941. Qui, nella prefazione per la sua Antologia dei miti, leggende e racconti popolari d’America, egli narra le vicende della sua prigionia[84].
Nel corso dell’inverno 1940-41 si ritrovano a Marsiglia, alla Villa Air Bel allestita dal Comitato di soccorso americano, i surrealisti francesi Breton, Char, Delanglade, Sylvain Itkine, Masson e Péret, raggiunti da Bellmer, Brauner, Dominguez, Ernst, Hérold, Lam e Victor Serge. Presto Breton, Ernst, Lam e Masson riescono a partire per gli Stati Uniti. Char, Eluard e Itkine si uniscono alla Resistenza e quest’ultimo, catturato a Parigi dalla Gestapo, morirà sotto atroci torture nel 1944.
A New York Breton continua l’attività politica dai microfoni della radio della Francia libera. Pierre Naville mi ha riferito che ricorda di aver sentito una trasmissione verso la fine del 1944 nel corso della quale, parlando col suo tono inimitabile del collaborazionista LavaI, Breton diceva: “Laval recevra douze pruneaux et c’est la première chose qu’il n’aura pas volé” (gioco di parole: Laval riceverà dodici prugne − cioè pallottole − ed è la prima cosa che non avrà rubato − cioè che si merita).
In Francia si forma nel settembre 1941 il gruppo “La Main à Plume”, animato a Parigi da Noël Arnaud, Jean-François Chabrun, Paul Chancel e Christian Dotremont, in zona Nord da André Stil, in zona Sud da Pierre Minne. Vi parteciperanno, con motivazioni diverse, surrealisti dell’ultima ora, giovani simpatizzanti, militanti trotskisti e comunisti, poeti e pittori: Adolphe Acker (trotskista, firma Adolphe Champ oppure Paul Chancel i suoi contributi alle pubblicazioni del gruppo), Maurice Blanchard (poeta), Christine Boumeester (pittrice), Victor Brauner (pittore), Achille Chavé (poeta belga, già combattente nelle Brigate internazionali in Spagna), Gérard de Sède (poeta, trotskista), Jean-Claude Diamant-Berger (partigiano), Oscar Dominguez (pittore), Jean Ferry (cineasta e saggista), Aline Gagnaire (pittrice), Emile Guikovaty (trotskista), Jacques Hérold (pittore), Georges Hugnet (scrittore, espulso per indegnità morale nel 1943), Edouard Jaguer (poeta e saggista), J.V. Manuel (Manuel Viola, poeta e pittore, trotskista), Marco Menegoz (poeta e partigiano), Georges Mouton, Jean-Pierre Mulotte (partigiano), Henri Pastoureau (poeta), Marc Patin (poeta), Régine Raufast, Robert Rius (poeta), Boris Rybak (poeta e scienziato), Hans Schoenhoff (resistente), Gérard Schneider (pittore), Jean Simonpoli (partigiano), Tita (Edita Hirschowa, pittrice), Raoul Ubac (pittore), Gérard Vulliamy (pittore).
Molti tra questi cadranno durante la guerra: Diamant-Berger (ucciso 1’8 1uglio 1944), Menegoz (fucilato a sedici anni), Mulotte (fucilato a quindici anni), Patin (morto di stenti nel 1943), Rius e Simonpoli (fucilati), Schoenhoff e Tita (morti in deportazione).
Tra l’agosto 1940 e il maggio 1944 il gruppo[85] darà alle stampe più di trenta pubblicazioni e qualche volantino. Per sfuggire alla censura nazista dei periodici ogni numero della rivista avrà un nome diverso, pur uscendo sempre con la sigla fittizia delle “Editions de La Main à Plume”. Nel 1941: La main à plume (agosto), Géographie nocturne (settembre) e Transfusion du verbe (dicembre); La conquête du monde par l’image (aprile 1942), Décentralisation surrealiste (giugno 1943), Le surréalisme encore et toujours (agosto 1943), Informations surréalistes (maggio 1944). L’ultimo fascicolo previsto, Objet, non supera lo stadio delle bozze di stampa.
Nella prima serie di Les Pages Libérées (1942-44) vengono pubblicati testi di Noël Arnaud, Maurice Blanchard, André Breton (Pleine marge), J.F. Chabrun, Christian Dotremont, Paul Eluard (Poésie et vérité), Laurence Iché, Léo Malet, J.V. Manuel, Benjamin Péret (Les malheurs d’un dollar), Pablo Picasso, Robert Rius e Gérard de Sède.
Il gruppo si disintegra in seguito alle divergenze: i surrealisti fedeli al pensiero di Breton, per la maggior parte trotskisti (Dalmas de Polignac, de Sède, Guikovaty, Hérold, Daniel Nat, Rybak), e i militanti comunisti, quasi tutti stalinisti (Charles Bocquet, Chabrun, Menegoz, Rius, Simonpoli e Stil). La rottura si definisce nel corso di una riunione in casa di Jacques Hérold la sera del 18 maggio 1944[86].
Le prime quattro dichiarazioni collettive del gruppo sono volantini pubblicati per stigmatizzare l’attività letteraria collaborazionista di Jean Follain (13 marzo 1943), Léon-Paul Fargue (28 marzo 1943), Paul Eluard (la lettera, in data 14 luglio 1943, inizia con “Vecchia canaglia”, e lo qualifica “vegliardo imbecille” e “inqualificabile farabutto”) e Georges Hugnet[87]. Quest’ultimo, già espulso dal gruppo surrealista nel 1939 per “disonestà intellettuale”, ora li diffamava. Sappiamo dal volantino “Fait divers” (1943)[88] che Noël Arnaud il 6 ottobre prese a schiaffi questo “bottegaio”. Un’altra sonora correzione infliggeranno al recidivo Hugnet, il 28 novembre 1962, Vincent Bounoure, Jéhan Mayoux e Jean Schuster: l’individuo aveva prudentemente aspettato la morte di Benjamin Péret per diffamarlo e insultarlo sul settimanale Arts[89].
Sempre nel 1943 un “papillon” della serie Cartes à jouer du Quatre vingt et un recita: “Se non siete PRETE, GENERALE, o STUPIDO, sarete SURREALISTI!”[90].
Nel 1944 un testo riaffermava l’impegno politico del movimento: “La Rivoluzione surrealista, per continuare a vivere, deve alimentarsi alla fonte della Rivoluzione mondiale”[91]. A Londra Jacques Brunius e E.L.T. Mesens, coraggiosamente, in piena guerra, pubblicano il lucido “Idolatria e confusione” (1944)[92]; in epigrafe la frase del dottor Johnson: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni”, e quella di Lautreamont: “Tutta l’acqua del mare non basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale”.
Brunius e Mesens denunciano il servilismo e l’ignoranza di certi critici inglesi che ignorano gli scritti più impegnati pubblicati dopo la disfatta francese, per glorificare invece la pseudoletteratura patriottarda dei “poeti” cosiddetti “engagés” quali “Aragon stalinista” con “le sue volgari poesie burlesche”[93]. Essi puntualizzano:
“Dal 1940 sono comparsi in francese solo pochi testi di una qualche importanza. Tra questi in primo luogo:
“1. Lettre aux Anglais, di Georges Bernanos (Atlantica Editore, Rio de Janeiro).
“2. L’intervista di André Breton a View al suo arrivo negli Stati Uniti (n. 7-8, ottobre 1941).
“3. ‘Prolegomènes à un troisième manifeste du surréalisme ou non’, di André Breton (VVV, n. 1, New York 1942).
“4. ‘Situation du surréalisme entre les deux guerres’, di André Breton (VVV, n. 2-3, New York, 1943).
“5. La part du diable, di Denis de Rougemont (Brentano’s, New York)...
“Nessuno di questi libri e articoli ha fatto il benché minimo rumore in Inghilterra, neppure la Lettre aux Anglais, che per il suo titolo meritava maggiore attenzione. Perché questo libro non è stato tradotto e pubblicato in Gran Bretagna?...
“E di che cosa invece ci hanno parlato gli eminenti critici inglesi? Delle volgari poesie scritte dallo spirito di Jean Aicard che si firma Aragon; del Silence de la mer, un tipo di storia che i quotidiani francesi pubblicavano già prima della guerra, e a proposito del quale c’è stata tanta commozione solo per nasconderne la vuotezza desolante...
“Perché tutta questa agitazione per generi di dubbio valore e il silenzio su quello che è realmente importante? Senza dubbio è perché Bernanos, Breton e de Rougemont non glorificano i vari conformismi alla moda in tempo di guerra e perché ridestano lo spirito critico”[94].
Breton torna a Parigi nella primavera del 1946. Il suo primo intervento pubblico − un discorso, il 7 giugno, in difesa di Antonin Artaud al Teatro Sarah Bernhardt − gli dà l’occasione di chiarire il carattere irrisorio di “ogni forma di engagement che stia al di qua di questo triplice e indivisibile obiettivo: trasformare il mondo, cambiare la vita, rifare da cima a fondo l’intelletto”[95].
L’anno seguente tira altre stoccate contro l’engagement di molti intellettuali, per la maggior parte stalinisti, spesso gli stessi che durante l’occupazione nazista, e prima che il conflitto coinvolgesse l’URSS, incitavano a fraternizzare con il soldato tedesco e a collaborare con il regime di Pétain: “L’ignobile parola impegno [engagement], che è diventata alla moda durante la guerra, trasuda un servilismo che fa orrore alla poesia e all’arte”[96].
Lo stesso anno ricorda il concetto base del surrealismo: per trasformare il mondo bisogna prima conoscerlo. E come possono trasformarlo coloro che tradiscono la verità e la bellezza? Breton scrive: “Che aberrazione, che impudenza c’è nel volere ‘trasformare’ un mondo quando si fa così poco caso della necessità di interpretarlo in ciò che ha di più permanente!”[97].
Nell’aprile 1947 viene anche pubblicata la prima dichiarazione collettiva del gruppo surrealista ricostituito. Tra i firmatari ritroviamo, oltre ai surrealisti “storici” Breton e Péret, quelli attivi nel periodo tra le due guerre: Joë Bousquet, J.B. Brunius, Arthur Harfaux, Maurice Henry, Marcel Jean, Pierre Mabille, Jehan Mayoux, Maurice Nadeau, Henri Parisot, Yves Tanguy; alcuni tra i componenti de “La Main à Plume”: Adolphe Acker, Jean Ferry e Henry Pastoureau; quelli del gruppo “La Révolution la Nuit”: Yves Bonnefoy, Eliane Catoni, Jaroslav Serpan; e nuovi venuti: Francis Bouvet, Jean Brun, Guy Gillequin, Jacques Halpern, Francis Meunier, Henri e No Seigle.
Non hanno ancora aderito al gruppo i giovani che firmeranno “per il movimento surrealista” l’ultima dichiarazione[98], con Breton, prima della sua morte: Philippe Audoin, Vincent Bounoure, Gérard Legrand, José Pierre e Jean Schuster, e neppure quelli che saranno altrettanto impegnati nell’attività collettiva: Jean-Louis Bédouin (a partire dall’autunno 1947), Jean Benoît (1959), Robert Benayoun e Ado Kyrou (1951), Claude Courtot (1964), Radovan Ivsic (1956), Alain Joubert (1955), Annie Le Brun (1963), Joyce Mansour (1953), Mimi Parent (1959), Jean-Claude Silbermann (1955), Toyen (che dalla Cecoslovacchia, dove era stata tra i fondatori del gruppo surrealista nel 1934, arriva a Parigi, con Heisler, nel 1947) e Michel Zimbacca (1949).
La prima dichiarazione collettiva del gruppo va situata nel clima politico dell’immediato dopoguerra, quando, conniventi i comunisti al governo, si abiuravano gli ideali della Resistenza. Le forze del colonialismo francese avevano represso con furore selvaggio le istanze nazionaliste in Algeria (45.000 massacrati in seguito alla repressione di una manifestazione dei braccianti del Setif), e in Madagascar (85.000 morti tra il 1947 e il ‘48). Ora si trattava di condannare il tentativo di ridurre nuovamente a colonia la Repubblica Democratica del Vietnam, la cui indipendenza era stata proclamata da Ho Chi-minh il 29 agosto 1945. Con vigore e lucidità il gruppo riconferma le proprie opzioni rivoluzionarie e internazionaliste:
“C’è la guerra in Indocina, una guerra imperialista intrapresa in nome di un popolo che a sua volta è stato appena liberato da cinque anni di oppressione, contro un altro popolo unanime nel volere la libertà. Questa aggressione assume un grave significato. Da una parte prova che niente è mutato: come nel 1919 il capitalismo, dopo aver sfruttato tanto il patriottismo quanto le più nobili parole d’ordine di libertà, intende ricuperare interamente il suo potere, restaurare la potenza della sua borghesia finanziaria, del suo esercito e del suo clero e continua la sua tradizionale politica imperialistica. D’ altra parte, prova che gli eletti della classe operaia, malgrado la tradizione anticolonialista, che è stata uno dei più fermi vettori del movimento operaio, con violazione flagrante del diritto dei popoli all’autodecisione infinite volte proclamato, gli uni per corruzione, gli altri per sottomissione cieca a una strategia imposta dall’alto e le cui esigenze, sin d’ora illimitate, tendono a nascondere o a capovolgere i veri moventi della lotta, accettano di assumere la responsabilità dell’oppressione o di rendersene complici, nonostante una certa ambivalenza di atteggiamenti.
“Agli uomini che conservano un rudimento di lucidità e di senso dell’onestà noi diciamo: è falso che si possa difendere la libertà qui imponendo la servitù altrove. È falso che si possa condurre, in nome del popolo francese, una lotta tanto odiosa senza doverne subire le drammatiche conseguenze. La strage organizzata scaltramente da un monaco ammiraglio non tende che a difendere l’oppressione feroce dei capitalisti, dei burocrati e dei preti...
“I surrealisti per i quali la rivendicazione prima è stata e resta la liberazione dell’uomo, non possono tacere dinanzi a un crimine tanto stupido quanto rivoltante. Il surrealismo ha senso solo contro un regime dove tutti i membri solidali non hanno saputo trovare come dono di felice avvento che questa ignominia sanguinosa; un regime che a mala pena non sprofonda nel fango del compromesso e delle concessioni e che non è che un calcolato preludio per l’ edificazione di un prossimo totalitarismo.
“In occasione di questo nuovo crimine, il surrealismo dichiara di non aver rinunciato a nessuna delle sue rivendicazioni e meno che mai alla volontà di una trasformazione radicale della società. Ma esso sa quanto siano illusori gli appelli alla coscienza, all’intelligenza e persino agli interessi degli uomini, quanto siano facili su questo piano la menzogna e l’errore e quanto le divisioni siano inevitabili: per questo il campo che si è prescelto è al tempo stesso il più ampio e il più profondo, commisurato a una vera fraternità umana. Esso è dunque qualificato per elevare la sua protesta veemente contro l’aggressione imperialista e per rivolgere il suo saluto fraterno a coloro che in questo stesso momento incarnano il divenire della libertà”[99].
Questa dichiarazione e le due seguenti (“Rottura inaugurale” e “A cuccia, i piagnoni di dio!”) esplicitano − e il discorso è diretto in particolare alle nuove leve − le direttive fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione poetica e ideologica nel periodo tra le due guerre, e cioè: internazionalismo, antistalinismo e anticlericalismo.
“Rottura inaugurale” (giugno 1947) ribadisce l’autonomia del pensiero surrealista dai partiti, in primo luogo da quello comunista, e persino dal trotskista, e conclude:
“È nella misura in cui chiede alla rivoluzione di inglobare la totalità dell’uomo, di non concepirne la liberazione da un angolo visuale particolare bensì sotto tutti gli aspetti contemporaneamente che il surrealismo si dichiara il solo qualificato a gettare sulla bilancia le forze di cui si è fatto l’indagatore e poi il conduttore meravigliosamente magnetico − dalla donna-bambina allo humour nero, dal caso oggettivo alla volontà del mito. Queste forze hanno come luogo di elezione l’amore incondizionato, sconvolgente e folle che solo permette all’uomo di vivere in tutta la sua ampiezza, di evolvere secondo dimensioni psicologiche nuove.
“Una volta indagate, una volta messe in condizioni di unirsi e di esaltarsi reciprocamente, queste forze hanno qualche possibilità di conciliare infine una finalità umana e la casualità universale. Si iscrivono in margine, partecipano dei progressi delle discipline più avanzate del nostro tempo cui dobbiamo una geometria non-euclidea, una fisica non-maxwelliana, una biologia non-pasteuriana, una meccanica non-newtoniana − discipline a loro volta solidali con una logica non-aristotelica e in quella morale non-mosaica all’elaborazione della quale facciamo appello imperiosamente per sventare l’invivibile.
“Non da ieri risuonano nelle profondità dell’uomo la rivendicazione di Rimbaud nei confronti della vita, la parola d’ordine di Marx nei confronti del mondo. Ma da quando l’esperienza ragionevole e razionale della coscienza ha avuto il sopravvento sull’esperienza appassionata dell’inconscio, cioè da quando l’ultimo dei miti si è cristallizzato in una mistificazione deliberata, sembra perduto il segreto che permetteva di conoscere e di agire − di agire senza alienare la conquista della conoscenza. È ora di promuovere un mito nuovo capace di trascinare l’uomo verso la tappa ulteriore della sua destinazione finale.
“Questa impresa è l’impresa specifica del surrealismo. È il suo grande appuntamento con la Storia.
Il sogno e la rivoluzione sono fatti per conciliarsi, non per escludersi. Sognare la Rivoluzione non significa rinunciarvi, ma farla doppiamente e senza riserve mentali. Sventare l’invivibile non significa fuggire la vita, ma precipitarvisi totalmente e senza ritorno.
“IL SURREALISMO È QUELLO CHE SARÀ”[100].
“A cuccia, i piagnoni di dio!” (giugno 1948) denuncia i vari tentativi di strumentalizzare, a profitto del cristianesimo, il pensiero di Rimbaud, di Lautréamont e persino di Sade. Vi si osserva che “i cristiani d’oggi dispongono di argomenti presi in immondezzai teologici abbastanza eterocliti da far fronte alle circostanze più diverse. In queste condizioni, non essendovi la benché minima costanza nel linguaggio da essi impiegato, a causa della loro fondamentale duplicità, ogni discussione è impossibile. Del resto lo è sempre stata. E così, anche se l’idea di dio, considerata in quanto tale, non riuscirebbe che a strapparci degli sbadigli di noia, poiché le circostanze in cui questa idea interviene sono tali da suscitare la nostra collera, gli esegeti non siano sorpresi di vederci ricorrere ancora alle ‘grossolanità’ dell’anticlericalismo elementare dove il Merde à dieu iscritto sugli edifici del culto a Charleville resta l’esempio tipico. Il fatto che i politici tra loro rinuncino all’anatema non basta perché noi rinunciamo a quelle che chiamano bestemmie, apostrofi evidentemente prive ai nostri occhi di ogni obiettivo sul piano divino, ma che continuano a esprimere la nostra irriducibile avversione verso qualunque essere inginocchiato”[101].
Il colpo di forza perpetrato a Praga il 26 febbraio 1948 dall’imperialismo moscovita ispira pagine amare a Breton in cui tuttavia permane la fiducia nella capacità eversiva dell’uomo: “Niente può far sì che la libertà, scoperta umana che è preesistita a Marx e che gli è sopravvissuta, non mantenga teso, nell’angolo più buio del quadro, l’arco che il mito vuole sia stato messo nelle nostre mani da Prometeo o da Lucifero. Tutte le tirannie del passato e che verranno non intaccheranno questo fatto”[102].
Nel giugno 1950 giunge a Parigi la notizia che Záviš Kalandra è stato condannato a morte dal tribunale di Praga nel corso di un processo che ricalca fedelmente la prassi staliniana. Il filosofo e storico Kalandra era un vecchio militante rivoluzionario; membro del Partito comunista nel 1935, era stato tra gli organizzatori delle giornate surrealiste a Praga. Dal 1939 Kalandra, arrestato dai nazisti, aveva passato sei anni nei campi di concentramento di Ravensbruck e Sachsenhausen. Nel 1948 Breton aveva già scritto una lettera aperta a Paul Eluard[103] per chiedergli d’intervenire e salvare l’uomo del quale erano stati amici e ospiti nel 1935. Gli ricordava la posizione comune circa i processi di Mosca, e la nobile figura di Kalandra. Invano, Eluard risponderà cinicamente: “Ho troppo da fare con gli innocenti che gridano la loro innocenza per occuparmi dei colpevoli che gridano la loro colpa”[104].
I surrealisti allertano l’opinione pubblica e ottengono la firma di alcuni intellettuali abbastanza coraggiosi da resistere al clima conformista, per reclamare, invano, al presidente della Repubblica cecoslovacca la rinuncia all’esecuzione di Kalandra e dei suoi coimputati (per la maggior parte resistenti ex surrealisti, denunciati da Tristan Tzara secondo fonti attendibili). Tra i firmatari del telegramma, oltre naturalmente ai surrealisti, vanno ricordati Georges Altman, Marcel Arland, Dominique Aury, Simone de Beauvoir, Albert Béguin, Albert Camus, Jean Cayrol, J.-M. Domenach, Georges Duhamel, Julien Gracq, Jean Grenier, Jean Hélion, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Pierre Monatte, Jules Monnerot, Jacques Monod, Jean Paulhan, Magdeleine Paz, André Pieyre de Mandiargues, Jean-Paul Sartre, Seigle, Roger Stéphane, Jules Supervielle, Charles Vildrac[105].

Nel 1951 la dichiarazione “Alta frequenza” conferma l’apertura del movimento all’esoterismo, alle nuove prospettive del dopoguerra, e rinnova l’esaltazione della libertà che si esprime anche con il rifiuto dell’idea di un dio onnipotente:
“Né scuola, né cappella, il surrealismo, molto più che un atteggiamento, è un’avventura nel significato più aggressivo e più totale della parola. Avventura dell’uomo e del reale lanciati l’uno dall’altro nello stesso movimento. Piaccia o no agli spiriti della critica, seduti attorno a un tavolo, con le luci spente, per evocare la sua ombra, il surrealismo continua a definirsi in relazione alla vita di cui ha sempre esaltato le forze combattendone l’alienazione secolare.
“Il surrealismo non deve rassomigliare alla lettera di quello che fu un tempo. Meno ancora alla caricatura che ne propongono i suoi avversari...
“A chi si vuol far credere che la degenerazione delle formazioni politiche tradizionali basta a rendere platonica la nostra passione di libertà? I recenti avvenimenti di Spagna provano una volta di più che l’assenza di parole d’ordine partigiane non impedisce al genio rivoluzionario di scuotere ogni servitù, cominciando dall’assoggettamento provvisorio della rivendicazione umana a un’ideologia regressiva, che regna dispoticamente sulle moltitudini.
“Di fronte a questo flagello, più che mai sosteniamo che le diverse manifestazioni di rivolta non debbono essere isolate le une dalle altre, né sottoposte a un’arbitraria gerarchia, ma che costituiscono le facce di un solo prisma. Per il fatto di permettere a questi fuochi di colore diverso ma egualmente intensi di riconoscere in lui il focolare comune, il surrealismo, con migliore cognizione di causa che per il passato, si consacra al superamento dei principali conflitti che separano l’uomo dalla libertà, cioè dallo sviluppo armonioso dell’umanità nel suo insieme e nelle sue innumerevoli manifestazioni − dell’umanità infine giunta a un senso meno precario del suo destino, guarita da ogni idea di trascendenza, liberata da ogni sfruttamento.
“Per noi, non c’è bisogno di dirlo, la religione giudaico-cristiana resta nel significato proprio del termine la nemica ‘accanita’ dell’uomo, riesca o no a incorporarsi in ideologie totalitarie. Con i suoi complici ‘lavoro-famiglia-patria’ dovrà tuttavia chiudere la sua fabbrica di storpi e di cadaveri. Per farla finita con questa religione, facciamo sistematicamente appello alle forze che tenta di soffocare nella psiche umana.
“È a queste forze che si allea, nella sua eterna disponibilità, la gioventù avida di tutto ciò che lotta contro un utilitarismo ogni giorno più cieco. Sono queste forze che si uniscono e si esaltano nell’amore, annunciando un’età dell’oro in cui l’oro non avrebbe età, in cui il fiore dell’età, per vivere, farebbe ameno dell’oro. Sono sempre queste forze che fanno della poesia il principio e la fonte di ogni conoscenza, in opposizione permanente alla stoltezza (metafisica, politica ecc.) e alle sue manifestazioni giornalistiche, radiofoniche, cinematografiche ecc.
“La volontà del surrealismo di restituire all’uomo i poteri di cui è stato spogliato non ha potuto non indurlo a indagare tutti gli aspetti della conoscenza intuitiva; in particolare quelli abbracciati dalle dottrine esoteriche, il cui interesse è di svelare nello spazio e nel tempo certi circuiti ininterrotti. Perciò prova ancor più ripugnanza per tutto ciò che può apparentare certi sistemi ‘occulti’ a un insieme di ricette di inginocchiamento e riafferma in proposito la sua irriducibile ostilità verso qualsiasi fideismo”[106].

Con la “Dichiarazione preliminare” (12 ottobre 1951) iniziava, sotto forma di “Billets surréalistes”, la collaborazione regolare a Le Libertaire, settimanale della Federazione anarchica:
“Surrealisti, noi non abbiamo mai cessato di riservare alla trinità Stato-lavoro-religione un’esecrazione che ci ha spesso condotti a incontrarci con i compagni della Fédération anarchiste’. Questo accostamento ci conduce oggi a esprimerci sul Libertaire. Ce ne rallegriamo tanto più in quanto questa collaborazione ci consentirà, pensiamo, di definire alcune delle grandi linee di forza comuni a tutti gli spiriti rivoluzionari.
“Noi stimiamo che una grande revisione delle dottrine si imponga con urgenza. Questa sarà possibile solo se i rivoluzionari esamineranno assieme tutti i problemi del socialismo allo scopo non di trovarvi una conferma delle proprie idee, bensì di farne sorgere una teoria in grado di dare un impulso nuovo e possente alla Rivoluzione sociale. La liberazione dell’uomo non potrebbe, se non vuole condannarsi a contraddirsi subito, ridursi al solo piano economico e politico, ma deve estendersi anche al piano etico (risanamento definitivo dei rapporti degli uomini fra loro). Essa è legata alla presa di coscienza da parte delle masse delle loro possibilità rivoluzionarie e a nessun costo può condurre a una società in cui tutti gli uomini, sull’esempio della Russia, siano uguali nella schiavitù.
“Intransigenti come siamo col sistema d’oppressione capitalistico, si esprima esso nella forma ipocrita della ‘democrazia’ borghese e odiosamente colonialistica o assuma l’aspetto di un regime totalitario nazista o staliniano, non possiamo non affermare ancora una volta la nostra ostilità di fondo nei confronti dei due blocchi. Come ogni guerra imperialistica, quella che essi preparano per risolvere i loro conflitti e annientare le volontà rivoluzionarie non è la nostra guerra. Da essa può risultare solo un aggravarsi della miseria, dell’ignoranza e della repressione. Solo dall’azione autonoma dei lavoratori noi ci attendiamo l’opposizione che potrà impedirla e condurre alla sovversione, nel senso di rifacimento assoluto, del mondo attuale.
“Questa sovversione, il surrealismo è stato e rimane il solo a intraprenderla sul terreno sensibile che gli è proprio. Il suo sviluppo, la sua penetrazione negli spiriti hanno messo in evidenza l’insuccesso di tutte le forme di espressione tradizionali e hanno dimostrato che esse erano inadeguate alla manifestazione di una rivolta cosciente dell’artista contro le condizioni materiali e morali imposte all’uomo. La lotta per la sostituzione delle strutture sociali e l’attività profusa dal surrealismo per trasformare le strutture mentali, lungi dall’escludersi, sono complementari. La loro unione dovrà affrettare l’avvento di un’éra libera da ogni gerarchia e da ogni costrizione”[107].
In verità Le Libertaire aveva già iniziato a ospitare testi surrealisti sin dal 22 maggio 1947, quando venne pubblicata la prima dichiarazione collettiva del dopoguerra, “Libertà è una parola vietnamita”. Tra il 17 giugno e il 20 novembre 1952 uscirono altri trentuno testi, tra i quali due discorsi di Breton: quello pronunciato alla Mutualité (21 ottobre 1949), dove, dopo aver ribadito la profonda affinità tra surrealismo e anarchia, viene commentato il programma del movimento “Cittadino del mondo” lanciato da Gary Davis; e quello a Wagram (6 marzo 1952) in difesa dei sindacalisti condannati a morte da Franco.
A questo proposito Breton fu costretto a scrivere una “Precisazione” (16 maggio 1952):
“Vari giornali (Combat, Paris-Presse ecc.) hanno riprodotto la scorsa settimana il testo di un telegramma diretto al papa e così concepito: «Sollecitiamo supremo intervento presso capo Stato spagnolo per impedire esecuzione dei sindacalisti di Barcellona condannati a morte». La prego di consentirmi di dire ai nostri amici del Libertaire che, benché il mio nome compaia fra i firmatari del telegramma, io non ho mai firmato tale testo e ne disapprovo formalmente l’iniziativa, che parte dagli uffici del Franc-Tireur.
“Trattandosi di salvare cinque sindacalisti spagnoli, mi sarei astenuto dal protestare pubblicamente se, come mi fu assicurato telefonicamente il giorno dopo, i promotori dell’iniziativa avessero creduto di poter usare, senza chiedere l’autorizzazione, i nomi di tutti coloro che, alla manifestazione di Wagram, avevano preso la difesa dei condannati. Essendo stati omessi, fra questi, i nomi di Georges Altman, di Jean-Paul Sartre e di Ignazio Silone, mentre si facevano precedere gli altri da quello di un prete che non si era manifestato sino allora (e, a quanto pare, non aveva trovato appoggio presso il suo superiore gerarchico!), stimo che si sia abusato del mio.
“È ovvio che io non avrei mai pensato né acconsentito a indirizzare una supplica al papa, personaggio a cui personalmente nego ogni autorità spirituale e che, in tutta la mia vita, non ho mai visto impegnato a usare i poteri che detiene per compiere il minimo atto di giustizia o di ‘carità’.
“L’esecuzione avvenuta venerdì scorso, dei nostri cinque compagni di Barcellona, dimostra ancora una volta che l’appello in questione era del tutto ridicolo e sottolinea, per coloro che ancora avessero dubbi in proposito, la criminale collusione fra il Vaticano e Franco”[108].
Tra gli interventi pubblicati da Le Libertaire ricordiamo l’importante testo teorico di Péret, “La révolution et les syndicats” (in sei puntate nel 1952: 26 giugno, 10 e 24 luglio, 7 e 21 agosto, 4 settembre); la dichiarazione collettiva “Una protesta giustificata” (29 marzo 1951)[109] per denunciare il tentativo di riabilitare in extremis la Chiesa spagnola.
Si è detto che furono trentuno i testi pubblicati in Le Libertaire; a questi si aggiunge un uguale numero di “Billets surrealistes”[110] di Jean-Louis Bédouin, André Breton, Adrien Dax, Guy Doumayrou, Georges Goldfayn, Adonis Kyrou, Gérard Legrand, Benjamin Péret, José Pierre, Bernard Roger, Jean Schuster, Jacqueline Sénard-Duprey e François Valorbe.
Nell’impossibilità di riprendere anche solo i più notevoli, mi limito a citare i passi principali da “La claire tour” di Breton:
“Nello specchio nero dell’anarchia il surrealismo si è riconosciuto per la prima volta, prima ancora di definirsi a se stesso e quando ancora non era che una libera associazione fra individui che rifiutavano spontaneamente e in blocco le costrizioni sociali e morali del loro tempo...
“Perché in tale momento non poté aver luogo una fusione organica fra elementi anarchici propriamente detti ed elementi surrealisti? Venticinque anni dopo sono ancora qui a chiedermelo. Non c’è dubbio sul fatto che l’idea di efficacia, che doveva essere lo specchietto per allodole di tutta quest’epoca, ha deciso altrimenti. Quello che poté essere considerato il trionfo della rivoluzione russa e l’avvento di uno Stato operaio comportò un grande mutamento nelle prospettive.
“La sola ombra sul quadro − ombra che si sarebbe poi precisata macchia indelebile − era l’annientamento dell’insurrezione di Kronstadt, il 18 marzo 1921. I surrealisti non riuscirono mai a dimenticare del tutto. Non è però meno vero che, attorno al 1925, solo la Terza Internazionale sembrava in possesso dei mezzi per trasformare il mondo. Si poteva credere che i segni di degenerazione e di regresso già facilmente percepibili nell’Est fossero ancora scongiurabili. I surrealisti vissero allora nella convinzione che la rivoluzione sociale estesa a tutti i paesi non potesse mancare di promuovere un mondo libertario (alcuni dicono un mondo surrealista, ma è la stessa cosa). Tutti, in principio, dettero lo stesso giudizio, compresi quelli (Aragon, Eluard ecc.) che, in seguito, sono scaduti dal loro primo ideale al fine di farsi una carriera invidiabile (agli occhi degli uomini d’affari) nello stalinismo...
“Sappiamo bene quale impietoso saccheggio è stato fatto di queste illusioni, durante il secondo quarto di questo secolo. Per una spaventosa ironia, al mondo libertario che molti sognavano si è sostituito un mondo in cui è di rigore l’obbedienza più servile. Un mondo in cui all’uomo sono negati i diritti più elementari e dove l’intera vita sociale ruota attorno al poliziotto e al carnefice. Quando un ideale umano arriva a questo colmo di corruzione, il solo rimedio è quello di ritemprarsi nella grande corrente sensibile dove esso ha avuto origine, di risalire ai principi che gli hanno permesso di costituirsi. E al termine stesso di questo movimento, oggi più necessario che mai, che si incontrerà l’anarchismo ed esso solo − non più la caricatura che ce ne viene presentata o lo spauracchio in cui esso è stato trasformato…”[111].
In Arcane 17[112], uno scritto redatto durante gli anni dell’ultimo conflitto mondiale, Breton per la prima volta esprime dubbi sulla via proposta dai marxisti-leninisti per giungere alla liberazione dell’uomo. Egli è scosso dalla sterile esperienza di quindici anni di lotta accanto alla sinistra, sia pure non stalinista, ma comunque marxista. Questi anni gli hanno fatto constatare quanto i militanti, non solo di questa sinistra, siano sordi alle rivendicazioni che non siano sociali. L’unico uomo politico che aveva capito il carattere insopprimibile delle rivendicazioni dell’uomo come individuo, e non come un’entità astratta indissolubilmente legata alla massa, era stato assassinato quattro anni prima. Breton torna allora al suo primo amore, torna alla grande corrente del pensiero libertario, alle fonti, al socialismo utopico di Fourier[113].
Rievoca l’emozione che provò, a diciassette anni, all’apparire delle bandiere nere in una dimostrazione popolare: “Ritroverò sempre per la bandiera rossa, vergine da ogni simbolo o insegna, lo sguardo che ho potuto avere a diciassette anni, quando, durante una manifestazione popolare, alla vigilia dell’altra guerra, le ho viste spiegarsi a migliaia nel cielo basso di Pré Saint-Gervais. E tuttavia − sento che, a dir la verità, non vi posso far niente − continuerò a fremere più ancora all’evocazione del momento in cui, in tratti poco numerosi e ben circoscritti, questo mare fiammeggiante era rotto dallo spiegamento di bandiere nere”[114].
Poi il suo ricordo va ancora più lontano, alla sua infanzia: “Non dimenticherò mai la distensione, l’esaltazione e la fierezza che mi causò, una delle prime volte che da ragazzo mi condussero in un cimitero − fra tanti monumenti funerari deprimenti o ridicoli − la scoperta di una semplice tavola di granito scolpita a lettere maiuscole rosse, con la superba massima: NÉ DIO NÉ PADRONE. La poesia e l’arte conserveranno sempre un’inclinazione per tutto ciò che trasfigura l’uomo in questa ingiunzione disperata, irriducibile che, di quando in quando, l’uomo assume il rischio derisorio di imporre alla vita. E che al di sopra dell’arte, della poesia, lo si voglia o no, batte una bandiera volta a volta rossa e nera”[115].
Una mostra d’arte americana al Musée National d’Art Moderne di Parigi, dove una sala intera era riservata a Siqueiros, provoca la protesta “All’assassino!” (23 maggio 1952), scritta da Péret e firmata congiuntamente dal movimento surrealista, dalla Federazione anarchica, dall’Unione operaia internazionale, dal Gruppo di lotta rivoluzionaria (Spagna) e dal Partito comunista internazionalista (trotskista): “David Alfaro Siqueiros è uno stalinista militante da lunga data. Lo vediamo partecipare alla guerra di Spagna nella brigata di Lister ‘di sinistra memoria’ (Victor Serge). Tornato in Messico dopo la sconfitta spagnola, la notte del 24 maggio 1940 dirige un assalto contro la residenza di Leone Trotskij... Arrestato il 4 ottobre seguente dal generale Sánchez Salazar, Siqueiros fu rimesso in libertà provvisoria su cauzione nell’aprile del 1941 e fuggì in aereo il 5 maggio, grazie alla complicità di Pablo Neruda, allora console generale del Cile in Messico; quest’ultimo fu sospettato anche di aver permesso agli stalinisti di travestirsi da poliziotti nel suo domicilio... Rientrato in Messico nel 1947, dopo un soggiorno di sei anni in Cile, Siqueiros dichiarò al giornale messicano Excelsior, il 23 maggio 1947: «Non ho mai negato e non negherò mai la responsabilità che mi compete in questo affare (l’assalto del 24 maggio 1940 e l’assassinio di Robert Sheldon Harte), pur affermando che ho agito da franco tiratore. Devo rilevare che considero la mia partecipazione uno degli onori più grandi della mia vita». A quest’epoca il dossier del suo affare era già stato trafugato dagli stalinisti. David Alfaro Siqueiros non può essere che un sicario della polizia (NKVD). Egli è stato recentemente vari mesi dietro la cortina di ferro. La sua presenza in un’esposizione e il posto che gli è concesso si spiegano unicamente con gli interessi politici degli organizzatori. La sua partecipazione a quest’esposizione, peraltro mirabile, costituisce una provocazione che è importante denunciare. Essa è inammissibile sotto ogni punto di vista e ci costringe a elevare la più vibrante protesta”[116].
Stalin muore il 5 maggio 1953, nel coro unanime di lodi sperticate che si eleva da sinistra (il rapporto Kruscev filtrerà in Occidente solo tre anni dopo); una delle rare note dissonanti è quella di Breton. L’inchiesta promossa dal supplemento letterario di un quotidiano parigino sul tema “Quale volto Stalin assumerà nella storia” (14 marzo 1953) provoca questa risposta: “Che cosa aggiungere di più che già non sia noto a tutti? Le mani lorde del sangue dei suoi compagni di lotta migliori, il segreto di un mezzo infallibile per strappar loro a un tempo l’onore e la vita, l’insigne attentato contro il Verbo, che è consistito nel pervertire sistematicamente le parole portatrici di ideali, la doppiezza e il terrore eretti a sistema di governo: io non vedo che cosa, neppure con l’aiuto dell’oblio, unito all’inclinazione duratura delle masse per i destini individuali spettacolari, potrà controbilanciare tutto questo”[117].
Il 1956 è un anno denso di avvenimenti drammatici. In Francia, alle elezioni legislative di gennaio, l’estrema destra poujadista conquista 52 seggi superando i comunisti (50 seggi). In febbraio Kruscev legge al XX Congresso del PCUS il “rapporto segreto” destinato a scuotere dalle fondamenta l’impero sovietico. Il 23 ottobre i servizi segreti francesi, fedeli ai metodi banditeschi di tali organismi, dirottano l’aereo che riportava in Algeria Ben Bella e alcuni esponenti del Fronte di liberazione algerino e arrestano tutto il gruppo. Lo stesso giorno scoppia la sollevazione popolare in Ungheria. Ernö Geroe chiede l’intervento sovietico e viene sostituito a furor di popolo da Imre Nagy. Il 4 novembre Budapest è occupata dai russi, mentre il 5 le truppe franco-britanniche prendono Porto Said. La voce surrealista si fa sentire puntualmente per chiarire la reale portata di questi avvenimenti.
Le elezioni politiche in Francia del gennaio 1956 danno la vittoria alle sinistre ma portano anche all’Assemblea nazionale 52 deputati poujadisti. Pierre Poujade, che aveva fondato il 23 luglio 1953 l’Unione di difesa dei commercianti e artigiani, è di fatto un burattino dell’estrema destra e ne fa proprie le istanze più reazionarie. Cade così il governo del radicale Faure, che aveva messo termine alla positiva esperienza di Pierre Mendès-France, durata solo setti mesi e diciassette giorni. Il socialista Guy Mollet diventa il primo capo di sinistra di un governo della Quarta Repubblica. Governerà per sedici mesi, adottando però la politica di centro destra del suo predecessore, così che la crisi del maggio 1958 segna la fine della Quarta Repubblica e il ritorno del generale de Gaulle. Questi verrà investito dal presidente René Coty il 29 maggio 1958 capo del governo, e il 28 settembre nasce la Quinta Repubblica, presidente de Gaulle.
Attenti alla situazione politica non soltanto internazionale, i surrealisti, il giorno dopo il successo dei poujadisti, diffondono il volantino “Limite di sicurezza” (21 gennaio 1956): “Il risultato delle elezioni ci preoccupa realmente solo nella misura in cui per la prima volta siedono a Palais Bourbon più di cinquanta deputati che non è esagerato definire fascisti. Sostenuti da tutta la stampa nazista di Parigi, un’accozzaglia di ubriaconi, di lottatori da fiera, di teppisti da drogheria, di macellai abituati a dare un colpo alla bilancia e a circolare nel sangue, si apprestano a governarci con l’aiuto di alcuni microcefali della facoltà di diritto. Questi ladri patentati non si limitano ormai a gridare ‘Al ladro!’, secondo una tecnica sperimentata. Già pretendono di instaurare la discriminazione razziale tra i francesi e di resuscitare la stella gialla... Se non facciamo attenzione, domani saranno le strade di Parigi a trasformarsi in un terreno di caccia all’uomo. Domandiamo dunque al Comitato d’azione degli intellettuali contro la repressione nell’Africa del Nord, che, secondo le parole di Jean Cassou, costituisce il più importante raggruppamento che si sia visto dopo il ‘36, di delegare senza distinzione di opinioni politiche o di altro genere un Comitato d’azione contro il fascismo e il colonialismo, di organizzare un boicottaggio sistematico della finanza poujadista e di non attendere che la violenza più bassa e più cinica abbia il sopravvento per ‘mettere in guardia’ una opinione pubblica completamente disorientata”[118].
Nel corso del XX Congresso del PCUS (14-25 febbraio 1956) Kruscev legge l’ormai famoso “rapporto segreto”, mentre in aprile scioglie il Kominform. Questi avvenimenti ispirano la redazione di “È la volta delle livree sporche di sangue” (12 aprile 1956), la più importante dichiarazione collettiva dopo “Rottura inaugurale” (1947). Il testo è redatto da Jean Schuster in collaborazione con André Breton (al quale se ne deve il titolo). Dopo aver riaffermato i principi ispiratori dell’attività politica surrealista si invita la base del PCF a scacciare i quadri:
“Piaccia o no alla critica letteraria borghese, alla critica filosofica più o meno bene intenzionata e a tutta la critica politica cosiddetta ‘di sinistra’, il surrealismo si inserisce nella storia con la preoccupazione di assumere lo sviluppo rivoluzionario del pensiero sino alle sue più estreme e più svariate conseguenze.
“Nel suo quadro storico specifico, questo pensiero è condizionato ai nostri giorni dalla necessità di levarsi contemporaneamente contro lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo in regime capitalista o non capitalista e contro lo sfruttamento dello spirito da parte di un preteso razionalismo che le più recenti posizioni scientifiche basterebbero a infirmare. Qualunque siano, in queste condizioni, le vicissitudini cui è esposto un tale pensiero, nei suoi rapporti necessari con l’azione rivoluzionaria, il surrealismo si prefigge lo scopo di mantenere e di esaltare il contenuto latente, permanente, della rivoluzione...
“Il surrealismo rivendica una concezione realmente dialettica della rivolta individuale, negazione, feroce e illimitata che trasmuta in coscienza rivoluzionaria positiva: la seconda è, dunque, di continuo preservata dalla prima da ogni intristimento burocratico, il che, su un piano superiore di sintesi, le consente di porre dinanzi a se stessa la critica negativa della rivoluzione compiuta. In virtù di questa concezione il surrealismo resta il polo della vigilanza verso tutti gli attacchi contro la rivoluzione, sia come idea che come fatto.
“Da vent’anni il surrealismo prova che una opposizione irriducibile allo stalinismo non si accompagna necessariamente a un abbandono dell’obiettivo rivoluzionario e che, al contrario, questo obiettivo esige una tale opposizione come garanzia morale...
“Nel 1935, un manifesto intitolato ‘Du temps que les surréalistes avaient raison’ esprimeva la sfiducia più totale verso il regime cosiddetto ‘sovietico’ e verso il suo capo. Questa sfiducia, ci affrettiamo a dirlo, Stalin stesso si adoperò a trasformarla in un sentimento più preciso nel corso degli anni successivi.
“L’assassinio, dopo i simulacri di processi che si conoscono, dei primi compagni di Lenin, il massacro di quelli della FAI, della CNT e del POUM che, in Ispagna, tentarono di liberare il proletariato mondiale, infine il vile, immondo colpo di piccone che sfondò il cranio di Trotskij: questa serie di delitti basterebbe a fare dell’istigatore la figura più abietta della Storia.
“Nel 1956, tre anni dopo la sua morte, si strappa il velo che, usando le tecniche della religione, permetteva di rappresentarlo agli operai pazientemente mistificati come il contrario di quello che era, come la guida ‘geniale’ dell’umanità, il continuatore di Lenin... a proposito del quale Trotskij riferiva nel 1924 il seguente aneddoto: ‘In un congresso dei Soviet si vide salire alla tribuna un rappresentante abbastanza noto di una sette religiosa, un comunista cristiano (o qualcosa del genere) assai abile e scaltro, che immediatamente intonò un’antifona in onore di Lenin, definendolo paterno e che ci nutre. Mi ricordo che Vladimir Ilič, seduto alla tavola del bureau, alzò la testa, si volse leggermente e disse a mezza voce, in tono furente verso noi che eravamo i più vicini: ‘Che cosa sono queste porcherie?’.
“Gli intellettuali staliniani hanno esteso d’un altro buon tratto i limiti di queste ‘porcherie’; hanno dimostrato per primi che certi spiriti contenevano una vera e propria cloaca e che bastava loro avere la lingua abbastanza duttile per diffondere in tutte le direzioni le loro emanazioni pestilenziali. Peccato che la morte abbia strappato prematuramente al nostro disgusto, come alla tremante confusione in cui si rifugerebbe oggi, colui che, tra tutti loro, manifestò in questo tipo di esercizi le doti più sicure, benché tra le più tardive, come dimostra questa ‘poesia’ [si tratta di ‘Joseph Staline’ di Paul Eluard, pubblicata dall’Humanité 1’8 dicembre 1949]:

E Stalin per noi è presente per domani
E Stalin scioglie oggi la disgrazia
La fiducia è il frutto del suo cervello d’amore
Il racemo ragionevole, tanto è perfetta
Grazie a lui viviamo senza conoscere autunno
L’ orizzonte di Stalin rinasce sempre...
Stalin ricompensa i migliori degli uomini
E restituisce ai loro lavori la virtù del piacere...
La vita e gli uomini hanno eletto Stalin
Per rappresentare sulla terra le loro speranze senza limiti.

“Non è che un pezzo scelto tra gli altri, ‘a tutta prova’ dal punto di vista del servilismo, cioè vergognosamente controrivoluzionari. Pubblicati nella stampa operaia, ahimè, solo il proletariato d’Europa non li ha sentiti come insulti a quella che fu la sua intelligenza. Ciò nonostante, noi surrealisti ci rifiutiamo di credere che la classe operaia, che dal giugno 1848 sino alla disfatta di Spagna del 1939, quando dovette cedere dinanzi alle forze coalizzate del fascismo, della Ghepeu e della finanza internazionale, ha dato tante prove della sua volontà di trasformare il mondo nel senso esclusivo della libertà, possa più a lungo affidare il suo destino a una cricca poliziesca.
“Dovremmo arrenderci a una così lugubre evidenza solo se, per assurdo, in un lasso di tempo molto breve i militanti di base del partito ‘comunista’ francese, aiutati da giovani intellettuali che, col favore del nuovo orientamento, vi siano entrati con le mani pulite, non rovesciassero i dirigenti attuali, a tutti i livelli della gerarchia del partito − in particolare se non scacciassero dalla loro comoda tribuna giornalistica gli Aragon, Wurmser, Triolet, Stil, Kanapa, Courtade e altri cani di meno nobile pedigree, tutti apologisti stipendiati e complici dei crimini di Stalin.
“Compagni comunisti, i vostri capi vi hanno tradito, hanno speculato sulla miseria spirituale che la società vi lascia troppo spesso in retaggio; hanno canalizzato la vostra rivolta verso l’adorazione religiosa; hanno smussato, se non spezzato la vostra volontà rivoluzionaria, schernito la vostra speranza − pertanto sono divenuti alleati dei capitalisti, vostri sfruttatori diretti; sono riusciti a pietrificarvi, parlandovi di Mosca come si parla ai cristiani del paradiso; oggi voi sapete che non c’è paradiso in nessun luogo, né sulla terra né altrove; sapete che la rivoluzione non ha ‘salvatore supremo’, ma può avere un carnefice. Compagni, i vostri capi esitano − loro, così abili a compiere le svolte − sembrano disorientati da quella che dipende da voi che sia l’ultima, quella della verità. Esigete, nelle cellule, la discussione libera e immediata, partendo dal XX Congresso, sulla revisione della Storia del Partito con la riabilitazione dei pretesi traditori come prima conseguenza, a cominciare dalla riabilitazione, e solenne, del compagno inseparabile di Lenin, dell’organizzatore dell’Esercito rosso, del teorico della rivoluzione permanente, del compagno Leone Trotskij; destituite i funzionari e i burocrati sottoposti a Thorez, che si è autoproclamato ‘il miglior discepolo di Stalin’; estirpate dalla classe operaia il veleno staliniano che l’ha paralizzata”[119].
Nell’ottobre 1956 la sollevazione di studenti e operai in Ungheria riporta al governo l’antistalinista Imre Nagy. Le truppe sovietiche invadono il paese il I novembre, mentre Imre Nagy annuncia l’uscita dal Patto di Varsavia. La reazione sovietica non si fa attendere: il 4 novembre i russi occupano Budapest. Nagy e alcuni suoi ministri si rifugiano nell’Ambasciata jugoslava (sarà rapito con un inganno da Kadar e poi processato e fucilato il 17 giugno 1957). L’intervento militare sovietico porta al potere Janos Kadar che si assume il compito di riportare l’ordine nel paese. I surrealisti diffondono il volantino “Ungheria, sole che sorge” (novembre 1956). Come sempre, i loro penetranti commenti li portano a mettere in evidenza (e sono forse gli unici a farlo) l’identità di intenti delle forze reazionarie sia occidentali sia sovietiche:
“La stampa mondiale dispone di specialisti per ricavare le conclusioni politiche dei recenti avvenimenti e commentare la soluzione amministrativa con cui l’ONU non mancherà di sanzionare la sconfitta del popolo ungherese. Quanto a noi, ci spetta proclamare che il Termidoro, il giugno 1848, il maggio 1871, l’agosto 1936, il gennaio 1937 e il marzo 1938 a Mosca, l’aprile 1939 in Ispagna e il novembre 1956 a Budapest alimentano lo stesso fiume di sangue che, senza possibilità di equivoco, divide il mondo in padroni e schiavi. L’astuzia suprema dell’epoca moderna consiste nel fatto che gli assassini di oggi hanno assimilato il ritmo della storia. Ormai la morte poliziesca, in Algeria come in Ungheria, opera in nome della democrazia e del socialismo:
“Esattamente trentanove anni fa l’imperialismo franco-britannico tentava di accreditare la propria versione interessata della rivoluzione bolscevica, facendo di Lenin un agente del Kaiser; lo stesso argomento è usato oggi dai pretesi discepoli di Lenin contro gli insorti ungheresi, confusi, nel loro insieme, con i pochi elementi fascisti che, inevitabilmente, si sono dovuti infiltrare tra di loro. Ma in periodo insurrezionale il giudizio morale è pragmatico: FASCISTI SONO COLORO CHE SPARANO SUL POPOLO. Nessuna ideologia resiste dinanzi a questa infamia: è Gallifet stesso che ritorna, senza scrupoli e senza vergogna, in un carro armato con la stella rossa.
“Tra tutti i dirigenti ‘comunisti’ mondiali solo Maurice Thorez e la sua banda continuano cinicamente la loro carriera di cocchi della Ghepeu che ha davvero la pelle dura se sopravvive alla carogna di Stalin.
“La sconfitta del popolo ungherese è la sconfitta del proletariato mondiale. Qualunque sia l’aspetto nazionalistico che hanno dovuto assumere la Resistenza polacca e la rivoluzione ungherese, si tratta di un aspetto congiunturale, determinato innanzitutto dalla colossale e forsennata pressione di quello Stato ultranazionalista che è la Russia. Il principio internazionalista della rivoluzione proletaria non è in causa. La classe operaia era stata dissanguata totalmente nel 1871 dai versagliesi di Francia. A Budapest, di fronte ai versagliesi di Mosca, i giovani − ribelli all’addestramento staliniano al di là di ogni speranza − le hanno trasfuso un sangue che certamente determinerà il corso della trasformazione del mondo[120].
Torniamo per un attimo al 1955: in novembre viene fondato il “Comitato d’azione degli intellettuali francesi contro il proseguimento della guerra in Africa del Nord”, al quale ben presto aderiscono più di seicento militanti di tutte le correnti politiche della sinistra (comunisti e loro simpatizzanti, marxisti anti-stalinisti, sartriani, cristiani, anarchici e surrealisti). Sin dalle prime sedute si ha una sfaldatura tra le posizioni rivoluzionarie dei surrealisti e loro simpatizzanti e degli anarchici (sostegno dell’insurrezione algerina) e quelle “pacifiste” dei comunisti e dei cristiani.
Il 15 dicembre, nel corso di un’ “assemblea generale”, viene avanzata la richiesta di mettere all’ordine del giorno l’intervento sovietico a Budapest. Gli staliniani, sostenuti dai sartriani (J.P. Pontallis, Pouillon, M. Péju), tentano di bloccare la proposta. Ma una mozione presentata da Claude Lefort, Dionys Mascolo ed Edgar Morin è adottata a larga maggioranza[121].
Un editoriale per Le Surréalisme, Même riporta il testo della mozione: “Il comitato condanna il rapimento dei capi del FLN da parte del governo francese e l’aggressione imperialista contro l’Egitto; condanna l’intervento sovietico in Ungheria e il rapimento di Nagy; difende senza riserve e in tutti i casi il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ci auguriamo di vedere gli intellettuali sovietici premere sul loro governo contro la sua aggressione. Esigiamo dal nostro che applichi in Africa del Nord i principi che pretende di far applicare in Ungheria; che metta termine agli arresti, alle torture, ai massacri e alla cosiddetta pacificazione”[122].
Per rimanere in argomento ricordiamo che i surrealisti furono tra i promotori della “Dichiarazione sul diritto all’insubordinazione nella guerra d’Algeria”, più nota come “Dichiarazione dei 121”, in un’epoca (settembre 1960) in cui i firmatari si esponevano a pesanti sanzioni giuridiche.
Mi sono soffermato altrove sulla straordinaria preveggenza di Breton. Nel 1942 egli allude a una “scoperta spettacolare... nel campo della fisica”[123]. Nel 1945 la prima attuazione della scoperta che avrebbe dovuto aprire all’umanità l’era dell’abbondanza è una terrificante minaccia per la sua stessa sopravvivenza. Breton commenta un anno dopo: “La conoscenza scientifica della natura non può avere alcun pregio ameno che non possa essere ristabilito il contatto con la natura attraverso le vie poetiche e, oserò dire, mitiche. Va da sé che ogni progresso scientifico compiuto nel quadro di una struttura sociale difettosa non fa che andare a svantaggio dell’uomo, che contribuire ad aggravarne la condizione”. Nelle circostanze attuali, invece, “lo stretto dovere degli intellettuali è di denunciare i progressi di una follia omicida che non ha più limiti... L’uso dell’energia atomica, in quanto conquista irrevocabile dell’uomo, lo immobilizza, lo lascia interdetto al crocevia di due strade, una delle quali porta al suicidio sul piano collettivo, l’altra al più insperato benessere”[124].
Passano altri due anni, e nel 1948 Breton affida tutte le sue speranze di salvezza alla “trasformazione del mondo, certamente più necessaria e urgente che mai, ma che, data la minaccia comune che pesa su tutti gli uomini, chiede di essere ripensata da cima a fondo”, e aggiunge: “una tale fine del mondo, sorta a seguito di un passo falso dell’uomo, imperdonabile perché più decisiva dei precedenti... non è la nostra”[125].
Questo è il contesto che determina la pubblicazione, dieci anni dopo, nel febbraio 1958, dell’appello “Smascherate i fisici − Vuotate i laboratori”. Con pungente lucidità vi si afferma:
“Nulla, assolutamente nulla, oggi distingue la Scienza da una minaccia di morte permanente e generalizzata. La questione si pone entro i seguenti termini: si tratta di sapere se la scienza saprà assicurare il benessere all’uomo o condurlo alla sventura, poiché ormai è evidente che ha cessato d’essere un mezzo per diventare un fine. La fisica moderna ci ha promesso, ci ha dato, e ci promette ancora, come suoi tangibili risultati, cataste di cadaveri. Fino a ieri, davanti a conflitti tra nazioni, davanti alla possibile distruzione di una civiltà, noi reagivamo secondo i nostri criteri politici e morali abituali. Ma oggi ci troviamo davanti a una specie umana votata alla distruzione completa per l’impiego cinico di bombe nucleari..., per le devastazioni dovute alle ricadute che intanto riverberano effetti imprevedibili sulla meteorologia e sulla base biologica della specie data la deliberata rincorsa dei governi nelle esplosioni sedicenti sperimentali, con la copertura dei ‘fini pacifici’. In queste condizioni il pensiero rivoluzionario vede le sue attività ridotte ai minimi termini, per cui a ritemprarsi deve risalire alle sorgenti della rivolta e, oltre un mondo capace solo di nutrire il proprio cancro, ritrovare gli impulsi preconsci del furore.
“Non è quindi a un atteggiamento umanistico che ci richiameremo. Se la religione è stata a lungo l’oppio dei popoli, la Scienza è ormai prossima a rilevarne la funzione. Le proteste contro la corsa agli armamenti, che certi fisici oggi si compiacciono di levare, al più ci illuminano su un loro complesso di colpa che, sia ben chiaro, è uno dei vizi più infami dell’uomo. Il petto che ci si batte troppo tardi, la cauzione data dai tristi belati del gregge che ha armato la mano del macellaio: conosciamo questo ritornello. Il cristianesimo e i suoi specchi deformanti che sono le dittature poliziesche ci hanno già abituati...
“Basta con la teologia della Bomba! Organizziamo la propaganda contro i ricattatoti del sedicente pensiero scientifico. E nell’attesa di far meglio incominciamo a boicottare le conferenze dove si celebra l’atomo; sonori fischi ai film che addormentano o indottrinano l’opinione pubblica; scriviamo ai giornali e alle istituzioni pubbliche per protestare contro la pletora di articoli, reportages e trasmissioni radiofoniche dove si celebra spudoratamente questa nuova colossale impostura”[126].
Le ultime tre prese di posizione dei surrealisti, prima della morte di André Breton, sono sulla Polonia, sulla collusione poliziesca franco-spagnola e su Cuba.
Nel marzo del 1959 il III Congresso del POUP polacco annullava la risoluzione del 1948 che condannava Gomulka. In maggio, al Congresso degli scrittori sovietici, si levarono le prime critiche al grigiore e al servilismo di certi letterati. Questi tenui segni di risveglio, e a un tempo la constatazione che la Francia non è più la custode di una tradizione emancipatrice − e quindi non ha più lezioni da dare a nessuno −, improntano il “Messaggio dei surrealisti agli intellettuali polacchi” (4 giugno 1959): “Sfidando la repressione, voi siete riusciti a contenere un potere colossale, padrone assoluto della metà del mondo. Gli intellettuali francesi non sono capaci di mettere in discussione un potere ridicolo, anacronistico, tronfio d’una grandigia irreale, ma nella sua essenza non meno intollerabile di quanto era in concreto quello che vi opprimeva. Voi avete rischiato tutto, la vostra libertà e la vostra stessa vita. Gli intellettuali francesi non rischiano null’altro che la loro meschina tranquillità, ma neanche quella sono disposti a rischiare. Da come stanno andando le cose, tra qualche mese, l’arciaccademico André Malraux verrà a farvi conferenze sulla cultura francese. Sappiate fin da ora che questa cultura esiste solo al passato, perché una cultura muore là dove la coscienza diserta. Non leggete alcuna amarezza in queste parole. Quello che conta, quello che ci aiuta a vivere, è il fatto che, oltre il nostro povero paesaggio di miserie morali, voi, l’intellettualità del più oppresso dei popoli, continuate a prevalere sulle forze della morte. Vi dovevamo questo saluto fraterno”[127].
“La via iniqua” (8 febbraio 1963) stigmatizza il gesto di de Gaulle, pronto a consegnare a Franco i repubblicani spagnoli in esilio in cambio di attivisti dell’OAS. “Così il terrore su scala internazionale, ancora una volta, minaccia i sopravvissuti dell’ultima grande insurrezione che ha fatto scricchiolare durevolmente le vertebre di un pianeta che tende a intorpidirsi in un sonno mortale... Quale che sia l’attenzione al nostro discorso, noi siamo ben risoluti a levare contro questa infamia una protesta solenne per fedeltà a ideali che ognuno oggi sembra impegnato a degradare ad aneddoti pittoreschi o commossi ricordi. C’è un altro sopravvissuto della guerra di Spagna che merita la nostra particolare attenzione. È André Malraux, che, dal giorno in cui è diventato ministro, ha taciuto davanti alle torture in Algeria, davanti alla repressione delle attività anticolonialiste, davanti al massacro un anno fa, alla fermata del métro di Charonne, di nove lavoratori parigini ad opera della brigata speciale di polizia di Frey-Papon. Quante volte tacerà ancora? La ‘sinistra’ per parte sua continuerà a deplorare sotto voce che una così bella ‘intelligenza’ abbia creduto di dover cedere al fascino imperioso del Generale, continuando nell’elogio al ‘nostro’ in ogni occasione? Nel solco fangoso battezzato V Repubblica diventa purtroppo sempre più facile la contabilità di quelli che non si insozzano”[128].
L’ultima dichiarazione collettiva, “L’esempio di Cuba e la rivoluzione” (estate 1964), è un canto di speranza. Nella rivoluzione cubana i surrealisti credono di scorgere le premesse per quella trasformazione dell’uomo e della società tanto a lungo auspicata:
L’ordine economico-politico di impronta occidentale, che oggi regge il mondo, non ha solo articolato relazioni sociali fondate sullo sfruttamento dell’uomo, ma ha prodotto anche una struttura mentale capace di assimilare, a profitto di questo ordine, tutto quanto gli si oppone, e di occultare per lungo tempo tutto quanto gli resiste irriducibile.
“Oggi, e forse in modo più lucido e coerente, il surrealismo lotta per portare alle estreme conseguenze rivoluzionarie le conquiste già acquisite. Il surrealismo non si propone di definire l’uomo che verrà; e neanche di delineare il paesaggio del futuro paradiso. Quello che persegue è che l’uomo di domani sia diverso dall’alieno d’oggi.
“Una vera rivoluzione deve trasformare l’individuo nella sua totalità sociale e individuale. Non è sufficiente abbattere le strutture capitaliste e mettere al potere un’altra classe, se poi questa esercita il potere secondo precetti ereditati dal regime precedente: il culto del lavoro, l’amore sacrificato alla moltiplicazione della specie, l’esaltazione dei capi, la burocratizzazione dell’artista ridotto a propagandista. Un’autentica rivoluzione non ha nulla da temere dall’esercizio del libero pensiero, né da un’attività artistica sgombra di settarismi. Una Rivoluzione che difende la libertà di creazione può essere anche una Rivoluzione senza Termidoro.
“Nella rivoluzione cubana, nell’ammirabile insurrezione della Sierra Maestra, nella lotta del popolo cubano per la sua libertà e nell’opposizione degli intellettuali e artisti cubani a ogni dogmatismo, il surrealismo saluta un movimento fratello.
“Secondo proprie forze e circostanze, anch’esso operando nella direzione di una liquidazione dei valori ideologici e morali del capitalismo, e per una rinascita radicale dell’intelletto e della sensibilità, il surrealismo si proclama solidale con gli artisti rivoluzionari cubani, che lottano per lo stesso obiettivo in un contesto ben più violento e pericoloso.
‘“IL SURREALISMO SI È SEMPRE VOLUTO CATALIZZATORE DI RIVOLTE, E IN QUESTA ASPIRAZIONE C’È COINCIDENZA CON QUANTO SI PROPONE, NELL’AMBITO POLITICO, L‘ESEMPIO CUBANO. L’AMBIZIONE DEL SURREALISMO È DI DIVENTARE IL FILO CONDUTTORE TRA I MOMENTI SEPARATI DELLA RIVOLUZIONE E DI PERMETTERE IL LORO SUPERAMENTO. PER UNA DETERMINAZIONE NON EQUIVOCA ALL’INTERNO DEL PROCESSO, USANDO COME TERMINE DI RIFERIMENTO DEL METRO DI PROGRESSO LA CAPACITÀ DEL DESIDERIO DI ESSERE POTENZIATO. L’AMORE E LA POESIA SOGLIE DELLA CASA INFINE ABITABILE”[129].


BIBLIOGRAFIA
Il riferimento bibliografico rimanda alla traduzione italiana ogni volta questa sia disponibile

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[1] Révolution Surréaliste (Paris), n. 2, 15 gennaio 1925, p. 18, ripreso in André Breton, Storia del surrealismo 1919-1945, trad. a cura di Livio Maitan e Arturo Schwarz, Schwarz Editore, Milano 1960, p. 211.
[1b] Ibid., pp. 215-16.
[2] Breton, “Entretien avec Madeleine Chapsal”, in L’Express (Paris), 9 agosto 1962, ripreso in Perspective Cavalière, Gallimard, Paris 1970, p. 208.
[3] Ibid., pp. 211.
[4] Breton, “La claire tour”, in Le Libertaire (Paris), 11 gennaio 1952, p. 2, ripreso in La clé des champs, Editions du Sagittaire, Paris 1953, pp. 272-73.
[5] Breton, Qu’est-ce que le surréalisme?, R. Henriquez, Bruxelles 1934, p. 12.
[6] Breton, Storia..., cit., p. 111.
[7] Louis Aragon, “Le manifeste est-il mort?”, in Littérature (Paris), n. 10, 1 maggio 1923, p. 11.
[8] Aragon, “Avez-vous déjà giflé un mort?” (ottobre 1924), in Maurice Nadeau, Storia e antologia del surrealismo, Mondadori, Milano 1972, p. 183.
[9] Aragon, lettera del 25 novembre 1924, in Clarté, dicembre 1924, ibid., p. 187.
[10] Aragon, risposta a Drieu La Rochelle, in La Nouvelle Revue Française, settembre 1925, p. 381.
[11] Breton, Storia..., cit., pp. 110-11.
[12] Ibid., pp. 111.
[13] “La revolution d’abord et toujours” (1925), in Nadeau, Storia..., cit., pp. 213-14.
[14] “Légitime défense” (settembre 1926), ibid., pp. 207-9, 214.
[15] “Au grand jour” (maggio 1927), ibid., 244-45.
[16] André Thirion, Révolutionnaires sans révolution, R. Laffont, Paris 1972, pp. 125-26.
[17] Antonin Artaud, “A la grande nuit”, in Nadeau, Storia..., cit., pp. 246-47.
[18] “A suivre”, ibid., p. 259.
[19] Ibid., p. 111.
[20] Ibid., p. 263.
[21] Breton, “Prière d’insérer pour Seconde manifeste du surréalisme” (1946), in Breton, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 1966,  p. 53.
[22] Breton, “Lettre aux voyantes” (1925), ibid., p. 127.
[23] Leone Trotskij, “Révolution et culture”, in Clarté, 1 novembre 1923, cit. da Breton nel “Secondo manifesto del surrealismo”, ibid., 91.
[24] Ibid., p. 90.
[25] Ibid., p. 91.
[26] Ibid., p. 94.
[27] Ibid., p. 80.
[28] Ibid., p. 77.
[29] Ibid., p. 79.
[30] Breton, “La barque de l’amour s’est brisée contre la vie courante” (luglio 1930), in Poìnt du jour (1934), Gallimard, Paris 1970, pp. 73-74, 83.
[31] Trotskij, “Il suicidio di Vladimir Majakoskij” (1934), in Letteratura e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 520.
[32] Breton, “La barque…”, cit., p. 81.
[33] Trotskij, “Il suicidio…”, cit., p. 521.
[34] Breton, “La barque…”, cit., p. 83.
[35] Trotskij, “Il suicidio…”, cit., p. 520.
[36] Breton, telegramma a Mosca, in Nadeau, Storia..., cit., pp. 276-77.
[37] Thirion, Révolutionnaires…, cit., p. 277.
[38] “Paillasse!”, in Nadeau, Storia..., cit., p. 317.
[39] Breton, Storia..., cit., p. 150.
[40] Nadeau, Storia..., cit., pp. 286-87.
[41] Breton, Storia..., cit., pp. 227-28.
[42] “La mobilisation contre la guerre n’est pas la paix” (1933), in Nadeau, Storia..., cit., pp. 328-29.
[43] Ibid., p. 333.
[44] Feuille Rouge (Paris), n. 1 (febbraio 1933), p. 1, in Tracts surréalistes et déclarations collectives (1922-1939), a cura di José Pierre, Le Terrain Vague, Paris 1980, vol. I, p. 238.
[45] Feuille Rouge (Paris), n. 2 (marzo 1933), p. 2, in Tracts..., cit., p. 239.
[46] Breton, Storia..., cit., pp. 157-58.
[47] “La planète sans visa” (1934), in Nadeau, Storia..., cit., pp. 341-42.
[48] Breton, “Discours pour la défense de la culture” (giugno 1935), ibid., pp. 366-67.
[49] Ibid., p. 368.
[50] Ibid., p. 371.
[51] “Du temps que les surréalistes avaient raison” (1935), ibid., pp. 371-72.
[52] Ibid., pp. 373-75.
[53] Ibid., pp. 377, 379.
[54] Risoluzione di “Contre-attaque”, ibid., pp. 381-83.
[55] Ibid., p. 381.
[56] “Enquête sur les milices, la prise du pouvoir et les partis”,  “Les Cahiers de Contre-attaque”, “Prière d’inserer”, ibid., p. 385.
[57] “Neutralité? Non-sens, crime et trahison” (20 agosto 1936), ibid., p. 402.
[58] Breton, Storia..., cit., p. 161.
[59] Ibid., pp. 161-62.
[60] Breton, “Dichiarazione al convegno ‘La vérité sur le procès de Moscou’” (3 settembre 1936), in Nadeau, Storia..., cit., pp. 402-3.
[61] Breton, Storia..., cit., p. 162.
[62] Breton, “Dichiarazione a proposito dei secondi processi di Mosca” (26 gennaio 1937), in Nadeau, Storia..., cit., p. 407.
[63] Antonin Artaud, “Ce que je suis venu faire au Mexique”, in El Nacional (Messico), 5 luglio 1936, ripreso in Œuvres camplètes d’Antanin Artaud, Gallimard, Paris 1971, tomo VIII, pp. 257, 260.
[64] Breton, “Souvenir du Mexique”, in Minotaure (Paris), n. 12-13 (maggio 1939), pp. 31-32.
[65] Breton, Storia..., cit., p. 165.
[66] Idem.
[67] Pierre Naville, Trotskij vivant, Julliard, Paris 1962, p. 100.
[68] Per rievocare gli aspetti meno conosciuti delle visite di Breton a Trotskij, mi sono basato sugli appunti da me presi nel 1955 nel corso di una serie di conversazioni con Breton su quest’argomento, nonché su alcune conversazioni registrate su nastro nel novembre del 1972 con Jacqueline Lamba, all’epoca moglie di Breton, che lo accompagnò nel suo viaggio in Messico; con Jan van Heijenoort, allora segretario di Trotskij in Messico; con Pierre Naville, fiduciario di Trotskij in Francia; e Marguerite Bonnet, amica di Natalia Sedova Trotskij e di André Breton, incaricata di amministrare l’eredità letteraria di Leone Trotskij, autrice di un’opera fondamentale sul giovane Breton (André Breton − Naissance de l’aventure surréaliste, Corti, Paris 1975) e curatrice dell’edizione critica delle sue Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988.
[69] Breton, “Visite…”, cit., pp. 51-52.
[70] Breton, Storia..., cit., p. 172.
[71] “Pour un art révolutionnaire indépendant”, in Leone Trotskij, Letteratura, arte, libertà, Schwarz Editore, Milano 1958, pp. 111-16, qui ripreso integralmente nell’antologia dei saggi.
[72] Ibid., p. 111.
[73] Breton, Les vases communicants, Cahiers Libres, Paris 1932, p. 153.
[74] Breton, “Discours pour la défense de la culture”, in Nadeau, Storia..., cit., p. 371.
[75] “Pour un art…”, pp. 117-18.
[76] Ibid., pp. 118-19.
[77] Breton e Eluard, intervista a Halo Noviny (Praga), 14 aprile 1935, in Nadeau, Storia..., cit., p. 360.
[78] Breton, Storia..., cit., pp. 172-73.
[79] “Prière d’insérer” per Clé, in Nadeau, Storia..., cit., pp. 417-18.
[80] Clé, n. 1 (gennaio 1939), p. 1, ibid., pp. 419-20.
[81] Nadeau, Storia..., cit., p. 160.
[82] “Ni de votre guerre, ni de votre paix” (27 settembre 1938), ibid., p. 417.
[83] “A bas les lettres de cachet” (luglio 1939), ibid., p. 423.
[84] Verrà pubblicata in anteprima, a cura di Breton, in La parole est à Péret, Editions Surréalistes, New York 1943, pp. 29-39.
[85] Il nome deriva da una frase di Rimbaud: “La mano a penna vale la mano ad aratro” (Une saison en enfer).
[86] Per un resoconto della questione vedi l’eccellente ed esauriente Michel Fauré, Histoire du surréalisme sous l’occupation, La Table Ronde, Paris 1982, pp. 399-424.
[87] Tracts surréalistes..., cit., vol. II, pp. 8-9, 11.
[88] Ibid., pp. 18-19.
[89] Per i particolari della questione vedi De la part de Péret, a cura dell’Association des Amis de Benjamin Péret, Paris 1963.
[90] Tracts..., cit., p. 18.
[91] Adolphe Champ (pseudonimo di Adolphe Acker), “Trajectoire de la liberté”, in Informations Surréalistes, maggio 1944, foglio unico, in Tracts..., cit., pp. 20-21.
[92] “Idolatry and Confusion” (1944), trad. it. a cura di Livio Maitan e Tristan Sauvage (Arturo Schwarz), in Jean-Louis Bédouin, Storia del surrealismo dal 1945 ai nostri giorni, Schwarz Editore, Milano 1966, pp. 247-53.
[93] Ibid., p. 251.
[94] Ibid., pp. 248-49.
[95] Breton, “Hommage à Antonin Artaud” (7 giugno 1946), in La clé des champs, cit., p. 84.
[96] Breton, “Seconde arche”, ibid., p. 109. Vedi anche, su questo argomento, Benjamin Péret, Le déshonneur des poètes (1945), Pauvert, Paris 1965, ripreso qui quasi integralmente alle pp. 209-11.
[97] Breton, “Signe ascendant” (30 dicembre 1947), in La clé des champs, cit., pp. 235-37.
[98] “Ni aujourd’hui, ni de cette manière” (19 aprile 1966), in Tracts..., cit., pp. 250-52.
[99] “Liberté est un mot vietnamien” (aprile 1947), in Bédouin, Storia..., cit., pp. 253-55.
[100] “Rupture inaugurale” (21 giugno 1947), ibid., pp. 255-63. Questa dichiarazione raccoglie un elevato numero di firme: Adolphe Acker, Sarane Alexandrian, Maurice Baskine, Hans Bellmer, Joë Bousquet, Francis Bouvet, Victor Brauner, André Breton, Serge Bricianer , Roger Brielle, Jean Brun, Gaston Criel, Antonio Dacosta, Pierre Cuvillier, Frédéric Delanglade, Pierre Demarne, Matta Echaurren, Marcelle et Jean Ferry, Guy Gillequin, Henry Goetz, Arthur Harfaux, Jindrich Heisler, Georges Henein, Maurice Henry, Jacques Hérold, Marcel Jean, Nadine Kraïnik, Jerzy Kujawski, Robert Lebel, Pierre Mabille, Jehan Mayoux, Francis Meunier, Robert Michelet, Nora Mitrani, Henri Parisot, Henri Pastoureau, Guy Péchenard, Candido Costa Pinto, Gaston Puel, René Renne, Jean-Paul Riopelle, Stanislas Rodanski, N. e H. Seigle, Claude Tarnaud, Toyen, Isabelle e Patrick Waldberg, Ramsès Younane.
[101] “A la niche les glapisseurs de dieu” (14 giugno 1948), ibid., pp. 266-69.
[102] Breton, “La lampe dans l’horloge” (febbraio 1948), in La clé des champs, cit., p. 121.
[103] Breton, “Lettre ouverte à Paul EIuard” (13 giugno 1950), ibid. , pp. 235-37.
[104] Eluard citato da Louis Pauwels, “Des ‘salauds’ parmi les poètes”, in Combat (Paris), 21 giugno 1950.
[105] Il testo del telegramma fu pubblicato su Combat, 17-18 giugno 1950, poi ripreso in Tracts..., cit., p. 50.
[106] “Haute fréquence” (24 maggio 1951), in Bédouin, Storia..., cit., pp. 269-71.
[107] “Déclaration préalable”, in Le Libertaire (Paris), 12 ottobre 1951, ripreso in Arturo Schwarz, Breton Trotskij e l’anarchia, Multhipla, Milano 1980 (I ed., Savelli, Roma 1974), pp. 177-78.
[108] Ibid., pp. 183-84.
[109] In Tracts..., cit., pp. 101-2.
[110] Pubblicati tra il 12 ottobre 1951 e l’8 gennaio 1953, sono stati raccolti, insieme con altri testi surrealisti usciti su Le Libertaire, nell’antologia Surréalisme et anarchie, a cura di José Pierre, Plasma, Paris 1983.
[111] Schwarz, Breton Trotskij…, cit., pp. 179-81.
[112] Breton, Arcane 17 (1944), Sagittaire, Paris 1947.
[113] Breton, Ode à Charles Fourier, Fontaine, Paris 1947.
[114] Breton, Arcane 17, cit., p. 20.
[115] Ibid., pp. 23-24.
[116] Schwarz, Breton Trotskij…, cit., pp. 185-86.
[117] Breton, “Staline dans l’histoire”, in Figaro Littéraire (Paris), 14 marzo 1953, ripreso in ibid., p. 191.
[118] “Côte d’alerte” (21 gennaio 1956), ripreso in Bédouin, Storia..., cit., pp. 271-72.
[119] “Autour des livrés sanglantes!” (12 aprile 1956), ibid., pp. 273-77.
[120] “Hongrie, soleil levant” (novembre 1956), ibid., pp. 277-78.
[121] Precisazioni date da Schuster, in Tracts..., cit., p. 376.
[122] Editoriale in terza di copertina di Le Surréalisme, Même (Paris), n. 2 (primavera 1957).
[123] Breton, “Situation du surréalisme entre les deux guerres” (1942), in La clé des champs, cit., p. 67.
[124] “André Breton nous parle”, intervista con Jean Duché, in Le Littéraire (Paris), n. 29 (5 ottobre 1946) e n. 30 (12 ottobre 1946), ripreso in Schwarz, Breton Trotskij..., cit., pp. 158 sgg.
[125] Breton, “La lampe dans l’horloge”, cit., pp. 117, 119.
[126] “Demasquez les physiciens. Videz les laboratoires” (18 febbraio 1958), in Tracts..., cit., pp. 172-73.
[127] “Message des surréalistes aux intellectuels polonais” (4 giugno 1959), in Front Unique (Milano), n. 2 (inverno 1960), pp. 1-2; registrato su nastro, il testo è stato diffuso due volte dalla radio polacca e pubblicato dal periodico Plastyka di Cracovia.
[128] “La voie inique” (8 febbraio 1963), in Tracts..., cit., pp. 219-20.
[129] “L’exemple de Cuba et la révolution” (estate 1964), in La Brèche (Paris), n. 7 (dicembre 1964), pp. 103-104.




                                         Cinque riflessioni sulla Bellezza



Arturo Schwarz (Foto: Dino Ignani)

1.

la bellezza mi si rivela
nella libertà dei suoi cappelli
nel cielo del suo sguardo chiaro
nello specchio delle sue labbra
nel volo lento del suo seno
nel suo sesso di luna scura
nel sole del suo corpo nudo
nella sua luce permanente
che fa nascere i sogni folli
in un giorno sempre chiaro


***

2.

la sua bellezza
fa girar la testa
e girar il mondo
e girar il cielo
e i mari tutti

girano i giorni
ma fermo l’amore
e il girasole
ebbro quando passa
più bella del cielo
si volta verso di lei


***

3.

la maestà del Danubio
che guardo dalla finestra
i colori della notte
il giardino di mimosa
il planare dell’aquila
il volo della farfalla
lo stupore dell’albero
il profumo della rosa
il cuore dell’orchidea
il cielo all’imbrunire
e la notte con le stelle
arricchiscono la vita
e ci fanno respirare
il soffio dell’universo

ma la gioia di vivere
è il dono dell’amata
perché la sua bellezza
reinventa l’esistenza
e permette di capirne
la verità e lo scopo


***

4.

il poeta ricostruisce il mondo
alla misura dei suoi sogni
e l’esistenza a quella dei desideri

l’immortalità non è più lunga
della nostra vita diceva Éluard
credo pensasse che soltanto l’amore
possa sconfiggere la morte

l’amore che colora il mondo degli amanti
di tutte le sfumature dell’arcobaleno
è il ponte aereo tra la terra e il cielo
specchio dell’unione carnale e spirituale

grazie amatissima mia compagna
la tua bellezza mi ha fatto scoprire
l’unica via verso l’eternità


***


5.

scrive il poeta John Keats 
la bellezza è verità  e la verità  bellezza
questa è l’unica cosa che sappiamo
ed è tutto quanto sia necessario sapere

per me la verità è anche libertà
mentre la donna è  bellezza e conoscenza
come stupirsi allora se quanto ho sempre perseguito
sia proprio l’amore la conoscenza e la libertà?



Arturo Schwarz





GIULIO STOCCHI
"Odissea" è grata al poeta Giulio Stocchi che nonostante la sua drammatica
situazione di salute, come si può leggere in questa tremenda lettera agli amici
che ci ha fatto pervenire, non ha voluto far mancare la sua voce per il I anniversario
dell'edizione in Rete del giornale. E' proprio con questo scritto di Stocchi che apriamo
la pubblicazione dei 100 testi d'autore per "Odissea".

L'altezza del gioco. Ai miei amici
Giulio Stocchi













Amici miei carissimi, molti di voi ancora non sanno quello che mi sta capitando.
Vi scrivo solo adesso -e vi prego di perdonare il mio ritardo- perché solo ora ho chiaro ciò che intendo fare. Mi è stato diagnosticato un tumore maligno al colon.
I medici dicono che qualora non fossi operato mi resterebbero sei mesi di vita, un anno al massimo.
Vi confesso che ho esitato molto sul da farsi. Ma poi un ulteriore esame ha rivelato l'assenza di metastasi, per cui ho deciso di rischiare l'operazione, che avverrà nei prossimi giorni.
Vi scrivo da questa casa di Corso Magenta a Milano che molti di voi conoscono e hanno frequentato negli anni della nostra allegria, delle nostre cene, delle nostre canzoni, dei nostri progetti... anni e anni, una vita, che abbiamo condiviso, spesso vedendoci, ma sempre col calore del vostro affetto, con l'intelligenza delle vostre lettere... e ognuno di voi ricordo e ad ognuno di voi vorrei rivolgermi per dirvi il grazie che meritate, con le parole che siano all'altezza di ciò che mi avete donato.
Ma in questo periodo, scandito dall'andirivieni di camici bianchi, in questo universo di aghi, di fiale, di siringhe, di visi che spii con ansia, cercando di indovinare il verdetto da cui può dipendere la tua sorte, insomma in questo incubo, le parole, che un tempo danzavano, si trascinano come me sfinite sulla pagina. E allora preferisco tornare fra voi raccontando una giornata di dieci anni fa, una riflessione in pubblico, -alla quale forse alcuni avranno assistito- in cui, ragionando su un libro appena pubblicato, discorro del mio lavoro e della mia vita.
Se avrete la pazienza di leggere le pagine che vi accludo in calce, tornerete ad ascoltare la voce che non solo di me parla, ma dei sogni, delle speranze, degli ideali che ci hanno accomunati.
Sono passati dieci anni da allora e tante cose sono cambiate.
Ma se avremo saputo restare fedeli allo spirito che ci animava, vi accorgerete che non ci siamo fatti travolgere dal vento cattivo del clima che oggi attorno a noi ci insidia:
Ci siamo cioè amati.
E questa è la ricchezza che ci siamo porti reciprocamente in dono.
Giulio Stocchi

(Milano, 24 Giugno 2014)

             ***            ***


L’altezza del gioco
di Giulio Stocchi


Giorgio Luzi e Giulio Stocchi

Io innanzitutto vi ringrazio per la vostra presenza qui. Questa sera farò un discorso tenendomi
prevalentemente ai margini del testo, un po’ fuori dal corpo del libro, perché ritengo che tante volte
allontanarsi un poco da un edificio permette di coglierne l’architettura complessiva.
Quindi parlerò prevalentemente in prosa, come un novello Monsieur Jourdain, con degli echi che verranno dall’interno delle stanze di quella costruzione che è il libro. Vi prego di avere pazienza nell’ascoltarmi, e se vi sembrerà che all’inizio la prenda alla lontana e un poco divaghi, vedrete che poi i fili del discorso, se avrò la capacità di mantenere il filo del discorso, andranno a convergere al fuoco di una conclusione che mi preme molto e che riguarda proprio il titolo del libro, L’altezza del gioco. Questo che vi farò è un discorso che è un po’ un bilancio sul mio lavoro di poeta e un poco anche sulla mia vita, la quale vita non è molto più interessante di quella di voi che mi state ascoltando. Ma vedo qui molti miei amici, con i quali abbiamo condiviso lunghi tratti di vita, sentimenti, amori, e per questo penso che ricordare certe cose, certi ideali anche che ci hanno accomunati, e che forse ci uniscono ancora, può essere interessante per tutti quanti noi.
Vedo qui alcuni miei vecchi compagni di scuola, con cui siamo stati addirittura bambini insieme, amici con i quali ho condiviso esperienze importanti, il papà e la mamma del mio grande e indimenticato compagno, Roberto Franceschi, ucciso purtroppo dalla polizia nel ’73… E quindi mi trovo, per così dire, nella condizione privilegiata di uno scrittore che parla alla platea dei suoi personaggi reali, perché di voi anche si tratta nel libro di cui cercherò di parlarvi.
Come vi dicevo mi terrò un pochettino, soprattutto sulle prime, ai margini del libro, sul limitare di quelle “soglie” che un semiologo francese, Gérard Genette, ha magistralmente analizzato nel suo libro omonimo, Soglie, pubblicato una quindicina di anni fa da Einaudi.
Le soglie del libro che cosa sono? Sono quelle che Genette chiama il “paratesto”, tutto quello che
accompagna e che presenta il testo, e cioè la copertina, le note di copertina, la dedica, l’introduzione, che, nella tassonomia un po’ astrusa dei semiologi, Genette definisce il “peritesto”, per distinguerlo dai discorsi che sul testo si fanno, recensioni, articoli di giornale, conferenze, comunicazioni orali, come quella che io vi sto facendo in questo momento, che appartengono al cosiddetto “epitesto”. Allora il lettore va in libreria, prende questo libro, e vede che è stato scritto da un certo Giulio Stocchi, si intitola L’altezza del gioco, con una conversazione di Massimo Bonfantini, e delle fotografie di Fulvio Magurno, che, presumibilmente, è anche l’autore della foto di copertina. Ora in un libro, in ogni libro, non solo in questo, quello che più colpisce immediatamente, come un biglietto da visita, è il nome dell’autore, nel mio caso Giulio Stocchi. E un lettore diciamo così ingenuo, più avvezzo ad assistere a spettacoli televisivi che a leggere libri, dovrebbe immediatamente sgomberare il campo da una ipotesi, che pure è suggestiva e squisitamente letteraria, e immaginare che il Giulio Stocchi che ha scritto questo libro non sia il personaggio della fiction televisiva intitolata Vivere, che è andata in onda su Canale 5,
il quale mio omonimo immaginario Giulio Stocchi, interpretato da Beppe Convertini, è un ragazzo molto bello, molto giovane, di trent’anni, che ha una professione, beato lui, molto remunerata, fa l’operatore televisivo, e con questa sua professione ha modo di andare in paesi esotici, di avere avventure mirabolanti, e ripetuti commerci carnali con fanciulle splendide.
Sgomberato il campo da questa ipotesi, e restituitomi al mondo reale, che per certi versi è molto più banale di quello della patinata fiction televisiva, un lettore un po’ attempato, e forse milanese, potrebbe associare il nome dell’autore, Giulio Stocchi, a quel ragazzo che andava in piazza, tanti anni fa, a urlare le sue poesie.

Che cosa ne sanno
Mister Plant e mister Andrews
che cosa ne sanno
i signorini della City
di quanto pesa la pietra
che il pomeriggio lungo
di chi è senza lavoro
trascina?
Le leggi del mercato
dicono costoro…

Forse qualcuno di voi ricorderà… Ma anche chi non avesse udito la voce di quel ragazzo in piazza, leggendo le note di copertina del libro, verrebbe a sapere che Giulio Stocchi è un signore in età, nato nel 1944, il quale ha studiato filosofia e recitazione e ha incominciato la sua “carriera” di “poeta pubblico” nel 1975. E da allora, e per molti anni, i suoi palcoscenici, dice la nota di copertina, sono state le piazze, le manifestazioni popolari, le fabbriche occupate e adesso i suoi palcoscenici sono diventati i teatri, le aule universitarie e le sale di conferenza.
Leggendo la nota di copertina che riguarda specificamente il libro, L’altezza del gioco, il lettore viene a sapere che questo libro è la continuazione ideale di un libro che l’autore ha scritto tanti, tanti anni fa, nel 1980, intitolato Compagno poeta.
A questo punto un ipotetico lettore berlusconiano lascerebbe il libro sullo scaffale, nauseato dalla puzza di comunismo che quella parola, compagno, evoca. Chi avesse la pazienza invece di andare avanti vedrebbe che il libro è stato pubblicato dalla Casa Editrice Einaudi.
E allora potrebbe fare una riflessione e pensare che come i palcoscenici dell’autore si sono per così dire ristretti, passando dalle piazze, dalle fabbriche occupate e dalle grandi manifestazioni popolari alle aule universitarie e alle sale di conferenza, così anche i suoi orizzonti editoriali si sono rimpiccioliti passando
dalla casa editrice più prestigiosa italiana, l’Einaudi, a una piccola, per quanto coraggiosa, casa editrice, e letteralmente isolata proprio perché si trova in Sardegna, la Cuec, la Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana.
Però questa impressione di nobiltà decaduta, sarebbe controbilanciata dalle altre note di copertina, da cui il lettore verrebbe a sapere che personaggi di spicco, come Massimo Bonfantini, il quale è professore universitario, fondatore del Club Psòmega, che unisce artisti, filosofi e scienziati nello studio del pensiero inventivo, e di cui anche l’autore fa parte, colui che ha introdotto e diffuso il pensiero di Peirce in Italia, e un fotografo, più volte premiato, come Fulvio Magurno, che ha illustrato libri di poeti tanto più importanti di me, come Eugenio Montale, questi due personaggi si sono occupati dell’autore. E quindi tornando alla copertina, per restare sempre sulle soglie del libro, il nostro ipotetico lettore, con i dati che ha a disposizione, e osservando magari con più attenzione la copertina stessa con questo libro spalancato di fronte al mare, e sul retro di copertina, ma appartenente alla stessa foto, la nave che va, potrebbe concludere che esiste un tale Giulio Stocchi, che appartiene proprio alla realtà e non è quel personaggio immaginario, televisivo, che abbiamo visto, il quale Stocchi è stato, e forse è ancora di sinistra, un tempo molto più famoso di quanto non sia oggi, ma che gode ancora di qualche credito perché Bonfantini e Magurno si occupano di lui, il quale Stocchi ritiene esista un gioco cui attribuisce una importanza, una rilevanza, una altezza, una nobiltà, una eccellenza e che questo gioco, presumibilmente, non è lo scopone scientifico, data la professione dell’autore, ma è qualcosa che ha a che fare con i libri, con il mare e con il viaggio per mare. Il lettore colto, però, di fronte a questo titolo, L’altezza del gioco, non potrebbe fare a meno di ricordare un libro famoso negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, scritto alla fine degli anni ’30 da uno storico olandese, il famoso libro di Huizinga intitolato Homo ludens. Huizinga ritiene che il gioco sia non solo precedente la cultura per le ragioni che vedremo, ma addirittura sia la matrice di tutto l’edificio della cultura umana perché, secondo Huizinga, dal gioco nascono il diritto, la poesia, l’arte, la filosofia, lo sport, la guerra e così via…
Senza voler discutere le tesi di Huizinga, quello che a me interessa è vedere come mai il gioco preceda la cultura: perché, dice Huizinga, sia i cuccioli degli animali che i cuccioli degli uomini giocano. Il gioco si radica nella nostra stessa animalità; il gioco accomuna i cuccioli degli animali e i cuccioli degli uomini in quanto con il gioco entrambi apprendono delle regole di comportamento. I cani fanno finta di combattere, giocano alla guerra, per apprendere le regole del combattimento, e al tempo stesso il ruolo che la società canina attribuirà ai due contendenti, a seconda che uno vinca o perda, senza mordersi, appunto facendo finta. I cuccioli degli uomini spesso giocano per dominare le loro paure. Esiste un gioco che si è svolto sotto gli occhi di uno spettatore di eccezione.
C’era una volta, tanti, tanti anni fa, un bambino, il quale aveva legato un filo ad un rocchetto. E il bambino, tenendo il capo del filo, faceva rotolare questo rocchetto e gridando Fort! –il bambino era di lingua tedesca- , gridando Via!, il bambino faceva scomparire il rocchetto dietro a un mobile. Poi, sempre tenendo il capo del filo, il bambino, gridando Da!, Qui!, tirava il rocchetto a sé, facendolo ricomparire. E da questo gioco di comparsa e di scomparsa, il bambino mostrava di provare un grandissimo piacere. Osservando il piccolo Ernst, questo è il nome del bambino, suo nonno, Sigmund Freud, arrivò alla conclusione che il bambino traesse tanto piacere da questo gioco perché riusciva a controllare l’ansia che provava nella realtà per la scomparsa, per l’assenza, della sua mamma. Cioè il bambino, in una situazione convenzionale che è il gioco, e facendo finta che il rocchetto fosse la sua mamma, ne controllava la sparizione e la ricomparsa e controllandola riusciva a dominare la propria ansia. Ci sono dei casi in cui un poeta usa dei nomi propri così come il piccolo Ernst usava del suo rocchetto, cioè per trarre a sé una presenza. E infatti, sempre sulle soglie del libro, nella prima pagina bianca, ancora prima del titolo, voi potreste leggere una dedica: “A Deborah Strozier”, questo è il nome proprio, e in corsivo “perché fu nel tuo deserto
l’acqua”. Ora, il corpo tipografico denuncia subito che questo “perché fu nel tuo deserto l’acqua” è
probabilmente un verso di una poesia che forse si trova all’interno del libro e con questo il lettore apprende l’esistenza di una persona buona e gentile, com’è la mia compagna Deborah, che l’autore considera come il bene più prezioso, come l’acqua nel deserto… Non solo, ma il lettore viene rassicurato sulla fra virgolette “normalità” dell’orientamento sessuale dell’autore. E anche questo vuol dire qualcosa, perché se avessi per esempio scritto: “A Massimo Bonfantini, perché fu nel tuo deserto l’acqua”, l’ipotetico lettore berlusconiano, o semplicemente benpensante, avrebbe buttato via il libro pensando “Non solo cose da comunisti, ma addirittura da culattoni!”.
Ma il lettore viene anche a sapere che l’autore è stato in un qualche deserto, probabilmente un deserto di sentimenti, dato che dedica il libro a una donna. Però il lettore culturalmente addestrato, con una memoria sua culturale, potrebbe ricordare la nota massima paolina: “Vox in deserto clamantis”. La voce di chi grida nel deserto. Chi mi conoscesse, o avesse letto le note di copertina, potrebbe identificare le poesie che il ragazzo gridava tanti, tanti anni fa in piazza, con il grido dei profeti e il deserto con una certa sordità che l’autore attribuisce alla società in cui vive.
Se poi il lettore, oltre ad essere colto e dotato di una memoria culturale, fosse anche, come Bonfantini e tanti altri qui presenti, un semiologo, sentendo parlare di deserto non potrebbe non ricordare l’analisi che Riffaterre nel suo La semiotica della poesia, compie del poemetto di Théophile Gautier, In deserto, mostrando come vox clamantis sia l’ipogramma, cioè ciò che la poesia sottintende, non dice esplicitamente, il buco, come dice testualmente Riffaterre, attorno al quale ruota la ciambella della poesia, ma che fa della voce che nel poemetto di Gauthier parla un grido di angoscia nel deserto della vita…
Si creano cioè, come vedete, delle attese, delle ipotesi di lettura, che il libro dovrà confermare o smentire. Perché faccia questo, bisogna addentrarsi un pochettino nel libro, cosa che farò entrando in quello che è l’ingresso del libro, l’introduzione, cioè quello che Borges definiva il vestibolo del libro, in cui il futuro lettore si aggira ancora incerto se poi entrare nell’edificio principale dell’opera.
Vestibolo che io però preferirei definire l’iconostasi del libro. L’iconostasi è nelle basiliche paleocristiane e bizantine il luogo che dà adito allo spazio dove vengono custoditi gli arredi sacri, i tabernacoli, le ostie consacrate. Dove cioè c’è la presenza del sacro e del mistero. E questo per sottolineare una cosa che noi tendiamo a dimenticare della lettura e del libro, cioè il carattere magico-sacrale della lettura: quando noi apriamo un libro ci affacciamo su uno spazio ignoto, un mondo in cui si aggirano quelle ombre che sono i personaggi della finzione letteraria, a cui noi conferiamo esistenza investendole del nostro immaginario, sacrificando loro, per così dire, il nostro sangue, così come Ulisse faceva nell’ XI libro dell’Odissea quando sacrificava il sangue degli animali perché le ombre dei morti parlassero; un mondo, quello del libro, in cui parla sempre una voce assente, il più delle volte la voce di uno scomparso, che spesso sale da un abisso di secoli, e qualche volta addirittura nel libro risuona la stessa voce di Dio, quando si aprono i libri sacri
dell’umanità. Questo noi tendiamo a dimenticarlo, ridotti come siamo alla figura di clienti, di acquirenti. Noi spesso ci plachiamo, ci accontentiamo di comprarlo, il libro, e spesso lo usiamo come un oggetto di arredamento. Per parlare del nostro amato Presidente del Consiglio Berlusconi, lui si vanta di non avere avuto il tempo, da vent’anni, di leggere un libro –posto che sia capace di farlo- perché è troppo impegnato a lavorare per il bene del paese. Eppure voi avrete visto che nei comizi televisivi con cui ci affligge, ha sempre cura di usare dei libri come di oggetti di arredamento, mettendoli in bella mostra dietro di sé, libri spesso di quella Casa Editrice Einaudi, cioè la casa editrice di quei comunisti che Berlusconi detesta.
Ma se noi abbiamo dimenticato questo, gli Antichi avevano ben presente questo carattere magico-sacrale della lettura, tant’è vero che Platone nel Fedro mette in scena quel gustosissimo dialogo fra il dio Teuth, che ha inventato la scrittura e quindi la possibilità della lettura, e il faraone Thammus:
“Io ti porto un grande farmaco”, dice Teuth al faraone, “un grande rimedio contro la smemoratezza degli uomini, perché gli uomini leggendo potranno ricordare quello che hanno detto e fatto”. E il faraone acconsente: “E’ vero, Teuth, tu mi porti un grande farmaco”. Però giocando sul doppio significato che il termine farmakon ha in greco, “mi porti un grande veleno, perché gli uomini impigriranno nella lettura e non eserciteranno più la memoria”.
Come al solito Platone ci fa vedere due lati della cosa, con una verità in ciascun lato. Io stesso che ho preparato questo discorso che vi sto dicendo, ho rifiutato di scriverlo, perché avevo paura di impigrirmi nella traccia scritta. E così ho continuato per giorni a scrivermelo, a ripeterlo nella testa e facendomi passare per matto, andando in giro per le strade senza accorgermi che spesso muovevo le labbra ripetendolo ad alta voce. Ma nello stesso tempo aveva ragione Teuth, perché la scrittura è il farmaco, il rimedio più grande ed efficace che l’uomo abbia inventato perché la voce di chi un giorno ha parlato risuoni ancora. La prima voce che parla nel libro, nell’introduzione, e parla non un giorno qualsiasi, ma, guardate un po’ il caso, parla il 20 marzo del 2003, cioè il giorno di inizio di quella sciagurata guerra che gli psicopatici della Casa Bianca hanno scatenato contro l’Iraq, la prima voce è quella calda e profonda di Massimo Bonfantini. Il quale Bonfantini mi rivolge una domanda semplice, svagata, apparentemente addirittura banale. Una domanda cioè socratica…  -“Eh, Socrate, quell’uomo sublime, che parla di zoccoli, di asini, di contadini, di cose comuni, di gente che va al mercato”, dice Alcibiade nel Simposio, parlando del suo amore Socrate-.
Perché la semplicità è per così dire la cifra del discorso socratico: la domanda socratica è la più semplice – “Tì estì?”, Che cos’è questo? Che cos’è il giusto? Che cos’è il bello?-. E Bonfantini mi chiede: “Ma come ti è venuto in mente di fare il poeta?”-. Una domanda semplicissima. E se l’arte del dialogo, come diceva Platone nella VII Lettera, consiste nello sfregare le parole per produrre quella scintilla che ci restituisca nel suo splendore l’idea, il lampo prodotto dalle parole di Bonfantini mi ha restituito non un’idea, ma l’immagine di me stesso bambino, quindi nell’età dei giochi, chino su un foglio a giocare per la prima volta con le parole nella prima poesia che avessi mai scritto. In realtà ne avevo scritte altre di poesie, ma questa, scritta verso i nove, dieci anni, era accompagnata da quella sensazione fisica di vertigine, di travolgimento, di rapimento che avrei sempre ritrovato in vita mia ogni volta che mi fossi accinto a scrivere una poesia. Una sensazione talmente forte, la prima volta che mi si presentò, che può essere paragonata solo alla sensazione che il ragazzino o la ragazzina, giocando distrattamente col proprio corpo senza sapere bene che cosa fa, prova, masturbandosi, quando avverte per la prima volta il piacere.
E allora rispondevo a Bonfantini: “La poesia non mi è venuta in mente, mi è entrata in corpo”. E da allora non mi avrebbe mai più abbandonato. Quando una delle poche copie del libro che avevo a disposizione l’ho data a Stajano, regalata, lui mi ha scritto mostrandosi ammirato per la mia “fissazione”. Cioè per la mia lunga fedeltà a quel primo gioco con le parole.
E che cosa facevo con quel primo gioco con le parole? Parlavo di un mazzo di carte, cioè, guarda caso, di uno strumento con cui si fanno tanti giochi:

Una volta nella spazzatura
trovai un mazzo di carte
sporche, stracciate fra la segatura…

E poi il bambino immaginava di raccogliere questo mazzo di carte e di metterlo “fra un portacenere e un fermacarte”. E seguiva questa improbabile ascesa sociale del mazzo di carte, che doveva concludersi con una catastrofe perché il fermacarte dice al povero mazzo “torna coi pari tuoi nella spazzatura!”. E non solo: la poesia di questo bambino di nove, dieci anni aveva una conclusione gnomica:

Se sei di bassa condizione
non tentare di andare in alto
ché oggi il fermacarte
mi dié una gran lezione!”.

Per la prima volta con il gioco delle parole, io mettevo per iscritto quello che avevo appreso, quello che mi era stato insegnato. Ed era quello che tutta la mia vita futura, e di gran parte di quelli della mia generazione, avrebbe dovuto confutare alla radice, ritenendo ingiusto, ritenendo sbagliato, ritenendo iniquo, quello steccato che vuol dividere gli uomini in due categorie, in due specie: coloro che stanno in alto e coloro che stanno in basso, non appena io, e tanti altri della mia generazione, avessimo compreso che le carte che hanno in mano quelli che stanno in basso e quelli che stanno in alto, sono carte diverse nel gran gioco della società, e quindi questo gioco è in origine truccato, i giocatori, quelli che stanno in basso e quelli che stanno in alto, sono sfalsati da un dislivello, da uno squilibrio, da quella che io chiamo una “storpiatura” che riguarda ogni aspetto della nostra vita collettiva e individuale. Una storpiatura che nella sua figura sociale ci viene incontro con la faccia dello sfruttamento, e nella sua faccia individuale, cioè quella che riguarda ognuno di noi, senza
differenze, dominanti e dominati, l’immiserimento antropologico di cui tutti siamo vittime, è l’inautenticità, cioè il fatto che siamo in qualche modo tutti noi esuli a noi stessi, in un certo qual modo proscritti dalla terra, dalla patria, delle nostre aspirazioni più profonde, costretti come siamo a indossare ogni giorno la maschera che ci consente di adempiere al ruolo che un gioco sociale, profondamente truccato, ci impone. Ruolo e regole, che poi secondo me si riducono a una sola, seguire le leggi del mercato che quel lontano ragazzo denunciava in piazza tanti anni fa, quelle leggi che ci vogliono, e ci riconoscono, unicamente come cose o proprietari di cose. Così che gli uni sono condannati a guadagnarsi, come si dice, la vita, e cioè a venderla per arricchire altri, i quali, a loro volta, si aggirano nell’immenso supermercato di cui sono padroni e, specchiandosi nella merce e identificandosi con essa, perdono se stessi. Ed ecco allora, in questo libro, riaffiorare le voci e i volti di quelli che stanno in basso e di quelli che stanno in alto che ho avuto modo di conoscere nella mia esistenza o di immaginare nel mio lavoro di poeta. Quasi che quella prima poesia bambina, Il mazzo di carte, mi avesse, per così dire, destinato, o forse condannato, a decifrarne per tutta la vita le figure che allora non ero stato in grado di comprendere o avevo travisato, secondo quanto mi era stato insegnato. E sono allora, nel libro, le figure agghiaccianti del potere, di quelli che hanno

corrotto, rubato, istupidito,
inebetito, devastato e ucciso:
gridano ordine
e intendono
silenzio
la democrazia è salva
dicono
e rosicchiano
intanto

E le voci e i volti di quelli che  dal potere sono stati travolti,  perché ne sono diventati vittime:

al letto dunque
verranno legati
e perché non possano
troncarla coi denti
dalle narici
una cannula di gomma
verrà introdotta fino allo stomaco
e una soluzione altamente nutritiva
immessa nel corpo e attraverso
le vene anche

O le voci e i volti di quelli che sono diventati vittime del potere perché se ne sono fatti complici:

dicono
che avendo votato
come avete
votato
ed essendovi per di più
abbandonati ad urla
scomposte
d’entusiasmo
vi siete da voi stessi
posti fuori
dal Sindacato
“il nullismo non paga”
Dicono

E le voci e i volti di quelli che a quel potere hanno pervicacemente resistito:

e da sempre
considerati
fiato
e sudore
considerati
quelli
che ci si ingrassa
al tempo
dell’abbondanza
e che in tempi
di crisi
si scaccia
noi
uomini
tuttavia
e non
numeri
da allineare
in colonna
o bestie
trascinate
dove
la vita
l’appendono
per affittarla
ad ore
E ancora, le voci che mi abitano, i miei, per così dire, personaggi interiori. La voce dello smarrimento:

è questa sofferenza
l’unica dignità
l’unico emblema
questa pioggia sottile
che cade
questa insistenza
E la voce della speranza:
bella da niente
che sarai regina
sarai luna
sarai stella
e il vento ti porterà
via
E la voce della solitudine:
gli orologi delle cucine
dove l’uomo solo
distrattamente mangia
fra un muro di piastrelle
e una notizia
fissando gli occhi
lungo le infinite parallele
di un rancore senza ricordi
e poi
scuotendo la testa
mormorando
come ubriaco
le stesse parole
per tenersi
compagnia
o sentirsi
disperatamente
vivo
e quindi
alzandosi
fra i piatti sporchi
E la voce della solidarietà:
canterà l’allodola pazza
e i continenti disancorati dai banchi sottomarini
andranno a spasso per il corso della storia
mettendo l’abito buono dell’eguaglianza
e della libertà

E la voce e i volti delle donne amate, quelle che sono state il conforto di intere stagioni della vita:

ma renderai grazie alla dolce
che sostenne nel limite del tempo
il passo che indugiava
perché fu nel tuo deserto l’acqua

E la voce e i volti delle donne incontrate a caso, quelle che sono state forse il sollievo di una notte:

e poi
le strade della notte
Margherita che scendi le scale
nel tuo delirio di sogni
e bicchieri
stringendoti morti bambini
fra i denti
e parlando
parlando
parlando

E poi ancora Calcante, Ulisse e gli ulissiadi, su cui tra poco tornerò… E infine, in questo libro, la voce e i volti di coloro che mi sono stati maestri, quelli che mi hanno aiutato a decifrare le figure di quel mazzo di carte. Personaggi noti e meno noti: Franco Fortini, da tutti conosciuto, Renato Boeri, neurologo di fama, che è stato il fondatore di Psòmega insieme a Bonfantini, lo stesso Bonfantini, i membri di Psòmega qui presenti che sono citati uno per uno, che tanto mi hanno insegnato, il mio grande amico scomparso, Nino Jomini, e ancora Livia Rokah, Uri Avneri, Corrado Stajano e tanti, tanti altri, una folla, in questo libro, di personaggi, rievocati in prosa e, più spesso, in versi, in poesia. Però la poesia è un gioco che ha delle regole ben precise, che ha dei meccanismi molto oliati, esatti, precisi, come un orologio. Ed ecco allora nel libro anche aprire per così dire le porte dell’officina della poesia, per cercare di mostrare come si scrive una poesia, quali ne sono le leggi, che poi, secondo me, si riducono a una: quel particolare rapporto fra suono e senso che vige in poesia, per cui a un certo punto nel libro posso dire che “la poesia vive nella passione, o, per meglio dire, è la passione per il corpo sonoro della lingua che essa stessa è e cieco di fronte al quale corpo il poeta smarrisce il proprio dono, perde, come si dice, l’ispirazione, e in quanto poeta tace”.
Ecco, ma allora mi direte: “accidenti, Fortini, Calcante, Ulisse, la poesia, la prosa, le donne… Ma come hai fatto a mettere ordine in tutto questo guazzabuglio? Qual è il gioco, quali sono i meccanismi, quali sono gli ingranaggi di questo libro?”.
Il libro è diviso in 18 sezioni, capitoli, lasse, chiamatele come volete, 6 in prosa e 12 in poesia. Si tratta quindi di quello che tecnicamente si chiama un prosimetro, un genere di cui la Vita nova di Dante è, nella nostra letteratura, l’esempio più illustre. La stesura di questo libro mi ha impegnato circa 6 mesi, dall’estate del ’99 al gennaio del 2000. Avevo davanti una massa sterminata di materiali che coprivano più di trent’anni di lavoro: canti di un poema che risale agli anni ’69-’73, le poesie di agitazione, le poesie di lotta, le poesie di riflessione, di amore, brani in prosa, racconti, analisi e così via…
Come ho fatto? Ho usato quello che ho imparato da Pudovkin, il grande regista russo. E cioè il sistema del montaggio, proprio in senso cinematografico. Pudovkin, ne La settima arte, diceva che niente è più lontano dalla realtà di quello che pensa il profano. Cioè il film non è il seguito, il susseguirsi, dei fotogrammi che il regista gira. Il regista gira un sacco di materiale, poi alla moviola prende un fotogramma, lo isola dal suo contesto, lo incastra, lo incolla, lo cuce a un altro fotogramma, prende un altro fotogramma lo incastra agli altri due e crea quelle che Pudovkin chiama “le frasi di montaggio” che entrano a fare parte, che costituiscono le articolazioni del discorso del film. Io ho fatto la stessa cosa: ho preso per dire un canto del poema, scritto nel ’70, ho visto se si adattava per affinità di argomento o per ritmo, o in vista del discorso che volevo fare, con una poesia successiva, ho cucito il canto e la poesia con un’altra poesia, e ho creato una sezione in poesia. Questa sezione l’ho poi accostata, cucita, incollata a un racconto in prosa e così via, creando le mie “frasi di montaggio”. E per descrivere questo lavoro ci vengono ancora una volta utili gli
Antichi, perché i Greci definivano questo lavoro di calettatura harmottein, un termine che descrive il lavoro con cui un falegname unisce, incastra i pezzi di legno che formeranno il suo mobile, e con un curioso slittamento semantico da quell’ harmottein è derivata la parola armonia. Ecco, quello che io mi proponevo era di creare uno spazio armonico, una specie di partitura in cui potessero risuonare con assoluta precisione la polifonia di voci che c’è in questo libro e che permettesse di presentare, di fare scomparire e di riprendere i temi di questa sinfonia che è in un certo senso il libro. Sono così nate quelle 18 sezioni che vi dicevo, ognuna delle quali ha un titolo e ognuna delle quali è introdotta da una citazione: la prima sezione, intitolata Agli estremi confini, è introdotta da una citazione presa dall’ultima lassa del libro, intitolata L’allodola pazza, e via via tutte le sezioni sono introdotte da una citazione presa dalla sezione precedente in modo da ribadire con questo filo ideale l’unità del libro e, soprattutto, legare la prima e l’ultima sezione, che sono due profezie, la profezia di Calcante e la profezia dell’Allodola pazza. E tra queste due profezie si stende lo spazio che io ho voluto, che ho ambito a costruire, in cui avessero agio di volteggiare, per così dire, quelle figure, come in una coreografia che disegna il gioco, la danza della fantasia su questo palcoscenico ideale che è il libro. Il gioco della fantasia… Tra gioco e arte ci sono molte affinità, ma assolutamente una differenza essenziale: il gioco è l’apprendimento di regole già date, regole di comportamento per imparare a conoscere se stessi, a dominare le proprie paure, a muoversi nella società…. La poesia e l’arte si spalancano sull’ignoto: sono la ricerca della verità in una lingua convenzionale. L’ignoto… Ma allora qual è il simbolo più abusato dell’ignoto che il mare? Ed ecco il mare, presente in tante poesie e che costituisce per così dire l’orizzonte di queste voci:

amore fu di vento che mi spinse
all’unica ricerca verso il largo
di una terra che l’immagine confonde

Ecco, le fotografie di Fulvio Magurno, che costituiscono una sezione, una specie di libro fotografico
all’interno del libro, illustrano magnificamente questo viaggio. E soprattutto la fotografia di copertina di Magurno è magistrale per esprimere quello che il libro intende essere, con queste poche pagine davanti all’immensità, queste poche righe di una piccola sapienza strappata all’ignoto, e sull’ignoto una nave che va. E mi piace pensare che questa nave sia la nave di Calcante, di Ulisse e degli ulissiadi. Ma perché Ulisse?

e giunti agli estremi confini
si fece avanti Calcante
con occhi di lustro vento
ghiacciati dal sonno notturno
Uomini mi sentite?
Ascoltate compagni
l’ultima parola
e la voce della notte:
Solo nell’ora infinita dell’alba
riprenderà il viaggio
Perché il viaggio che Ulisse deve riprendere è il viaggio verso la patria. Ulisse vuole tornare in patria. La patria… Quello che Ernst Bloch, il filosofo tedesco a me tanto caro, definisce alla fine del suo capolavoro, Il principio speranza: “La patria… Ciò che a tutti riluce nell’infanzia e dove nessuno ancora è stato”. A tutti riluce nell’infanzia: cioè la tenerezza, la dolcezza, il calore, il gioco, la magia, quello che pensavamo che a noi fosse destinato e fosse la nostra patria, per poi apprendere nel corso dell’esistenza che il mondo è una cosa tanto diversa, piena di spigoli taglienti, feroce nelle sue divisioni, livido nei suoi bagliori, una giungla non un giardino. E allora questa che abbiamo intravisto nell’infanzia diventa una terra lontana, “una terra che l’immagine confonde”, ma dove Ulisse vuole tornare. La terra dove gli uomini avranno cessato di obbedire alle leggi che li vogliono cose o proprietari di cose, dove gli uomini saranno presso se stessi come in patria. Dove cioè saranno liberi. Ecco, questo è il viaggio di Ulisse come io lo intendo in questo libro, e questo libro è quindi la mappa di un viaggio che l’umanità, o parte dell’umanità, continua a fare ad ogni generazione verso una sua possibile liberazione.
E ancora, fra mappa ed arte ci sono delle grandi affinità, perché la mappa e l’arte sono due modelli: la mappa è il modello che costruiamo per spostarci nella geografia del nostro pianeta; l’arte è il modello che noi costruiamo per addentrarci, per muoverci, nella geografia del nostro immaginario, per scoprirne degli aspetti nuovi, e per tornare alla realtà con occhi nuovi e arricchiti da quell’esperienza. E’ quella che i teorici chiamano “la funzione modellizzante” dell’arte: plasmare il nostro immaginario. Nel caso della poesia questo avviene nella cornice di un gioco in cui ha modo di dispiegarsi il dono del canto, un dono sulla cui origine io francamente non so dirvi niente, però in questa ignoranza sono in buona compagnia, perché Aristotele nella Poetica diceva che il dono del poeta è ciò che non può essere derivato da altri, non può cioè essere né appreso, né insegnato. Ciò che però so è che il canto nella poesia è l’articolarsi del gioco della voce, o delle voci, che nella poesia risuonano. Ma allora, a ben sentire, dietro quella voce o quelle voci, come in un effetto di riverbero, è ancora la voce sottile di quel bambino del primo novecento, il piccolo Ernst: Fort-Da… Fort-Da, Via-Qui… Via-Qui…
 Io quando sarò andato via, quando non ci sarò più, sarò qui, in questo libro. Questa è la grande scommessa dell’arte: sottrarre una voce e un volto al flusso del tempo. Quando l’arte vince la sua scommessa, quando l’artista vince la posta del gioco, la voce e i volti sono salvi, sono lì. Basta pensare ai monumenti della nostra tradizione letteraria, per cui ancora oggi possiamo dialogare con Platone, sorridere con Orazio, penare d’amore con Petrarca, fantasticare con Don Chisciotte e Cervantes, disperarci con Leopardi e via, via con tutti gli autori che il canone occidentale ci ha tramandato. E allora adesso, avviandomi alla conclusione ed entrando per la prima volta nel cuore del libro, permettetemi di congedarmi da voi, e ringraziandovi anche per l’attenzione con cui avete seguito tutto questo, recitandovi nove quartine che sono al tempo stesso una dichiarazione di poetica, un atto d’amore verso la poesia, e in un certo qual modo un testamento. Nel libro queste quartine formano una sezione intitolata La gloria di Dio, e con questa dizione io, che non sono credente, intendo indicare appunto il miracolo della voce umana che si sottrae alla frana del tempo, la caduta della sabbia nella clessidra, che tutti ci inghiotte. Ma “Gloria di Dio”
anche per indicare e ricordare il carattere e la natura etimologicamente religiosi dell’arte e della poesia, perché la voce che l’arte salva è la voce che religat e religit, che lega e che tramanda, cioè che lega i presenti ai passati e ai venturi, tramandandone il volto. Che sconfigge cioè la morte. E questa è quella che propriamente è l’altezza del gioco:

cristallo in trasparenza di parola
a questa altezza si conduce il gioco
stella d’assenza astro che ruota
contro la notte abbiamo aperto il fuoco

la gloria di dio la casella vuota
perché lo sguardo venga messo a fuoco
il tempo che s’avvolge alla sua spola
di queste sfere calibrando il gioco

ecco il teatro di carta e la sua nota
a questa guerra non si va per gioco
il giro esatto della mola la vita
che è marchiata a fuoco

la musica ferma la giostra immota
 su questo foglio dove tutto è in gioco
fiamma cha avvampa in una rosa sola
è la brace in cui discorre il fuoco

qui risplende la moneta ignota
prima che strida la civetta è l’ora
voce inattesa che consola
scaverai di ora in ora

vento perfetto eco che vola
 per fermare per sempre l’ora
luce sottratta alla sua mota
il lampo breve che fissasti ora

luna di divinante gota
 armonia ti sarà signora
grido travolto nella gola
 nei versi dove avrai dimora

obolo che tenebra immola
nel canto tuo che non dimora
notte che a fuoco le sue lame arrota
 contro il passo della nera signora

teorema di beltà che ti innamora
l’avvento che sogna la viola
dietro il paesaggio che la neve invola
a questa altezza che la morte ignora






LAURA MARGHERITA VOLANTE
AFORISMI

 
Laura Margherita Volante
















- Per prendere vie non sbagliate bisogna prima conoscere quelle sbagliate
- Giusto o sbagliato? esiste il non sbagliato dal momento che nessuno si può arrogare il diritto di decidere cosa è giusto...
- All’ "Ammazziamo il gattopardo" preferisco "ammazziamo il tempo...". I gattopardi sono già morti, siamo circondati da sciacalli.
- Depositi bancari: ingrassare la banca per dimagrire a vista
- Deculturizzazione. Qualsiasi arte non risolve se prima non si rimuove la causa
- Con la racchia non è mai una pacchia...
- Gli intelligenti si ritrovano anche senza incontrarsi mai
- La vita è bella quando il teatro è dentro l'anima e non il teatro a prenderti la vita
- Furbizia degli stolti è il non pensare che ci possa essere qualcuno intelligente discreto e prorompente di idee
- Ignoranza dilagante non genera né belli né geni. Bellezza e intelligenza sono
figli della conoscenza
- Narciso deve morire della propria immagine dissociata per ritrovare il sé negato del proprio Ego
- Quando la vita ti mette di fronte a prove e le superi, la sua fiaba è a lieto fine, di contro...sono cazzi tuoi!
- Global... tutto mondo è paese oggi diventa tutto paese è mondo senza radici
- Staffetta: quando non si passa la palla il giuoco si ferma
- Cultura e arte sono diventati il linguaggio dei vecchi
- Bisogna affidare l'Italia ai giovani talentuosi e non 'figli di papà': i grandi vecchi allora saranno un faro e i corrotti a riposo!
- Usi e Costumi: ieri si leggevano i libri di Agatha Christie, oggi si seguono i gialli in diretta
- La crisi genera disuguaglianza: i ricchi in vacanza alle Maldive, i poveri alle isole pedonali
- Chi sale d'importanza...la fa sempre cadere dall'alto
- Se non si cerca l'essenza prima o poi è lei a trovarti...
- Sindrome di Icaro? I miraggi sociali producono falliti… alimentano il senso di onnipotenza con caduta a picco
- Chi è molto profondo non riesce ad arrivare in superficie
- Immaturità. Si può venire alla luce senza nascere mai
- Esercizio del potere è di chi pone condizioni a chi si dà incondizionatamente.
 - L'estremizzazione sociale dei comportamenti inibisce la capacità di assumersi gli oneri di scelte esistenziali
- Il ponte di Messina è un sacco senza fondo e senza mani
- La violenza del silenzio. Chi sta sempre zitto non solo non rischia, ma induce gli altri a sentirsi in colpa senza capire il perché
- Ipocondria: vivere da malati per morire sani
- Chi non vuole perdere la faccia la mette sempre in primo piano
- Il sogno più coraggioso è riuscire a realizzare una via normale
- L'uomo nasce con il diritto di essere felice, ma con il dovere di rendere felice la donna
- Meglio 10 uomini delusi di una donna infelice
- L'Amore vive su cime elevate anche se tempestose
- La gabbia è di chi non sa evadere...
- Si può essere dolci e spalmabili come la Nutella, ma con il retrogusto amaro
- I comportamenti restano scolpiti nel tempo, le parole volano per cadere nel vuoto
- Intelligenza è leggerezza mai banalità
- Crisi economica. I soldi ci sono ma hanno il vizio di partire per la tangente

 Usi e costumi:
 - Stronz o strong? io strong e tu?
- Prima uno faceva le sveltine... oggi un altro fa le svoltine...
- Persino l'indignazione suscita risate tanto tutto è paradossalmente ridicolo
- Unire l'utile al dilettevole. Sempre utile a qualcosa o a qualcuno. E' il dilettevole che mi sfugge...
- Quando si dà il Bene la luce se ne va con esso e il lume resta nel silenzio della solitudine

           



ORNELLA FERRERIO
AFORISMI 

Ornella Ferrerio















1.Ma, sarà vero che esiste – davvero – il vero?

2.Forse, se la mente si impenna è perché ha galoppato troppo.


3.Non c’è nulla da fare: la vita va vissuta in modo vivo.


4.Che cosa triste fare tappezzeria nel grande ballo della vita.


5.Ma davvero è il colmo ridere da soli, disperatamente?


6.Devi tacere, se vuoi che il silenzio ti ascolti.


7.E’ quasi commovente la grande utilità dei numeri.


8.Certe coppie vivono come quelle delle casette segnatempo:
 raramente escono insieme.


9.Che lavoro estenuante sparire, ogni giorno, dentro
la propria recita.
E’ faticoso calcare le scene del mondo.


10.Quante volte si chiede, al proprio letto,
l’elemosina del sonno?!


11.Alcuni momenti della vita assomigliano
a un viaggio faticoso, dove si parte con
piedi pesati e si torna con ali di piombo.


12.Ho proprio l’impressione che, al destino,
gli fa proprio un baffo di tante tragedie.


13.Chissà quante storie potrebbero
raccontare le ore misteriose del sonno!


14.Per fortuna ci sono tanti ponti
per attraversare la poesia.


15.Il poeta abita e indossa la poesia.


16.E’ la capacità di sopportare
la solitudine che può rendere
imperituro un amore.


17.Il nostro silenzio può essere la parola degli altri.


18.Il passare degli anni costringe a farsi bastare gli affetti.


19.Forse esiste la gelosia di Dio.


20.Martin, eroe di otto anni, ha difeso
la sorella sedicenne da uno stupratore, che
lo ha ucciso, colpendo ripetutamente
il suo viso minuto.
Mi viene da dire: santo subito!


21.Un pensiero, aggiustando la sveglia:
che gioia, il tempo può ancora continuare!


22.Il più grande mistero dell’anima è l’anima.


23.Quanto dolore suscita la fame di tutto negli occhi di certi bambini!


24.Ho perso una parola. Chissà, forse era fatale…


25.La curiosità è vitale per conoscere e sapere.
A volte, però, può fare molto male.


26.Di questi tempi, la parola più enunciata,
scritta, temuta, sussurrata o urlata, invocata, offesa
e vilipesa è: LAVORO.

                            ***
HAIKU


Sole nascente
nel reame del niente.
Faro del nulla.


Cielo e mare.
Due lune lucenti.
Doppia la notte.


Pioggia silente.
Una stella nascosta.
Suono di luce.


Foglie d’ottobre
bruciavano nel loro
stesso colore.


Nuvole basse
dissetano i prati.
E’ nuova vita.


Perle di cielo.
Come giunchi spezzati
guizzi sul tetto.


Grida sul monte.
Gli echi conoscono
ogni dolore.


Sole sul bosco.
Tremolio di foglie.
Occhi di luce.


Ci sono spine.
Farfalle al lavoro.
Rose di maggio.


Inazzurrare.
Il sogno del glicine
nel pergolato.
E’ primavera.
Cip, cip anche sul verde
panno del poker.


Buio di notte
che inventa le stelle
senza la Luna.


Nebbie dal mare.
Anche l’onda più alta
modera l’urlo.


Una eclissi.
Corruzione cosmica.
Luna e Sole.


Manto di neve
come velo di sposa.
Cima del monte.


Rondini a nord
si perdono adesso.
Climi mutati.




GRAZIELLA POLUZZI
AFORISMI  

Graziella Poluzzi



Il voto in Italia è spesso vissuto come un 'mi piace' su facebook. Non si sceglie un programma politico, ma un personaggio; 'mi piace' perché è ricco, energico, di mondo, sa sempre galleggiare. Un voto dato a pelle sul calore della pelle del prescelto, ma poi l'esito ricadrà su tutti noi nel modo in cui saremo governati.

PDL: sistema politico ispirato alle televisioni. E' costituito da un potente trasmettitore centrale e tanti ripetitori riceventi e replicanti.

La TV è un po' come il bosco della favola 'Cappuccetto Rosso': può attirare e sedurre, ma ci sono molte insidie nascoste.

L'occhio sedotto dall'immagine, domina il cervello, la funzione visiva predomina sugli altri sensi e ci condiziona nel profondo.

Sono tante le donne masochiste presenti, passate e future, ma l'etimologia della parola risale a un raro caso maschile, Leopold Von Sacher Masoch: è una palese invasione di campo.

La solitudine è come l’aceto: poche gocce danno sapore, troppe inacidiscono il gusto della giornata.

La lentezza è un indugiare nel fare ciò che piace, rilassare il corpo e la mente: così si fertilizza il terreno in cui germoglia l'estro del creativo.

Gli orologi ci martellano con i loro 'tic-tac-tic-tac-tic-tac' veloci e inclementi, senza tregua ci ricordano che i minuti sfuggono da tutte le parti.

In fondo al vaso di Pandora rimase solo la speranza, ma la speranza umana è illimitata.


 




PIER LUIGI AMIETTA
L’emozione di apprendere

Pier Luigi Amietta





















La mia personale esigenza, rispetto all’espressione “formazione emotiva” mi fa sentire come inderogabile e prioritario definire il piano semantico e concettuale sul quale l’espressione si colloca. Di conseguenza, la questione ci porta immediatamente agli elementi costitutivi di questo sintagma.
Anzitutto, il significato assunto, negli anni più recenti, del termine “formare”.
È ormai pacifico che formare non vuol dire semplice trasferimento di saperi e, meno che mai - superati i sogni di onnipotenza dei formatori degli anni Sessanta - imprinting ideologico, ma il loro esatto contrario, vale a dire due cose: la prima, far crescere nella persona la voglia  di cercare per meglio comprendere, l’entusiasmo di scoprire per vedere più chiaro, la curiosità e l’interesse a porre nuove relazioni tra  le cose; la seconda, creare le condizioni perché la persona sviluppi  quella libertà mentale capace di sfuggire alle insidie di tutti i dogmatismi.
Il che, se si vuole, è ciò che distingue la propaganda dall’educazione: la propaganda vuole far passare sull’altro i propri valori, l’educazione lo aiuta a realizzare i suoi.
Il che, ancora,  vuol dire creare le premesse e le condizioni perché  la prima cosa possa davvero realizzarsi e non restare un’edificante utopia.
In definitiva, “formare” equivale sia a far crescere l’intelligenza, sia a stimolare la voglia di apprendere. In più occasioni – da formatore, e dunque da fonte non sospetta – ho dichiarato, e lo confermo, che nessuna formazione può valere a lungo (o valere, semplicemente), se non diventa rapidamente auto-formazione.
Questo ci porta al centro del nostro discorso: infatti, se formare vuol dire far crescere l’intelligenza (uso ostinatamente il singolare, per le ragioni di cui fra breve), “formare emotivamente” c’induce preliminarmente ad affrontare la questione se esista – e se sì, con quali accezioni – un’intelligenza emotiva, che è il primo punto che vorrei affrontare, anche perché su questo binomio ha costruito la sua notorietà lo psicologo Goleman e consolidato il loro fatturato una pletora di golemanini in sedicesimo.
Il secondo punto sarà: se, in che modo e fino a che punto, un’emozione (che è cosa diversa dall’emotività e sta all’emotività come la sensibilità sta alla commozione) possa giovare all’apprendimento.
Il terzo punto di nostro interesse è se sia possibile (e come) valutare, se non misurare, questo tipo di apprendimento.

1. Si può apprendere senza emozione?

La prendo un po’ alla lontana, ma arriverò rapidamente al cuore del problema.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi sulla vita mentale hanno avuto una diffusione notevole, forse maggiore del loro progresso reale.
Tra gli autori che, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, hanno dato un apprezzabile contributo a questi studi due vanno subito citati perché, sia pure non occupandosi degli stessi temi che in modo tangenziale, hanno tra loro una affinità indiretta rispetto al problema dell’intelligenza. Si tratta di Howard Gardner e di Daniel Goleman che, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, hanno pubblicato i lavori per i quali sono più noti: il primo,  nel suo libro più celebre, “Frames of mind  - the theory of multiple intelligences”, tradotto in “Formae mentis – saggio sulla pluralità dell’intelligenza”; il secondo con la sua fin troppo nota “Emotional intelligence”, diventato, nella versione italiana “Intelligenza emotiva”.
Entrambi gli autori hanno un grande merito e, a mio modo di vedere, una altrettanto grande responsabilità.
Il merito è di aver proseguito nell’esplorazione di quel pianeta, tuttora molto misterioso che è costituito dal funzionamento della nostra testa, dei rapporti cervello-pensiero (intesi come rapporti tra organo e funzione) e, più generalmente, della vita mentale. Esplorazione difficile, faticosa, viziata dall’aporia dell’autoreferenzialità, ossia da quella sorta di peccato originale per cui la spiegazione di un sistema avviene necessariamente adoperando lo stesso sistema che dev’essere spiegato. Ciononostante, è degno della massima attenzione qualunque sforzo sia compiuto, attraverso la ricerca, per saperne di più sulla sola cosa che ci distingue dai vegetali.
La responsabilità (si badi bene, non la colpa) è quella di aver generato – quasi involontariamente, mi sento di sostenerlo – due micidiali equivoci e, per gemmazione spuria dalla loro ricerca originale, una colluvie di studi successivi che non soltanto non hanno saputo chiarire gli equivoci, ma, chi più chi meno, li hanno aggravati.
Il “quasi” è dovuto ad alcune affermazioni “fuori giri”, potremmo dire in gergo motoristico, che questi equivoci hanno potuto indurre.
§  Howard Gardner, per primo: nel suo entusiasmo classificatorio ha parlato di “nove forme di intelligenza, del tutto autonome tra loro”, usando un aggettivo di troppo, “autonome”, appunto. E qui il Frames del titolo originale la dice lunga sullo sforzo di evidenziare, per inquadramento e delimitazione, tali supposte autonomie. Ora, poiché “l’autonomia” origina da operazioni mentali di tipo categoriale e non  di tipo osservativo (vale a dire - in termini più semplici – che è una categoria mentale e non qualcosa che si vede con gli occhi) è evidente che parlare di forme di intelligenza, intese come veri e propri modelli mentali del tutto autonomi fra loro è insieme una gratuità e una petizione di principio, dovuta al più classico degli errori epistemologici, noto come “fisicalismo”, che consiste nel crede di “trovare” un significato nello stesso momento in cui invece lo si attribuisce. Infatti, basta attribuire non importa a che cosa leggi proprie per farlo diventare autonomo. Insomma, l’errore consiste nell’attribuire alla funzione di un organo le stesse leggi che Kant, parlando di autonomia, applicava alla morale, per poi validare questa attribuzione ipotizzandone addirittura un substrato biologico, ovviamente del tutto impossibile da dimostrare.
Vi sono almeno due riprove delle difficoltà che sorgono sostenendo questa posizione:
- la prima è che lo stesso Gardner, una volta completata la sua tassonomia, ha dovuto riconoscere l’esistenza, oltre alle sue “nove intelligenze”, anche di un numero indefinito (e, ovviamente) indefinibile di “intelligenze personali”1, secondo la sua stessa formulazione; con ciò riconoscendo implicitamente non solo di  non aver affatto   completata la classificazione, ma che questa non è in alcun modo completabile;
- la seconda (e di questa sì c’è un riscontro anatomo-fisiologico) è che in caso di lesioni cerebrali gravi del cervello, che ne compromettano la funzione di una zona, si assiste molto spesso al subentro di altre zone del cervello in funzione vicariante di quella compromessa: il che contraddice contemporaneamente sia l’idea dell’autonomia, sia l’idea di un substrato biologico deputato in via esclusiva ad una funzione.2
Altro – e ben più condivisibile – sarebbe il partire da una visione olistica dell’intelligenza (intesa come capacità di porre rapporti), per poi riconoscerne differenti possibili settori d’applicazione, questo, oltre ad essere ben noto, è addirittura un’ovvietà.
§  Daniel Goleman, per secondo – e siamo in medias res, come si dice – parlando di “intelligenza emotiva” ha generato il secondo equivoco: Goleman, come Gardner, ha applicato al termine “intelligenza” un aggettivo (“emotiva”) che non solo è di troppo, ma è addirittura tautologico.
Senza mai affermarlo esplicitamente, il lavoro di Goleman suggerisce, un po’ ambiguamente, l’idea di un’intelligenza, quella “emotiva”, per l’appunto (o di una “passione”, o di una “memoria sensitiva”), separata e distinta dall’intelligenza tout court. Cosa che, se fosse così – come sembrano credere, al punto da scriverlo, i tanti Goleman in sedicesimo3 che, dopo di lui,  più realisti del re, hanno intonato il coro dell’intelligenza emotiva – sarebbe davvero singolare.
Vorrei allontanare da me il sospetto di nominalismo: il binomio “intelligenza emotiva”, anche se resta vago e impreciso, è perfettamente accettabile, come lo sono “emozione”, “affetto”, “sentimento”, ecc., quando designano certe tipologie di pensieri. Altrettanto lo sono i termini “affetti” e “affettività”, “sensibilità ed emotività”, quando designano la caratteristica di certe persone a lasciarsi visitare più di frequente della media da quelle tipologie di pensieri.
Fuori da questi casi, si tratta di un errore di tipo “fisicalista” (ecco la “parentela” tra Gardner e Goleman), nel senso già detto: ritenere “esistente” di per sé, con caratteristiche autonome proprie oggettive riscontrabili - e quindi suscettibile di essere “scoperto”, come se si trattasse di un oggetto fisico (per es. un fungo) -  qualcosa che è invece e in ogni caso identificabile col pensiero o, se volendo proprio essere puntuali, con una delle sue tante caratteristiche. Il fatto che esistano alcune situazioni esterne – accadimenti, condizioni di vita, ecc. - e alcuni contenuti di pensiero che, in certe persone (e non in altre, ecco l’errore fisicalista!) influiscono sul battito cardiaco, sul circolo del sangue e sul ritmo del respiro e inducono alcune reazioni vagali - rossore, sudorazione, ecc. - comunemente definite come “emotive”, non toglie loro in alcun modo il carattere di pensieri, ossia di operazioni mentali, in ciò del tutto simili ad altre che non hanno particolari influenze sul sistema nervoso periferico o che, restando le stesse, in altre persone non inducono proprio un bel niente.
Di conseguenza, mi sembra che nulla autorizzi a parlare di una “intelligenza emotiva”, come se si trattasse di qualcosa di autonomo rispetto all’intelligenza tout court: nessuna  “emotività” può darsi, se non è generata prima da un pensiero, altrimenti non potremmo mai distinguere le lacrime della cipolla da quelle per la morte di un amico; ciò è confermato, oltretutto, dal fatto che vi sono notoriamente situazioni che generano contenuti di pensiero in grado di influire in senso emotivo su alcune persone, mentre lasciano del tutto indifferenti altre: una formula matematica può emozionare uno e far sbadigliare un altro.
Qual è il problema che sorge? È che, ovviamente, una volta accettato che il pensiero emozionale è fenomeno autonomo rispetto a quello “non emozionale”, non c’è più limite alle conseguenze e implicazioni: l’emozione diventa una disciplina, che si può insegnare come l’algebra e altre amenità di questo genere; si arriva infatti (parola di Goleman) a parlare di “alfabetizzazione emotiva”4

2. Quanto l’emozione facilita l’apprendimento?

A questo punto, possiamo riproporci la domanda iniziale: se  l’emozione sia utile all’apprendimento e con quali implicazioni metodologiche e didattiche.  E ancora, domanda non peregrina: quali  emozioni influiscono positivamente e quali negativamente sull’apprendimento?
Quanto al “se”, la mia risposta è: in prima approssimazione, certamente l’emozione è utile all’apprendimento e può esserlo anche moltissimo. Dico “in prima approssimazione”, perché in realtà dovremmo metterci d’accordo su almeno una cosa: di che tipo di apprendimento stiamo parlando. Senza arrivare alla nomenclatura di Umberto Galimberti5 probabilmente un po’ pletorica, visto che ne elenca e definisce addirittura trentuno diverse forme,  dovremo almeno focalizzare il discorso sull’apprendimento cognitivo complesso, ossia quello che coinvolge funzioni mentali superiori, come la percezione e l’intelligenza, riferite all’umano adulto intellettualmente normodotato;  e, magari,  distinguere l’apprendimento in praesentia da quello a distanza, che presentano problemi di natura psicologia molto diversa, come è stato dimostrato anche di recente.6
Ma sappiamo, in ogni caso - è un dato acquisito della psicologia cognitiva, nonché confermato dall’esperienza empirica di ciascuno di noi - che:
§  qualsiasi contenuto d’apprendimento si fissa  di più, meglio e più a lungo se è accompagnato da un’emozione: una nozione appresa in clima di forte tensione emotiva non si dimentica più;
§  certe situazioni e  particolari pensieri (le cosiddette fantasie o rappresentazioni) sono in grado di attivare alcuni circuiti fisiologici che, una volta attivati, generano direttamente altri pensieri, che chiamiamo “emozioni”. Per inciso, in questo caso, il “percorso” delle operazioni mentali è più lungo, sia pure di tempuscoli: ecco perché si fa prima a pensare alla data di nascita di Dante che a un amore perduto;
§  nell’attività didattica, occorre adoperarsi il più possibile per favorire nei discenti questa tipologia di pensieri, privilegiando naturalmente quelli utili agli effetti dell’apprendimento. Sembra evidente, allora che il formatore capace di suscitare emozioni (intese, ovviamente, come quelle favorevoli all’apprendimento, ossia suscettibili di una valutazione positiva dello stimolo) dispone, a parità di contenuti e di ogni altra capacità, di una chance ulteriore tutt’altro che secondaria.  Il che risulterà in ogni caso molto più facile se questi particolari pensieri sono già patrimonio del formatore, così da poterli comunicare (mai più adeguato di questo il significato di “mettere in comune”) al discente. Per chi avesse avuto la fortuna di assistere a lezioni di Luigi Pagliarani o di Silvio Ceccato non occorre aggiungere altro. E cito solo due grandi morti, per evitarmi complicazioni “politiche”, ma potrei citare anche alcuni vivi. Non molti,  per la verità.
Sappiamo tutti quanta parte di questo vi sia nelle metodologie di “empowerment” e anche di “self-empowerment”7, perché sappiamo quanto sia facile entusiasmare se si è entusiasti, motivare se si è motivati, commuovere se si è commossi.
Non c’è alternativa a questo, a meno di non essere grandi attori, cosa che non è tra le competenze medie dei formatori, per bravi che siano. Vittorio  Gassman era un eccellente formatore (lo ha dimostrato col suo Laboratorio di Teatro) perché era un grandissimo attore, ma è evidente che non può costituire un modello trasferibile; Gigi Proietti  è, a sua volta, un eccellente formatore.  Ma va detto che, in entrambi i casi – anche per diretta testimonianza di coloro che hanno frequentato le “botteghe di teatro” dei due nominati, pur tanto distanti tra loro, per molti aspetti non secondari - l’apprendimento passava attraverso una carica emotiva enorme, addirittura difficile da reggere, in qualche occasione.
Ma, teatro e  “formattori”8 a parte: da quanto ho potuto ricavare, in quasi trent’anni di frequentazione di aule e di formatori, mi pare che vi siano almeno altri due fattori-stimolo  che contribuiscono a suscitare “emozioni d’apprendimento”:
-  il primo è quando il formatore, mentre ti apre un orizzonte concettuale “ti fa sentire” intelligente, ossia alza il livello di autostima del discente;
-  il secondo è quando il formatore ti dà un modello interpretativo semplice di fenomeni complessi: ossia ti fa capire chiaramente non soltanto di averti consegnato la chiave di una porta che ti appariva ostinatamente blindata, ma anche il passepartout per tante altre simili porte.
Quali sono le emozioni più favorevoli all’apprendimento.?
Tutte le emozioni, in teoria,  possono stimolare l’apprendimento, in quanto generano motivazione, magari ad uscire da uno stato d’ansia. In pratica, più che sulla gelosia, sull’ansia o addirittura sulla paura che (anche senza considerare le implicazioni sadiche) hanno il grave difetto di far cessare  l’apprendimento – se non addirittura determinarne la rimozione  - non appena cessa lo stimolo ansiogeno o pauroso, credo che siano la gioia e lo stupore (della scoperta e della conquista, in particolare) le emozioni sulle quali anzitutto il formatore dovrebbe puntare.
Ma anche la “drammatizzazione “ (le virgolette sono d’obbligo) e l’umorismo che ne è il più felice antidoto, l’atteggiamento di gioco e quello di teatro (il famoso “animus theatrandi” degli antichi), sono situazioni che – mediamente – risultano idonei a rendere gradito l’apprendimento, a fissarlo in modo durevole e, non di rado, a superare idiosincrasie mentali.
Non mi sembra un caso, a questo proposito, che sia nata a Bologna (anzi neo-nata, visto che esiste da pochi mesi) un’Associazione di promozione sociale, la TIA, che si pone come obiettivo primario, cito testualmente dallo Statuto “scoprire il piacere di apprendere”.

3.     La “formazione emotiva” si può valutare?

Se dovessimo semplicemente rinviare a quanto appena detto, e cioè che ben difficilmente l’apprendimento si determina e si fissa senza un minimo di coinvolgimento emotivo del discente (ma, prima ancora, del docente), la risposta sarebbe pleonastica, non diversa in quanto equivarrebbe a rispondere alla domanda se la formazione tout court si può valutare.
Ma la questione è più fine – e la soluzione più complessa - per il fatto che, all’interno del problema di cui ci occupiamo, occorre fare una importante distinzione:
§  un conto è valutare gli effetti di natura qualitativa (quindi, anche la componente emotiva generata  da un qualsiasi intervento formativo,  ossia la mobilitazione di energie psichiche determinatasi a valle della formazione);
§  altro conto è valutare, rispetto ai risultati ottenuti, quanta parte abbia avuto una formazione di cui la componente dominante sia stata di natura emotiva.

Infatti:  
-     nel primo caso,  non è affatto escluso che una formazione puramente tecnica  possa dare risultati “qualitativi” di natura emotivo-energizzante: si pensi al caso di una formazione all’uso di strumenti o programmi software particolarmente sofisticati e all’entusiasmo ri-motivazione del soggetto che è ora in grado (mentre prima non lo era) di fare il suo lavoro con molta più efficacia e meno fatica di prima. Sarà cresciuta l’autostima, ma anche l’efficienza della prestazione (misurabilissima);
-     nel secondo caso, la formazione può esaurire i suoi effetti visibili,  di natura emotiva “in corso d’opera” (ossia durante l’intervento), ma – proprio perché nessuna emozione può essere mai separata dal pensiero, come detto a sazietà - essa può lavorare nel vissuto del formato producendo, ovviamente in tempi variabili secondo la natura dell’attività svolta – effetti anche tecnico-pratici (misurabilissimi)

È evidente, perciò, che il panorama si complica e la risposta non può essere sbrigativa.
In effetti, parlando dei risultati di una formazione emotiva, ossia di un ambito che è squisitamente di processo – anche a prescindere dalla reale volontà/decisione delle organizzazioni, sempre dubbia,  di investire risorse per un tal genere d’inchiesta - il compito  rimane arduo.
Naturalmente, il problema non è nuovo, ma l’impressione che si ricava dalla letteratura esistente è che i casi (comunque pochi) in cui si è voluto procedere a valutazioni della formazione di tipo qualitativo, ricadano nel primo caso, mentre non sono a mia conoscenza ricerche specifiche sul secondo: infatti, di norma, ci si limita a valutare (quando si valutano) gli effetti  di natura quantitativa (attraverso parametri)  o qualitativa (attraverso indicatori prefissati) dell’intervento formativo effettuato, ma non ci si preoccupa affatto di verificare quanta parte - nel determinare  quegli effetti -  abbia avuto la carica emotiva della formazione erogata. In ogni caso, e per la verità, resta dubbia la reale utilità per le organizzazioni di una ricerca siffatta, che sarebbe per contro di indubbio interesse in sede epistemologica.
Ciò premesso, possiamo ricordare che, oltre alla docimologia formativa, che può dare i suoi validi contributi, esistono  - e non da oggi - vari modelli e strumenti per una valutazione (che non mi stancherò mai di distinguere dalla “misurazione”9) e che, volendo10, potrebbero essere utilmente  applicati a situazioni formative che riguardino anche il secondo dei due casi sopra citati.
Ricordo che da tempo modelli di valutazione di programmi di formazione psico-sociale e socio-affettiva sono stati studiati a messi a punto da vari autori, anche se – per la verità - di estrazione prevalentemente  psico-pedagogica, applicabili a programmi scolastici curricolari più che formativi in senso organizzativo. Ne cito alcuni: Ardizzone e Grasso, che nel 1984 hanno presentato un loro Modello delle Relazioni-Oggetto (MRO) e, come strumento di analisi, hanno scritto addirittura un Manuale ad hoc11.
Neresini, nel 1992, ha fornito una classificazione delle dimensioni da valutare e  i relativi indicatori di processo12. Il tema è stato toccato anche a proposito di empowerment di gruppo (A. Putton, 1999) e di self empowerment (Bruscaglioni-Gheno, 1999).
Uno strumento tuttora utilizzabile è sicuramente quello noto come “Matrice Interformazione”, che, fin dal 1989 – e, successivamente, nella versione riveduta (1996) fornisce gli indicatori, i misuratori, i parametri di processo e gli strumenti di rilevazione, distinguendoli chiaramente da quelli di contenuto, per la valutazione separata,  ai diversi livelli (didattico, On The Job e di Sovrasistema) dei cambiamenti di tipo socio-affettivo. Vi si distinguono, in particolare, a livello didattico e On The Job: gli atteggiamenti ed altri fattori di processo e i vissuti interni (intrapsichici).13

È  chiaro che i risultati della formazione,  misurazione-quantità-oggettività e, rispettivamente,  valutazione-qualità-soggettività dei dati cui riferirsi sono in misura proporzionale inversa, secondo che da valutare siano fattori di contenuto o fattori di processo: intendo dire, in termini più semplici, che gli indicatori di efficacia saranno tanto più oggettivi quanto più si tratti di valutare risultati quantitativi e tanti più soggettivi quanto più si tratti di valutare risultati qualitativi.
Ma sbaglierebbe chi ritenesse che questi ultimi siano di carattere aleatorio: una volta chiarito quali sono gli indicatori dei risultati attesi (intesi, in parole semplici come ciò che il committente andrà a vedere /osservare /valutare, a valle dell’intervento formativo, qualunque cosa sia e la cui presenza-assenza mi farà ritenere che l’intervento sia stato, o non, efficace), la natura soggettiva-qualitativa di questa valutazione avrà l’identico peso (e l’identica attendibilità) per il committente di qualsiasi altra misurazione quantitativa.
È del tutto evidente che i diversi committenti-osservatori abbiano degli osservati completamente diversi: non esiste un unico risultato (né una sola efficacia) dell’intervento formativo valido erga omnes. Si può anzi arrivare al risultato, paradossale soltanto in apparenza, che uno stesso esito formativo possa essere considerato ottimo da una certa committenza e pessimo da un’altra; non intendo parlare di potenziali committenze in organizzazioni diverse, che sarebbe un’ovvietà, perché è scontato che ciò accada.
Intendo riferirmi a quanto accade, all’interno di una stessa organizzazione, quando una committenza è effettiva e un’altra potenziale: l’effetto di self-empowerment, che può aumentare l’autostima e quindi la propensione a scegliere la libera professione, può essere voluto dalla committenza ufficiale (in relazione a un obiettivo di ristrutturazione e alleggerimento dell’organico) e come deleterio dal Sindacato che conta le teste e paventa il “drop out”.
Ecco perché – qualora si sia determinati a valutare l’efficacia di un intervento formativo -  è assolutamente cruciale concordare preliminarmente gli obiettivi; ma soprattutto, avendo riguardo al fine della valutazione, gli indicatori del risultato atteso. E (in una visione sistemica dell’organizzazione, dove agiscono molteplici attori, ciascuno con un suo potere di influenzamento) la valutazione, va fatta ovviamente in funzione dei risultati attesi dalla committenza reale, ma non può permettersi di ignorare del tutto  anche le attese degli stakeholders che possano costituire una “committenza virtuale”.


5. Un vecchio equivoco (diamo alla formazione, anche emotiva,  ciò che è della formazione)

Pur nutrendo la massima considerazione per chi, nelle organizzazioni - avendo attribuito alla relativa posta in bilancio - investimenti cospicui in formazione, legittimamente ne richiede un riscontro; pur comprendendo appieno le ragioni di chi, spingendosi oltre, reclama un preciso ritorno sull’investimento formativo (il famoso ROI della formazione), vorrei evidenziare un aspetto metodologico che di norma il committente – in ciò, di solito, sostenuto strenuamente dal tesoriere – non considera con sufficiente attenzione.
Credo utile un esempio tratto da altro campo, quello della pubblicità. Spesso,  anche per esperienza professionale diretta, ho sentito dire - in perfetta buona fede - che la pubblicità serve a far vendere il prodotto, probabilmente sotto la suggestione del vecchio adagio popolare che la “pubblicità è l’anima del commercio”. Possiamo concordare che si tratti dell’anima, ma non del corpo. Fuori metafora, la pubblicità è uno strumento di comunicazione e di conseguenza, se ne voglio valutare l’efficacia lo debbo fare – in prima battuta – in termini di comunicazione (valida o non): occorre verificare, cioè, se il messaggio è stato capito, accettato, interiorizzato. Se lo è stato, la pubblicità è stata efficace; se la curva delle vendite non è cresciuta in proporzione, dovremo probabilmente cercarne le cause in una delle (molte) altre variabili del mix di marketing, che tra l’altro è diventato negli ultimi anni estremamente sofisticato14
Analogamente, la formazione è uno strumento di apprendimento: dunque se ne voglio valutare l’efficacia lo debbo fare – in prima battuta – in termini di apprendimento  (avvenuto o non).
Che poi la derivata seconda  (il prodotto si è venduto di più? La produttività è aumentata?) interessi al committente più della derivata prima, è comprensibile, ma questo interesse non può essere, per definizione, il solo criterio per valutare l’esito della formazione.
In ogni caso, non è possibile dimenticare – e certo non lo è per chi scrive - che stiamo parlando di “apprendimento degli adulti che lavorano nelle organizzazioni”, secondo la classica definizione AIF e che tra le preoccupazioni maggiori dei formatori dovrebbe esserci quella di aiutare questi adulti a formulare e gestire processi decisionali non certo meccanici, aridi e deprivati di ogni componente emotiva, ma almeno coerenti e funzionali al ruolo che occupano. Altrimenti è soltanto istinto e biologia, e allora in questo modo anche le amebe “decidono”. Per tropismo, dicono gli esperti.
Dunque, la mia personale posizione riguardo ai fattori emozionali come promotori e catalizzatori d’apprendimento, potrebbe riassumersi così: poiché sappiamo bene che possono esistere migliaia di pensieri (ossia un’intelligenza) senza emozioni, ma non può esistere una sola emozione senza intelligenza, allora ben vengano  l’emozione e anche la formazione emotiva. Purché intelligente.

Note

1.     Cfr: Gardner, H.: Frames of mind - the theory of multiple intelligences”, tit. It. “Formae mentis – saggio sulla pluralità dell’intelligenza”, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 258 e segg.
2.     Gardner, è bene evidenziarlo, si crea in proposito un elegante “alibi” epistemologico, sostenendo che “Nel corso normale degli eventi le intelligenze interagiscono fra loro [sic!], e vengono costruite l’una sulla base dell’altra, a cominciare dall’inizio della vita” (cfr. Gardner, op. cit. p. 299). Il corsivo al verbo è mio.
3.     Magari surrettiziamente, presentando le credenziali della Scuola di Palo Alto, in incontri e convegni  “mordi e fuggi”: cfr. il Convegno Passione, Innovazione e Valore (Milano, 21 novembre 2005, Teatro Litta), con interventi dai contenuti emblematici e problematici, come “Incontrare la passione” o “Memoria emotiva e memoria sensitiva”
4.     Cfr. Goleman, D.: Emotional intelligence, tit. It. “Intelligenza emotiva”, Milano, BUR, 1999. Nel contesto (cfr. p. 391), D.G. c’informa, oltre che dell’origine di questa espressione,  anche su background scientifico originario (curioso, a dir poco) del suo lavoro: «Per la prima volta ho sentito l’espressione “alfabetizzazione emozionale” in bocca a Eileen Rockefeller Growald, allora fondatrice e presidente dell’Institute for the Advancement of Health. Fu quella conversazione casuale che stimolò il mio interesse e fornì la cornice alle indagini che finalmente sono sfociate in questo libro.»
5.     Cfr. Galimberti, U.: Dizionario di psicologia, UTET, Torino, 1992, pp. 85-86
6.     V. Fata, A.: Gli aspetti psicologici della formazione a distanza, AIF-Franco Angeli, Milano, 2004; anche per quanto riguarda gli strumenti di valutazione, sullo stesso tema la distinzione,  è stata fatta con sufficiente chiarezza: v. Prezza, Smeralda, M.P., Matteoni, A.:”Valutazione a distanza di interventi di educazione sessuale realizzati nelle scuole mede superiori”, in AA.VV., Psicologia di comunità oggi. Progetti, ricerche, esperienze, Napoli, Magna editrice, 1996.
7.     V. M. Bruscaglioni e S. Gheno: “L’empowerment degli operatori della scuola”, in Empowerment e scuola: metodologie di formazione nell’organizzazione educativa, Carocci, Roma, 1999, pp. 49 e segg.)
8.     Cfr. Rago, E.: L’arte della formazione -. Metafore della formazione esperienziale, F.Angeli, 2004, pp. 271 e segg.; Amicucci, F. La formazione fa spettacolo, Il Sole24Ore,2004, pp. 103-109
9.     Il problema è annoso, ma già chiaramente individuato da:  Cantin, S.: La Mesure normative et la Mesure Criteriée, in “Education Permanente”, N. 83-84, 1978; v. anche, il più recente Fontana, A. – Varchetta, G.:  Valutazione o misurazione? Forse interpretazione,  ne “La valutazione riconoscente”, Guerini e Associati, Milano, 2005
10.  Personalmente – in ciò purtroppo confortato dalla prassi e dalla verifica sul campo -  e restando salve le solite lodevoli eccezioni, continuo ad avere molti dubbi sulla motivazione e reale volontà delle organizzazioni ad investire fondi per la valutazione della formazione che non sia a livello didattico, per le ragioni già ampiamente esposte in altra sede: v. P.L. Amietta: Valutare la formazione: problemi aperti e problemi da chiudere, in: Infelise, L. (a cura di -) “La formazione in impresa: nuove frontiere in Europa, Franco Angeli, Milano, 1994, pp. 423 e segg.
11.  V. Ardizzone, M., Grasso M. : MRO, modello delle relazioni Oggetto – frasi da completare per adolescenti, Organizzazioni Speciali, Firenze, 1984
12.  V. Neresini. F.: La valutazione come processo, Ministero dell’Interno, 1992
13.  Cfr.: Amietta, P.L. – Amietta, F. (a cura di-), Interformazione: Valutare la formazione, pp. 109-122 e passim, Milano, Unicopli, seconda edizione, 1996.
14.  V. Raimondi, Marketing del prodotto-servizio – Integrare tangibile e intangibile per offrire valore al cliente, Hoepli, Milano, 2005





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OMM IN GIARDIN
Vedi da la finestra del mè studi       
el portinar, angiol custòd del verd
de la mia cà, di roeus e del pitòsfor.
El lavora content…e me domandi
‘se l’è ch’el ghe ved dent in ‘sto tocchell
de verd, in ‘sto girell per paisan
nostalgich de la terra. Omm senza sogn?
No, no, pensi el contrari, mì hoo capii:
per on’ora, ogni dì, lù s’en impippa
del gatt del ragionatt, de la ruera,
de la posta, de l’amministrador.
Per on’ora, ogni dì, lù el torna a cà.
E quell meter quadraa condominial
per lù (forza incredibil del penser)
l’è  quell praa grand del sò mond de bagaj,
sotta l’argin del Po, l’è la “soa” terra,
la terra di sò vecc. El rest l’è… nient.
El loeugh dove se sta l’è minga “noster”
perché l’è scritt inscì in on quai canton.
E allora quel freguj de giardinett
per lù l’è la pianura del sò fiumm,
la terra di sò vecc, quella che gh’ha
per confin domà l’erba, i pobbi e ‘l ciel.


UOMO IN GIARDINO
(Traduzione letterale)

Vedo dalla finestra del mio studio
il portiere, angelo custode del verde
di casa mia, delle rose e del pitosforo.
Lavora contento…e io mi chiedo
cosa ci trova in questo pezzettino
di verde, in questo girello per contadini
nostalgici della terra. Uomo senza sogni?
No, no, penso il contrario, l’ho capito:
per un’ora, ogni giorno, lui se ne infischia
del gatto del ragioniere, della spazzatura,
della posta, dell’amministratore.
Per un’ora ogni giorno, lui torna a casa.
E quel metro quadrato condominiale
per lui (forza incredibile del pensiero)
è quel gran prato del suo mondo di bambino,
sotto l’argine del Po, è la “sua” terra,
la terra dei suoi vecchi. Il resto è…niente.
Il posto dove stiamo non è “nostro”
perché così sta scritto da qualche parte.
E allora quella briciola di giardinetto
per lui è la pianura del suo fiume,
la terra dei suoi vecchi, quella che ha
per confine soltanto l’erba, i pioppi e il cielo.



 


MARIA CARLA BARONI      
OMAGGIO A MILANO
 
Maria Carla Baroni











Navigli anni  ’50                                                                                             
Tristi le vie
lungo i canali morti
della mia città
file di neri barconi
in attesa
colonnato deforme di gru.
Posso togliermi
la maschera dell’allegria.     

Naviglio (Foto di Livia Corona)
                                         




Tipologie edilizie milanesi
 
Lucenti grattacieli a spirale
cascine cadenti nella pianura
armonia di palazzi anni venti
quartieri popolari dolenti.                                                 


Grattacielo (Foto: Livia Corona) 





















Le cascine rosse

Grandi tetti di tegole rosse
su travature d’antico legno
e imponenti piloni di mattoni
larghi lembi d’un utero aperto
ad accogliere la vita del quartiere.


                             

 




LIVIA CORONA
OMAGGIO FOTOGRAFICO A MILANO

Livia Corona


Duomo


                                                        Castello Sforzesco

                                                           Teatro Fossati




Corso Como

                            Interno di cortile


                           Lungo il naviglio Boffaloro      


                              Luce sulla darsena


                          Luce sulla darsena


                     Naviglio in fiore

                    Sport sul Naviglio






     


TIZIANO ROVELLI
LUNA BOSCOSA


Era ottobre lassù in montagna e gli alberi nei boschi si confondevano in macchie si colore tendenti al giallo, al rosso e al verde dei sempreverdi, piccola luna boscosa di un pianeta senza nome e senza età.
Nella valle dell'Adige maturavano le mele colorate.
Era ottobre lassù in montagna e l'aria profumava di mele, le mele profumavano l'aria.
Le foglie morte cadevano dal grande albero in un lento vortice astruso e variegato colore rossastro.
L'odore lasciava presagire l'imminente inverno, ma intanto il clima era generoso
pur nel suo cielo grigio e pallido sole.
Sentivo l'umore della terra penetrare nelle mie viscere, scaldare il mio cuore ed ero felice.

Celato in un frammento di polvere.

Tiziano Rovelli
























Maria Cristina Spigaglia regala ai lettori di “Odissea”, questo lungo articolato lavoro narrativo e teatrale assieme. Lo pubblichiamo per tempo affinché possano leggerlo su queste pagine e, se ne avranno voglia, stamparselo per portarselo nei luoghi di vacanza. Un omaggio per questa festa della scrittura in occasione del 1° anniversario in Rete del giornale. 

MARIA CRISTINA SPIGAGLIA                                                                           
UNA PIUMA SUL RESPIRO DELL’ANGELO                                                                                   

A mio figlio



Maria Cristina Spigaglia



 











Definite l’anima come volete: io la definisco
una piuma sul respiro dell’angelo”

(Da una vecchia poesia latino/americana)
                                                          

I suoi occhi sono azzurri.
Un mare… vicino alla tempesta.
E’ sottile, morbida, sembra dolcissima ma a un’occhiata più attenta, leggi nei suoi gesti, nello scattare saldo e veloce delle lunghe gambe, una volontà di ferro, una determinazione totale, una libertà che non accetta condizionamenti.
L’aspettavo.
E’ la mia migliore amica.
Ciao, che ti è successo?”
Sorride.
Niente. Sono fuggita. Dalla famiglia, dai parenti, dagli amici, dal marito, dalla casa, dalla mamma, dal buonsenso, dalle belle parole, dalle buone maniere, dalla pietà, dalla buona opinione di te, dal giudizio della gente.”
Hai scelto la giornata giusta!”

Ride.
Sì, hai ragione.”
Di che gente parli?”
Si fa seria: “ Di tutta. La gente… è come una grande medusa che ti immobilizza e ti mette paura.”
Sorride ma i suoi occhi temporaleschi sono duri.
La gente ha paura che tu te ne vada, che non sia schiava come lei. Ha invidia che tu possa volare, che tu possa non subire le sue catene. La gente non ti dice  “sii forte”, ti dice sempre “stai attenta”.
Quando la “gente” parla sento stridìo di ghiaia sul vetro e non ascolto perché so che mi toglierà energia.”
E’ lì ferma, in piedi sull’asfalto: corrono le nuvole e lame di luce improvvisa la illuminano.
E’ bella, solare, lontanissima.
A che pensi?”
Nulla”
Si capisce che non ha più voglia di parlare.

Se parli troppo, pensi meno.
Non si può parlare della propria vita: Parlare di sé rende vulnerabili: ascolti la tua voce e provi pietà per la tua anima nuda.
Camminiamo, vuoi?”
Sì, volentieri.”
So che le piace camminare, sprigiona energia compressa.
Il suo passo è lungo, veloce, prepotente e la fa sentire bene.
E’ stupenda questa città di ferro, dopo il temporale.
C’è un’aria tersa, pulita, lavata. Cammini ma ti viene voglia di correre.
L’asfalto è pieno di pozzanghere dove il cielo si specchia.
Saltelli tra l’una e l’altra e sembra di saltare tra le nuvole.
Corrono i pensieri. Pare quasi di vederli simili a cavalli fuggiti da un recinto troppo stretto liberarsi finalmente dalla prigionia.
Conosci la casa dove ci aspettano?”
Sì. E’ una bellissima casa grande e vecchia, solida e silenziosa.”
Verrà qualcuno?”
Oh, sì! E’ la nostra festa. Ci confideremo i nostri desideri, rimpianti, ricordi, la nostra vita. Verranno tutte.”
Confidenza.
Che parola soffice!
Pare cipria che assorbirà ogni lacrima.
L’aria è frizzante, punge e hai ancora voglia di una carezza tiepida che ti addolcisca la pelle, eppure… se respiri più profondamente, senti che quel lievissimo profumo di primavera che veniva da così lontano è già qui.
E’ finito l’inverno!
Il cuore si dilata perché sa di essere sopravvissuto ed è felice di avere un’altra stagione da vivere.
Siamo arrivate.”
Si sente un cicaleccio come di rondini in cerca del vecchio nido ed alzo la testa.
Ciao, siamo qui. Apri?”
Dai, mancavate solo voi. Salite!”
E’ importante il primo impatto.
Chino un po’ la testa per entrare dal portoncino e dentro c’è un cortile magico. E’ raccolto e silenzioso.
Corre una ringhiera elegante e sobria tutt’intorno e due piccole scale di ferro lo abbracciano come un bambino in cerca d’affetto.
La porta della casa sembra una grande bocca sorridente.
Entriamo.
Ecco la carezza che aspettavi!    

E’ un grande, splendente fuoco acceso che soffia tepore e… sono già tutte lì.
La sala è tiepida, ampia, accogliente, luminosa d’oro e tante donne tutte insieme, bisbiglianti e complici, creano l’illusione di una natura ricca e felice, di un mondo dove c’è ancora chi crede che un fermaglio ben messo tra i capelli e un colore tanto bello da desiderare di leccarlo… siano dei valori.
La poesia…
Senza la speranza del bello resta solo la fatica.
Non c’è nessuna regola ma il progetto tacito e desiderato fino allo struggimento è che ognuna di noi farà volare la “sua” piuma sul respiro del “suo” angelo e libererà l’anima “sua”.
Guarda… è come un petalo leggero che vola. Una piuma sì!
La tua anima, finalmente è libera.
Qual è, qual’era il tuo desiderio più inappagato, il rimpianto più doloroso?
Oggi è lì, svolazza davanti a te e l’aria è piena di fiammelle!
Si sente una tensione fortissima, un’aspettativa tesa fino quasi alle lacrime di liberare i propri desideri e sogni, di spezzare quell’atmosfera di falsa indifferenza per cui ognuna di noi fa cose insignificanti ma apparentemente urgentissime.
Si capisce che è lei che comincia.
E’ la sua giornata.

Ha già spezzato da prima le sue catene e certo non le può fare paura questo silenzio!
E’ emozionata, il viso quasi inespressivo per paura di essere travolta da tanto desiderio e bisogno.
Il cuore tumultuante come un fiume liberatosi finalmente dal ghiaccio che si precipita gonfio e cristallino verso il mare. La voce incrinata per timore di spezzare con un suono troppo aspro quel clima di amicizia e solidarietà che lì si respira come un balsamo necessario…
E’ la prima.
Non è facile.
Si appoggia a un tavolo carico di libri:

 “ Vorrei,
in un luogo bellissimo e caldo, ombreggiato e luminoso, azzurro e lilla, dolce e profumato, leggero e accogliente… essere nuda.

Sfiorata da un soffio di seta arancione e gialla, vorrei passeggiare lieve nell’aria calda, in un magnifico patio dove vorrei poter sentire dell’acqua limpida scorrere e frusciare tra pietre antiche.
Vorrei sentire la leggerezza morbida e soffice della seta  sulla mia pelle sana ed elastica.
Vorrei ascoltare solamente la mia felicità fiorire e vivere.
Vorrei aspettare un principe raffinato e colto, con la pelle marrone come incipriata e gli occhi neri, liquidi e splendenti, coperto di colori scintillanti e violenti, con un turbante sui capelli neri lunghi.
Vorrei che lui sapesse toccarmi e parlarmi con voce bassa e morbida come la sua pelle.
Vorrei che conoscesse tutto di me.
Vorrei che il suo unico desiderio fosse il suo piacere vissuto attraverso il mio e che si occupasse del mio in modo totale e autentico.
Vorrei che mi amasse come una cosa bella, come un autentico essere umano può amare consapevolmente un corpo, un cuore, un cervello, un pensiero…
Vorrei che amasse di me quello che sono riuscita a far fiorire in me stessa, vorrei che mi guardasse negli occhi e li amasse non perché sono azzurri, ma perché sono vivi, perché sono sopravvissuti a un mare di lacrime.
Lacrime di dolore, di umiliazione, di sopraffazione, di incomprensione…
Vorrei che con polpastrelli dolci e vellutati mi accarezzasse.

Vorrei che facesse scorrere la sua mano calda e partecipe sul mio corpo.
Agile, sottile, forte corpo intelligente, sopravvissuto anch’esso ai consigli cretini e alla sopraffazione di ogni persona che mi è stata vicina.
Vorrei che mi baciasse e vorrei sentire la vita entrare nel mio sangue attraverso le sue labbra.
Vorrei non sentire il tempo.
Vorrei dimenticare le ore, il freddo, il caldo, la realtà.
Vorrei non difendermi da tutto, vorrei non dover strappare il mio diritto a vivere ogni minuto della mia esistenza.
Vorrei non dover sempre dimostrare qualcosa, vorrei non dover sempre giustificare qualcosa, vorrei essere amata.
Vorrei che fosse rispettato il mio mondo interiore.
Vorrei che tu, splendido uomo bruno, vellutato e luminoso, non volessi niente da me se non il mio corpo e il mio piacere.
Vorrei mangiare piccole cose squisite e leggerissime, dolci e piccanti, vorrei bere del vino color rubino e perdermi in quel torpore liquido, inconsapevole che mi dà il vino.
Vorrei che tu, col corpo languido e lieve di chi ha vissuto fino al totale abbandono di sé il piacere dell’amore, della bellezza, della mitezza della natura, tu mi guardassi sorridendo… e che ci fosse nei tuoi occhi la comprensione, l’intelligenza della partecipazione sincera alla mia esistenza.
Vorrei che fossi tu, forte, lieve e coraggioso uomo bellissimo,testimone partecipe della mia vita perché vorrei sognare senza sentirmi spiata, vorrei piangere senza essere guardata, vorrei dire la verità senza essere presa per pazza.
Vorrei, ricca del calore del tuo sorriso dolcissimo, senza dare spiegazioni, andarmene a cercare un rifugio solitario, caldo e silenzioso.
Vorrei, forte dell’energia dei tuoi splendidi occhi ridenti e partecipi, essere libera di non rispondere alle frasi imbecilli degli altri, vorrei riuscire a tacere quando quello che sento è così stupido che mi fa inondare il cervello di sangue, di rabbia e di indignazione.
Vorrei essere calma.
Vorrei non sprecare sentimenti…

Vorrei non disperdere energie…

Ti vorrei… con me!”

E’ una donna d’aria. E’ sola.
Tace.
Il suono della sua voce è stata una cascata che ci ha fatto compagnia e ha calmato i nostri nervi.
Fa paura la sua richiesta d’amore.
Il silenzio che è caduto si tocca.
Pare un’enorme bolla di vetro che contiene il tempo e il respiro.
Il suo sogno è necessario e ha sempre pensato di offendere qualcuno esprimendolo.
Sempre, ogni volta che l’urgenza di un desiderio si faceva violento, doveva cacciarlo da qualche parte per paura di far male a qualcuno…
Feriva invece solo sé stessa e non vuol farlo più.
Sorride, gli occhi brillano come spicchi di cielo al tramonto.
Si prende il viso tra le mani.
Si legge l’anima sul suo viso e lei si vergogna della felicità che quella partecipazione le ha dato.

La stanza si anima. Ci guardiamo attorno. Chi sarà la prossima? I sogni di ognuna prendono corpo e coraggio ma rotolano precipitosamente nel cuore e fanno fatica a trovare la strada della liberazione.
Rannicchiata in una poltrona tra cuscini e plaids, è minuta, ironica, spiritosa… si difende sorridendo, si uccide educatamente pur di non annoiare.
Grandi occhi in un viso pungente.
Tutto ha negli occhi: la mitezza di un cerbiatto spaventato, la dolcezza di una bellezza non riconosciuta, il colore di un prato lontano e nascosto col rimpianto di non essere invaso da bambini e animali.
Non si alza. Si rannicchia un po’ di più ma la sua voce musicale e gentile come i sonagli dei neonati ti penetra nel corpo e ti dà felicità.

Vorrei volare.
Essere una rondine e volare lontano da tutto, libera nel cielo e nello spazio infinito.
Vorrei librarmi leggera sopra ogni cosa, stridere felice nell’aria tersa e celestrina del mattino, girare intorno a campanili altissimi e sottili, scappare con un misto di leggerezza e di paura dai rintocchi di vere campane eterne e lontane, rifugiarmi all’ombra di tegole dorate nelle ore calde e ritornare a sfrecciare a gola spiegata nei campi, raso ai papaveri e alle spighe di grano cariche, dove piccoli insetti saranno cibo per me e i miei piccoli.
Vorrei non essere così fragile e vulnerabile.
Vorrei riuscire a sopportare tutta la pesantezza che mi sta intorno.
Vorrei non sentirmi il cuore oppresso ogni volta che sento un bambino piangere e vedo il suo piccolo viso rosso di lacrime, gli occhi interrogativi e le piccole mani paffute annaspare in cerca di aiuto, piccole mani che esprimono bisogno e rabbia.
Vorrei capire perché ognuno di noi non si sente ucciso nel suo antico esistere di bambino, ogni volta che ne vede uno urlare di rabbia e di impotenza.
Vorrei riuscire ad allungare le mie mani verso di lui, abbracciarlo, accarezzargli il viso bagnato e i capelli sudati e non parlargli ma solo sorridergli e guardarlo in fondo agli occhi con amore. Ogni bambino capisce.
Vorrei avere il coraggio di farlo.
Vorrei non provare quel tremendo senso di impotenza e di miseria ogni volta che vedo un gatto randagio malato, spelacchiato e pauroso che ti gira attorno e sai che morirà senza di te e lo stesso non puoi fare nulla perché ce ne sono centinaia. Lui ti guarda con occhi chiari e io sono un po’ in quegli occhi malati perché c’è stato un momento della mia vita in cui anch’io ero un gatto randagio e nessuno mi voleva.
Vorrei non provare quella pietà dolorosa che mi serra la gola quando vedo un cane che corre in giro come impazzito perché non sa più cosa fare di sé. Poco prima aveva una casa, un padrone. Dove sono ora? Lo hanno perso? Lo hanno abbandonato? Cosa fare per lui?
C’è lui e domani ce n’è un altro, come fare? Cosa fare?
Io sono quel cane perché anch’io sono stata una volta, sola, abbandonata, ma ancora legata, bisognosa, dipendente da un amore che non mi veniva più dato.
Cosa mi aveva alienato quell’amore di cui avevo così bisogno?
E quel cagnone è come me: lui non capisce, gira, annusa tutti… possibile? Non mangia perché crede che il suo padrone arriverà! Aspetta e cerca. Voglio piangere per lui, anzi piango perché è mio fratello.
Vorrei non sentire tutto il freddo, la solitudine, la paura, il silenzio interiore che avvolge la vita di tutti questi neri agli angoli delle strade.
D’inverno, quando la nebbia è bianca, bagnata e gelida, loro sono agli angoli delle strade carichi di quelle piccole cose insignificanti, vestiti con giacchette minuscole e consunte e mi domando quale nostalgia deve consumarli per i loro luoghi lontani, caldi e colorati.
Mi domando: chi farà loro un gesto d’affetto? Dove hanno lasciato tutto questo? Perché?
Sono eleganti e flessuosi, scoppiano nei miseri vestiti che gli regali e ti stringono il cuore.
Perché, nonostante tutto, riescono a sorriderti ancora?
Perché quando gli metti mille lire in mano, ti toccano la mano?
Non riesco a immaginare il vortice di miseria, solitudine, ricatto, paura, in cui vivono e paiono nonostante tutto voler vivere.

Sì, sorridono e spesso cantano.

Vorrei imparare queste loro canzoni.
Vorrei non sentire quella tristezza che mi fa scappare quando penso che moriranno di gelo quando il freddo esterno si unirà a quello interno e mi chiedo: come faranno?
Quando perderanno la speranza di farcela, che ne sarà di loro? E il mio non agire, il sentire così bene la mia pochezza rispetto al dolore, alla sofferenza, alla solitudine che mi sta attorno e nonostante tutto vederla con una limpidezza che non mi permette di sfuggire a nulla, mi rende fragile e sofferente. L’indifferenza altrui, lo spropositato valore dato a cose che non ne hanno affatto e la superficialità con cui sono affrontate cose che hanno un valore enorme, il capovolgimento totale dei significati della vita, mi fa male al cuore. Vorrei avere la forza di affrontare più radicalmente la mia solitudine.
Vorrei non ascoltare più parole inutili, discorsi superficiali e nonostante tutto complicati, vorrei avere la forza di sfuggire ogni occasione imbecille perché so di essere di aiuto ai cretini, ma loro mi uccidono.
Vorrei non dividere con nessuno la gioia di un bel film che mi parla come un amico.
Vorrei non dividere con nessuno le musiche che amo perché quando entro in esse è come se più nulla della vita mi soffocasse.
Vorrei aprire le finestre la mattina sul cielo rosa delle albe primaverili e cantare senza dover spiegare a nessuno perché lo faccio.
Vorrei leggere fino a farmi scoppiare la testa senza che nessuno mi aspettasse da qualche parte.
Vorrei imparare a liberarmi dalla fisicità degli altri.
Vorrei imparare ad ascoltare chiunque, vorrei imparare a stare con chiunque e nonostante questo a non farmi schiacciare dal loro esistere.
Gli altri sono il mio inferno.
Vorrei distaccarmi da tutto questo perché ruba energie e voglia di vivere. Il mio odio per gli altri è proporzionale alla libertà che mi viene sottratta.
Perché sento questo bisogno massacrante di difendermi con le unghie e con i denti?
Vorrei imparare a non prendere sul serio tutti gli stupidi dell’universo perché questo mi consuma: so che vinceranno e lotto disperatamente perché non sia vero.
Vorrei essere più leggera per sorridere della pesantezza altrui.
Vorrei andare finalmente fino in fondo.
Vorrei non provare quella furia selvaggia che mi offusca anche la vista quando chi dice di amarmi cerca di far corrispondere il mio pensiero, i miei gesti e le mie parole a un suo bisogno.
Vorrei saper arginare l’ira sanguinaria che mi scuote fin dalle fondamenta quando chi dice di amarmi vuole banalizzare il mio pensiero per ridurlo al suo livello di comprensione. Mi distrugge dover lottare per difendere la totalità del mio esistere. Perché dovrei lasciare che si faccia scempio della mia integrità?
Perché?
Vorrei imparare a fuggire.
Vorrei imparare a non aver bisogno di accontentare tutti.
Vorrei salvarmi…
Vorrei che la mia intelligenza non mi rendesse fragile.
Vorrei che fosse la mia più grande sorgente di vitalità.
Vorrei attingere ad essa con più sorridente leggerezza.
Vorrei sapermene andare ovunque, senza bisogno di portarmi dietro qualcuno.
Vorrei liberarmi da quella continua ossessione che mi prende di cavar sangue dalle rape.

Vorrei non fare questo perché è faticoso, inutile e ingiusto.”

Ride. Male. Ha il riso contratto e forzato di chi ha paura e spera, ridendo, di ammansire il nemico. Teme di aver rotto un incanto.
La discrezione.
Non sa che è la sua vera, unica malattia e che purtroppo è infettiva.
Siamo intimidite. Bisbigliamo curiose e aspettiamo.
L’intimità è una vittoria ancora lontana.
Lei cammina nervosa tra divani e poltrone seducenti in modo imbarazzante. Si siede su un alto sgabello accanto a una magnifica voliera barocca.
Bianca, sterile come lei, sigillata e vuota.
Niente può uscire da quelle fittissime sbarre perché a nulla è concesso entrare.
E’ una donna d’aria: anche lei malata di discrezione.
Veste sempre di scuro per essere sobria.
Un abito rosso ferirebbe il suo corpo invisibile, come una pugnalata.
E’ rigida, immobile.
Sembra che da un momento all’altro la crosta di creta che copre l’antica fusione si stia sbriciolando per lasciar finalmente vedere il caldo rosso, splendente del bronzo, ma non si crea mai la situazione perfetta perché questo miracolo avvenga. Si immagina una bellezza che non si dichiara e quello che si vede è screpolato e fragile.

Ondeggia lievemente il mare dei nostri colori e profumi perché nessuna di noi poteva credere che avrebbe parlato.

Vorrei ritrovarmi nella mia stanza di ragazza.
Eravamo adolescenti. Pareva di non conoscere i sentimenti perché non sapevamo dare un nome a quel turbinìo che ci rendeva come ubriachi…
Cos’era? Pareva quasi un malessere.
Leggevi mille storie d’amore…
Erano parole lontane, scritte in una pagina…
Ma cos’era veramente?
Entrasti in quella stanza e mi sembrò improvvisamente piccolissima. La tua presenza la invadeva tutta. Eri mobile sulle gambe come se non avessi voluto stare pesantemente appoggiato a terra. Eri sorridente, un po’ sornione.
Era come se ti scusassi di occupare così tanto spazio.
In verità, era dentro di me che occupavi tutto.
Inconsapevolmente lo sentivi e volevi renderti il più leggero possibile.
Mi regalasti un disco e lo ascoltammo insieme. In piedi.
Io appoggiata al mio tavolo di studio, tu semplicemente in piedi, cercando di essere leggerissimo.
Ascoltavo.
Il cuore mi volava… la musica era stupenda, ti amavo… ero felice.
Fiorì e morì il nostro amore.
Passarono anni.
Una mattina…
Stavo entrando in un albergo. Spinsi la porta e tu eri dall’altra parte.
Tutto il sangue mi sparì dalle vene. Quanti anni erano passati? Mille.
Sorridevi. Avevi ancora quell’aria ironica e leggera che mi seduceva. Mi guardavi attento.
Ti ho riconosciuta mentre attraversavi la strada dal modo in cui tendi le gambe nel camminare. Ti ho aspettata.”
Credo di aver solo sorriso perché l’emozione non mi consentiva nient’altro: né una frase, né un movimento. Altre due parole insignificanti e te ne andasti.
Rimasi impietrita, come fulminata. Feci fatica ad articolare le gambe e mi ci volle un tempo lungo come una marea per riprendere l’uso della voce.
Ero invasa da un’emozione così violenta che tremavo.
Devastante era la lotta tra il mio corpo immobile e paralizzato dal terrore e la violenza scatenata nella mia anima dal desiderio che avevo di te.
Nulla capivo allora di questo…
Ero in quell’albergo per prepararmi al mio matrimonio e già sapevo che era una scelta disgraziata.
Quando rientrai, alla sera, c’era un biglietto nella casella della mia stanza… il tuo nome e il numero della camera…
Oh, vorrei essere venuta davanti alla tua porta!
Anche allora avrei voluto. Sapevo anzi che dovevo farlo.
Tutto il mio corpo, il mio cervello, tutta me stessa correva verso di te.
Oh, se avessi bussato a quella porta!
Avrei visto il tuo viso ironico e sorridente, mi avresti presa per mano e mi avresti fatta entrare.
Sento l’emozione, quella che si crede paura e invece è solo l’esplosione della felicità, il desiderio di fare quello che si vuole, la  libertà di essere sé stessi che inebria e terrorizza. Si confonde la voglia di vivere con la disobbedienza e il terrore di sbagliare.
Per evitare l’ignoto e lo sconfinato spazio della libertà, si rinuncia a vivere.
Dovevo andare perché era quello che volevo e anche allora, fragilissima, sapevo, come un batuffolo di polline conosce qual è il suo fiore, che lui volevo, solo lui desideravo.
Ma non sapevo cosa fosse la parola “ desiderio”.
Confondevo quella paralizzante emozione con il terrore di fare  una cosa proibita.
Non sapevo allora che quel cuore impazzito dentro di me, era semplicemente la parte vitale di me stessa.

Venne poi il momento in cui capii…
Seppi allora che quella forza non era devastante, come credevo,  ma era necessaria.
Vorrei… aver bussato a quella porta e aver preso la tua mano calda.
Vorrei averti guardato negli occhi, vorrei aver avuto coraggio.
So che avresti parlato: mi avresti baciata.
Ricordi? Sento il desiderio di quel bacio, sento il suo calore come una lingua di fuoco che mi invade lentamente.
Quella fiammata cancella ogni conto sospeso.
Sarei stata nelle tue mani…
Avresti inventato per me una giornata splendente.
So che avresti saputo cosa fare.
Ecco, mi baciavi leggermente il collo:
Ti ho aspettata… vieni.”
Mi avresti spogliata e solo il soffio leggero dell’aria intorno a me, mi avrebbe fatto sapere che ero nuda.
Sento una leggera striscia di calore avvampante. Sono le tue mani grandi e calde.
Le tue labbra scendono dal collo al mio seno..
Tondo seno duro da adolescente. Lo baci.
Non sono più in un luogo reale. Sono solo in te. Ti amavo.
Mi piacevi. Sono sdraiata in un mare bianco: entra il sole dalla finestra e tu mi sorridi.
Sei bella.
Sei una perla dimenticata.
Adesso sei mia.”
Mi accarezzi.
So che saresti morbido, caldo, avvolgente come il sogno di una cosa magnifica.
Ero vergine e volevo vivere con te l’emozione accecante di sentire il tuo sesso forzare una parte di me che era lì solo per te.
Vorrei, vorrei, vorrei essere lì con te, vorrei sentire il primo orgasmo della mia vita travolgermi perché questo mi renderebbe forte e libera e la mia vita sarebbe diversa. Vorrei prenderti il viso tra le mani e baciartelo piano, piano… leccarti un po’ gli occhi, sfiorarti la fronte e il mento e sprofondare le mie labbra calde di un desiderio quasi famelico nella tua bocca umida e sapiente.
Vorrei sentire il profondo sospiro di piacere che con il tuo corpo sei riuscito a strapparmi perché in quel suono, come una bolla iridescente, fluttuante sopra di noi, c’è tutto il mio dolore passato, c’è tutto il tempo che ci ha separato, c’è tutto l’odio per chi ha voluto togliermi la voglia di vivere, c’è tutta la parte debole e paurosa del mio cuore che altri hanno voluto coltivarmi per avere ragione della mia vera forza e voglia di vivere.
E vorrei sentire il tuo urlo di piacere perché quello è solo per me, per il mio corpo, per il mio viso, per i miei occhi che ti sorridono, per la mia bocca che ti mangia.
Saprei allora che quell’urlo mi dice: “ Tu mi rendi felice.”
Se ti perdi in me, io esisto.
Poi… Non vorrei essere più lì.
Nessuna parola, promessa, impegno. Nulla.
Sogno di felicità, nessuna storia.
Le storie sono realtà e la realtà è… piombo…

Piange.
Lei piange e un miracolo è avvenuto.
Le lacrime hanno sciolto l’argilla attorno ai suoi occhi ed ecco, quelli che ora vediamo non sono più quelle biglie di vetro gelido.
Sono due tenerissimi, imploranti, splendenti occhi neri dilatati e supplicanti.
Sorride: le labbra bagnate sono di seta, si stacca dalla sua voliera e si lascia prendere in un dolcissimo abbraccio.
E’ come se il vento avesse spalancato la finestra e fosse entrata una folata d’aria fresca e marzolina a farci stringere l’un l’altra per trovare riparo.
L’emozione è fortissima.
Ci prende tutte alla gola che fa male nel tentativo disperato quanto dannoso di trattenere lacrime e ricordi per la paura di soffrire.
Per fortuna c’è anche una figlia, lì in mezzo, ed è meno compromessa.
Avrà vent’anni, non è bella ma viva.
Ha un sorriso indifeso e gentile che ti lascia sperare che avrà fiducia in te.
Si vede dalla morbidezza delle sue spalle che ha ancora l’inconsapevole certezza di trovare un mondo che l’accoglierà.

Cammina per la stanza e ci guarda o forse siamo noi che speriamo di trovare nei suoi occhi la conferma che forse ci siamo sbagliate e possiamo, anche noi, trovare comprensione.

Vorrei
ballare. La danza è sempre stata la mia passione.
Samba, tango, valzer, flamenco…

Ballare… ovunque.
Un’arte. So che sarei stata un regina.
E’ una passione che sento esplodermi nel cuore. Lì, dove batte, si spande tutta la mia vita.
Lo sento come un fiore forte, felice e violento che preme, preme per salire, salire ed esplodere nel cervello e dal cervello al corpo.

Tutto il mio corpo vibra, le gambe si muovono, il cuore batte all’impazzata, il pensiero vola…
Voler ballare e non saperlo fare è come essere muti e aver bisogno di urlare il proprio amore.
Amo quella musica un po’ animalesca e calda, che sa di sudore e di forza, la musica del sud, musica di sole, colore, musica che batte nel cuore, nel sangue, nella gola.
L’altra parte di me.

Devo, a volte, correre in vetta a una montagna che bacia il cielo, le nuvole, il freddo siderale del silenzio totale, per avere spazio, per non sentire più nulla, per essere così sola da poter sperare di essere l’unico essere al mondo e poi… Quando la testa quasi mi esplode perché un pensiero unito a un altro e a un altro ancora mi portano a una preveggenza di cristallo, a una spietatezza che mi uccide, quando questa collana di pensieri mi rende evidente dove arriverò, quando capisco che lentamente, ineluttabilmente, quello che credevo l’ignoto è chiaro e doloroso come una punta di diamante, il cervello e, di più, il corpo, cominciano ad avere paura.
Devo allora precipitarmi giù e buttarmi in mezzo alla gente che ascolta solo il mio sangue.
Sento questa musica carnale e dolce che mi avvolge, mi butta in mezzo a corpi altrui e ritrovo finalmente il mio.
Improvvisamente ho bisogno di quel calore.
Il corpo si muove, la musica mi prende totalmente.
Ballo, ballo, devo ballare. Non importa come, dove e con chi, voglio solo dimenticare la mia mente e ascoltare il mio corpo. Lui è più buono, anzi è generoso, morbido, accomodante e disposto alla tolleranza.
Vorrei… vorrei pensare con la testa o col corpo?

Come conciliare mente e sangue?
Quando il pensiero va, il sangue batte solo nelle tempie: tutto è contenuto. Ci si muove con attenzione e precisione.
Nulla è dato al caso, nulla è fortuito. La mente non dimentica e non perdona.
Lei ti chiede conto delle tue azioni, ti chiede conto di tutto, anche dei sogni… è uno strumento perfetto, sofisticato, crudele.
Il corpo è caldo e scusa ogni cosa.
Se vuoi, ti dà un benessere che ti rende buona e conciliante. Cos’è più inebriante?

L’attimo in cui il pensiero coincide con la vita, quando tutta la catena di una serie di pensieri si unisce e forma uno strumento perfetto o l’attimo in cui ascolti una samba che ti invade il corpo, il sangue esplode dentro di te e tu vuoi solo muoverti in armonia totale con la musica e il battito del tuo cuore?
Oppure la vera, unica felicità è far coincidere quel pulsare del tuo sangue lì, dove batte il cuore, con il battito doloroso che hai alle tempie?

Oppure è vero che puoi amare Mozart e il flamenco e che insieme sono la felicità? Perché vogliamo scegliere tra cervello e carne, quando l’importante non è chi vince, ma… l’armonia.
Il cervello aiuta il corpo a espandersi.
Senza pensiero non capisci il corpo. Ma se temi il sangue che ti scalda, che ti fa sudare, che ti batte e avvampa nel ventre, nelle reni e si spande violento in tutto il corpo, se non lo lascerai mai arrivare liberamente e sinceramente al cervello, ti divorerà quell’ansia che non sai da dove viene e ti uccide. Lì, dove deve essere il tuo pensiero, lì deve arrivare il battito del sangue e allora mente e corpo finalmente si incontreranno.
Nessun pensiero può costringerti a mettere il bavaglio al tuo corpo.
Se veramente sei libero anche il tuo corpo deve correre, espandersi e non vergognarsi.
Vorrei abbandonarmi a questa musica sudata e gonfia di ritmo.
Quando finalmente sentirò il mio cuore battere con la musica, quando la mia mente non farà più nessuna resistenza perché saprà che quel ritmo, quel calore le appartiene, le fa bene, scioglie dolori e orrori, rancori e odi, quando non mi vergognerò più di ridere, di piangere, di sudare, di essere bagnata, io sarò felice.
Finalmente vi perdono tutti: genitori, amici traditori, amanti sanguisughe, gente perbene, intellettuali sterili e frigidi e vado nel mondo e sono armonica, bellissima, equilibrata, perfetta…

Perfetta come un papavero in un campo di grano,come una farfalla su una rosa rossa, come una lucciola che palpita nella notte, come una spremuta di limone in un bicchiere ghiacciato sporco di zucchero, come un pomodoro maturo mangiato a morsi sotto il sole d’agosto… e via… via, perfetta come la vita, perfetta come la natura, come l’amore che contiene tutto.”

Fuori è cambiata la luce. L’imbrunire, lievemente, leggero e frusciante, avanza e attutisce ogni colore e luce. Amo questa parola. Pare una rara pietra preziosa cangiante come il benessere del corpo.
E’ blu splendente quando sei carica di energia e di riposo e rosso rubino quando ti senti ricca di progetti e tensioni. Diventa viola quando hai bisogno di riposare occhi e pensieri e in quel colore puoi buttarti come in un fresco piccolo lago montano. Infine è una perla scintillante che illumina il cielo… quando sei stanca.
Ondeggia la nostra piccola comunità di corpi morbidi e colorati e si accendono qua e là delle luci.
Poche, soffuse… sono le ombre che contano. Dove tutto è illuminato regna sovrana la volgarità e il rumore.
C’è chi aggiunge legna al camino, il fuoco crepita leggero e piccole scintille svolazzano dandoti la sensazione di una festa.
Com’è bello il fuoco.
Lui parla.
Posso ascoltarlo delle ore. Non dice parole, parla d’amore. Sorride, corre, si arrabbia e scappa, sempre ritorna e ride, ride anche di sé, sussurra, ma vuole stare solo.
Amo la sua pericolosa selvatichezza.
Ti dà gioia… ma devi rispettarlo.
E’ timida.
Ha una voce fonda, quasi da maschio e i movimenti leggeri e trattenuti di una bambina intimorita.
Ha i capelli a volte rossi, a volte biondi, li pettina arruffati o lisci, li tira o li abbandona, pare che giochi con loro il terreno della sua libertà.
Non oserebbe mai giocarsela con un vero, durissimo, inappellabile NO.
Ride e c’è una punta di volgarità nella sua gola.
Ti guarda e ti viene voglia di abbracciarla per darle forza e rassicurarla che è degna d’amore anche con quella fiammella volgare nel fondo.
Non si riesce a convincerla che non l’avrebbe più se lasciasse più libero il suo corpo.
Pare una donna di terra ma non è vero.
E’ donna d’aria obbligata a stare ancorata al suolo.

Accende una sigaretta:

Vorrei averti scritto:
 Ti amo perché sei giovane come l’aria. Il tuo viso ride e con lui ridono gli occhi, la bocca, la pelle e tutto si illumina. Il tuo corpo è magro, nervoso e impaziente come il tuo bisogno di vivere e di capire.
Parli, ti guardo e arrossisci: cos’è?
Amore, timore, pudore?
Ti guardo e il cuore mi si apre. Mi invade una tenerezza, una voglia di soccorrerti… o è solo il pudore che mi fa chiamare tenerezza un desiderio di te così violento che mi fa arrossire al buio?
Ti guardo e il mio cuore corre verso di te, il mio corpo ha bisogno del tuo calore, della luce che emani, della tua voce che mi entra nelle orecchie, nel cervello, nei nervi.
Ti guardo e non ho più voglia d’altro, ma solo di fermare quell’attimo in cui i tuoi occhi nocciola mi si conficcano nella carne e non mi danno tregua.

Fermare quell’attimo e dirti “ Ti amo”.
Nient’altro è così vero come questo. E’ come un bisogno biologico, è un desiderio delle tue speranze, del tuo tempo, della  vita che hai davanti, è un bisogno di ridere e correre, di non pensare alle cose dei grandi, ma di ascoltare sé stessi.
Ti vengo vicino come per caso e ti sento.
Sento il calore che emani, l’odore della tua pelle e ho voglia di toccarti.
Baciami, dimmi “ Ti amo” e tutto si fermerà.
Il mondo gira ma noi non siamo più lì, noi li lasciamo correre, gli altri.
Noi ci fermiamo.
Dammi la mano: credo che in quell’attimo sarà come se due stelle che per mille anni hanno vagato all’infinito si ritrovassero finalmente e sarà la perfezione.
Piangerò o riderò? Riderò.
Riderò di gioia, di felicità, di una pienezza ritrovata. Riderò perché non ho voglia di commuovermi ma ho voglia di essere felice.

Mi gorgoglierà la gola.
Svanirà il cuore dolorante e finalmente, respirando la tua voce, appoggiando il mio viso sulla tua spalla, così vicino da sentire il calore del tuo collo, mi si libererà quel cuore bambino felice e poeta che ho dentro di me.
Ti amo perché quando ci sei non vedo neppure il cielo e il sole l’ho dentro di me. Quando non ci sei, non c’è più nulla.”

Abbassa la testa e spegne meticolosamente la sigaretta quasi non fumata.
Le batte il cuore fortissimo e si vede nella pelle sottile che pulsa violenta ai lati della gola.
Pare un passero fuggito da un gatto…
Canta a gola spiegata e vibra tutto il suo piccolo, dolcissimo corpo.
Solleva il viso non ancora disteso, arrossato di emozione e di supplica
Non ho finito.”

Pare che lei stessa sia spaventata dalle sue parole.
Forse è la prima volta che impone un autentico bisogno che le appartiene.
Ha bisogno di confidarsi.

Noi siamo con lei.

Vorrei
avere vent’anni.
Vorrei avere quella loro pelle umida e tesa.
Vorrei essere leggera, inconsapevole, priva di legami e ricca di progetti e sogni.
Vorrei avere la consapevolezza di me che ho oggi e poter affrontare il mondo, la gente, le sorprese, i sogni, con la forza e l’entusiasmo dei ragazzi.
Vorrei saper ridere col cuore, col corpo, col cervello ed essere allegra ridendo.
Oggi rido solo con la bocca, anzi… forse non rido più.
Vorrei piangere quelle lacrime immense e limpide della giovinezza, lacrime che lavano il cuore, alleggeriscono l’anima e quando sono tutte versate lasciano il cuore libero e leggero.
Le mie lacrime d’oggi sono una disperata richiesta d’amore.
Opprimente, perché inascoltata.
Bagnano, sono calde e immense ma mi lasciano sfinita, consapevole della mia solitudine e del mio dolore.
Perché sono così sola?
Vorrei ancora credere alle cose con fiducia e spensieratezza.
Vorrei credere che troverò l’anima mia gemella che mi compenserà di tutti i dolori.

Vorrei sperare che ancora troverò in un angolo mio padre che mi aspetta e mi abbraccia. La sua voce…
Spero, spero sempre.
Spero nell’armonia completa.
O forse sono così stanca perché so ormai di sperare l’impossibile.
Vorrei avere vent’anni per trovare la forza e il coraggio di sopportare l’attesa della speranza.
Vorrei avere un punto, una mano tesa, un sorriso, una voce che mi dice: “ Sono con te.”
Vorrei un brandello di qualcosa di confortante, carezzevole e dolce a cui attaccarmi per non temere di morire.
Vorrei non avere il corpo così stanco, come bastonato.
Corpo sfinito da una lotta titanica contro l’imbecillità, l’ebetudine, la pigrizia, la cecità di chi ti sta vicino, non capisce e non solo non ti ama, non ti accetta, ma lotta contro di te.
Vorrei non avere il corpo dolorante di solitudine e di fatica nel cercare, nonostante tutto, di pensare, di alzarmi dal suolo, di avere la forza di non farmi travolgere dalla “realtà”.
Fatica massacrante di salvare la mia integrità, la mia raggiunta chiaroveggenza, fatica a controllare il bisogno di fare un urlo primordiale per scacciare da me tutti questi feticci e parole, pensieri convenzionali e pessimi.
Vorrei allora non avere più nulla di questa consapevolezza ed essere lieve come una fanciulla che crede che le stelle siano brillanti, che gli uomini siano principi, che le mamme siano lì per te.

Vorrei avere quell’età in cui ti rifugi ancora nei sogni… Vorrei forse vivere così leggermente che sarebbe meglio morire…”

Lacrime limpidissime le scendono fino alle mani belle e forti.
Gliele prendo e le bacio.

Tutte applaudono.
Qualcuna mette un disco, è un valzer.
La faccio ballare. E’ bella, non si vergogna … è libera.
Giriamo, giriamo, giriamo, siamo ubriache, la musica è stupenda.
Mi butto sul divano viola e vedo la foto di mio figlio.
Lui è la mia opera d’arte.
La prendo e devono ascoltarmi ancora perché è come un uragano il bisogno di parlare di lui.



Vorrei
averti amato di più e meglio.
Vorrei aver dimenticato di più me stessa per correre in tuo soccorso. Nessuno mi ha aiutata, bambino.
Tu, tu piccola creatura, tu mi hai insegnato tutto.
Volendo amarti veramente, ti ho ascoltato. Ed è avvenuto il miracolo. Ascoltando te, ho scoperto me stessa.
Tu hai aiutato me e io oggi so, grazie a te, a quali mancanze, offese, stupidità devo riparare per lasciarti libero e forte alle porte della vita.
Ti ho voluto.
Ti volevo inconsapevolmente. Non potevo immaginare di morire senza lasciare nulla di me.
Ma era un desiderio astratto.
Ti ho concepito su una spiaggia solitaria, con i piedi in un mare cristallino e quando il piacere che provavo fu così grande che mi invase i pensieri, aprii gli occhi e un barbaglio di sole d’agosto mi lampeggiò sul viso.
Ti ho incontrato per la prima volta su uno schermo.

Si vedeva una nebulosa che girava in tondo.
In mezzo galleggiava una piumetta e da quella piumetta palpitava ritmica, una stellina…
Era il tuo cuore.
Il tuo cuore.
Vivevi.
Fu un’emozione che mi stordì… e già ero sola con te, con la tua crescita, con la mia fatica, con la mia volontà, con il mio amore.
Nessuno condivise allora la mia emozione.
La tua esistenza mi faceva bene: ero bellissima e ricordo il giorno in cui mi fecero ascoltare il tuo cuore. Sentivo il mio lontano e il tuo vicinissimo, lo seguivano con una macchinetta e io ti ascoltavo mentre ti muovevi dentro di me.
Avevo in me due cuori.
Attraversavo la strada e pensavo: “ Sono immensa, sono infinita. Ho due cuori. Sono immortale.”
Non ero felice. Ero perfetta.
Ti devo questo. Il tuo esistere ha dato vita al mio. La tua vita mi ha reso immortale.
Grazie, bambino. Grazie  di essere nato.
Il tuo venire al mondo è stato un premio. Non sapevo nulla di me.
Chi poteva ricordarsi chi ero? Mi vedevo allo specchio e credevo di esistere: invece scoprii me stessa in te.

Tu, piccolo, caldo, esigente fagotto tra le mie mani, eri la me stessa neonata. Ogni piccolo neonato è l’origine di un uomo adulto disintegrato, ignaro, dimentico della sua volontà, del suo vero esistere, di sé stesso.
Vivendo quotidianamente con te, tenendoti appoggiato al mio seno mentre ti allattavo, guardandoti sempre, continuamente, fioriva dal mio cervello, dal mio cuore, la me stessa bambina, autentica, dimenticata, cancellata: quella che non sapevo neppure più potesse esistere.
Sentivo tutte le offese subite. Mi invase una marea che mi fece piangere per me stessa.
Cominciai a ricordare chi ero: a sentire com’era il mio corpo piccolo, a soffrire l’impotenza della mia pochezza e la sopraffazione degli adulti. Cominciai ad aver pietà di quella bambina che ero stata ed essendo invasa da infiniti ricordi e dolori cominciai ad amarmi.
Ti guardavo, morbido, tenero, indifeso, fiducioso, abbandonato al sonno e al benessere del latte, con le tue rosa, dolcissime, paffute guance ombreggiate dalle lunghe ciglia ombrose e piangevo per quella che ero stata e per l’amore che non mi aveva confortata.
Lentamente avevo imparato a staccarmi da me stessa bambina con un senso di fastidio per le mie lacrime, la mia durezza, la mia solitudine, la mia selvatichezza.
Con te fra le braccia, provai, per la prima volta, solidarietà per quella bimbetta magra, amara e difficile. Sentivo fisicamente il mio corpo correre in soccorso di quella bambina e provavo fierezza per lei.
Stando con te, piccolo mio bambino, un giorno fui solidale con l’antica me stessa e seppi che ero una bambina forte, fiera, piena di dignità, oltraggiata e offesa in modo brutale e ignorante.
E più riuscivo ad amarmi, più provavo solidarietà e amicizia per te, mio piccolo bambino. Più sentivo la dignità e la forza del mio antico esistere, più ero certa di che cosa dovevo fare per rispettare la tua vita e per farla rispettare dagli altri. Più smascheravo le ipocrisie e le cattiverie altrui verso di me, più il mio cuore volava verso di te con solidarietà, amicizia, comprensione, rispetto.
Ti devo questo.
Grazie. Grazie di vivere.
Vorrei non dimenticare nulla di te.
Vorrei ricordarmi sempre il tuo esistere fisico. La tua piccolezza quando eri neonato, la tua fragilità, il tuo abbandono totale nelle mie braccia.
La tua misura quando cominciavi a camminare, quando, felice perché ti consentivo di correre sul marciapiede, mi baciavi la mano che ti aveva lasciato libero.

Vorrei ricordarmi il tuo peso, il tuo viso, i tuoi sguardi. Vorrei ricordare per sempre il tuffo che sentii al cuore il primo giorno che le tue ascelle odoravano di muschio, odore già di uomo.
Amore, amore, bel bambino, cresci… cresci… te ne andrai…
Vorrei che ti restasse nel cuore il grande rispetto che mi hai insegnato ad avere per me stessa e che io, ora, ho per te. Vorrei ricordarmi tutte le tue frasi.
Stai per addormentarti, tendi le manine verso il mio collo e lo circondi. Oh, devo ricordare quel leggerissimo calore delle tue piccole mani…
Mamma, le tue braccia e le tue gambe sono come raggi di sole.”
Mamma, tutti i tuoi vestiti sono morbidi come quelli delle fate.”
Mamma, mammella, come sei bella!”
E mi accarezzi il viso con le manine come se fossi un frutto su un albero: i tuoi occhi sono grandi, dolci, ridenti.
Vorrei non essere stata mai impaziente.
Perdonami.
Tutto corre così veloce, non si ha tempo per nulla e si vuole avere tutto.
Vorrei rallentare i miei passi, i miei movimenti e ascoltare tutto quello che dici, fare tutto quello che mi domandi.
Non mi chiedi mai nulla di casuale, stupido, approssimativo: tutto ciò che fai è giusto, leale e sincero.
Io ti ammiro. Sei migliore di me.
Più equilibrato, più giusto e più paziente.
Mi perdoni tante cose e io te ne perdono così poche.
E’ come se continuassi a darmi dei colpi sulle mani per punirmi  di tutte le rigidità, le prepotenze, i nervosismi, le collere, le impazienze che riverso su di te, perché
io”sono rigida, prepotente, nervosa, collerica, impaziente; tu sei forte, dolcissimo e talmente ragionevole…
Non ti imbroglio mai e tu mi ripaghi con una generosità che spesso mi meraviglia. Mi parli come io parlo a te: sei così risoluto e leale che la mia pochezza mi fa piangere.
Mi domando: sarai troppo grande?
Mamma, guarda, leggi, dimmi, tocca, ascolta…”
A volte sono sopraffatta, mi pare di non farcela.
Sono stanca, ho voglia di silenzio, ho voglia di me.
Ma tu mi prendi con quelle tue manine morbide e sono con te, sempre, al limite estremo delle mie forze.
E nonostante tutto, sempre, mi pare di non fare abbastanza, soprattutto di non essere abbastanza calma, di essere troppo egoista, sempre penso che posso ancora rinunciare a qualcosa di mio per te, perché so che non è una rinuncia.
Le cose essenziali sono pochissime.
Butto via queste migliaia di piccole “ cose” e mi dò completamente a te e divento ricca, sempre più forte, sempre più coraggiosa e felice.
Mi abbraccia, ride, nasconde il viso morbido e tenero nel mio collo, si copre il viso con i miei capelli.
Mamma, ciao! Mamma, hai vinto!”
Si alza. L’energia della vita scelta, la forza degli impegni portati a termine la rendono così ricca di vitalità che la vasta sala sembra piccola per lei.
E’ luminosa e ridente come la luce. Giallo è il suo colore, il colore del sole.
Finge di ballare: le gambe non possono fermarsi…
Ansante si appoggia al pianoforte.
Oh… sì! Lo ama.
Il suo suono che corre come lacrime, sono gocce di rugiada sulla sua anima riarsa di solitudine.
Strimpella, ma leggere le note come un libro diverso e criptico e farne corrispondere dei suoni la rende orgoglioso e felice.
C’è una grande, sofficissima pace. Lei è seduta alla scrivania. E’ la sua isola, contiene tutto ciò che ama.
Ha l’aspetto concentrato e attento. Il suo lavoro le ha dato quel modo di essere che è ormai la sua natura.
Sembra sempre un poco sospesa e in ascolto.
Una piccola lampada liberty, elegante e lieve, di colori solari le illumina un cespuglio di capelli ricci, folti, energici che le vestono il viso forte e intelligente.
I suoi occhi sono fermi, la sua voce è dolce, un po’ fonda, riposante. L’ascolti e ti pare che il frastuono intorno si placherà.
Si ha l’impressione che le parlerai, le racconterai mille cose e tutto questo turbinerà in un brusìo che alla fine arriverà al suo viso serio, disponibile e lei capirà.
Dai… dai… dicci qualcosa. Parla di te!”
Si schermisce.
E’ talmente abituata ad ascoltare che temiamo non parlerà.
Non è facile capire se non sa parlare di sé perché troppo carica delle mille storie altrui, o se quel suo essere così misurata è una diga gentilmente e lentamente costruita per il timore dell’esplodere di tutto il suo vissuto.
Ha un bel sorriso, contenuto.
Accende una sigaretta: si fa un silenzio di velluto rosato e l’ascoltiamo.

Vorrei
sentire dentro di me la tua voce… di più, di più. Non dimenticarla mai.
Arrivasti a una riunione scolastica molto in ritardo. Si sentì aprire lentamente la porta. Tutti guardarono verso quella porta e tu entrasti. Eri alto, lieve, solare. Sorridevi. Ti scusavi silenziosamente con lo sguardo. Ti guardai: eri una persona. A un tratto parlasti e quella tua voce sorda, di gola, ruvida, l’ho ancora nelle orecchie. Poteva essere una voce dura, pesante. Ma tu l’accompagnavi con un viso sorridente, timido e con gli occhi scintillanti, intelligenti, timorosi, come di qualcuno che deve sempre scusarsi di qualcosa.

Pensai a te tornando a casa, pensai a te prima di dormire: decisi di rivederti.
Andammo a cena.
Sapevo che mi amavi quella sera stessa.
Passammo una magnifica serata in un piccolo posto fumoso e  scuro di legno. Irresistibile.
Mi chiedesti la storia della mia vita. Eri leggero, vitale, magrissimo, sorridente, caustico, faticoso.
Non per me, la pensavo assolutamente come te.
Io parlavo e ti brillavano gli occhi… mi ascoltavi, no, bevevi le mia parole perché non erano quelle che volevi, ma le mie labbra. Io sentivo quell’elettricità, simile a un tremito che mi scuote leggermente il corpo quando il desiderio di un uomo mi avvolge indiscutibilmente come una ragnatela d’oro elettrica.
Ridevo, parlavo, tu ridevi, ascoltavi, assentivi.
Non so se mi piacevi, ma il tuo desiderio era eccitante come un’ubriacatura.
Oh, sì, quella voce roca, quel tuo modo di ridere da bambino, quelle furie verbali che avevi, che erano solo bisogno d’amore e di riconoscimento, quel tuo bisogno di ribellarti e insieme di scusarti per essere così rumoroso… irresistibile.
Dopo poco eri malato. Disperatamente…
Moristi che non avevi quarant’anni.
Vorrei essere venuta da te quando facevi fatica a camminare e lo stesso uscivi da solo.
Vorrei averti accompagnato per le vie della città e nei rossi giardini d’inverno.
Vorrei aver ascoltato per ore la tua voce rauca e averti aiutato a parlare della tua vita disamata e ignorata.
Quando mangiavi vicino a me al ristorante, quando la gente si spostava al tuo passaggio per il disagio di vederti, quando era doloroso  come una ferita vederti pesantissimo, gonfio di cortisone, pelato, con una testa enorme tu, tu che eri l’emblema di un corpo agile, leggero e nervoso.
Tu che avevi un corpo mutevole e vivace, quasi febbrile.
Tu che avevi una testa di capelli drittissimi, foltissimi, agitati e nervosi come te…
Ti era rimasta solo la voce. Un po’ più fonda, ma la tua, commovente.
Mi dicesti: “ Sei bellissima.”
E sentii quelle parole come la verità.
Sapevo che non avevi bisogno di bleffare: forse non lo avresti mai fatto, ma a quel punto le tue parole erano totalmente sincere e io seppi di essere veramente bellissima.
Lasciandoti ti baciai.
Scostasti il viso enorme e irriconoscibile: “ Non così. Non ora.”
Ma sempre sorridevi, sempre un po’ ti scusavi per essere stato, forse, sgarbato.
Chi ha potuto abbandonarti così? Perché?
Perché non hai saputo aiutarti prima, prima di essere così disperatamente malato e perché anch’io non ho fatto nulla? Quale timore borghese e meschino mi ha trattenuto dal venire da te quando eri così malato e così solo? Ti pensavo.
Mi sentivi? In fondo sapevo che non volevi farti vedere così com’eri ridotto.
Pensavi a riprenderti, pensavi che saresti guarito e solo quando capisti che non c’era più nulla da fare, ti lasciasti guardare.

Ma io?
Vorrei non essere stata vigliacca.
Oppure è vero che non si può realmente vivere tutto quello che si trova da vivere in una vita?
Oppure si dovrebbe e l’autenticità della tua vita sarebbe qualcosa di unico, invece di tutte queste anonime, piccole, infinitesime e quotidiane viltà, mancanze, rifiuti, scuse, fughe, silenzi.
Cosa ce ne faremo di questo mondo pieno di animaletti a due zampe sporchi e vigliacchi?
Allora qual è il problema?
Saper scegliere tra il mare e i monti, tra andare al cinema o a teatro, tra mangiare o mettersi a dieta… o la vita è veramente scegliere tra essere un uomo o concime per la terra?
Oppure le scelte sono amare o risparmiare: odiare o fingere: lottare o difendersi: dire la verità o mentire: vivere la verità o socializzare?
Ricordo una primavera tenera, tiepida, con gli alberi pieni di foglie verdissime e piccole gemme vellutate.
Perché non ti ho telefonato e non ti ho detto: “ Vieni a passeggiare con me?”
Vorrei averti offerto il mio braccio, la mia mente e il mio cuore per ascoltarti. Ti ho visto poco, ti ho parlato pochissimo, eppure spesso, camminando per le vie di questa città malata, ci sono angoli, situazioni, umori, luoghi che mi ricordano la tua vita, la tua voce, la tua risata.
Mi è rimasta più nel cuore che nelle orecchie forse perché era una risata indifesa e tenera come quella dei bambini tristi che sorridendo sperano di farsi amico il mondo che hanno imparato già da piccoli a capire quanto è duro e amaro.
Amaro perché crudele: crudele perché ignorante di sé e pieno di paura.
Vorrei essere salita sulla tua buffa moto quando mi sfiorasti sul marciapiede e mi dicesti: “ Vediamoci stasera… domani sera… dopodomani, sempre… quando vuoi.”
Pareva ti scusassi anche allora come di un messaggio troppo forte.
Anch’io, timida, sudata, tremante, risposi:
Aspetta…”
Vigliacca!
Vorrei che da quel piccolo posto fumoso, a un tratto, ti fossi alzato e mi avessi preso per mano.
Vorrei che fossimo finalmente saliti su quella tua moto, mite e affettuosa come te, e che ce ne fossimo andati.
Sento il vento che entra ovunque e cerca di portarmi via come una farfalla: ma mi unisco a te. Ti stringo in vita e mi trema un po’ il cuore per questo primo gesto intimo e intenso.
Sento il tuo corpo, il battito del tuo cuore.
Corriamo: tu canti.
Ci sarà domani? Ci pensiamo? No.
Tutto vola dietro di noi e la moto è sempre davanti.
Quello che lasciamo non esiste.
Ci fermiamo in un piccolo albergo in un parco.
E’ una vecchia casa piena di fiori, di tende bianche, di pavimenti di legno che cigolano e profumano di cera.
La nostra stanza è grandissima: sa di rose di giardino, di legno, di lino cotto al sole. La finestra dà su un balcone tondo, pesante, che si protende verso gli alberi e il cielo.
Mille stelle brillano e noi siamo ancora meravigliati di essere lì.
Sono sul balcone, tremo un po’. Si sentono i grilli, si odora l’aria, tutto è così perfetto che ho un po’ voglia di piangere.
Piangere perché la perfezione ti fa sentire piccola e inutile. Il cuore si dilata, si espande… sente il bisogno di essere in ogni cosa.
Ti accosti a me, leggero e muto e mi baci sulla nuca.

Sono invasa da una malinconia simile alla felicità e infine piango.

E’ perfetto: lui conosce le mie lacrime, conosce la mia malinconia, conosce quella sensazione dolorosa del cuore che sospira nell’immensità dei sentimenti e non sai più se sopravviverai.
Le mie lacrime sono la felicità di essere abbandonata tra le braccia di un’altra parte di me.
Lui.
Lui è fragile, orgoglioso ma timoroso, affettuoso ma timido.
Lui è come me: un bambino.
Mi giro verso di lui e lo bacio.
L’aria scintilla: ci illumina il chiarore bianco della luna, ci vediamo appena ma quello che importa è che ci sentiamo. So che non sarà la passione a spingerti verso di me, ma il bisogno di tenerezza e di conforto.
Ti aiuto, ti sorrido: siamo insieme.
So che sarai tenero, dolcissimo, leggero e lieve.
Abbiamo insieme un orgasmo morbido, lento e lunghissimo che ci lascia storditi e totalmente dimentichi.
Dormiamo tenendoci per mano. Il sole della mattina arriva tra le foglie e ci scalda lievemente come una carezza.”

Ama gli uomini. Nonostante abbia sviluppatissimo il cervello, o forse proprio per questo, ama la fisicità e la sa godere.
Si capisce che cerca nell’uomo un piacere che l’appaga completamente, che le addolcisce i pensieri e le rende morbidi gli occhi profondi.
Spegne la piccola lampada e quell’ombra su di lei e su quella scrivania che parla con lei, fa sembrare più scura tutta la sala.
Improvvisamente, leggero e insinuante, si sente un dolce, speziato profumo di vaniglia.
Magia dell’ospitalità, svolazzano cesti di paglia chiara e leggera carichi di dolci.
Marzapani rosa e beige, noci secche zuccherate, mandorle bianche e setose, biscotti croccanti, morbidi, spolverati di zucchero, di cioccolato e di cannella, cioccolata al latte, fondente, purissima, quasi piccante come pepe… cartine luccicanti di mille colori, violette di zucchero e foglioline cristallizzate come un ricamo stupendo.
Golose, siamo golose, felici di questo nettare dolce che si spande come pura energia d’amore femminile nella nostra carne, nella nostra pelle, nelle nostre morbidissime forme di donne fiere di sé stesse.
In mezzo a questo profumato benessere, lei fuma.
Scura, riccioluta e forte. Ama i tappeti ed è accovacciata per terra.
Si veste di colori cupi e intensi. Non è bella: è qualcosa di più. E’ accattivante e sensuale. Appartiene alla categoria delle donne nate dalla terra.
Hanno il colore dell’argilla: non sono pesanti, sono solide. Hanno voci profonde, la loro musicalità ha toni bassi e confortanti che calmano gli animi e i pensieri delle donne d’aria. I bagliori del fuoco la illuminano a tratti come vampate morbide di una stupenda tigre placata e vicina al sonno.

Lei è così.
Ti affascina con un misto di timore perché ha la magnifica eleganza dell’animale selvatico e la costante incertezza che potrebbe ucciderti.

Vorrei
mettere i miei occhi dentro i tuoi, bellissimi. Lo faccio raramente perché so che è un gesto forte che ti fa arrossire. Entri dalla porta chinando un po’ la testa come per non farti vedere, ma quando ci sei… ti sento.
E’ come un silenzio leggero che ti circonda, un silenzio più denso che ti segue e allora ti vedo.
Mi trema sempre un po’ il cuore e veramente mi sono caricata anch’io della tua timidezza perché difficilmente ti guardo.
Vedo solo il tuo viso che mi piace moltissimo.
Hai i capelli neri, corti e fitti, un viso angoloso con una bocca troppo segnata, femminea, un po’ caparbia e arrogante e due occhi blu, grandi, intensi, sobri.
Il conflitto tra la bocca e gli occhi ti dà quell’aria contrastante per cui sono curiosa di capire che sei.
Sei la tua bocca o i tuoi occhi? Sicuramente tutte due le cose.
Non ti ho mai parlato, eppure… mi pare di conoscerti.
Sei sicuramente viziato e presuntuoso: un po’ vigliacco, ma certo vorresti avere più coraggio per vivere una vita più intensa e più tua.
Ma forse non lo sai.
Ti vidi un giorno per strada, all’angolo di una piccola via assolata e mi facesti un complice, splendido sorriso.
Ti incontrai al mare, all’ombra di una magica, odorosa pineta e mi accorsi che c’eri perché mi sentii bruciare la nuca da uno sguardo che mi costrinse a girare la testa.
Mi voltai lentamente e appoggiai i miei occhi nei tuoi.
Abbassasti gli occhi. Facesti finta di non vedermi.
Ti odiai perché sapevo quanto mentivi.
Seppi che arrossivi per i sogni fatti su di me.
Capii che ti piacevo talmente da farti sentire la necessità di fuggire e sorrisi.
Mi soffiò nel cuore una fiammata d’orgoglio feroce perché ti mettevo in ginocchio.
Codardo! Temevi il desiderio che ti suscitavo.
Un giorno ti regalai una piccola rivista.
Un sorriso di imbarazzo profondo e doloroso ti increspò il viso stanchissimo, indifeso e timido.
La rivista era di brace nelle tue lunghe mani.
Non sapevi che fare.
Mi sembrasti così vulnerabile che la tua fragilità mi diedi coraggio e ti guardai per la prima volta bene.
Eri pallido, con le labbra bianche, senza sangue, come di un malato e i tuoi stupendi occhi, offuscati, anch’essi scolorati.
Per ringraziarmi mi guardasti e io sciolsi i miei nell’azzurro dei tuoi.
Ti dicevo: alza questi tuoi occhi, usali per guardare, per vivere, per sedurre, per essere felice.
Oh, vorrei sull’angolo di quella piccola via assolata esserti venuta incontro.
Fa caldo: quel caldo leggero che ti invoglia a spogliarti ma che non ti fa sudare.
Ti vengo vicino, ti sorrido e ti bacio.
Appoggio le mie labbra sulle tue e ti guardo.
Si scuriscono i tuoi occhi e si socchiudono un po’.
C’è meraviglia, esitazione, paura e desiderio. Sento l’odore leggero di fresco della tua camicia, tocco il ruvido della giacca di lino che odora di te, mi sfiora il naso il profumo della tua pelle che comincia leggermente a sudare.

Mi metti una mano sulla spalla e mi avvolgi.
Non parliamo ed entriamo in un portone buio che sa di muffa: saliamo delle scale vecchie e bellissime ed entriamo in uno studio sommerso di piante, libri, polvere e luce tremante spezzata da tende di paglia leggera.
C’è odore di vecchia soffitta, si vedono i tetti caldi di sole, del colore del mattone vecchio, consolante, eterno.
Non hai abbandonato le mie spalle: è come se cercassi di non far interrompere la magia che ci aveva presi per strada.
Sempre non parliamo, si ode lontano il tubare sordo e affettuoso dei piccioni, aria leggera entra da una finestra. Ti togli la giacca e mi prendi sotto le ascelle.
Mi attiri contro di te e mi baci cieco, con il desiderio di una cosa che va aldilà di me.
E’ il tuo desiderio di verità, di soddisfare un eterno bisogno di felicità pura e voluta solo da te, tua, profondamente tua, mai appagata; è il bisogno di sapere come sarà dopo aver goduto in modo totale, senza censure, senza obblighi, per un evento straordinario, irripetibile, rubato alla realtà, al buonsenso, alla morale, al perbenismo.
Mi sfiori i capezzoli e sento che non resisterò in piedi…

Sciolgo la mia testa e mi baci la gola.
Ti sento disperatamente.
Mi prendi in braccio e mi adagi per terra su un groviglio di coperte colorate. Sei sopra di me: sono pazza del tuo peso su di me. Ti guardo negli occhi. Sembrano un oceano tempestoso: sono blu come il mare profondo e ti passano sopra nuvole e sole, ombre e lampi di luce.
Le narici del tuo naso si dilatano, il tuo sesso è lì, per me. Sei nudo e mi spogli: mi spogli e mi baci.
Non so come sei: ti guardo ma non ti vedo, sento solo il tuo desiderio. Emani calore, odore di pelle e di sesso, sei caldo ed elastico, sei sangue, carne e saliva e mi prendi.
Sì, non voglio parlare, pensare, voglio solo che mi desideri fino a dimenticare che sei una cosa reale, con dolori e peso, con rabbie e bisogni. Voglio che ti dimentichi, dentro di me. Mi accarezzi, mi baci, leggero. Il tuo desiderio si tocca, parrebbe non potesse finire mai; il tuo calore mi avvampa alle reni, mi tendo verso di te:
 “ Prendimi… prendimi ora.” Sei dentro di me: è lì che sento che ogni dolore si scioglie e dall’interno di me un fiume mi travolge.
Aspetta, aspetta… Vorrei che non finisse mai… ma… gli argini sono rotti.
Nulla può più fermare la violenza del piacere che mi esplode nel centro della fronte.
E’ come una stella che scoppia, ti lascia pulviscoli di luce sulla vita.
Sei tra le mie gambe: la tua testa bagnata è abbandonata sul mio ventre. Ti accarezzo la fronte e mi pare incredibile di averti sciolto, morbido ed esausto sul mio corpo, indifeso come qualcosa che non può che chiudere gli occhi e sognare. Li chiudo anch’io gli occhi…
Sogniamo insieme. Il tuo corpo abbandonato sul mio completamente aperto, mi dà la sensazione di essere terra dalla quale sorgerà un albero.

La tua testa sul mio ventre è la radice di quell’albero che tenderà rami di felicità verso il cielo.”

Si sente nell’aria l’odore dell’amore. E’ bello parlare di sesso.
Riuscire a parlare di quello che ti piace è liberatorio, ti scalda.
Sapere che qualcuno sa ascoltarti e si sente accarezzato dal tuo piacere ti fa sentire in compagnia, ti dà la gioia della condivisione della felicità.

E’ difficile.
C’è chi è disponibile a partecipare al tuo dolore perché crede sempre che non gli capiterà, ma gioire per la tua felicità gli è quasi impossibile.
La felicità espressa è una forza che ti investe come una frustata e, a differenza del dolore che speri di evitare, temi di non raggiungerla e l’impotenza di capire quegli occhi scintillanti ti scatena qualcosa di livido: l’invidia.
Una lacerazione nel corpo sterile che non puoi perdonare.
Insopportabile.
Ma lì, in quel soffuso chiarore di amicizia profonda non ci sono corpi e cuori freddi e chi teme di averlo… è disposto qui ad appiccargli ancora fuoco!
Lei è una donna d’aria ma… l’hanno chiusa in una bottiglia. E’ bella e prigioniera.
I suoi occhi celesti sono tristi.
Quel vetro la protegge ma non senti mai il suo calore e lei… non conosce il tepore degli altri.
Oggi comincia a sospettare di non sapere cos’è una vita autentica.
Vuole spezzare quel vetro ma è rigida per il terrore dell’infinito fuori dalla sua prigione.
Tutte siamo protese verso di lei come un’onda spumeggiante che la solleverà, la farà vibrare tra pulviscoli d’acqua e la infrangerà su uno scoglio.
E’ affascinante, quasi simbolica, la sua passione per il vetro. E’ la sua prigione e il suo nutrimento.
E’ un bicchiere che ha in mano, lungo e trasparente.
Beve del vino bianco aromatico e freso.
E’ trattenuta e insofferente: cerca di essere comprensiva e di contenere tutti i suoi disagi ma si vede che questo le fa male.
Non arrossisce quando mente, ma parlare di sé la fa sudare.

Vorrei
capire perché vivo con te.
Sei così pesante, rozzo, cieco, sordo; chiuso.
Riesco a sopportarti solo quando ho voglia di ridere e faccio finta che forse capirai.
Non sai esprimere un sentimento, una gioia, un odio, un amore.
Più senti di essere insopportabile e incombente, più riesci a comunicare con gesti e movimenti del corpo la tua paura, la tua inutilità, il tuo bisogno di esserci.
Non sopporto questo tuo modo di comunicare.
Il tuo viso si chiude e mai un sorriso d’intesa ti illumina.
Mai un baluginìo che chieda teneramente aiuto, ti rende indifeso.
Mordi la mano che si avvicina per soccorrerti perché temi che quella mano ti colpirà e non sei più disposto a rischiare di trovare chi ti accarezzerà.
Ti siedi e occupi tutto il divano, ti avvicini e mi schiacci, cammini e invadi tutto il marciapiede, entri in una stanza e la ingombri completamente.
Non ti scusi mai.
Non sai sorridere di te.
Sai solo difenderti.
Chiuso, attento a non scoprire nulla di tuo, sigillato al dolore, alla gioia e all’amore.
Sei pigro.
Perché vivi?
Tutto ti scorre sopra: impenetrabile.
Cosa ti ha sigillato?

Non conosci i tuoi meriti e il tuo dolore.
Non sai nulla degli altri.
Non conosci l’amore e non senti quello degli altri.
La tua aridità impoverisce tutto ciò che avvicini.
Prosciughi qualsiasi fiume.
Vorrei capire per odiarti meno.
Detesto tutto quello che fai perché sei approssimativo e superficiale.
Non sopporto la tua incomprensione della vita mia, tua, e di chiunque.
La tua passività, quel tuo stare fermo mentre tutto vibra e si muove, quella tua cecità totale del mondo interiore altrui mi opprime. Non percependo nulla di quello che anima la vita, sbagli sempre i tempi, i modi, le situazioni.
Vorrei non essere così crudele con te, ma susciti in me un’aggressività furiosa e sarcastica.
Non posso perdonarti la pesantezza con cui pretendi di essere preso per quello che sei.
Non hai la levità dell’intelligenza superiore.
Mai uno sprazzo di ironia alleggerisce il tuo esistere.
Sei un elemento che mi è contrario.
Io sono fuoco.
Corre la mia energia, avvampa e consuma, si acquieta e lambisce ogni cosa, scalda, illumina e distrugge.
Tu sei pietra e non bruci mai con me, non ti scaldi, non ti consumi e non risorgi.
In realtà non viviamo mai niente insieme.
Vorrei avere qualcosa da dividere con te.
Mi offende la tua rozzezza, la tua pesantezza. Non mi ferirebbe talmente se tu non volessi propormela come un valore.
Qual è il tuo valore? Esistere.

Odio questo.
Il mio valore è soffrire, amare, ridere, piangere, correre insieme verso la vita, verso l’intelligenza, verso la comprensione del nostro esistere.
Odio stare ferma, ma non ti obbligo a correre con me.
Fiammeggio verso di te, lambisco la tua fissità, nella folle illusione di vederti un giorno vibrare…
So che non avverrà ma non pretendere di essere il mio confine.
Sono fuoco e vado oltre ogni cosa.
Se credi che stando lì greve e pesantissimo mi bloccherai, se la tua filosofia è di spiegarmi che la tua realtà è la verità, beh, spostati perché ti odio.
La verità si muove come un oceano gonfio di tempesta. La verità la voglio cercare sempre, dove voglio, come voglio. Non voler arginare il mio bisogno di correre perché non te lo perdonerò mai.
Abbandonati!
Veramente è impossibile?
Vorrei allora poterti dire addio.
Vorrei bisbigliarti, vorrei sommessamente sussurrarti, così sommessamente da farti entrare le mie parole nel profondo del cervello, nel sangue, nella carne… non trattenermi.
Non farlo.
Ti odierò talmente che mi dimenticherò di te.
Non tentare di acquietare, di spegnere le fiamme violente che finalmente guizzano libere da quel cumulo di cenere che ero. Là in mezzo c’era una minuscola brace nascosta e dimenticata. Da quella brace, un giorno, è guizzata la prima fiammella.
Non ha avuto paura dell’aria, lei, anzi. Si è rinforzata e ha cominciato a bruciare forte, sempre più forte.
Vorrei urlarti, non provare a spegnere neppure una di quelle lingue di fuoco.
Temile, amale, fuggile, fanne quello che vuoi, ma lasciale libere.
Non vuoi bruciare con me? Allora gela tranquillo, eterno, nella tua totale pesantezza.
Io non ci sono già più.
Sono volata via. Lontana. Non mi spegnerò mai.
Mi mancherai? Forse.
E tu?
Come stai senza quelle fiamme calde, brucianti ma carezzevoli che ti avvolgevano, che si insinuavano dappertutto?
Come stai senza quel solletico, senza quella paura che ti illuminava e ti lasciava sempre vivo?
Sei sempre tu, ma non brilli più.
Non ti vede più nessuno.
Vorrei dirti che forse ho veramente capito che l’importante è come vivi e non vivere.
Tu resta… io corro.
Mi piace tanto! Il movimento è il mio elemento.
Vorrei non provare questo sentimento di struggimento e pena per non aver saputo accendere neppure una piccola brace nel tuo deserto ma solo qualche pulviscolo di luce effimero e inutile.
Vorrei poter scriver una fantasia, un sogno folle e romantico per te e con te.
Vorrei non privarti di questa mia invenzione, ma tu sei così reale, tu sei così tu, così esattamente quello che si vede che non si può immaginare neppure un gesto diverso da quello che fai, e quelli che fai uccidono qualsiasi fantasia.
Non potrei mai sognare di te.
Soffro che tu non voglia arricchire la tua materia con tutto quello che la vita offre.
Non sei generoso.

Peccato che tu sappia così poco amare te stesso.”

Il silenzio nella grande sala è qualcosa di più che semplice silenzio: è un sasso sospeso in cielo.
Pare di sentire battere tutti quei cuori oppressi di donne colorate e i volti si abbassano nella speranza che tanto fastidio venga lavato dalle lacrime che ognuna versa, vere o simboliche, ma necessarie.
Non ce n’è una che non abbia capito e assorbito nel limo profondo del suo animo le parole dell’amica.
Ognuna ha già cercato o cerca ancora disperatamente di fuggire da un predatore ingordo e feroce nel metterle collare e catena. Noi madri abbiamo creato questo prototipo di maschio assetato di bisogno.
Lui, antico bambino, voleva sua madre lì per lui, disponibile e presente, disposta a farsi distruggere e voleva sempre vederla rinascere; voleva essere sicuro che per quanto latte le avesse succhiato lei ne avrebbe avuto ancora e glielo avrebbe dato; voleva essere sicuro che per quanto sporco e brutto fosse stato… lei lo avrebbe abbracciato.
Lei… ha avuto paura e lo ha educato.
Gli è rimasto nel cuore un rimpianto simile al dolore, gli è rimasto nell’anima un languore corrosivo come il bisogno dell’immensità del mare, del suo canto, del suo profumo.
E’ inaridito.
Ma non vuole morire…
E gli cresce dentro un rancore, un bisogno di sopraffazione, una necessità insopprimibile di trovare la preda a cui strappare tutto ciò che voleva da cucciolo.
Poi… grottescamente, quella donna che non ha saputo essere terra  fertile per suo figlio, si fa preda del figlio feroce di un’altra.
Spesso non se ne accorge.
A volte lo sospetta ma non capisce e poi… viene il giorno in cui non può più far finta di non vedere.
Viene un momento in cui il suo corpo le dà tregua, in cui il tempo diventa più ampio e lei può pensare.
Quando arriva quell’ora, lei è ancora giovane e si scatena, nella sua anima selvaggia, l’uragano.
Vuole vendetta, vuole risorgere, vuole la “sua” vita.
E… rivede tutti i gesti di quel grande predatore che ha accanto, risente tutte le menzogne e la sovrasta un misto di pietà e di odio che la distrugge o la fa risorgere.
Il suo bicchiere è vuoto, lei è immobile, tesa e dolorante.
Noi sappiamo che la bottiglia è andata in mille pezzi e che la sua anima libera farà una strage.

La quiete seguirà… Quella vera, quella della verità riconosciuta.
Noi, oggi, sappiamo che dobbiamo avere il coraggio di affrontare l’orrore della nostra schiavitù.
Un grande, lievissimo sospiro, si leva dalle nostre anime e tutte cerchiamo un po’ di pace. Sulle ali di quel sospiro è volata via una profonda, densa pesantezza e un serrato cicaleccio dona nuova vita alla sala. La guardiamo, la sollecitiamo, le sussurriamo il nostro bisogno. Sorride, è piccola e orientale. Spalle minute e bacino rotondo. Porta i capelli cortissimi come un maschietto ed è dolce e seduttiva come una femmina antica e accogliente.
Ha una voce fresca e serrata, tintinna festosa anche quando parla di morte perché porta con sé parole e pensieri luminosi.
E’ allegra come l’intelligenza, non ti stanca mai. Ha sempre freddo.
Il sole è il suo elemento.
Unisce in sé terra e aria. Il suo corpo è del colore della terra fertile, il suo cervello vola.

Sta rannicchiata in una poltrona di raso accanto al fuoco e sussurra:

Vorrei
che il fardello degli anni non appesantisse il mio corpo, il mio pensiero, i miei sentimenti.
Vorrei non diventare saggia, ragionevole, prudente e affidabile.
Vorrei non invecchiare. Non penso alle rughe, penso alle croste nel cuore, al piombo nel pensiero, alla paura nei gesti e nei sentimenti.
Vorrei non essere ingombrata da quella saggezza per cui tutto è già stato visto, ascoltato, sperimentato e tutto sembra ripetitivo e stantio.
Vorrei sempre, di fronte all’entusiasmo della giovinezza, rivedere le cose, le persone e gli eventi con rinnovata, illuminata vivacità e partecipazione.
Vorrei offrirle la mia immutata freschezza costantemente rinnovata dalla vita vissuta, non appesantita da gesti e ricordi passati.
Vorrei spalancare il mio cuore, il mio sorriso, le mie orecchie alla sua arroganza beata, alla sua assolutezza e violenza perché solo lei può portare nuovo sangue alla mia stanchezza. Vorrei non essere la cenere di quello stupendo fuoco che è la giovinezza.
Vorrei stare lì ferma ad aspettare la loro marea di parole, sentimenti, speranze, furie, desideri, certezze e farmi specchio luminoso delle loro aspettative di conforto, di accoglienza, di rispecchiamento e di pace.
Vorrei saperli ascoltare sempre e giudicare mai.
Vorrei ricordare me stessa a quell’età e la strage che è stata fatta delle mie furiose e selvagge urla di vita e non compiere questo scempio, mai.
Vorrei non diventare prudente.
Vorrei non sospettare un ladro dietro ogni angolo perché forse non ci sarà mai e se ci sarà gli darò la mia borsa.
Vorrei trasmettere a mio figlio la sicurezza che nasce dal vigilare su sé stesso per la forza dell’amore che hai di te e non per la paura degli altri.
Vorrei non mettere la sordina al suo entusiasmo, alla sua dirompente voglia di correre, di urlare, di muoversi, di esistere.
Vorrei dargli la sicurezza per vivere totalmente, liberamente e consumare felicemente i suoi giorni padrone di sé.
Vorrei non sciupargli il profumo dell’amore, dell’amicizia, dei desideri, ma dargli gli strumenti perché lui, da solo, sappia e possa immergersi fino al suo bisogno in questo mare magico, dolcissimo e violento trovando alla fine il suo rifugio.
Vorrei non diventare ragionevole ma conservare la voglia e la forza di entusiasmarmi, di indignarmi, di odiare, di amare, di ridere, di piangere, di urlare.
Vorrei non essere mai capace di tutto comprendere, tutto scusare, tutto tollerare.
So che quando starò per sorridere di un’indignazione furiosa di mio figlio giovinetto, quando scuserò un’ingiustizia che lui mi porterà con un desiderio di vendetta e di sangue, quando vorrò mitigare l’odio per un’amicizia delusa, quando ragionevolmente saprò giustificargli un amore finito e deluso, saprò di averlo perduto e di essere morta.
Follia voler chiudere un mare tempestoso con una diga che crollerà, sempre.
Meglio stendersi come olio su quel mare ribollente, stare abbracciati a lui nella sua corsa violenta e selvaggia e approdare con lui su una bianca spiaggia.
Quando questo mare crudele avrà sentito che nulla lo ha imbrigliato ma qualcosa ha corso la sua folle fuga fino in fondo, si placherà, non esausto, ma felice.
Vorrei non essere affidabile come vorrebbe la gente perbene. So cosa loro intendono per questo e  sento già le sabbie mobili che mi attanagliano.
Vorrei non essere affidabile nel senso che a situazioni date ci sono dei codici sociali che esigono risposte stabilite.
Vorrei avere quell’affidabilità per cui sosterrò le mie tesi in difesa dei giovani oppressi da famiglie asfissianti e ottuse, per cui non indietreggerò di fronte a tutti i no che devo dire e a tutti i sì che devo far rispettare.
Vorrei avere quell’affidabilità per la quale rispetterò i miei desideri contro la sopraffazione di chiunque voglia succhiarmi la vita, per la quale presterò fede alle mie promesse e alle aspettative che io, consapevolmente, ho fatto fiorire perché parte del mio autentico esistere.

Vorrei non essere affidabile se chi si rivolge alla mia affidabilità cerca il perdono, ma affidabile sì, se attraverso il mio pensiero qualcuno vuole trovare conforto e solidarietà.”

Si pizzica la fossetta del collo.
E’ un gesto automatico e di concentrazione che la fa sembrare indifesa e infantile.
Ma anche lei, sotto mentite spoglie, è una donna selvaggia e spietata.
Fa caldo. C’è chi spalanca le finestre.
Il colore rubino delle braci del camino, il fumo delle sigarette, le nostre lacrime, parole, respiri e sospiri hanno riempito l’aria d’anime.
Fluttuano nell’aria che si è fatta spessa. Si addensano per uscire.
Noi vogliamo aria fresca nei nostri fiati perché tanti sospiri vogliono ancora trovare la strada della libertà.
E’ sera.
Il cielo è blu: raso luminoso e scuro.
Ci sono già le stelle.
Fuori è bellissimo.
Appoggia le sue mani armoniose, veloci e soccorrevoli alla finestra e respira così profondamente che pare possa contenere tutto l’universo. Poi sospira… oh! poter non avere corpo ed essere quell’aria luminosa e notturna, leggera e fresca, essere ovunque e non avere bisogno di nulla.
E’ graziosa, rotonda, femminile, con riccioli neri.
Il viso attira il tuo sguardo.
E’ ridente, dolce e gentile eppure i suoi occhi luminosi, attenti, scurissimi, hanno nel fondo un lago silenzioso e calmissimo che fa paura.
Non hai voglia di tuffartici: vorresti che qualche refolo d’aria arrivasse fin lì e lo smuovesse, vorresti che fossero le pieghe ridenti delle sue labbra a incresparlo, ma non succede.
Chiude la finestra e tutte la guardiamo:

Vorrei
essere mia figlia.
Avere quella sua pelle dolce e carezzevole di borotalco, quel suo viso ridente con gli occhi limpidi e sicuri, quel suo sorriso timido, dolce e dubbioso ma felice.
Vorrei, come lei, avere una madre da desiderare: desiderio di abbracciare, toccare, annusare, di essere presa in braccio e stropicciata, desiderio di confidenza e di sicurezza.
Vorrei essere mia figlia quando entra in casa, carica del suo zainetto e di tutte le sue rogne e sapere che al di là della porta della sua casa trova un’amica.
Lei lo sa, e vorrei trovarla anch’io…
Vorrei trovare orecchie disposte ad ascoltare senza censure né critiche, senza consigli né, tantomeno, insegnamenti.
Vorrei, in un magico luogo, trovare un grande vaso d’acqua dove tutti i miei dolori potessero cadere come sassi e trasformarsi in sabbia dorata.
Vorrei, come lei, trovare un cuore che partecipa, che soffre, che si indigna con me.
Vorrei essere la sua fiducia, la sua speranza, la sua energia.
Vorrei trovare, al di là dei miei problemi, dei miei dolori, delusioni, amarezze, la comprensione non reale dei fatti, ma quella dell’amore, quella dell’accettazione.
Vorrei essere amata senza neppure parlare.
Vorrei essere mia figlia che, quando non ne può più di tutto, è pallida, lontana e rigida e io so perché.
Le sorrido in silenzio e la bacio sulla fronte.
Si scioglie allora il suo dolore e piange, si abbandona il suo corpo, si fa morbido: l’abbraccio.
Mi lascio bagnare dalle sue lacrime, mi lascio inumidire dal suo sudore e non le chiedo nulla.
Vorrei anch’io essere abbracciata così, in silenzio.

Vorrei sentire quel filo che parte dal cuore e, se sei amato, ti avvolge come qualcosa di magico che porta calore, abbandono, morbidezza.
Vorrei essere mia figlia perché quando si stringe a me so di emanare una gioia così pura, così totalmente dedicata a lei che questo non può che renderla forte contro ogni dolore. Vorrei avere anch’io questa forza.
Vorrei essere mia figlia che non deve sprecare energie per trovare certezze e conforto, ma può proiettarsi sicura verso l’esterno.
Invidio la sua sicurezza.
Vorrei essere mia figlia quando sento i suoi progetti , il distendersi dei suoi desideri, delle sue speranze e volontà, perché si tocca in lei una libertà di disporre di sé che mi illumina di orgoglio.
Vorrei provare anch’io il suo senso di libertà.
Vorrei essere mia figlia… oppure sono così fiera di essere sua madre che mi viene da sorridere e non vorrei essere niente altro che quella che sono?
Vorrei assaporare da sola la gioia e la felicità che mi dà questa bambina perché è una grazia esclusivamente mia, non voglio dividerla con nessuno e so di non volerla patteggiare con niente.
Vorrei ridere dei miei patimenti, perché so di dare a mia figlia quello che non ho ricevuto e so che accogliendo lei, pacifico tutti i miei antichi rancori.
So che salvando lei, ho salvato l’antica bambinetta triste e seria che sono stata.
La prendo per mano e me ne vado verso il sole, verso l’eternità.
Che m’importa di tutto il resto?

Mia figlia è il mio futuro.”

Applaudiamo perché la parola “ figlia”  è stata come un tondo sassolino buttato nel silenzioso  lago dei suoi occhi neri e i mille cerchi concentrici che hanno preso vita, hanno reso meno fisso il suo sguardo.
Non si può non amarla.
E’ talmente indifesa!
Ormai la nostra confidenza è completa.
Nessuna ha più timidezze.
Ci fidiamo.
Ci sentiamo un unico, grande, morbido, dolcissimo corpo in stato di grazia.
Le parole scorrono libere, sciolte, senza più alcun pudore.
La guardiamo perché sappiamo che vuole parlare.
E’ una donna d’acqua, forse l’unica tra noi.
Non è facile trovarne. Ispirano una qualche diffidenza per la loro liquidità.
Sono sfuggenti.
Paiono tranquille ma non capisci cosa le muove.
Scivolano sulla terra e non sai mai il corso che veramente vorranno prendere: sono lontane, troppo silenziose, imprendibili.
Fuma vicino alla vetrata del balcone.
E’ bella appoggiata alla tenda di velluto bordeaux. Pare quasi prendere una dimensione con lo sfondo di quel magnifico tessuto.

Ci guarda e sussurra:

Vorrei
non averti più visto.

Vorrei dimenticarmi di te perché la delusione è troppo dolorosa. Te ne vai e sei diventato pesante e volgare.
C’è in te, oggi, qualcosa di così greve e rozzo che non posso quasi guardarti.
Oh, vorrei averti parlato. Vorrei averti salvato da quella pesantezza e durezza che ti ha reso così diverso!
Ancora una volta… vorrei aver avuto coraggio.
Vorrei essere riuscita a comunicare con te per aiutarti a far fiorire quella parte magnifica, sospesa, fragile, tenera e meravigliata che avevi dentro di te.
Non sono riuscita.
So che potevo farlo solo attraverso il corpo.
Quante volte in mezzo a un mare di parole mie, tue, di equivoci, incomprensioni, tensioni, risate e ancora parole, parole, parole inutili, avrei dovuto mettermi davanti a te, prenderti il viso tra le mani e baciarti.
Vorrei averlo fatto ma… veramente vorrei… volevo che lo facessi tu.
Eri tu, solo tu che potevi infrangere la diga che mi teneva ferma, lontana quel tanto che bastava a non correre pericoli.
Come è successo?
Quando è successo?
Ti vedevo tutti i giorni. Era piacevole, era tutto così normale.
Come avere un figlio grande in casa.
Ma più passava il tempo più sentivo una lieve corrente nell’aria quando eri con me.
Mi pareva cosa che riguardasse solo te.
Pensavo: gli passerà, guarderà, penserà.
Confronterà tutto quello che vede intorno a me e gli parrà che tutto quello che è intorno a lui sia insignificante.
In realtà sapevo che la tua vita era più semplice solo perché era più giovane. La tua giovinezza era commovente e coinvolgente come un profumo.
All’inizio mi sembravi impacciato, rigido, un po’ legnoso. Sfuggivi con gli occhi, pensavo per diffidenza.
In realtà, forse, era paura, paura di qualcosa che ti attirava e temevi di affrontare.
Poi ho capito che eri timido: di una timidezza che ti faceva arrossire se solo i miei occhi si appoggiavano per un attimo sul tuo viso.
All’inizio imbarazzava anche  me quel tuo rossore. Ora  lo ricordo come una carezza.
Alto, duro come i ragazzini: con quell’aria di sorpresa e meraviglia in tutto il corpo che rivedo ora come qualcosa che mi manca in casa:
Salve” dicevi. Non riuscivi a dirmi “ Ciao.”
Cosa provavo per te? Credevo di essere curiosa. Mi pareva un misto di tenerezza, di dolcezza, di sentimento di possesso. Era come se avessi voluto aiutarti a essere più libero, come se avessi potuto insegnarti a volare, a capire le cose che avevi nel cuore e nel cervello e che non sapevi come fare a tirar fuori.
Chissà, se ci penso bene, avrei voluto farti una carezza e vedere che effetto faceva.
Avevi un sorriso splendente: pieno, totale, coinvolgente.
Non potevo resistergli perché mi metteva in pace col mondo, mi rendeva allegra e mi dava speranza.
Sorridevi e tutto si illuminava.
Poi, una mattina, parve che saresti morto.
Provai un senso di vuoto, di impossibilità, di buio, che mi fece piangere. Mi parve che senza di te, lì, la mattina, si sarebbe spento per sempre il sole.
Ma non capii.
Mi occupai di ospedali, dottori, parenti e il dinamismo mi impegnò la mente ma certo so che il cuore era sospeso.
Pensai a qualcosa di materno, soccorrevole.
Guaristi: uscisti dall’ospedale ed era cosa fatta.
Eri vivo e quasi mi dimenticai di te.
Poi…
Era maggio. Ero rannicchiata sulla spiaggia deserta tra tronchi d’albero abbandonati dal mare. C’era un sole limpido e stupendo, un vento forte che mi faceva volare lo scialle. Stavo per addormentarmi.
Dormi?” Alzai la testa e ti vidi la prima volta dopo tanti mesi: provai un’emozione fortissima, ma ancora non seppi darle un nome.
Parlavo e mi guardavi, lisciavo la sabbia con le mani e tu le osservavi come fossero state magnetiche. Volevo che quel momento non finisse mai, volevo che il tempo si fermasse.
Ma ancora non capivo.
Passavano giorni normali.
Aumentava la tensione nell’aria quando eravamo insieme, sentivo come un’elettricità che mi rendeva tesa e inquieta. Un’inquietudine affaticante.
Notai che non perdevi occasione per dirmi che uscivi con ragazze e la prima volta che lo facesti restai stupefatta come se fosse una cosa assurda e fui gelosa. Mi accorsi che cominciavo a guardarti,  a guardarti attentamente il corpo.
La tensione… aumentava.
Guardavo un giornale in ginocchio per terra e mi venisti  vicinissimo, accucciato di fianco: lo trovai un gesto così intimo che mi parve di svenire.
Dovetti resistere con tutte le mie forze per non accarezzarti. Perché tu non mi baciasti il collo?
So che volevi farlo. Capii allora che mi piacevi da impazzire e seppi di essere malata.
Malata d’amore, malata di un amore assurdo.
Perché?
Cosa mi manca per aver bisogno del tuo sorriso, della tua leggerezza, della tua giovinezza?
Forse proprio tutto quello che hai, è ciò che mi manca.
E proprio la tua giovinezza è ciò che mi manca di più. Penso a te e immagino gesti improvvisi in cui l’intimità diventa totale, sento il tuo odore e ti voglio. Immagino la tua pelle tesa, un po’ ruvida, elastica, sana. Ti guardo. Non hai nulla di particolarmente bello, eppure mi attiri come qualcosa di ineluttabile.
Vorrei prendere di te la gioia e la leggerezza di vita che ti sono connaturati, vorrei usare la tua levità, la tua disponibilità.
Vorrei baciarti e vorrei che con la mano destra tu mi stringessi in vita e mi facessi sentire sottile e fragile come un fuscello.
Vorrei averti comunicato questo mio desiderio perché so che era anche il tuo.
Vorrei aver avuto più coraggio.
Vorrei aver ricevuto da te un segnale più chiaro.
Quante, quante volte avrei potuto avvicinarmi a te, mettere i miei occhi dentro i tuoi e baciarti, quante volte!
Mi eri vicino, vicinissimo, respiravo il tuo fiato. Mi scostai timidissima.

Ho il raffreddore.”
Non mi ammalo mai.”
Perché, perché non ho capito?
C’era tutto per averti: la situazione, la tensione quasi materiale, il silenzio che era come un tunnel che ci avvolgeva ed era lì per noi, ma non ho mai potuto veramente farlo.
Oggi non è più possibile.
Allora eri lieve, dolce e interrogativo: vivevi tutto con meraviglia, attesa e intensità.
Oggi hai delle grossolane certezze. Credi di aver capito e hai perso la tua qualità migliore, la leggerezza.
So che chiameresti le cose in modo equivoco. So che faresti i gesti sbagliati.
Il tuo sorriso non è più lo stesso perché è diventato più contratto e già lo offri per un motivo: non ti esce più semplicemente dal cuore.
Le tue parole sono pesanti e il tuo essere fisico è più consapevole della sua sessualità ma è una consapevolezza brutale e rozza che sicuramente corrisponde a un modo di usarla primitiva e ignorante.
Sai oggi come funziona il tuo corpo e hai abbandonato il miracolo del tuo cervello e del tuo cuore.
Vorrei essermi riempita la bocca di quel frutto stupendo, dolcissimo, bagnato che eri solo un anno fa.
Oggi ti vedo e non ho più voglia di guardarti.”

Sorprendente… le sue guance sono rosse e gli occhi scintillanti. Si è fatta persona.
Si dirige verso di noi e si accuccia in un magnetico cerchio di donne di terra. Vien voglia di difenderla perché temi che loro l’assorbiranno completamente.
La sua compagna più vicina è uno splendore di donna di terra.
Alta, formosa, scura di pelle e di capelli.
Hai la sensazione che potrebbe conquistare uomini e cose e fare della sua vita un trionfo ed è invece imprigionata in una rete pesantissima che l’attanaglia e la consuma nel tentativo furioso e mal organizzato di liberarsi.
Forse vorrebbe stare lì seduta ma sente quell’acqua vicina come qualcosa di ostile e che forse può spegnere la sua furia.
Non vuole, si alza con impeto e addenta un cioccolatino:

Vorrei
vederti morta.
Vorrei guardarti stesa su un riccioluto raso rosa, ben composta con le mani conserte, finalmente zitta.
Vorrei poterti osservare con calma per capire, senza essere interrotta dalla tua voce troppo alta e prepotente.
Cosa ti aveva reso da viva così intollerabile e contratta, così isterica e arrogante?
Vorrei provare pietà per la tua esistenza inutile, costosa e vuota e invece penso con sollievo al tuo volto cereo, le palpebre abbassate, la bocca chiusa e tutto il tuo corpo finalmente immobile con la certezza che non potrai più essere nel luogo più sbagliato, nel momento più inopportuno, nel modo più invadente.
Vorrei guardarti con calma sapendo che non mi disturberai, che non invaderai il mio esistere, che non interromperai il mio pensiero, che non renderai vana la mia concentrazione e la mia ricerca di armonia.
Vorrei osservarti e soprattutto prendermi il tempo di stare con te senza che tu mi disturbi.
Vorrei assicurarmi che sei rigida, fredda e irrecuperabile perché saprei finalmente di essermi liberata di un incubo.
Vorrei essere certa che per mesi, anni, e ancora anni, non sentirò più la tua voce, non ascolterò più le tue frasi cretine, un po’ false e sicuramente retoriche, le tue domande opprimenti e soffocanti, le tue raccomandazioni inutili e castranti, le tue profferte d’amore che sono solo tirannide e prepotenza.
Vorrei vedere che chiudono la tua bara con la fiamma ossidrica perché sarei certa di non vederti più arrivare in nessun luogo, in nessun momento, in nessun frammento della mia esistenza.
Vorrei finalmente vederti calare, con retorica commozione, in fondo a una fossa e vederti ricoprire di terra e infine da una splendida lastra di marmo, magari nella tomba di famiglia del tuo secondo nobile marito.
Vorrei assistere a tutta questa cerimonia in una splendida giornata di sole, nel massimo del mio splendore di raggiunta libertà. Indosserei uno stupendo cappello a tesa larga che mi nasconderebbe gli occhi ridenti e ti volterei finalmente le spalle con la certezza di non vederti più.
Farei a meno di tutta questa insofferenza se tu mi avessi lasciato vivere. Se non avessi avvelenato ogni momento della mia vita dove sei riuscita ad arrivare.
Quando avevo bisogno di te, non c’eri mai. Quando sono diventata cosciente di me e ho saputo vivere senza di te, mi hai detto che ti sfuggivo.
Sì, ti sfuggo. Di più: vorrei che tu sparissi come una nuvola di fumo.
Anzi, ti dirò di più. Ti rimprovero di non avermi permesso di avere un rapporto sereno e sorridente con te, di avermi privata della possibilità di sentire quel sentimento buono di riconoscenza e di generosità che sicuramente ti dà la sensazione interna di un amore giusto ed equilibrato.
Vorrei dimenticarmi di te e lo faccio quando mi stai lontana , ma purtroppo vivi, ti muovi e invadi la mia vita. Poco?
Sempre troppo. Sei nauseante come una palettata di panna dolce, grassa e asfissiante.
Vorrei che anche il telefono si spezzasse quando decidi di chiamarmi. So che lo fai quando non sai come riempire un qualsiasi buco delle tue insensate, assolutamente inutili giornate di vita, mai per un autentico bisogno di affetto.
Si sente.
Vorrei che tutti i telefoni dell’universo si rompessero quando lo tiri su tu e fai il mio numero.
Odio la tua voce perché in qualsiasi momento arrivi mi dà fastidio; in qualsiasi ora o situazione spezzi un equilibrio e mi dai un fremito di disgusto.
Il tuo esistere mi è rivoltante come un organo che ha il rigetto. Se ti avvicini troppo potrei morire e francamente preferisco che muoia tu.
Vorrei forse guardare la tua fotografia sulla lapide.
 No.
Preferisco vederti per l’ultima volta sul raso rosa.
Non metterò la foto sulla lapide. Vedere quel tuo viso duro e affaccendato, inquieto ma mai spolverato da un dubbio, da un autentico sorriso, da un moto di pura generosità: mi dà fastidio come vedere la faccia tronfia, ottusa e stupida del tuo secondo marito.
Non mi basta essermi liberata dal peso della tua prepotenza, della tua sopraffazione, della tua falsa e vischiosa generosità…
Vorrei proprio sentirmi liberata dal tuo corpo, dal tuo volto, dalla tua voce.

Così, casualmente… vorrei che ti sfracellassi contro un albero… con gran fracasso, com’è nel tuo stile: rumorosamente.”

Cammina avanti e indietro tra noi con passo da pantera. Non è nervosa, è carica di rancore, di rabbia, di insofferenza. Si avventa ancora qua e là su qualche cioccolatino e noi le sorridiamo perché… chi di noi non conosce quella rabbia?
Lei.
Forse lei non la conosce.
E’ una donna d’acqua. Ce n’era quindi un’altra. Quasi non ce n’eravamo accorte.
Sì, è vero, è straordinario che sia venuta. E’ graziosa, sbrigativa e brusca. Sembra un po’ disorientata in mezzo a tanta fisicità, a tutti i nostri colori, profumi, sapori. Lei ha voluto essere incolore e insapore.
La terrorizza immaginare di affrontare un reale impatto col mondo, essendo tutta sé stessa.
Avanza un po’ nella sala e si scioglie quel terribile, asessuato, corto foulard al collo. Slaccia qualche bottone della camicetta quasi a cercare ossigeno e bisbiglia:

Vorrei
senza pettegolezzi, invidie, gelosie, stupidità, domande, stare con te cinque giorni.
Vorrei che con quella tua voce raschiata e brusca mi dicessi:
Vieni con me.”
Non voglio vivere con te, non voglio parlare con te, non voglio dividere niente con te, forse non mi piaci neppure, ma vorrei sognare attraverso te.
Mi ha conquistato di te lo sguardo preciso e attento su di me e la sorprendente comprensione della mia voglia di libertà.
Apparentemente sei, e certamente sei stato, pesante e rozzo nella vita e nei sentimenti: cosa ti affascina di me?
Ti piaccio.
Ma non basta. Ti eccita di me quello che non capisci. Non può durare, lo so.
Ma cinque giorni, sì.
Vorrei che tu mi offrissi qualcosa.
Tu, tu devi fare tutto.
Tu devi prendermi, portarmi, decidere, sognare, ridere, parlare, farmi bere, mangiare.
Tu devi sollevarmi da terra carica del profumo di fiori dei miei capelli e della mia pelle, tu devi adagiarmi in un luogo dove tu devi baciarmi, accarezzarmi, prendermi, farmi godere, farmi ridere, farmi sognare.
Vorrei che tu scegliessi, decidessi, preparassi tutto ciò che sai io amo di più.
Vorrei che tu non sbagliassi mai una situazione, un luogo, un colore, un sapore, un profumo.
Amo le cose belle, bellissime, raffinate e sofisticate, amo i colori caldi, avvolgenti, morbidi e luminosi, amo i profumi dolci, dolcissimi, speziati, inebrianti.
Amo i luoghi silenziosi, musicali, ombrosi: le luci basse, i tappeti, il velluto, i fiori, le cose belle da toccare, che ami toccare perché quasi le metteresti in bocca.
Amo tutto quello che può pacificare i miei occhi attenti ed esigenti.
Amo le musiche liquide, pizzicate, avvolgenti, quelle musiche che ti fanno volare, che ti sciolgono il cuore e il cervello tanto che non vorresti più essere un corpo.
Amo le temperature miti, tiepide e leggere, amo ciò che mi fa bene, e io so cosa mi fa bene.
Vorrei che tu le facessi per me e per cinque giorni me le offrissi.
Su candide spiagge irreali, su splendidi solitari velieri, su montagne bianchissime, in magnifiche città.
Vorrei sdraiarmi con te sulla spiaggia senza che nulla mi disturbasse, vorrei di più.
Camminare con te su eleganti strade di sobrie città europee e sentire l’orgoglio che proveresti quando cammino ed entro in un luogo e tutti si accorgono che ci sono.
So già come sarebbe il tuo viso, so già i tuoi occhi intelligenti, crudeli e orgogliosi, so già il tuo modo di fare brusco e sicuro dove c’è tutta la tua prepotenza e arroganza. Mi piace sapere che sei fiero degli sguardi degli altri su di me.
So che capisci quello che dico.
Vorrei essere con te perché so che ascolteresti le mie parole, guarderesti le mie labbra e saresti fiero di avermi lì con te.”

E’ una richiesta forte, carica di desiderio quella che la travolge.
Piange, senza ritegno, senza coprirsi il viso.Piange lacrime che paiono pioggia.
Perché il nostro corpo parla un linguaggio tanto differente dalle nostre parole? Perché siamo così divise, separate, disperate, assetate d’amore?
E’ struggente sentire che in ognuna di noi c’è un’aspettativa tanto dolorosa, commovente e delusa di essere accettata e amata. Ci unisce questo destino, ci rende sorelle.
E’ seduta in poltrona. Composta, seria, silenziosa. E’ donna di terra, un po’ pesante, maschile, con una candida, bellisssima pelle da donna viziata.
Niente di più falso per lei, avvezza a una certa rozzezza e a fatiche pesanti alle quali non si sottrae.
E’ timida e affettuosa.
Sorseggia una scintillante coppa di vino rosso e con voce ferma, ma in sordina, libera il suo cuore dal dolore:

Vorrei
che tu fossi ancora qui con me, grasso, stupendo, dolcissimo gattone.
Tu sei i miei occhi di tigre.
Mi guardavi con quei tuoi occhi chiari, acuti, attenti e tolleranti e sapevo che mi amavi.
Mi guardavi e facevi le fusa: io ti piacevo e in te c’era una parte del mio cuore. Il tuo bisogno di tenerezza era il mio di bambina. La tua volontà assoluta di stare sempre e comunque dov’ero io, era il mio antico bisogno di avere un amico.
Vorrei che tu tornassi sotto la mia ascella come quando ero a letto e sentivo le tue zampine premere. Vorrei risentire il peso della tua baffutissima testolina sul mio braccio quando ti vinceva il sonno e ti sentivo crollare.
Ti fidavi di me. Ero fiera di questo.
Vorrei rivederti quando ti sdraiavi al sole del nostro balcone, tra le roselline. Bastava che ti dicessi “ciao” perché tu alzassi quel tuo splendido muso dolcissimo e mi guardassi con occhi splendenti senza più pupille, dove brillava una luce sconfinata nel verde-azzurro cangiante di un mare luminoso.
Non sapevo quanto ti amassi finché non ti ho visto irrigidito e incosciente su quel bancone di alluminio in ospedale.
Ti chiamavo e non mi guardavi più: impossibile.
Non mi riconoscevi: eri morto.
Volevo fare qualcosa per te: ma non potevo.
Sei morto ed è come se fosse morto un pezzo del mio antico cuore di bambina indifesa, sola, senza un amico.
Tu eri un mio amico perché mi volevi e mi avresti seguita ovunque.
Mi assomigliavi.
Perché?”
Perché è bellissimo come te.”
Vorrei rivedere la tua pettorina candida che ti allargava il muso e quando stavi accoccolato con tutte le zampine sotto la pancia sembravi un imperatore egizio.
Avevi le pantofoline bianche alle corte zampette e ti leccavi con piacere e diligenza.
Mi dispiace… mi dispiace tanto che tu non sia più qui con me.
Vorrei prenderti ancora in braccio e accarezzare la tua bianca pancia grassa.
Ti abbandonavi morbido, dolce e pieno di fiducia e cominciavi a fare quelle miracolose fusa che sono lievi carezze al cuore per chi ha bisogno di tenerezza.
Era la fiducia totale che avevi in me che mi fa piangere.
Sai? Anch’io volevo, da bambina, quando ero soffice e tenera come te, potermi fidare di qualcuno. Volevo… volevo tanto ed ero invece così sola!
Ti affidavi alla mia volontà di curarti e amarti con totale abbandono. Ricordo questa tua fiducia come il profumo di un fiore.
Ti lasciai, una volta, per un mese.
Poi… tornai da te. Tornai in quella triste casa, ti vidi lontano, sotto una sedia. Mi avvicinai piano, piano. Pareva che tu dormissi, ma appena sussurrai il tuo nome…
Ciao, sono qui” facesti quel piccolo versino come un mormorio, lieve messaggio che lanciavi quando volevi dirmi che c’eri e ti nascondesti sotto le mie gambe accovacciate.
Ti portai via: eri più importante dei piatti d’argento.
Non ti avrei mai lasciato lì: mai.
Ovunque tu fossi, succedeva che ti incantassi totalmente, con gli occhi spalancati, immobile, concentrato in modo assoluto.
Nulla ti smuoveva da quell’incantesimo.
Immaginavo che parlassi con gli ufo. Misteriosi folletti pericolosi si intrufolavano tra di noi e solo tu li vedevi, li sentivi, li ascoltavi e parlavi con loro. Solo tu potevi difenderci.
Come farò ora, senza di te? Aumentano questi folletti maligni, riuscirò ad essere più forte di loro, senza di te?
Vorrei che mi venissi in braccio e mi guardassi: mi mancano i tuoi occhi.
Tantissimo.
Forse sono un po’ i miei: una parte di essi, sinceri, ingenui, fiduciosi, limpidi.”

Si tormenta le mani che pare voglia svitare come un giocattolo fastidioso. Si alza e anche lei passeggia tra di noi per cercare di eliminare quella malinconia simile al dolore che le invade il corpo.
Gira e rigira quella magnifica coppa tra le mani e raggi di luce scintillano riflessi nel cristallo.
Quando l’avvicina al viso… pare baciata dalla luna.
Ormai è notte fonda. Il cielo fuori è di velluto. Spesso, profondo, silenzioso, più nulla si ode della città. Tutto, tutto tace eccetto i nostri cuori.
Rientra dal balcone stringendosi lo scialle rosso di lana morbidissima per trattenere il tepore del corpo.. Socchiude gli occhi perché dopo tanto buio della notte, la luce della nostra nave ondeggiante nell’infinito mare delle emozioni e dei sentimenti l’acceca.
Ha il nome stupendo di una pietra dal colore dell’oro e una risata felice e strepitosa come un fuoco d’artificio.
E’ opulenta, musicale, bella, irresponsabile e selvaggia.
Tentano di portarla in catene in un’asfittica casa piccolo borghese e lei se le fa mettere ma, sempre, c’è un momento in cui con la sua magnifica risata spezza ogni legame e fugge. Tutte facciamo gli scongiuri ogni volta che un predatore l’attanaglia sul collo perché aspettiamo, con ansia, la sua risata. Finché la sentiamo, sappiamo che lei è libera.
Apre la porta della vetrata e ride.
Sorridiamo tutte perché lei è una forza della natura.


Vorrei…
accarezzata da una luce dorata, magica e frastagliata, toccarti e sentire il tuo sesso diventare arrogante. Mi fa lievemente sudare leggerti in ogni movimento il bisogno di prendermi come una preda.
Hai una nuca larga, dritta, forte, che mi fa impazzire.
Ti esce da quelle magliette senza collo un po’ aperte davanti, come una forza della natura: hai il sedere alto, i pantaloni che si arricciano in vita e la luminosità che emani… mi vien voglia di mangiarla.
Vorrei toglierti una di quelle magliette e accarezzarti con le mani aperte.
Vorrei baciarti sul collo e appoggiarmi lì ad aspettare.
Sarai capace di accarezzarmi o avrai fretta?
Mi sembra di leggerti negli occhi e nei muscoli la tensione, la cocciutaggine dei maschi quando desiderano una donna e la vogliono.
Vorrei passeggiare con te una notte intera, ovunque.
Tra la gente e soli, mangiare, bere, parlare e prenderti così una, due, dieci volte solo per il piacere di contenere in me la tua vita, il tuo sesso.
Questo sesso magico e così pesantemente reale, dolce e cocciuto, prepotente e supplicante.
E’ un magnetismo che mi attira verso di te, come se la tua pelle, il tuo sangue, il tuo odore, il tuo sorriso mi tendessero intorno una ragnatela.
Vorrei morderti il collo e sentire la tua risata che mi avvolge. Ti penso e mi mancano le forze. Mi viene un gran vuoto sopra il pube e ho voglia di fuggire.
Vorrei… in una giornata senza tempo, senza caldo né freddo, senza imbecilli e senza rumori, essere con te.
Perché fai tanta attenzione a non sfiorarmi le dita quando mi porgi qualcosa? Perché non mi hai mai preso la mano?
Mi hai baciata sulle guance e la tentazione che ho avuto era quella di sfiorare con le labbra la tua bocca: forse un po’ l’ho fatto?
Vorrei… allungare la mano e vorrei che tu me l’afferrassi e mi stringessi a te.
Vorrei sentire il tuo sesso duro che mi preme il pube e provare quel languore liquido e ineluttabile che mi toglie qualsiasi possibilità di resistenza.
Vorrei sentire il tuo respiro che si fa più fitto, vorrei guardare i tuoi occhi che trascolorano in un mondo che non è più reale ma è puro piacere.
Vorrei sentire quel caldo umido e irresistibile che mi prende le reni e mi obbliga a cedere.
Mi piace l’ingordigia di un uomo eccitato, mi dà la misura della mia bellezza e del mio potere.
Sorridi! Sei irresistibile. Il tuo sorriso è dolce, buono, carezzevole, accomodante, giovane, fiducioso.. me ne basta uno nella giornata per non avere più bisogno d’altro.
Ho paura.
Vorrei camminare con te, sentirti parlare e guardarti con calma.
So che c’è stato un momento in cui ho creduto di vederti e di essere tranquilla, ma… sempre qualcosa mi tremava in fondo al cuore e sapevo di recitare la parte dell’indifferente.
Sogno.
Sogno di sentire la tua voce, di vederti muovere attorno a me, sogno che mi accompagni, che mi porgi la mano, che mi difendi.
Vorrei che tu mi baciassi, mi spogliassi e fossi già dentro di me.
Sogno che mi prenderai con prepotenza e desiderio trattenuto da tempo, senza parole, con una vitalissima voglia di vivere. Sogno di dirti qualcosa e che tu mi risponda ridendo:
Sei un capolavoro.”
Amami!
Ho bisogno di te.”

E’ bella, è bello il suo desiderio. È bello il coraggio che ci comunica.
Cantiamo tutte insieme.
E’ stupendo.

Il fuoco guizza e sparpaglia scintille di sole sui nostri piedi, la luce è soffusa, luminosa e soffice come un soffio di cipria, noi siamo felici e le nostre voci sono libere… Che giornata magnifica!
Lei è accovacciata su un enorme cuscino di velluto rasa ed è donna di terra.
Una steatopigia.
Non è pesante, ha qualcosa di così straordinariamente confortevole, accomodante e avvolgente che capisci il suo fascino pur essendo l’immagine di una donna che non esiste più.
Ha rotondità eccessive e ridondanti, ha tanto di tutto: colori e movimenti.
Quando cammina coperta dai suoi abiti fluidi, ampi, perfetti per lei, ha un incedere eretto, sensuale ed elegante che la fa parere bellissima.
Ha capelli folti e lunghi, ondeggianti come nastri d’oro e una voce musicale e lievissima di bambina.
Gira e rigira  le ciocche dei suoi densi capelli con dita forti ed elastiche dalle unghie laccate e stende una serica musicalità su tutte noi che l’ascoltiamo affascinate dal suono della sua voce.

Vorrei…
Vorrei farmi cullare.
Oh, sì! Mi avrà mai cullato nessuno?
Ascolto una musica liquida e triste e mi pare di sentire il mio corpo tornare piccolo, piccolissimo.
No.
Non mi ha mai cullato nessuno: Mi hanno sicuramente ben accudito. Ma la grezzezza della mia antica casa contadina non contemplava dolcezza, morbidezza, tepore e musica di un amore che è dedizione, piacere della carne tiepida di tuo figlio, che è amore lieve, che ti scalda anche la punta dei piedi.
Amore non è necessità, non è provvedere ai tuoi bisogni, ma profumo di pelle conosciuta.
Amore è qualcosa che scalda l’anima.
No.
Nessuno mi ha mai cullata.
Perché? Perché mi è stato tolto questo bene?
Perché ne sono consapevole e mi fa tanto male?
Vorrei…
Vorrei che voi che vivete con me e tutto mi chiedete, tutto pretendete perché sembro la donna più forte del mondo, capiste quanto, quanto grande è la mia fragilità, la mia paura, la mia tristezza.
Vorrei che voi, voi che vivete con me, capiste perché mi amate.
Perché invidiate la mia forza e mi depredate fino a vedermi esausta?
Perché invidiate il mio coraggio e lo minate alle radice per vedere se resisterà?
Perché non attingete alla mia sorgente invece di cercare in ogni modo di prosciugarla per poi dire che non è mai esistita?
Vorrei capire.
Cosa volete da me?
Più passano gli anni, più i miei occhi sono sensibili e vedono.
Più vedono, più i ricordi si fanno taglienti e più ho bisogno di consolazione.
Perché dovrei perdonare la vostra ignoranza quando voi non volete perdonare la mia lucidità?
Perché dovrei perdonare la vostra volgarità, quando voi combattete la mia leggerezza e mi fate disperdere tante energie?
Accettatemi!
Oh… che doloroso rimpianto di tenerezza, di tolleranza, di amorevolezza!
Vorrei essere cullata.
Vorrei sentire il caldo generoso e sicuro del corpo della mia mamma?
Dov’eri mamma?
Dov’eri, quando avevo bisogno di te?
Perché mi hai così terribilmente tradita?
Vorrei essere amata.
Vorrei un amico.
Vorrei sentire caldo al cuore.

Vorrei essere felice…”

Possibile? Possibile che anche lei con la sua voce calda, i suoi occhi ridenti e i suoi gesti morbidi sia così malinconica? Sorride come per scusarsi di averci riempito il cuore di lacrime e l’abbraccio perché vien voglia di dondolarla come una bimbetta disperata per un brutto sogno.
Qualcuna di noi si è addormentata. C’è tepore, un profumo e un bisbiglìo così affettuoso e rassicurante nella nostra sala che è chiaro che nessuno spezzerà questo incantesimo aprendo la porta verso l’esterno. Ci fa solo spavento pensare a quello che troveremo fuori di lì e speriamo in una nuova mattinata splendente di sole per trovare il coraggio di affrontare ancora la “realtà”.
Ma domattina…  per carità!
E’ donna di terra: bella, elegante, androgina. Le sue grandi mani dalle dita piatte e quadrate sono sporche di terracotta. Sta modellando la testa riccioluta del suo bellissimo bambino.
Fa un gesto affettuoso come una carezza col dorso della mano per scostarsi una liscia ciocca di capelli dalla fronte ampia e intelligente e con voce fonda come la falda limpida ma lontana d’un pozzo ricco d’acqua, gorgoglia:

Vorrei
non avere pietà di te.
Quella pietà molle e avvolgente che mi toglie lucidità e forza, quella pietà che mi stringe il cuore e mi fa sentire quel vuoto sospeso nell’anima che mi vieta di affondare il coltello e di liberarmi di tutte queste beghe, di tutte queste asfissianti banalità che mi uccidono.
Ti guardo ma non vorrei, per non essere travolta dalla pietà per la tua solitudine, per il buio in cui vedo affogare la tua intelligenza, la tua tenerezza, la tua bellezza.
Non ti guardo per non sentirmi inondata di lacrime che mi travolgono per la consapevolezza che forse potresti essere diverso da quello che sei, più luminoso e coraggioso e sei invece ancorato a terra dallo strazio che hanno fatto di te affettuoso e romantico bambino pieno di speranze.
So che nulla posso fare per te, perché hai paura della vita, perché non hai coraggio.
Mi invade allora un bisogno che è quasi un ordine di liberarti da quella viltà e la tua resistenza mi costringe ineluttabilmente a odiarti.
Ti odio non perché mi resisti, ma perché porti la tua viltà a simbolo e valore.
Diffido di te perché spegni tutte le stelline luminose che ti arrivano al cuore e al cervello..
Evito la tua solidità perché ti affanni a soffocare ogni scintillìo che potrebbe portare luce alla tua oscurità.
Ti odio perché fuggi da quello che non capisci, perché sei sordo a qualsiasi segnale, cieco a qualsiasi mutamento, muto a qualsiasi verità.
Odio la tua arroganza, l’ignoranza e la competizione che metti nel vivere con me.
Non sopporto nulla di te perché capisco che non sai nulla del tuo prossimo, non vuoi sapere, hai paura di conoscere e neghi a chiunque la possibilità di esistere al di là della sua materia.
So che il tuo amore per me è solo “bisogno”.
Vivo questo come una tenaglia e vorrei saper fuggire.
Ma sempre, nel momento in cui potrei buttarti via, lontano dai miei pensieri, dalla mia vita, ecco, mi assale quella tenerezza, quella pietà di te e del tuo essere così disgraziato che mi proibisce di cancellarti dal mio cuore.
Non mi ricorderei di te dopo due giorni che non ti vedo.
Vorrei viverti con levità e non voler sempre addentrarmi nel profondo del tuo esistere.
Vorrei che tu non fossi diverso da quello che sei, ma vorrei che tu capissi chi sei.
Vorrei che sapessi riconoscere i tuoi doni e sapessi usarli perché questo ti renderebbe felice, e odio il rifiuto sordo e ignorante che opponi alla conoscenza della tua verità.
Vorrei vivere nell’armonia, vorrei che insieme ci guardassimo e ci amassimo perché consapevoli di noi stessi. Vorrei che la tua paura di conoscere la verità non attentasse alla mia vita e alla mia dignità.
Vorrei non lasciarmi ferire, mangiare, consumare e offendere dalla tua viltà.
Se questo non avvenisse… vorrei prenderti per mano perché ti amerei.
Ti odio perché sei un predatore affamato e inconsapevole.
La tua furiosa competitività ti obbliga a negarmi per non riconoscermi e non sai che non sono io quel sole che invidi.
Il sole è lì per tutti quelli che hanno saputo vederlo e hanno voluto lasciarsi scaldare.
Vorrei dirti: non lottare contro di me, lotta per te.”

Abbandona le braccia lungo i fianchi e pare sfinita. Il suo viso è pallido, illuminato dalle grandi labbra, lisce, rosate, bellissime.
Appoggia la sua scultura incompleta, l’accarezza muta e severa e si sdraia sul tappeto davanti al fuoco con le mani sotto la testa.
La copriamo con uno scialle e lei chiude gli occhi.
Sappiamo che spera, spera sempre, come tutte noi, che veramente domani sarà un altro giorno.
Tintinnano cucchiaini in leggere tazze di porcellana resistente e lieve.
Beviamo bevande dolci, aromatiche e calde che ci consolano.
Siamo donne.
Avvezze a risorgere sulle ceneri di mille dolori, umiliazioni, sopraffazioni e spesso inconsapevoli brutalità, sappiamo cosa ci serve per ritrovare la speranza e la voglia di uscire ogni volta allo scoperto.
Anche il dorato colore di una dolcissima camomilla ci può scaldare così profondamente il cuore, la bocca, gli occhi, da darci la sufficiente giustificazione per vivere.
E così… si spengono qua e là delle luci, il tepore delle bevande si dissolve nell’aria, il fuoco crepita accomodante e gentile e noi ci addormentiamo piene di speranza.

In fondo sappiamo che è la nostra volontà di vivere l’unico futuro del mondo.




Maria Cristina tra i fiori alla Libreria dello Spettacolo

                                               
                                                  FINE