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I TACCUINI DI GACCIONE

PICASSO
di Angelo Gaccione

Pablo Picasso

Di Picasso è stato detto e scritto di tutto e sono state date le definizioni più diverse. Si è usato addirittura il sostantivo “cannibale”, per sottolineare la sua incredibile facilità e voracità nel divorare e metabolizzare arte; arte di qualsiasi tipo, di qualsiasi specie.    
Se la scrittrice americana Gertrude Stein, sua amica e collezionista (nel 1938 gli aveva dedicato anche un libretto) ne evidenzia la genialità e la capacità di vedere - e far vedere - le cose in modo nuovo: “Ecco perché i geni sono rari: complicare le cose in modo nuovo è facile, ma vedere le cose in modo nuovo è molto difficile”, non c’è dubbio che è stato Hans Sedlmayr quello che più di tutti ne ha sintetizzato l’essenza più vera, definendolo “l’artista proteiforme”. Vale la pena riportarle per intero le parole di Sedlmayr: “Davvero, non c’è probabilmente nessun nome che caratterizzi Picasso meglio di questo, e nessun artista che lo possa portare con maggior diritto di lui. L’uomo proteiforme, capace di trasformare ogni cosa, ora Dio, ora granello di sabbia”.
Questa corposa mostra allestita al Palazzo Reale di Milano, cui è stata data il titolo di Picasso. Metamorfosi, darà conferma dell’artista proteiforme, anche agli occhi di quanti non avevano potuto vedere l’antologica del 2001 e la monografica del 2012, che la città ambrosiana aveva dedicato al pittore malagueño.


P. Picasso
"Portafiori a forma di uccello

L’intento del curatore Pascale Picard è stato quello di mettere a confronto il lavoro dell’artista spagnolo, così come si è dispiegato attraverso alcune fasi temporali ben precise, con i modelli e i simboli (formali e culturali) che lo hanno via via sedotto e suggestionato. In primis, e in maniera corposa, con le fonti della tradizione antica mediterranea, ma non solo. Il percorso si articola in sei sezioni così suddivise: “Mitologia del bacio”, “Arianna tra Minotauro e Fauno”, “Alla fonte dell’antico”, “Il Louvre di Picasso”, “Antropologia dell’antico”, “L’antichità delle metamorfosi”. I materiali esposti provengono dal Louvre di Parigi (fondamentalmente dal Dipartimento delle Antichità greche, ed etrusco-romane e dal Dipartimento delle Antichità Orientali), dal Museo Nazionale Picasso della stessa città francese, un marmo proveniente dai Musei Vaticani e una matita su carta prestata dal Museo Ingres di Montauban, qualcosa dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Picasso di Antibes e di Barcellona, dal Museo dell’Orangerie e dal Centro Pompidou sempre di Parigi, dal Museo delle Belle Arti di Lione, dalla Fondazione Almine e Bernard Ruiz-Picasso per l’Arte (Bruxelles, Madrid), e una statua frammentaria dal Museo Barracco di Roma. Numerosi anche i prestiti da collezioni private. Se non ho contato male, considerando le acqueforti realizzate per illustrare il volume de Le Metamorfosi di Ovidio per l’editore Skira, i lavori di Picasso sono all’incirca un centinaio. Il resto è composto da coppe, anfore, crateri, skyphos, lekythos, statuette, piatti, hydria, stele, affreschi, mosaici, frammenti di materiale vario, bronzi, appartenenti all’antichità.

P. Picasso
"Fauno, cavallo e uccello"

Come si sa, Picasso è sempre stato affascinato dall’arte antica e dalla mitologia cui essa è legata. Ci sono tracce nei suoi lavori giovanili, lo sappiamo dalla frequentazione assidua delle Sale del Louvre dove si recava per “copiare” quell’arte con le sue figure e i suoi simboli; dalle letture, dagli appunti, e dalle sue stesse collezioni. Quando Apollinaire compì il famoso furto al Louvre, si scoprì che era stato proprio Picasso a comprare quelle statuette. Una fedeltà che abbraccia, come questa mostra registra, un arco di tempo che va dagli anni Venti ai tardi anni Cinquanta del secolo scorso. C’è una piastrellina decorata con un baccanale, su cui sono raffigurati un musico, un danzatore e un bevitore, che Picasso ha dipinto nel 1957; e del 1958 sono le lastre in argilla con i suonatori di flauto. Picasso ha avuto costantemente un occhio rivolto all’arte antica, anche nel pieno dei suoi periodi di maggiore sperimentazione, ed ha guardato più al mito ed ai suoi significati profondi che al gusto. Più alla metafora che al bello ideale, più al mistero che allo stile. “Il peggior nemico di un pittore è lo stile” amava dire, e forse è stato per questo che egli nel corso della sua lunga vita (morirà a 92 anni), di stili ne ha cambiati in continuazione.

Anonimo
Frammento di oscillum "Il bacio"

Quella di Picasso non è una semplice “copiatura” dei capisaldi che l’arte classica ci ha lasciato di più ragguardevole; è la trasformazione (una metamorfosi, appunto) geniale, inventiva, delle fonti che hanno nutrito il suo immaginario. Fonti da cui ha tratto ispirazione, codici che gli sono serviti per formulare una reinvenzione espressiva, e non una sterile provocatoria “dissacrazione” fine a se stessa. Qui è l’uomo proteiforme che, metamorfizzando, si metamorfizza a sua volta. Basterebbe richiamare alla mente due presenze costanti nella pittura di Picasso: il Fauno e il Minotauro. Due miti virili con cui spesso si è identificato e che hanno finito per rappresentare, volta a volta, il suo alter ego.
A proposito della figura del Minotauro è Picasso stesso a confermarcene la centralità: “Se tutte le tappe della mia vita potessero essere rappresentate con punti su una mappa e unite con una linea, il risultato sarebbe la figura del Minotauro”.

P. Picasso "Il bacio"
E poiché egli maneggia immagini, figure, la metamorfosi non può che riguardare le forme.
Forme che diventano “altre”, pronte ad assumere una nuova identità, nuove sembianze; a rivivere in una nuova vita: “Io prendo un vaso e ne faccio una donna. Impiego la vecchia metafora, la rovescio e le rendo vita”.
Il raffronto speculare che la mostra permette nelle sue Sezioni, risulta pregnante e di particolare interesse. Lo Specchio raffigurante la scena del giudizio di Paride (bronzo, 350-300 a. C.), gli ispira lo specchio ligneo Tre nudi del 1907; le forme della statuetta di marmo: Statuetta femminile con le braccia incrociate, gruppo di Syros (2700-2300 a. C.), gli ispirano quelle delle sculture di bronzo del ciclo I Bagnanti realizzati nel 1956; l’immagine della terracotta: Piatto a figure rosse con testa di donna (350-325 a.C.), gli suggeriscono il profilo di Françoise con chignon floreale dipinto su un frammento di terracotta del 14 settembre del 1950. Questa comparazione riguarda opere realizzate con materiali fra i più diversi, e mostra come l’atto creativo, sebbene sollecitato da quelle visioni e da quello studio, è rimasto perfettamente autonomo. Picasso fa tesoro di quello studio, di quel viatico che si è rivelato un prezioso nutrimento, e che affonda le radici in un passato così lontano, in una tradizione tanto augusta. Egli quelle radici non le ricusa, anzi.

Anonimo "Arianna Addormentata"

Consapevole come pochi, egli sa che Non c’è passato né futuro in arte. Se un’opera d’arte non può vivere sempre nel presente non se ne deve assolutamente tener conto, di questo è profondamente convinto. E la riprova è evidente nella Mitologia del bacio che apre la prima sezione di questa mostra. Gli antichi frammenti di oscillum di terracotta su i quali è raffigurato il bacio fra due amanti, hanno affascinato Picasso alla stessa maniera del bacio di Rodin, immortalato nel gruppo bronzeo conservato al Museo delle Belle Arti di Lione, come il bacio fra Paolo e Francesca del disegno di Ingres. Picasso vi si è avvicinato con la stessa ammirazione, con la stessa considerazione, senza badare ad alcuna distanza temporale. Non era interessato a quelle forme, era interessato all’aura che da quelle opere proveniva, al loro soffio vitale. 

P. Picasso "Nudo disteso"
Nasceranno Il bacio (1929), Il bacio (1943), Il bacio (1969), e L’abbraccio (1970). Sono tutti oli su tela, tutti di stile differenti, tutti picassiani, e le forme hanno subìto una rivoluzione. Ma lo spirito è quello di sempre. Perché compito dell’artista che viene dopo, non è di rifare pedissequamente il già fatto, ma di vivificare lo spirito di quel passato e di quella tradizione; ed è quello che fa Picasso. Ha scritto il compositore Gustav Malher, l’uomo “tre volte senza patria” (boemo, austriaco, ebreo), che “La tradizione è custodia del fuoco, non adorazione delle ceneri”. Io credo che queste magnifiche parole di Malher possiamo applicarle a Picasso senza difficoltà.
A lui, che più di ogni altro, ha custodito il fuoco e respinto le ceneri della tradizione; all’artista più geniale ed inventivo del XX secolo. 

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LIBRI
ALDA MERINI. LA POETESSA DEI NAVIGLI
di Angelo Gaccione

Alda Merini

Se vogliamo entrare davvero in sintonia con il libro di Aldo Colonnello dedicato alla memoria di Alda Merini (Alda Merini la poetessa dei Navigli, Ed. Meravigli, Pagg. 146 € 15,00), dobbiamo accettarlo per quello che realmente è: una lunga, affettuosa e appassionata lettera d’amore. Chi si immergerà nelle sue pagine si accorgerà subito che quella di Colonnello, nei confronti della poetessa, (ma direi anche della donna), non è stata la semplice frequentazione di un ammiratore affascinato dai suoi versi, o di un amico premuroso che, in quanto tale, c’è sempre, anche nei momenti più difficili, con l’attenzione, la sensibilità e la discrezione che una vera amicizia comporta. Tutto questo c’è, ovviamente, ma la sua è stata qualcosa in più: la devozione quasi filiale (e mai venuta meno) verso una creatura che si ritiene speciale, e che, proprio in virtù di quella devozione, si è disposti a perdonarle ogni cosa: capricci, impuntature, cambi d’umore, incomprensioni, scatti imprevedibili, umiliazioni, scelte discutibili, modo di vivere, perché accecati dal nostro affetto. Del resto, chi ha avuto modo di conoscere Alda Merini, sa quanto fosse spigoloso, indipendente e per nulla reverenziale il suo carattere, e come fosse altresì generosa, umana e disponibile; qualità che non sono molto diffuse negli ambienti letterari milanesi, anzi. Accettarla com’era o tenersene alla larga: non c’erano mezze misure possibili. Ed è anche per questo che io giudico stoica la resistenza di Colonnello, e straordinaria la sua fedeltà all’amicizia. Scrive in un passaggio del suo libro: “La Poetessa (Colonnello usa rigidamente la maiuscola) non era certamente una santa, credo di poter dire non fosse neppure umile, anzi era fortemente consapevole della propria limpida genialità, spesso la faceva pesare, annichilendo il malcapitato di turno o imponendo una personalità carismatica in contesti pubblici”. È tutto perfettamente vero, ma aveva un pregio raro: non fingeva nei rapporti umani, era rimasta autentica come la sua anima popolare, la lingua dialettale milanese che continuava a parlare, il suo bisogno di poco, e non si era snaturata e imborghesita come il quartiere divenuto finto e mercificato fino al midollo. Poeta lo era in ogni fibra, naturaliter; e quello che sentiva lo cacciava fuori quasi sempre nella maniera più immediata. Da anni non prendeva appunti e non scriveva; preferiva dettare agli amici, per lo più al telefono e nelle ore e nei momenti più diversi, notti comprese. Potevano venir fuori meraviglie, da questa pratica istantanea e prettamente orale, e potevano venir fuori cose non del tutto riuscite e che sarebbe stato meglio non mettere in circolazione. Ma fra i suoi numerosi amici ed estimatori ce n’erano anche di “disinvolti” che di scrupoli se ne facevano ben pochi. Ma non è questo il luogo per aprire un contenzioso.

Targa per Alda Merini
  
Di tale pratica “dettatoria” avevo beneficiato anch’io in anni diversi: nel 2001 per i due testi Silenzio e Favola, dettatimi al telefono il 10 gennaio di quell’anno e pubblicati nel prezioso volume collettivo “Le luci del Bauhaus” (Ed. Gutenberg); nel 2002 (e precisamente il 4 aprile) per la poesia Milano da me inserita nella ponderosa antologia “Poeti per Milano. Una città in versi” e pubblicata dalla Viennepierre edizioni. Erano passati nove anni dal libretto “Aforismi”, che le avevo pubblicato con una mia nota introduttiva nel 1992 nelle Edizioni Nuove Scritture. Pubblicammo quel libretto in due diverse ristampe cambiando la copertina (la prima volta con un’opera di Alberto Casiraghi, la seconda con una di Salvatore Carbone); Alda non si era fino ad allora cimentata con questa forma di scrittura, divenuta poi con gli anni piuttosto frequente. Nel 2006 mi salvò, letteralmente, da una incresciosa svista. Dovevamo andare in stampa con il numero 2 del IV anno del giornale “Odissea”, quello di dicembre, quando l’impaginatore si accorse, all’ultimo momento, che mancava la frase da inserire accanto alla testata. A ridosso del Natale non era cosa facile interpellare collaboratori e amici scrittori; e poi non tutti scrivevano aforismi e avevano pratica con il genere. Mi ricordai di Alda e le telefonai: “Sono nei guai” le dissi, mi bastano anche due solo righe, dobbiamo andare in stampa in meno di un’ora”. “Hai la penna?” mi chiese all’istante, “scrivi: Ricordati che due sole righe possono condannare a morte un uomo”. La profondità della frase e l’immediatezza con cui l’aveva formulata, mi lasciarono di stucco. Ero salvo. Telefonai a Fulvio Chiodini in tipografia e potemmo andare in stampa.
Aldo Colonello con Alda Merini

Non c’è dubbio che da questo rapporto Colonnello (avrete certamente notato che si chiama incredibilmente Aldo: se non è questo uno scherzo del destino…) è uscito più ricco e cambiato. Egli ha potuto salvare per noi la memoria di un tratto di vita della poetessa; registrare i suoi incontri e quelli avuti dall’autrice con personalità fra le più varie; la partecipazione ad eventi spesso da lui sollecitati e voluti; gli aneddoti, i versi che gli dettava a voce e che lui diligentemente trascriveva, e dunque dobbiamo essergliene grati. Come grati dobbiamo essere alle Edizioni Meravigli che hanno pubblicato un libro che ci illumina su molti aspetti privati di una poetessa a cui abbiamo voluto bene; ricco anche di foto, in gran parte scattate da un altro amico intimo della poetessa, Giuliano Grittini, comprese quelle in cui Alda riceve gli ospiti distesa sul letto come una matrona romana. E quelle delle pareti della sua incredibile casa, zeppe di appunti, numeri telefonici, graffiti e disegni fra i più vari.

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MAGRITTE
di Angelo Gaccione
R. Magritte
"Il figlio dell'uomo"

Tra i creatori di immagini pittoriche e grafiche che sono diventate delle icone del nostro tempo, Magritte, al pari di Leonardo e di Picasso, ha un posto di rilievo. Se vi capita di vedere l’immagine di un uomo in bombetta con una pipa, una colomba, o una mela sulla faccia, immediatamente riconoscete il suo autore. E così accadrà se vi trovate davanti a due figure il cui volto è nascosto da un velo mentre si baciano, o ad una “pioggia” di omini rigorosamente in soprabito e bombetta, sospesi su un cielo azzurro e sui tetti e le facciate di un edificio. Sono talmente tante queste immagini, e così diffuse, che hanno finito per esserci familiari. Ora, immaginatevi queste, ed altre ancora, che compongono la sua pittura: le lune del dipinto I misteri dell’orizzonte, le nuvole e la roccia de Il castello dei Pirenei, le sfere de La voce dei venti, la piuma che sorregge la Torre di Pisa di Souvenir de voyage, le fiamme che avvolgono i tromboni di The discovery of fire, ecc, scomposte, isolate, e poi mescolate a caso, fuse insieme, e proiettate in movimento sia in orizzontale che in verticale sulle pareti gigantesche di un enorme salone, allargarsi sull’intera superficie del pavimento, sul soffitto, sui corpi dei visitatori in piedi o seduti, sulle loro stesse facce dove si frantumano in schegge, mentre la musica che guida il tutto dà ritmo al fluire delle immagini. Il computer non solo ha scomposto e ingigantito oltre misura i singoli elementi presenti nei lavori di Magritte, ma è in grado di farli muovere, di conferir loro un’effimera vita concreta. E così le fiamme che avvolgono la poltrona o il trombone, scoppiettano e vibrano realmente; gli ombrelli e le pipe si moltiplicano e volano nel cielo; le nuvole, i cappelli, le mele, camminano; i gabbiani planano; la porta che era lì statica sulla tela si apre davvero; la palla del sole sorge e sale; la Primavera botticelliana de Il bouquet si stacca dalla figura dell’uomo in bombetta alle cui spalle era stata fissata dall’artista, e si incammina per il mondo...  
Ci troviamo di fronte ad una sorta di pittura di animazione, (dalla staticità del quadro al movimento cinetico), in cui ogni elemento, ogni oggetto, prende vita, si stacca dal suo contesto immobile dentro cui era stato fissato per altre possibili avventure.
Se nella pittura dell’artista belga la mescolanza di elementi apparentemente dissonanti, ibridi, produce allo spettatore un senso di spaesamento, di stupore vagamente surreale e metafisico, in questa performance tecnologica multimediale allestita alla Fabbrica del Vapore, l’effetto è quello di essere stato in un sogno fiabesco, un sogno poetico vissuto però ad occhi aperti. Sono sicuro che questo allestimento così inedito, sarebbe piaciuto a Magritte. Vedere i soggetti dei suoi quadri, le sue fascinose atmosfere, acquisire un nuovo incantesimo, lo avrebbe deliziato. Proprio come aveva scritto egli stesso della sua pittura: “Per me l’arte consiste nel dipingere l’incantesimo e il piacere”.   
  
R. Magritte
"La vacanza di Hegel"

Si è tanto parlato della pittura di René Magritte, senza tener conto fino in fondo di questi due postulati: l’incantesimo e il piacere. Sappiamo, com’è fin troppo ovvio, che molti altri elementi si sedimentano, a volte in maniera inconscia, nelle opere di un artista, e rimangono oscuri. Figuriamoci per un percorso come quello di Magritte. 
Tuttavia, senza scomodare Freud, la psicanalisi e l’esplorazione dell’inconscio, ci andrei molto cauto con un’ermeneutica sbrigliata e troppo “creativa”, e mi atterrei a ciò che l’artista ha detto o scritto nelle più varie occasioni; sono sicuro che le sue brevi, semplici, disincantate annotazioni, ci dicano della sua avventura artistica e del suo lavoro, più di quanto le nostre lambiccate analisi possano rivelarci. Riportiamone alcune. “Nella mia pittura non vi è mistero da spiegare. “Ai miei occhi i miei quadri sono validi se gli oggetti che rappresentano resistono a interpretazioni  per simboli o ad altre spiegazioni”. “Il mio modo di dipingere è assolutamente banale, accademico. Ciò che è importante, nella mia pittura, è ciò che mostra”. “Un’immagine dipinta non rappresenta idee o sentimenti, ma idee o sentimenti possono rappresentare un’immagine dipinta”. “Tutto tende a far pensare che vi sia una piccola relazione tra un oggetto e ciò che lo rappresenta”. “Solo un quadro capace di resistere a qualsiasi spiegazione è un quadro riuscito”.
Dopo queste frasi forse opere enigmatiche come La vacanza di Hegel col bicchiere in bilico sulla sommità di un ombrello aperto che sfida la legge di gravità e l’esperienza fisica, concreta, di ciascuno di noi; Il maestro di scuola di spalle nella notte con la falce di luna posta perpendicolare sulla bombetta, altro non sono che gli elementi concreti di quell’incantesimo e di quel piacere, mescolati perché l’artista stesso ne provi gioia e stupore insieme. “Era opportuno che la scelta degli oggetti introdotti per disorientare fosse portata su oggetti molto familiari allo scopo di dare allo spaesamento il suo massimo d’efficacia”, scrive Magritte. Ed è proprio la collocazione di questi oggetti così comuni inseriti in un contesto improprio, a generare la sorpresa, ad incantarci, prima e al di qua di qualunque analisi intellettuale, di qualsiasi interpretazione razionale che avrebbero solo l’effetto di rompere quell’incanto, quel godimento magico cui l’artista ci invita.
Ora davvero l’iscrizione che Magritte ha voluto apporre sotto la sua famosa celeberrima pipa dipinta nel 1929: “Ceci n’est pas une pipe” (Il tradimento delle immagini), diventa rivelatrice, e il quadro ci si presenta per quello che realmente è: un gioco, un ludico gioioso scherzo dada-surrealista. Ma lapalissiano nella sua implacabile logica: non può essere una pipa perché non ha nulla di reale, di concreto, ed infatti non si può prendere fra le mani e tanto meno accenderla e fumare. È una semplice idea, un’astrazione, ma come tutte le idee, spesso si fanno più corporee dei corpi stessi.  
     

Magritte con la bombetta

In Side Magritte è il titolo della mostra, (chissà poi perché in inglese, Dentro Magritte, sarebbe stato altrettanto efficace), e si è aperta il 9 ottobre scorso. Sarà possibile visitarla fino al 10 febbraio 2019 presso quel magnifico contenitore che è ora divenuto la Fabbrica del Vapore, in via Giulio Cesare Procaccini n. 4 a Milano
Curatrice scientifica Julie Waseige
Promossa dal Comune di Milano
Ideata da Crossmedia Group – Hepco
Assieme a 24Ore Cultura
Regia: The Fake Factory
Info e Prenotazioni: 02-54913
www.ticket24ore.it

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I RACCONTI DI VINICIO VERZIERI
di Angelo Gaccione

Vinicio Verzieri


Non si può dir meglio di quanto ha fatto, con acribia e rigore, Gianni Caccia nella sua post-fazione al nuovo libro di Vinicio Verzieri “Superamento”. Verzieri è un artista (e forse come tale è conosciuto dai più) è ha al suo attivo mostre personali e collettive in Italia e all’estero: pittura, scultura, grafica, sono le tecniche espressive in cui fonde tutta la sua sbrigliata visionarietà. Ma evidentemente all’artista questo insieme di strumenti non sono bastevoli ed ha bisogno anche della scrittura, di dipingere con le parole. Già a suo tempo Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo scriveva che dipingere a parole è anch’essa un’arte, un’arte altrettanto nobile e difficile. I diciotto racconti che compongono questa nuova prova letteraria, ci danno la misura della sua abilità a padroneggiare questo mezzo. E sebbene egli si schermisca: “Più che raccontare, ascolto il fruscio degli alberi e attendo che qualcuno, come il vento, mi narri favole esotiche”, annota nel breve racconto “Scrivere” (pag. 61), gli strumenti del narratore Verzieri li ha tutti, come dimostrano (tanto per citare), i testi “Il successo” (pag. 51) o “Cosmé e il manichino” (pag. 84). Anche se preferisce accogliere incanti di poesia, semplici struggimenti, seduzioni visive, fremiti dell’animo e fissarli sulla carta con la rapidità del tocco del pittore, ruolo che non smette di ricoprire quando scrive. Perché, come efficacemente si esprime nel racconto “Richiamo”, “(...) l’anima del poeta-pittore è sempre in balia dell’ispirazione che è un soffio divino”.    
E di pittura, architettura, colori, atmosfere, luoghi pregni di suggestioni pittorico-poetici, di musicalità (in una parola: bellezza), questi scritti sono carichi. Troppo evidenti come sono già nei titoli, “Bianco”, “Il ritratto”, “L’ultima cena”, o nei protagonisti: Cosmé (Tura), Vincent (Van Gogh), o i continui rimandi a poeti, letterati, all’arte stessa. Nel racconto “Richiamo” l’incontro folgorante con una donna misteriosa e bellissima, si rivelerà, proprio nelle ultime battute a chiusura di quello che per molti aspetti sembra essere stato un sogno, un magnifico sogno, proprio l’incarnazione dell’arte intensa come bellezza, perfezione assoluta e salvifica. Un fantasma di donna vagheggiato, ma in fondo reso concreto dall’insopprimibile anelito verso il bello, la perfezione dello spirito, che entrambi ci umanizzano e rendono questa vita, pur fra le mille brutture quotidiane, degne di essere vissuta. Un fantasma tuttavia impalpabile e frutto del desiderio destinato a rimanere tale? E sia pure, se esso è in grado di elevarci, di “darci il benedetto pane per lo spirito” come magnificamente si esprime il narratore. Può darsi che queste prose intellettuali, questi “schizzi”, queste “pennellate” dal sapore più saggistico che narrativo, dispiaceranno a molti lettori. A me, che pure da sempre sono innamorato del genere racconto e che da una vita lo difendo contro l’invadenza del romanzo e della sua dittatura, hanno invece procurato godimento.

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DESIDERIO E FRUSTRAZIONE
di Angelo Gaccione

Acri. Palazzo Sanseverino

Può capitare di trasformare un desiderio, magari custodito da tempo nell’inconscio, fino a farlo diventare così concreto, tanto da essere convinti di averlo visto materializzato nella sua oggettività più tangibile. La desiderabilità, vale a dire, come prepotente germinazione di un fatto reale. È quanto accaduto a me, in un recente viaggio di ritorno nella mia città di origine. Su suggerimento del mio caro amico Franco Esposito, poeta e direttore di quella magnifica e longeva rivista che è “Microprovincia”, sono andato a vedere la mostra dedicata ad autori e materiali iconografici riguardanti l’Albania ai tempi del dittatore Enver Hoxha, ospitata al Museo di Arte Contemporanea di Acri, e che ha sede nel maestoso palazzo che fu del principe Sanseverino. Franco Esposito vive da molti anni a Stresa sul Lago Maggiore, ma è nato a Macchia Albanese (patria di Gerolamo De Rada a cui diversi anni fa dedicammo un numero monografico di “Microprovincia”, e delle giornate culturali a Macchia, facendo aprire per l’occasione, la casa dell’autore de I canti del Milosao), un borgo di San Demetrio Corone, terre entrambe appartenenti a quella koinè arbereshe che nell’area cosentina è molto diffusa, e che dall’antica Albania trae origine. Questo per dare ragione ai lettori dell’interesse di Esposito per la citata mostra. Ho approfittato dell’occasione per visitare una parte del palazzo, grazie anche alla gentile disponibilità del custode che si è messo a disposizione, e mi dispiace di non essermi annotato il nome per poterlo citare in questa nota. Lo ringrazio tuttavia pubblicamente, perché ho potuto vedere le Sale magnificamente ristrutturate dei vari piani, e la corposa donazione al Museo di Silvio Vigliaturo nativo della città di Acri, e che credevo fosse limitata solo ai suoi lavori in vetro. Invece è ricca di opere realizzate con i materiali e le tecniche più diverse, compresi i disegnini degli esordi della più tenera giovinezza.
Monumento a Battista Falcone
In questo palazzo dalle origini seicentesche, dimora estiva di Giuseppe Leopoldo Sanseverino principe di Bisignano, nacque Battista Falcone (Giambattista, come più diffusamente si trova scritto) il 23 ottobre del 1834. Il palazzo era passato alla famiglia dello sfortunato rivoluzionario che morirà giovanissimo nella spedizione di Sapri organizzata assieme a Carlo Pisacane ed altri patrioti antiborbonici, poiché il padre Angelo Falcone aveva sposato la principessa Carmela Sanseverino. Sulla lunga parete del palazzo che dà sul piazzale, una lastra marmorea (un po’ sbiadita, in verità) messa dal comune della città nel luglio del 1957 per celebrarne il primo centenario della morte, ricorda quella tragica vicenda. Aveva appena 23 anni Giambattista, e di quella spedizione era il vicecomandante. Nel mio inconscio si era radicata la convinzione (ritenuta ovvia, dal momento che quella casa gli aveva dato i natali) che il piazzale su cui si distende il palazzo, portasse il nome di Giambattista. Ho voluto verificarlo controllando i tre lati del piazzale, e ho scoperto, con enorme stupore, che non esiste alcuna indicazione toponomastica. Incredulo, la mattina dopo ho telefonato in Municipio e mi sono procurato il telefono personale dell’assessore alla cultura. Fresco di nomina, l’architetto Giuseppe Giudice (che conosco da sempre), ignorava a sua volta che non ci fosse, di quel piazzale, indicazione di sorta. Anche lui era convinto che la piazza fosse dedicata a Giambattista, e si stupiva che non vi fossero le targhe sui cantoni. Gli dissi che ero pronto a partecipare ad una sottoscrizione per realizzare un paio di targhe marmoree da murare sui lati, con il nome del giovane patriota, e che mi sarei dato da fare in prima persona per non gravare sulle casse comunali. Mi disse che si sarebbe subito attivato per capire come stessero le cose e sulla stranezza di quella mancanza. Mi informò, tra l’altro, di aver chiuso la sua carriera in qualità di preside, proprio all’Istituto scolastico che porta il nome di Battista Falcone. Alcune ore dopo, l’assessore fu in grado di informarmi che pur non essendoci le targhe, il piazzale ha tuttavia un dedicatario: non si trattava però (come io avevo sempre creduto - o desiderato - fino a farne una certezza) di Battista Falcone, ma di un Francesco Falcone di cui ignorava vita e opere. Ovviamente ne restai deluso. Confesso di non essere riuscito a saperne di più sul dedicatario del piazzale; conosco invece un Giuseppe Falcone nato ad Acri nel 1833, figlio di Luigi Falcone e di Anita Sanseverino. Giurista e magistrato, capitano garibaldino, partecipò alla spedizione dei Mille nel 1860 assieme ad altri due acresi: i fratelli Vincenzo e Francesco Sprovieri. Che sia stato dedicato a lui il piazzale senza targhe e che in Comune abbiano equivocato sul nome? Con questo tarlo vado a letto: è tardi e sono stanco, le lettere già si accavallano disordinate e incoerenti sul monitor del computer.   
         
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VISERBA, SERGIO E L' HOTEL AURORA
di Angelo Gaccione

Viserba, villa primi Novecento

Ci si reca in un luogo per più motivi: alla ricerca dei propri miti (letterari, musicali, filosofici, artistici, storici...), perché ci è caro, perché c’è un amico da visitare, o semplicemente perché siamo sicuri di trovarci bene. Se lo facciamo per un periodo di riposo nel corso dell’estate ed in una struttura canonica, come può essere un hotel o una pensione, quel che ci aspettiamo è un ambiente pulito e curato, una cucina che unisca bontà e attenzione alla salute, e soprattutto disponibilità e gentilezza. Se uno di questi presupposti viene a mancare, restiamo delusi e quello che doveva essere un periodo di sereno riposo, si trasforma in un malinconico risentimento.

Viserba. In memoria di Elio Pagliarani

A Rimini sono stato in periodi diversi, per riposo e per ragioni legate al mio lavoro di scrittore. Viserba invece, una lunga appendice che dista circa 15 minuti dalla stazione di Rimini che corre in direzione nord, era per me un cartello intravisto fugacemente in televisione, al telegiornale, in occasione di uno dei tanti eventi della riviera adriatica. Il suo nome di origine romana (Vis Herbae o Veherba) mi evocava l’elemento di cui il toponimo la connota e di cui deve essere sempre stata ricca: lerba, o più precisamente la verzura, che doveva ampiamente ricoprire la sua fertile pianura. Niente di più. Ignoravo anche che a Viserba era nato il poeta Elio Pagliarani, di cui gli appassionati di poesia ricorderanno di sicuro il suo poemetto La ragazza Carla. L’ho scoperto soggiornandovi (ahimè per appena sei giorni!) l’ultimo scorcio di agosto, e ho potuto anche vedere il percorso ciclo-pedonale che gli è stato dedicato in ricordo, con le due targhe incorniciate ai lati opposti dei rispettivi imbocchi.

Viserba. Il solarium dell'Hotel Aurora

Non ci siamo pentiti (io e mia moglie) di questo soggiorno. Sergio Guidi, proprietario e gran cerimoniere dell’Hotel Aurora, situato in via G. Dati lungo la principale via della frazione, sin dalle prime telefonate ha fatto evaporare ogni nostra perplessità. Si è messo a disposizione offrendosi di venire a prenderci alla stazione di Rimini e condurci in Hotel, mostrando quanto tenga agli ospiti. Una sensibilità completamente diversa, se paragonata a quella di certi albergatori liguri che non hanno ancora ben imparato come si fa il turismo. Ma d’altronde la famiglia Guidi fa accoglienza turistica dal 1928 e 90 anni di rapporti con clienti di ogni tipo e luogo, hanno sedimentato a dismisura esperienza e savoir faire. Basti vedere come Sergio si muove fra i tavoli durante i pasti, chiedendo, offrendo, sollecitando i commensali, le famiglie, i bimbi, spesso con la battuta di spirito, perché il clima diventi piacevole, familiare il convivio. La simpatia della signora Grazia, sua sposa; la gentilezza del personale ai piani, di quello della Sala pranzo; insomma dell’intero staff, sono un valore aggiunto e fanno la differenza in una intrapresa di questo tipo. Il ricordo positivo che ne conserviamo finisce inevitabilmente per legarci al luogo e alle persone che lo incarnano, e in un epoca di comunicazione globale e dai mezzi così diffusi, esso si rivela come la più preziosa delle pubblicità a costo zero. Un passa parola più efficace di qualsiasi inserzione pubblicitaria perché sperimentata direttamente, verificata di persona.
E se Viserba non conserva più il fascino di una belle époque irrimediabilmente scomparsa, se la rincorsa al cemento ha prodotto manufatti anche discutibili o marciapiedi per lunghi tratti inesistenti, ci si può almeno consolare con la buona cucina dell’Hotel Aurora e di un’accoglienza che ti fa sentire a casa.       


***

LA PINACOTECA AMBROSIANA
Il viaggio delle meraviglie
di Angelo Gaccione


Premessa

Questa lunga conversazione con Vittorio Bergnach, allora Responsabile di Sala della Pinacoteca Ambrosiana, risale al 1998. Composta da 12 fitte cartelle battute con la mia Olivetti portatile Lettera 32, è rimasta inedita per vent’anni. L’ho rinvenuta lunedì 6 agosto assieme a un’altra conversazione, avuta quello stesso anno con Matteo Sartorio, allora direttore del Museo Teatrale alla Scala. Al momento non ho potuto verificare se anche questa sul Museo Teatrale sia rimasta inedita; con certezza, invece, so che due scritti brevi, uno sulla Pinacoteca con il titolo “La Casa degli Spiriti Magni”, e uno con il titolo “Il Museo Teatrale alla Scala”, li avevo pubblicati sul settimanale “Milano Metropoli” e poi, nel 2013, nel volume Milano città narrata. In quel libro sono confluiti anche scritti sul Museo Poldi Pezzoli, la Casa del Manzoni, la Sinagoga ebraica, la Casa dei musicisti Giuseppe Verdi, sul mio quartiere di Porta Romana (“Elogio della Porta Nobile”), il Museo della Tortura alla Pusterla di Sant’Ambrogio.
Probabilmente questa intervista era troppo lunga per un giornale, e devo essermene alla fine dimenticato. In tutto questo vasto arco di tempo molte cose sono cambiate: l’allora Prefetto è diventato Cardinale e si è trasferito a Roma, e Bergnach probabilmente si sta godendo, così spero, la sua meritata pensione. Rileggendola mi sono ricordato della sua delicata disponibilità e della sua competenza. È un dovere morale da parte mia rendergli onore pubblicandola, seppure con vent’anni di distanza. In fondo devo a lui molto di ciò che ho imparato su questo luogo così straordinario.


Federigo Borromeo
Incipit

Federigo Borromeo (1564-1631) non era solo un potente uomo di chiesa (divenne cardinale a 23 anni e nel 1595 arcivescovo di Milano), era anche un erudito e umanista amante di libri, e un curioso appassionato di arte. A queste sue passioni si deve la creazione di due fra le più celebri ed importanti istituzioni culturali oggi esistenti a Milano: la Biblioteca Ambrosiana (inaugurata nel 1609) e la Pinacoteca Ambrosiana che si costituiva ufficialmente il 28 aprile del 1618, in seguito alla donazione della sua collezione privata. La Pinacoteca fu ospitata nel palazzo che larchitetto Fabio Mangone aveva progettato nel 1611 accanto alla Biblioteca, dove il Cardinale aveva anche istituito una vera e propria Accademia con gli insegnamenti di pittura, scultura e architettura, avvalendosi di docenti del calibro di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, di Andrea Biffi e dello stesso Fabio Mangone. Prima che il governo austriaco la trasferisse a Brera (1755), l’Accademia ebbe una notevole funzione non solo perché da essa uscirono maestri ed artisti di indiscutibile valore, ma contribuì, attraverso la realizzazione di copie di dipinti celebri, a creare una sorta di archivio della memoria estremamente prezioso. La Pinacoteca poteva già allora vantare opere importanti di Tiziano, Caravaggio, Bruegel, Raffello e tanti altri, che il Cardinale aveva acquistato durante la sua vita. E tuttavia nel corso dei secoli il suo patrimonio è andato via via arricchendosi, attraverso lasciti e donazioni, che fanno della Pinacoteca uno dei musei privati più significativi ed interessanti del mondo. Riaperta al pubblico il 21 ottobre 1997 dopo un lungo e laborioso restauro durato 7 anni, la Pinacoteca possiede oggi un patrimonio di oltre 300 opere pittoriche esposte nelle sue numerose sale. Molte altre sono custodite nei depositi e di tanto in tanto trovano posto nell’ultima sala adibita a quadreria. Uno dei due Responsabili di Sala della Pinacoteca è Vittorio Bergnach; è stato lui a guidarmi, diligente e paziente, in questo viaggio delle meraviglie. [A.G.] 




Angelo Gaccione: Dottor Bergnach, qual è stato il criterio che ha guidato questo nuovo allestimento della Pinacoteca?

Vittorio Bergnach: “Col nuovo allestimento si è deciso di separare la collezione originale del Cardinal Federigo, dalla collezione di tutte le donazioni successive. Con opere del nucleo originario si può fare lo stesso però un discorso cronologico, perché in questa prima Sala ci sono autori del Quattrocento e del Cinquecento: e così nella seconda Sala, pur essendoci opere arrivate a noi più tardi. Questa prima è dedicata alle due scuole che il Cardinale amò maggiormente: quella veneta e quella leonardesca, e per rappresentare queste due scuole ci sono soprattutto Tiziano e Bernardino Luini. Le due opere principali di questi autori sono una di fianco all’altra: una è l’Adorazione dei Maggi del Tiziano, l’altra è una Sacra Famiglia con Sant’Anna e San Giovannino del Luini. Di questi due autori nella stessa sala ci sono altre varie opere”.

G: E quell’indice levato in alto del bambino? Lo si ritrova in molti dipinti di Leonardo.

B: “Questo dipinto definisce molto bene perché Bernardino Luini è definito leonardesco. È stato infatti copiato da un cartone di Leonardo da Vinci che si trova adesso alla National Gallery di Londra, e perciò ci sono tutti gli elementi di Leonardo: da quel dito appunto rivolto verso l’alto, alla rotondità delle figure e a questa ineffabilità del sorriso tra le due donne. In particolar modo poi lo sfumato, cioè questa ricerca di rappresentazione raffinatissima di luci e ombre che in fondo costruiscono il corpo: lo sfumano ma anche lo costruiscono nell’ambiente in cui è immerso”.

G: Lo lasciano intuire. In questo è di una modernità sconcertante, e poi la cura dei panneggi...

B: “L’unico personaggio che non è nel cartone di Leonardo a Londra, è proprio San Giuseppe che qui vediamo in profilo netto e che Leonardo non avrebbe fatto. Bernardino Luini lo inserisce di sua volontà. Dipinti di Luini ce ne sono diversi qui in Pinacoteca: c’è un Gesù adolescente, il piccolo ma famoso e accattivante Gesù bambino con l’agnello e questo Noli me tangere. È interessante vedere come poi Bernardino Luini diventa sempre più raffaellesco. Quest’ultimo è ormai un quadro che si avvicina a Raffaello: è appena stato restaurato, però vediamo che i colori dei vestiti sono gli stessi della Sacra Famiglia, solo che qui c’è una verniciatura di protezione messa nei secoli scorsi che lo vela un po’ di giallo opaco.

B. Luini. Noli me tangere

G: Fermiamoci a questa Adorazione di Tiziano.

B: “I Tiziano che ha l’Ambrosiana sono tutti di un secondo periodo non più giovanile. Questo è una via di mezzo: non ci sono i colori sgargianti, brillanti di Tiziano, ma vediamo tantissime gradazioni di rosa e di rosso.

G: Insomma queste scuole leonardesche e tiepolesche erano molto care al Cardinale...

B: “Vede questo? È un altro quadro abbastanza famoso, si considerava un ritratto di Beatrice d’Este moglie di Lodovico il Moro, dipinto da Leonardo da Vinci. Mentre ora invece è attribuito a Giovanni Ambrogio De Predis ed è il ritratto di una dama sconosciuta, ma è stato il simbolo dell’Ambrosiana per tanto tempo: tant’è vero che questa dama è stata anche chiamata l’Ambrosiana. È ricordata soprattutto per l’attenzione che il De Predis rivolge all’acconciatura, e per questo è chiamata La dama della reticella. In particolare modo è famosa per la luce e la trasparenza delle perle che cambia a secondo di dove le perle sono appoggiate”.

A. De Predis. Ritratto di Dama

G: Mi pare di cogliervi degli echi leonardeschi.

B: “Ci sono dei primi timidi cenni a Leonardo: appunto questa ricerca della luminosità e dell’ombreggiatura, ma anche questo ricamo del vestito che ricorda i modi vinciani e il loro sorprendente intrecciarsi.

G: Qui invece è un trionfo di Tiziano...

B: “Sì, questa seconda parte della Sala ha quasi tutte opere del Tiziano o di bottega del Tiziano. Interessante questo ritratto dell’Uomo con armatura eseguito da Tiziano stesso. Come le dicevo prima, i Tiziano che abbiamo sono dell’ultimo periodo, quindi non ci sono quei colori brillanti, però si vedono chiaramente i suoi interessi per lo studio della luce. Questo corpetto, per esempio, è di un rosso piuttosto consumato, ma è tutto un gioco di fiammeggiamenti pur pacati, ma molto belli. Questo ritratto ci rammenta come Tiziano sia stato uno dei più grandi pittori del Cinquecento europeo, un ritrattista che veniva ricercato da tutti i regnanti europei perché sapeva coniugare molto bene una certa dignità, compostezza del personaggio, assieme a un certo realismo psicologico. Fino a poco tempo fa questo dipinto veniva considerato un ritratto del padre di Tiziano. Tiziano aveva una bottega di una cinquantina di elementi poiché non riusciva a soddisfare le esigenze dei vari regnanti. Qui ci sono quadri che sono anche in altri musei, hanno lo stesso soggetto e spesso variano in piccoli particolari. Di questa Deposizione, per esempio, ce n’è una a Madrid di cui ho visto una riproduzione dove quest’uomo che qui è vestito di nero, lì è vestito di giallo con cerchi neri, mentre l’originale di quella Maddalena, è al Palazzo Pitti di Firenze. In questa seconda Sala c’è una parete dedicata ad altri pittori veneti come la Sacra Famiglia della bottega di Giovanni Bellini e questo polittico di Bartolomeo Vivarini; una parete dedicata a pittori lombardi di fine Quattrocento primi-Cinquecento e inoltre un bel tondo ancora con una Sacra Famiglia della bottega del Ghirlandaio; ma soprattutto ci sono queste due opere: Il Musico di Leonardo da Vinci e La Madonna del Padiglione di Botticelli”.

Leonardo. Ritratto di musico

G: Il Musico è un capolavoro.

B: “È davvero interessante e affascinante, a parte la sua eccezionalità di essere l’unico ritratto maschile dipinto da Leonardo: sappiamo che Leonardo ha ritratto alcune dame, ma questo è l’unico ritratto maschile al mondo ed è anche l’unico olio su tavola che di Leonardo possiede Milano. Prendendo dai fiamminghi e da Antonello da Messina porta il nuovo anche nella pittura di ritratto lombarda del tempo, ancora legata al mondo tardo-gotico come abbiamo appena visto. Essendo per lui l’arte, scienza, ecco che, come dice nei suoi appunti, non si accontenta del solo esteriore ma indaga l’interiorità del personaggio per cercare di esprimerne i “moti dell’anima”. È un ritratto quindi non più di profilo netto come la dama del De Predis; è moderno, è vivo...”

G: E questa magnifica Pala?

B: “È una Sacra Conversazione, quindi Maria in trono col Bambino in centro con ai due lati dei santi e delle sante e, inginocchiato, il donatore. È un mondo ancora gotico ricco di particolari preziosi spesso d’oro, ma con degli accenni finalmente al mondo rinascimentale: la prospettiva di Bramante che era anch’egli qui a Milano a fine Quattrocento e ha lasciato opere architettoniche e pittoriche famose e significative; non è più a fondo oro, quindi, come ancora nel polittico del Vivarini per esempio”.

G: Qui siamo nella terza Sala, una sala più piccola ma con autori di un certo interesse, mi pare.

B: “Beh, sì, ci sono queste tre opere rare del Bramantino soprattutto. Bramantino è il pittore più importante di Milano inizio Cinquecento, assieme a Bernardino Luini, ed è interessante indagare nelle sue rappresentazioni spesso originali, seppure con scene tradizionali. Lo possiamo ben vedere già in questa Adorazione del Bambino del suo primo periodo. Non inserisce i tre magi ma tre frati di tre ordini differenti: benedettino, francescano, domenicano; c’è poi quell’uomo a lato sulla sinistra che è coronato di lauro, pur non bello, dovrebbe rappresentare Apollo dio della poesia e della musica; nel lato opposto in primo piano una Sibilla; quel ramo secco indicherebbe la fine del mondo pagano, mentre il ramo fiorito sotto l’arco di trionfo, la nuova era che nasce col Cristo. Questa seconda opera del Bramantino è un affresco staccato già da secoli, dall’entrata della basilica del Santo Sepolcro che dai primi di questo secolo è inglobata all’Ambrosiana, e ne potrà vedere l’abside uscendo sul loggiato che incontrerà lungo il percorso. Un affresco raffigurante una Pietà e che ora purtroppo manca delle gambe ripiegate del Cristo che non si sono potute salvare. Infine ecco uno dei quadri che più sconcerta e incuriosisce il visitatore, meglio conosciuto col titolo di Madonna delle Torri
Bartolomeo Suardi detto il Bramantino
Madonna delle due torri

È un Bramantino che ormai ha visto Roma; le figure sono più monumentali, ma ciò che incuriosisce sono i due cadaveri in primo piano distesi in prospettiva: quello del rospo (significante il male, il demonio) e di quell’uomo a rappresentare l’eresia di Ario sconfitta da Ambrogio. Senz’altro avrà notato il viso maschile di Maria e quelle costruzioni così moderne... In questa Sala vi sono esposti autori lombardi che più o meno sono stati influenzati da Leonardo. Uno per tutti, prendo come riferimento questo San Giovanni Battista del Salaino che prende spunto da due opere di Leonardo ora al Louvre: il San Giovanni Battista e, per lo sfondo azzurro e roccioso, La Vergine delle Rocce. Da qui, ritornando nella collezione del Cardinale Federigo, troviamo alcuni tra i pezzi più importanti, famosi e affascinanti. In questa quarta saletta c’è quasi tutta la pittura veneta spesso facente riferimento ancora a Tiziano: quella Madonna con Bambino, San Giovannino e Santa Caterina d’Alessandria, per esempio, è stata dipinta dal fratello di Tiziano, Francesco, che lavorava nella sua bottega. In primo luogo, però, c’è, ammirevole, questo Jacopo Bassano Riposo durante la fuga in Egitto”.


J. Da Bassano. Riposo durante la fuga in Egitto

G: Che realismo! Questo impasto di colori è eccezionale.

B: “Davvero; come spesso nei veneti che privilegiano il colore differenziandosi dai toscani che hanno alla base il disegno. Bassano, soprattutto in un certo periodo, inizia un genere conosciuto e apprezzato in tutta Europa, anche grazie ai suoi figli e nipoti che lo proseguiranno: il genere cosiddetto pastorale; e qui lo vediamo proprio questo suo amore per la natura e il mondo contadino: al centro la Sacra Famiglia, ma ogni altro elemento è molto bello e non in secondo piano. La testa dell’asino per esempio, questo albero poderoso, gli altri animali ed i contadini...”.

G: Elementi che poi diventeranno molto comuni nella pittura del Seicento.

B: “Certo. Il Bassano è stato liquidato dal Vasari col titolo un po’ limitativo di “pittore degli animali”, ma il cardinale acquistando questo quadro dice che con questa opera Jacopo Bassano ci dimostra che non solo sa dipingere gli animali, ma anche rappresentare bene i sentimenti umani. “Io - dice il Cardinale - amo soprattutto l’espressione del vecchio e stanco San Giuseppe che guarda giocare il Bambino col velo della mamma”.

G: Come mai questa quinta Sala ha delle luci così fioche?

B: “Perché nella seconda parte vi sono esposti disegni. In questa parte ci sono spesso opere o copie per l’Accademia, che dovevano servire da modello per gli allievi. Questa serie di teste di vari autori, per esempio, sono teste di personaggi di varie età perché il Cardinale diceva che un bravo pittore doveva saper fare innanzitutto bene le teste”.

G: C’è qualche nome significativo in questa Sala da citare?

B: “Senz’altro questo Presepe di Federico Barocci di Urbino considerato il precursore del Barocco. Questo quadro è una replica, da non confondere con copia, perché è stato realizzato dall’autore dell’originale con interventi del suo maggior allievo; il Cardinale ama talmente questo quadro che non potendo avere l’originale si procurerà col tempo una sua replica”.

G: Come mai non riuscì ad avere l’originale?

B: “Perché doveva andare in dono dal duca di Urbino alla regina di Spagna. Infatti l’originale è a Madrid”.    

G: Il Cardinale doveva apprezzare molto questo pittore.

B: “Sì, molto. Inviterà varie volte il pittore a venire a Milano a lavorare, ma questi non riuscirà mai a venire. Oltre a quest’opera farà una pala d’altare che è tra le poche nel Duomo di Milano. Una delle sue caratteristiche, come vede, è questa tavolozza dai colori pastello. Eccoci nella seconda parte della Sala. Nelle pareti laterali sono esposti disegni quasi tutti preparatori per le vetrate del Duomo di Milano di Pellegrino Tibaldi, un artista che lavorò molto qui nel periodo in cui Carlo Borromeo era cardinale. Si tratta della quarta vetrata del lato sinistro, per la precisione. Ma qui come vede, giganteggia quest’altra opera...”.

Raffaello. Cartone preparatorio de
La scuola di Atene

G: Il famoso cartone di Raffaello!

B: “Sì, è il cartone preparatorio de La scuola di Atene, l’affresco che si trova nella Stanza della Signatura in Vaticano. La stanza che viene destinata a Biblioteca da Giulio II. È l’unico cartone preparatorio di queste dimensioni al mondo, l’unico del Rinascimento che è arrivato fino a noi”.   

G: Eccezionale! Quanti metri sarà?

B: “Circa 8, mi sembra”.

G: Si è mantenuto meravigliosamente, se pensiamo che è stato eseguito nei primi anni del Cinquecento...

B: “È davvero affascinante, in questa penombra poi... Rappresenta come poche altre opere cos’è stato il Rinascimento italiano con questa centralità dell’uomo e della ragione, la ricerca di armonia e proporzione, la scoperta e rivalutazione del mondo greco e latino. Se noi pensiamo che l’affresco che deriva da questo cartone è in una stanza del Papa, cioè il massimo esponente della cristianità... Per rappresentare il massimo della ragione umana, Raffaello utilizza delle personalità del mondo pagano: questa è già un’eccezionalità. Innanzitutto inserisce al centro dell’opera in cima allo scalone, i due più importanti esponenti filosofici dell’antichità: Platone e Aristotele. Poi, tutt’intorno vari gruppi di personaggi che dialogano, discutono delle loro diverse teorie. Un’altra caratteristica della sua fama è dovuta a riferimenti e fisionomie di grandi personaggi del mondo rinascimentale italiano. Unanimemente riconosciuto in Platone è il volto di Leonardo da Vinci con il dito rivolto verso l’alto, ad indicare qui il mondo delle idee del filosofo greco”.

G: Gesto simbolico tipico di Leonardo.

B: “Copiato anche dal Luini degl’inizi, come abbiamo visto”.

G: E gli altri personaggi, gli altri volti?

B: “Come può immaginare le interpretazioni sono varie. Comunque ci sono Pitagora, Averroè, Socrate, Diogene e con quel compasso e le sembianze, pare, di Bramante, il matematico Euclide. Ci sono quasi tutti i personaggi dell’affresco tranne tre: all’estrema destra dell’affresco ci sono due ritratti, uno del Sodoma e l’altro di Raffaello stesso; ma soprattutto si nota che qui in primo piano, dove ci sono questi gradini, Raffaello inserisce un personaggio nuovo seduto che non aveva previsto: Eraclito col viso di Michelangelo. Si dice in suo onore perché aveva appena finito e scoperto una parte degli affreschi sulla volta della cappella Sistina. Lo inserisce direttamente ad affresco già finito”.

G: Da chi l’aveva avuto il Cardinale questo cartone?

B: “Era stato acquistato dal Cardinale Federigo nel 1626 dalla vedova del proprietario che si chiamava Fabio Borromeo Visconti, per una cifra consistente di 600 lire imperiali. Grazie a lui ora possiamo qui lasciarci affascinare da quest’opera unica”.    
 
G: E quest’altro?

B: “È un disegno di Giulio Romano, il maggior allievo e collaboratore di Raffaello. È parte di un cartone preparatorio per un affresco anch’esso nelle stanze vaticane. Quando muore prematuramente Raffaello, dopo un po’ il papa commissiona a Giulio Romano l’affresco chiamato La battaglia di Costantino”.

G: Vi si respira un’altra atmosfera rispetto a Raffaello.

B: “È un nuovo mondo, un mondo in crisi chiamato “Manierismo” dove il movimento è protagonista... E questa è la sesta Sala dove si conserva la famosa Canestra di frutta di Caravaggio, giustamente simbolo ormai dell’Ambrosiana”.


Caravaggio. Canestra di frutta

G: Indubbiamente l’effetto è straordinario: altro che natura morta. Il grande e inquieto Michelangelo Merisi...

B: “Questa è considerata la prima natura morta della pittura italiana e l’unica unanimemente riconosciuta del Caravaggio. La pittura, soprattutto nella nostra cultura italiana-latina, per avere dignità doveva contemplare un contesto storico dentro cui inserire delle figure umane; nella lezione di Caravaggio il valore dell’opera non sta nel soggetto, ma nella grande capacità e sensibilità dell’artista. Egli ci mostra la sua maestria sia quando dipinge un fiore che quando dipinge una figura”.

G: La Canestra ci dimostra che da sola possiede una dignità estetica straordinaria, pur privata dalla presenza umana.

B: “Certo, però bisogna dire grazie ai fiamminghi, maestri nel riprodurre la natura, come vedremo fra poco nella prossima Sala. La Canestra è un’opera “monumentale”; è piccola, relativamente, ma monumentale”.

G: C’è una cura eccezionale.

B: “Ma anche associata a questa corposità, tridimensionalità che ha ogni elemento; e questa tridimensionalità, questa corposità, la dà proprio la luce: “La luce posandosi su ogni cosa dà corpo ad ogni cosa”. Noi abbiamo l’acino d’uva e ne vediamo la rotondità e consistenza; della foglia vediamo persino le venature ed alcune gocce di rugiada; della canestra il bellissimo intreccio... Caravaggio ha poi fatto altre canestre, altri bellissimi vasi di fiori (con personaggi inseriti, in quei casi), ma questa, ripeto, è un’opera unica. L’unicità di quest’opera è data anche da questo fondo stranissimo che non è né giallo né verde, e non è nemmeno piatto, ma dà una sensazione di silenziosità e spiritualità all’opera”.

G: E non solo, noto anche che questa canestra non ha un basamento, una base d’appoggio riconoscibile. È una semplice linea marrone che dà a chi guarda l’impressione di una superficie solida.

B: “Visto che lei ha notato questa cosa, allora parliamo anche di questo tocco geniale in più che Caravaggio fa: ci dà sensazione di spazio dove spazio non è rappresentato, perché la canestra sembra che si sporga fuori dal tavolo, e quindi noi vediamo tutta la bellezza della forma rotonda della canestra, che altrimenti sarebbe stata tagliata dalla linea. E per di più abbiamo anche questa illusione di spazialità prospettica”.

G: Questa che sala è?

B: “Questa è una Sala molto particolare, è l’ultima della collezione del Cardinale Federico. Sala molto diversa per un visitatore che vi arriva dopo aver visto tutte le opere d’arte italiana; sembra di un gusto diverso. Ma il Cardinale, dobbiamo ricordarlo, ama i fiamminghi, e soprattutto questi due che diventano amici suoi durante il soggiorno romano: Paul Bril e Jan Bruegel”.

G: È una sala molto nutrita e alquanto insolita.

B: “Sì, è una collezione davvero ricca per essere una Pinacoteca italiana. Molto belli soprattutto quei dodici “paesini” che sono incorniciati ancora come li ha voluti il Cardinale. Sono oli su rame, per questo hanno una bellissima luminosità. Non hanno dei riferimenti uno con l’altro, ci possono essere scene bibliche, ma anche solo boschi, ecc. Questo ci ricorda appunto il gusto dell’epoca in cui si voleva stupire; e allora si acquistavano queste opere perché ricche di sorprese: si può scoprire un fiore, un carciofo, un insetto, magari dove il giorno prima non si era affatto notato. Erano pittori che in quel periodo erano di moda anche da noi. Interessante è questo dipinto di Hendrich van Stenvijck e Jan Bruegel: sappiamo che Hendrich vanStenvijch era specializzato in interni di cattedrali, e Jan Bruegel inserisce questi 40 personaggi, di cui qui in primo piano la seconda moglie e due dei suoi figli. Jan Bruegel quando dipinge questo quadro è ormai tornato ad Anversa, sua città natale, però il Cardinale continua ad acquistare quadri da questi due autori, e ci sono lettere e aneddoti vari su questi acquisti, anche divertenti”.

G: E questo vetro? Mi pare di grande interesse.

B: “Sì, è un’opera monocroma che spesse volte non si considera, ma è uno dei vetri dipinti più antichi esistenti. L’artista è Luca di Leida”.

G: È olandese?

B: “Sì, l’opera si intitola Trionfo di Davide. Questo oltre all’eccezionalità tecnica con cui è dipinto, è un vetro molto raffinato. Se noi teniamo conto che quest’opera è dipinta su vetro guardando uno specchio, cioè al contrario, possiamo capire quanta bravura ci sia. È stata esposta al Metropolitan Museum di New York nel 1995, mi pare, in occasione di una mostra dedicata ai vetri dipinti. Poi c’è questo Topolino con rosa simbolo di quest’arte cosiddetta “lenticolare”, che è una bagattella che il pittore fa per il Cardinale. C’è una lettera in cui il pittore dice: “ti invio questo topolino con rosa su pergamena”, ma invece è su rame. L’artista riesce talmente a mimetizzare bene la cosa che sembra davvero carta. Allora il Cardinale gli risponde per ringraziarlo dicendogli: “La tua maestria è talmente grande che mi ha fatto persino apprezzare un topo”. Ci sono questi vasi di fiori che sono tra i primi vasi di fiori fiamminghi; poi divenne un genere famosissimo. In questo quadro ci sono 100 e più fiori di tutte le stagioni, e per questo venivano pagati carissimi. Jan Bruegel, che ne è l’autore, accompagna l’invio del quadro al Cardinale con una lettera in cui cerca di valorizzare il pezzo dicendo: “L’ho dipinto come se fossero gemme”; il Cardinale gli risponde: “Io l’ho pagato come se fossero tali”. Molto bella anche questa Allegoria del fuoco di Jan Bruegel; qui ne abbiamo solo due: l’Allegoria del fuoco e l’Allegoria dell’acqua, gli altri due elementi (terra e aria) sono purtroppo a Parigi”.

J. Bruegel. Topolino con rosa

G: Le grinfie rapaci del solito Napoleone, immagino.

B: “Sì. Napoleone portò via all’Ambrosiana molto. Molto torno, ma alcune cose sono rimaste a Parigi, come alcuni codici di Leonardo, un Giorgione e altro. Anche il cartone di Raffaello era stato portato via. Adesso si prosegue da questa parte che è un’ala chiusa dopo la Seconda guerra mondiale e riaperta, restaurata come il resto, solo ora: l’Ala Galbiati”.

G: Dio che bella!

B: “È stata sistemata in questo modo negli anni Venti-Trenta, proprio con il gusto particolare del Prefetto dell’Ambrosiana di allora. Era una persona molto colta, amico di D’Annunzio”.

G: Ha retto l’Ambrosiana per molto tempo?

B: “Dagli anni Venti agli anni Cinquanta. Ogni Sala è particolare, i colori dei pavimenti sono uguali ma i disegni sono uno diverso dall’altro. Vede? Qui si cambia atmosfera, sembra di passeggiare in un palazzo signorile. Ogni sala ha un nome particolare: questa è la Sala della Medusa con la fontanella del Castiglioni, poi c’è la Sala delle Colonne e così via. Da queste sale in poi ci sono non solo dipinti, ma come già si vede dalle vetrine, materiali artistici e scientifici, curiosità come la famosa ciocca di capelli di Lucrezia Borgia, i guanti che Napoleone usò a Waterloo, soprammobili, miniature”.

G: Questa è la famosa ciocca davanti a cui Byron si commosse e pianse, per cui divenne un simbolo romantico?

B: “Sì. Tutto ciò per ricordare un po’ il genere delle Wunder Kammer, le stanze delle meraviglie. I nobili allestivano queste sale per stupire gli ospiti non solo con oggetti artistici di valore, ma anche con delle curiosità. L’Ambrosiana possiede la collezione di Lodovico Settala amico del cardinale, che aveva un intero palazzo ricco di oggetti non solo naturalistici, ma anche strani. La direzione vorrebbe riunire e sistemare questo materiale, almeno quello che si è salvato, nell’ultima sala ora adibita a quadreria. In questa saletta numero 9 invece, c’è una parte della collezione Sinigaglia. Era una famiglia torinese che nell’Ottocento si è dedicata alla raccolta di miniature. È interessante perché in questa collezione sono rappresentate tutte le scuole italiane ed europee dalla fine del Settecento ai primi dell’Ottocento. Il collezionista si chiamava Alberto Sinigaglia”.

G: Quand’è che avete acquisito questa collezione?

B: “È stata donata all’Ambrosiana nel 1947, dopo la Seconda guerra mondiale. Qualcosa è andata dispersa perché la villa dove era custodita questa collezione, era stata occupata dai tedeschi. Però tutto quello che si è salvato è qui. Ecco, adesso si esce sul Loggiato. Da qui si gode la vista e la pace del Cortile degli Spiriti Magni, in cui sono inserite queste sculture di autori vari, soprattutto letterati di vari stati europei, e qui si vede un po’ anche tutta la struttura dell’Ambrosiana. Questo Loggiato che faceva parte del convento dei monaci oblati acquisito dall’Ambrosiana agli inizi del Novecento; l’abside della chiesa del Santo Sepolcro, e quella parte dove c’è il resto dell’affresco di Aurelio Luini figlio di Bernardino, l’ala più antica”.

Veduta del Cortile degli Spiriti Magni

G: Oltre a Dante Alighieri chi sono i personaggi raffigurati in queste statue?

B: “C’è Platone, Tommaso d’Aquino, Paracelso, Chateaubriand, Sándor Petöfi poeta-eroe ungherese, Amleto che rappresenta Shakespeare, Goethe”.

G: E Manzoni.

B: “E Manzoni, sì. Ce n’erano anche altre di statue, ma non so dove sono andate a finire”.

G: E qui lungo il Loggiato?

B: “Ci sono dei busti di personaggi della Milano dell’Ottocento, penso”

G: Siamo rientrati: in questa Sala che opere sono conservate?

B: “Ci sono soprattutto opere d’arte dell’Italia Centrale. Molto bella questa Annunciazione del Bedoli; è un quadro che per un po’ di tempo è stato considerato del Parmiggianino. Il Bedoli è cugino del Parmiggianino, oltre che allievo e collaboratore, esponente di quella particolare arte chiamata del manierismo”.

Girolamo Mazzola detto il Bedoli
Annunciazione

G: Del Parmiggianino ho sempre davanti agli occhi quella meravigliosa Madonna dal collo lungo.

B: “Sì, è molto bella. Interessante anche quest’opera di Giovan Paolo Lomazzo, un pittore che poi divenne cieco. Fu un valido studioso e scrisse diversi trattati sull’arte. Questo quadro è della scuola del Bronzino. Di grande interesse anche questa madonna con Bambino, un quadro che ha dei riferimenti molto forti con Michelangelo. Infatti Federico Zeri quando vide quest’opera esposta a Londra, in occasione di una mostra dedicata a questo maestro sconosciuto chiamato ‘maestro della Madonna di Manchester’, disse: “Questo è il quadro più michelangiolesco di tutti”. C’è questa figura del Bambino piuttosto mossa e allungata; c’è questo muro spoglio che ricorda un po’ il Tondo Doni. Quest’altra sala è la Stanza dell’Esedra. In questo muro curvo è stata riprodotta una miniatura fatta da Simone Martini nel libro che appartenne a Petrarca con testi di Virgilio; il Galbiati, nel 1929-30, gli anni virgiliani, fa riprodurre a mosaico questa miniatura che possiede l’Ambrosiana. Poi ci sono opere di pittori veneti del Cinquecento, soprattutto di Bergamo e Brescia che a quell’epoca erano sotto il dominio di Venezia. Bellissimo questo Giovan Battista Moroni Ritratto di Michel De l’Hôpital ambasciatore francese durante una fase del Concilio di Trento; poi ci sono questi due ritratti della scuola del Veronese e del Tintoretto”.

G: E questo viso che emerge dal buio così prepotentemente ebraico?

B: “È un ritratto di Bernardino da Lesmo eseguito da Bartolomeo Veneto: è davvero suggestivo. Poi si comincia a salire su questa scala scenograficamente ricca di statue che sono del primo Ottocento, della Fabbrica del Duomo di Milano. C’è qui innanzitutto questo ritratto di Paolo Moriggia dipinto da Fede Galizia a 18 anni; a soli 18 anni ritrae questo studioso della Milano antica che allora aveva 72 anni”.

G: Era dotata di uno straordinario talento...

B: “Peccato che non ha continuato nei ritratti, si è poi specializzata in nature morte, ma guardi a 18 anni che forza che ha”.

G: Un grandissimo talento.

B: “Questo è uno dei pochi quadri di Guido Reni ultima maniera: La Maddalena penitente. Questo modo di ‘sbiancare’ il quadro, renderlo quasi monocromo e così malinconico... Questo quadro in particolare è reso anche più spirituale, nonostante la Maddalena sia rappresentata piuttosto florida e non ha niente della donna denutrita e sofferente”.

G: A chi è dedicata questa Sala?

B: “A Nicola da Bologna per la riproduzione in alto di due sue miniature che ha l’Ambrosiana. Si arriva all’eccesso della scenografia con questa saletta in cui viene riprodotta una biblioteca di un palazzo signorile del Settecento lombardo; è per una questione soprattutto scenografica. Sul soffitto sono riprodotti 100 stemmi di famiglie nobili lombarde con la vetrata di sant’Ambrogio. Anche in questa piccola saletta ci sono dei pezzi interessanti come ad esempio questo Ritratto di gentiluomo di Francesco Cairo e quel bel quadro di Daniele Crespi raffigurante Filippo Benissi. Crespi è uno dei più bravi pittori che escano dall’Ambrosiana, assieme al Procaccini, di cui vediamo un bozzetto lì vicino: San Michele Arcangelo. È molto bello anche questo piccolo Morazzone, quest’Adorazione dei Magi, e poi ci sono questi due Vermiglio, uno raffigurante Jasele e Sisara, l’altro Giuditta e Oloferne. Sono due opere esposte per la prima volta all’ambrosiana, ritrovate nei depositi”.


G. Vermiglio. Jasele e Sisara


G. Vermiglio. Giuditta e Oloferne

G: Vi colgo una luminosità caravaggesca, qualcosa di molto seicentesco, di drammaticamente scenografico...

B: “Infatti qui comincia a venir fuori proprio il caravaggismo: queste scene violente, per esempio, la testa mozzata... Adesso si riesce nel secondo piano del Loggiato per poi rientrare subito dopo, e ci si trova nella seconda parte della collezione Sinigaglia che abbiamo visto sotto. Di particolare in questa saletta c’è questa bella Vanitas del Baschenis, pittore bergamasco che si specializza in queste rappresentazioni di stanze dai panneggi pesanti e lussuosi, ricche di strumenti musicali appoggiati in modo apparentemente disordinati, in un gioco ad incastro”.

G: Sono molto decorativi. Mi diceva di Vanitas: qual è il senso metaforico conferitogli dall’artista?

B: “Rappresentando con grande raffinatezza la polvere sullo strumento musicale, e quelle due ombreggiature che ricordano delle dita passateci sopra, Baschenis ci vuole ricordare che il tempo passa, che tutto è vanità: anche le bellezze della vita come la musica, e dell’uomo stesso non rimangono che poche tracce”.

E. Baschenis. Vanitas

G: Come quelle lievi impronte sullo strato di polvere dello strumento...

B: “È proprio così. Nella Sala numero 16 c’è questo bel Serodine, figura allegorica femminile intitolato Ritratto della Scienza o della Malinconia. Questo Serodine è un pittore del Ticino che muore giovanissimo a Roma, anche lui discepolo di Caravaggio. Poi ci sono questi tre Nuvolone, pittore lombardo. Susanna con i vecchioni, appena restaurato, ci fa ricordare Rubens con questo colore rosso-rosato e questa figura di donna prosperosa”.

                                                                   ***
Da qui in poi proseguo il mio viaggio da solo perché Bergnach è desiderato altrove, e mi porto nella Sala 18 dedicata al neoclassico. Spiccano i numerosi bronzi dorati, i soprammobili, gli autoritratti in marmo del Canova, opere donate dai fratelli De Pecis. La Sala 19 è dedicata invece all’arte lombarda dell’Ottocento e del primissimo Novecento. Vi troviamo dipinti di Andrea Appiani, pittore ufficiale di Napoleone, di Mosè Bianchi, di Emilio Gola di cui non bisogna perdere Le lavandaie sul Naviglio e Chiusi fuori di scuola del Longoni, il cui forte realismo sottintende una venatura di protesta sociale. Molto belli i quattro ritratti di Francesco Hayez che la famiglia Negroni Prati Morosini ha voluto dare alla Pinacoteca nel 1962. La Sala 21 contiene pittura fiamminga e tedesca dei secoli XV-XVIII. In questa sala è stata collocata la splendida vetrata dantesca di Giuseppe Bertini, realizzata per la Grande Esposizione di Londra del 1865. Una sosta accurata meritano anche i due ritratti maschili di Hans Muelich. La Sala 22 conserva alcuni bassorilievi con sculture in marmo provenienti dal monastero di Santa Maria Assunta di Cairate, donate da Alessandro Astesani. Una è una scultura in pietra della seconda metà del XV secolo di Giovanni Antonio Piatti, ma sorprendono per maestria tecnica i due nuclei di bassorilievi di Agostino Busti detto il Bambaia, provenienti dal monastero sepolcrale di Gaston De Foix e da un’altra tomba. Inoltre vi sono 4 affreschi strappati dalla chiesa di Santa Maria della Rosa, abbattuta nel 1831 per ampliare gli spazi dell’Ambrosiana, reperti scultorei di epoca romana e rinascimentale. Con la visita alla Sala numero 23 ha termine il mio viaggio in questo luogo dell’incanto. Qui sarà sistemato il Museo Settala donato all’Ambrosiana nel 1751 e finora mai esposto. Si compone di animali esotici imbalsamati, pesci rari, conchiglie, coralli, cristalli, astrolabi, strumenti scientifici, ecc. Per ora questa sala funziona da quadreria con la presentazione di un primo nucleo della raccolta Settala. Fra le opere pittoriche esposte voglio segnalarvi una Scena pastorale di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, e in particolar modo la gigantesca tela (cm. 179 x 277) attribuita a Federico Bianchi, un pittore forse nato a Milano. Si tratta di una Strage degli innocenti che mi ha molto impressionato; è di una drammaticità assoluta con questi bambini sgozzati in braccio alle madri, ancora nell’atto di allattare. Le figure gigantesche in rilievo emergono da uno sfondo scuro, come le tenebre di una notte dei più bassi istinti umani. A mio parere è un capolavoro, e necessita di un restauro urgente, prima che sia del tutto compromesso.

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MUSICI ALL’AMBROSIANA
di Angelo Gaccione

Villa Simonetta

L’incisione riportata nel volume Ville di delizie o siano palagi camparecci nello Stato di Milano di Marc’Antonio Dal Re del 1726, ce la mostra isolata in una piatta pianura di campagna. “Quasi due miglia dalla città di Milano” scrive Dal Re, e a noi pare oggi incredibile che la zona dove sorgeva, e sorge, Villa Simonetta con il lunghissimo colonnato frontale, sia a poche fermate di tram dal Cimitero Monumentale e dalla Metropolitana Viola: la 5, come dicono i milanesi. Quanto sia rimasto di autentico della villa rinascimentale voluta da Gualtiero Bascapè, cancelliere di Lodovico il Moro, non lo sappiamo, passata com’è dalle mani di vari signori milanesi nel corso dei secoli. Quel che è certo è che Bascapè la godette sì e no un paio d’anni prima di lasciare questo mondo, e quella che era nota come la “Gualtiera”, già nel 1555 era divenuta proprietà dei Simonetta, nome che ha mantenuto fino ai giorni nostri. Sparita invece la facciata (almeno come la conosciamo dall’incisione del 1700 più sopra menzionata), distrutta dalle bombe dell’ultima guerra, quella che io ho più volte definito la Grande Macelleria, e come si dovrebbe più correttamente trovare scritto nei manuali di storia contemporanea. L’attuale facciata risale al restauro del 1959; per fortuna nemmeno brutta, se pensiamo agli usi e abusi che la villa ha dovuto sopportare: persino una compagnia della teppa, di balabiott (balli nudi), poi ospizio, mensa operaia, e così via. Oggi ospita la Civica Scuola di Musica dedicata a Claudio Abbado, ed è splendido che nel suo Istituto di Musica Antica si siano potuti formare e vi possano tuttora studiare, i quattro giovanissimi che questa mattina (sabato 4 agosto) ci hanno dato un saggio del loro impegno, suonando in un salone della Biblioteca Ambrosiana i loro flauti dolci. Saux, Ockeghem, Janequin, Telemann, questi sono stati gli autori proposti, in un excursus che dal 1400 è scivolato fino al Novecento più maturo. Un quartetto dalle provenienze internazionali: cileno José Manuel Fernández Bravo, cilena Ariadna Quappe, francese ma con studi anche in Cile Ninon Dusollier, giapponese Nao Kirihata. A loro e alla loro giovane bravura abbiamo tributato il nostro plauso, e naturalmente alla Cappella Musicale e allo spirito internazionale della nostra città.

Leonardo da Vinci
Ritratto di Musico

L’Ambrosiana: questo il meraviglioso contenitore del concerto. E allora come resistere per l’ennesima volta alla tentazione di percorrerne le ricche sale con le preziose collezioni, i lasciti, le donazioni... impossibile. E allora completamente soggiogato e come fuori dal tempo, ho ripercorso le 19 Sale, i Loggiati, la Sala dell’Esedra, la Federiciana, il Peristilio e quella che viene definita come Aula Leonardi dove non c’è solo quel capolavoro conosciuto come il Ritratto del Musico, ma anche un Ritratto di una duchessa di Milano di mano di Leonardo, il Cristo incoronato di spine di Bernardino Luini e un suo giovane allievo, affresco straordinario che occupa tutta una parete. Al centro della scena il Cristo affranto tormentato dai suoi aguzzini che si divertono anche a schernirlo con boccacce e smorfie grottesche. C’è una copia della Vergine delle Rocce di Andrea Bianchi (il Vespino), una Madonna con Sant’Anna e San Giovannino, sempre del Vespino, che è stato un copista straordinario, ed è sua la riproduzione dell’Ultima Cena leonardesca che corre in orizzontale sulla parte alta di una delle pareti della Sala. Leonardesco è anche il Cristo deriso da due sgherri di Giovanni Pietro Rizzoli (il Giampietrino) nella stessa sala, o la Testa di Cristo Redentore di Gian Giacomo Caprotti (il Salaì).

Con particolare emozione ho sostato davanti al tondo della Madonna del Padiglione di Botticelli, alla Canestra di frutta di Caravaggio, alle due tragiche tele di Giuseppe Vermiglio Giuditta e Oloferne e Giaele e Sisara, alle sculture del danese Bertel Thorvaldsen, e nella Biblioteca dove oltre al patrimonio librario si conserva il Codice Atlantico. Ma qui c’è il Gotha della pittura attraverso il secoli e si farebbe torto alla creatura del cardinal Federigo trascurarne artisti, secoli e ambienti geografici di provenienza. In queste Sale dovete immergere non solo il vostro sguardo, ma tutto intero lo spirito e lasciare che il tempo scorra per voi indifferente com’è successo a me. Zenale, Bergognone, Procaccini, Bramantino, Morazzone, Daniele Crespi, Tiziano, Veronese, Giulio Romano, Brueghel, Canova, Hayez... e tanti, tantissimi maestri ancora, vi faranno compagnia. È anche un modo per capire cos’è stato il genio artistico italiano, il tesoro enorme che dovremo custodire. Se non siete mai entrati nella Biblioteca Ambrosiana e nelle Sale della sua Pinacoteca, vi consiglio di farlo prima possibile. È un’esperienza memorabile, come essere stati ai Musei Vaticani, o agli Uffizi. 

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Taccuino
SAN SISTO E IL MUSEO MESSINA
di Angelo Gaccione


Probabilmente in pochissimi conoscono la chiesa di San Sisto a Milano. Chi va verso il  Carrobbio percorrendo la trafficata via Torino diretto al Ticinese, difficilmente devia nella piccola e stretta via San Sisto, che prende il nome proprio dalla seicentesca omonima chiesa. Chi vi si reca è perché sa che dal 1974 questa chiesa sconsacrata e ad un’unica navata, è divenuta prima studio e poi museo dello scultore Francesco Messina. All’artista siciliano (era nato a Linguaglossa in provincia di Catania nel 1900) si deve la sua salvaguardia; volevano buttarla giù dopo anni di incuria, e non oso pensare che cosa avrebbero edificato in quegli anni al suo posto. Messina si offerse di restaurarla a sue spese trasferendovi lo studio, impegnandosi in una donazione, come è poi avvenuto, per farne il magnifico e raccolto attuale Museo che porta il suo nome. Meno male, all’ex direttore dell’Accademia di Brera (e naturalmente anche a noi amanti dell’arte) è andata meglio di tanti altri artisti. Penso ad esempio all’indegna vicenda del pittore Enrico Baj, e di come la città si è vista privare del suo importante lascito, a causa di amministratori ottusi e incapaci. O all’immenso archivio del premio Nobel Dario Fo finito a Verona.
Oggi i milanesi, e non, recandosi in via San Sisto al n. 4, possono entrare in un luogo accogliente dichiarato monumento nazionale, ed ammirare le opere (80 sculture tra bronzi, marmi, ceramiche, cere, terrecotte e 26 opere grafiche su carta) che Messina ha lasciato alla città. Io ci sono venuto più volte per ammirare i suoi cavalli, le numerose ballerine colte nelle pose più diverse (la bellissima moglie Bianca ballerina lo era stata di professione, e questo deve avergli trasmesso l’amore per tale disciplina), i nudi, i busti di Pietro Marussig, del poeta Quasimodo, il ritratto del cardinale Idelfonso Schuster, le due splendide cere con i volti di Maria Laura (1946) e di Felicita Frai (1949-1950), il Grande nudo femminile (1967) più alto di me, il profilo bellissimo della moglie Bianca (1937-1968) in marmo bianco policromo. Conosco una parte consistente dell’opera di questo artista, noto ai più per il suo Cavallo morente davanti alla sede della Rai di Roma, e quando vado a Pavia non trascuro di alzare lo sguardo verso la sua statua della Minerva che dà il nome alla piazza, e di andare a vedere il suo monumento equestre del 1937 posto proprio di fronte al Duomo, conosciuto col curioso nome di Regisole.
Al Museo Messina ci sono ritornato sabato pomeriggio (28 luglio) per visitare la mostra “L’eco del classico. La Valle dei Templi di Agrigento”, che vi è ospitata. Rimarrà aperta fino al 21 ottobre, fruibile anche di domenica, e quel che è più meritorio, con ingresso gratuito, come avviene tutto l’anno per il Museo. È una mostra davvero indovinata perché tenta un dialogo, secondo me riuscito, fra le opere classiche di Messina e alcuni ritrovamenti avvenuti in quell’inesauribile “miniera” che è la Valle dei Templi. Teste, cavalli, statuette femminili e nudi esposti, sono in risonanza con molti lavori dell’artista siciliano. Il busto in terracotta di Demetra (fine IV - inizi III sec. A.C.), il Torso maschile in marmo (IV se. A.C.), dialogano bene e a distanza di tanti secoli, con Narciso (1946), Eva (1949), Efebo (1959), il Torso femminile del 1975, i quattro cavalli in bronzo del 1958, così come le teste e i busti di Messina, tanto per citare.

F. Messina Busto della moglie Bianca

Ai piani superiori una serie di acquerelli con vedute e scorci della Valle dei Templi del pittore greco Habidis, mentre Leonardo Nava ha realizzato una sorta di scultura vegetale intrecciando più di cinquemila bastoni di nocciolo, che dall’esterno entra nella chiesa. Seguendo la forma sinusoidale della facciata la cinge in un groviglio correndo lungo l’arco subito sopra il timpano del portale. Le motivazioni dell’artista e degli ideatori sono molto convincenti sulla carta, meno dal punto di vista visivo. Ma è un’opinione personale. Mi piacerebbe, invece, che la facciata e i lati di San Sisto venissero ripuliti, anche perché l’intonaco in alcune parti è scrostato. Non sono il ministro della difesa e non posso disporre della scandalosa cifra di 70 milioni di euro al giorno che l’Italia spende per questo Ministero della morte, ma si può almeno lanciare l’idea di devolvere il 5 per mille al Museo Messina per questa incombenza. Io sono disponibile.


P.S. Una minuscola statuetta (cm. 31 x 6) di fine IV sec. e inizi del III a.C. raffigurante un neonato in fasce, presente in questa mostra, mi ha svelato quanto fosse antica quella tremenda pratica di “imbalsamare”, come in una camicia di forza, i poveri bambini. Fasciati dalle spalle in giù e con le braccine allineate lungo i fianchi, non era permesso loro alcun gesto o movimento. Una vera e propria tortura che ho fatto in tempo a vedere in Calabria, nella mia terra di nascita. Per fortuna un’altra visione più consapevole, ha cancellato, almeno in Occidente, questa usanza così abominevole.     

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Taccuino
CASA ATELLANI E LA VIGNA DI LEONARDO
di Angelo Gaccione

Vista sul giardino e vigna di Leonardo

Questa mattina, 24 luglio, ho passato alcune ore in modo piacevole e sereno circonfuso da ciò che ai miei occhi rappresenta, assieme alla gioia per una buona conversazione, il godimento più grande per lo spirito umano: arte e natura. Sono andato a visitare, in Corso Magenta, la vigna di Leonardo nella Casa degli Atellani. E siccome “Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti”, come ben dice Leonardo, voglio scriverne subito, dato che in me cognizione e sentimenti sono rimasti vivissimi. Sul cognome dei proprietari (cortigiani fedelissimi del signore di Milano Lodovico Maria Sforza, il Moro, come è universalmente conosciuto, e ai quali fa dono di ben tre case proprio davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, due nel settembre del 1490 e una terza più tardi) la confusione documentale sfiora il comico. Marin Sanudo nelle sue cronache scrive indifferentemente Da la Tela, Di la Tela, Da la Tella, Àtellano. Il novelliere Matteo Bandello, che pure era in intimità con la famiglia, scrive Attellano; Francesco Grossino, invece, Dilla Tella e Dalla Tella, ma altrove troviamo anche Dell’Atella. Comunque sia, quella che, con alterne fortunose e infauste vicissitudini, (persino le bombe del 1943), è giunta fino a noi, porta il nome di Casa Atellani, e come tale è nota ai milanesi. Chi vuole conoscerne in dettaglio storia e passaggi di mano, può leggersi in un paio d’ore le novanta pagine di Jacopo Ghilardotti: La casa degli Atellani e la vigna di Leonardo.
Il recupero e la sistemazione, come oggi li vediamo, con la fusione delle due corti (la casa nova e la casa antiqua) e un solo numero civico, si devono all’architetto Piero Portaluppi. Incaricato dal nuovo proprietario, l’industriale e senatore del regno Ettore Conti, che nel 1919 le aveva comprate per farne un luogo più adatto alle proprie esigenze, e soprattutto ingolosito da quello che era stato lo splendido giardino di una villa di delizie, e che il tempo e la guerra avevano ridotto ad una “topaia”, come si esprime la moglie del senatore, il cui ritratto sopra quello del marito, fa ora bella mostra nella Sala Studio di cui devo almeno segnalarvi una tela fiammingheggiante che riproduce una gigantesca Torre di Babele con la narrazione minuziosa della stoltezza degli uomini: forse anche in polemica con la Chiesa di Roma alle prese con il gigantismo poco evangelico dell’edificazione della basilica di San Pietro; e il rivestimento in legno delle pareti affollate di cariatidi, anch’esse lignee, dalle fogge e dalle dimensioni più diverse. Ettore Conti e la moglie Gianna riposano ora nei bianchi cenotafi marmorei realizzati da Wildt, in una cappella di Santa Maria delle Grazie, la chiesa di fronte alla loro bella casa, e non senza ragione: è stato lui il benefattore, come una iscrizione ci ricorda, a finanziare il restauro della creatura di Guiniforte Solari e del Bramante, eseguito proprio da Piero Portaluppi, l’ordinatore della sua magione, quello che Ghilardotti definisce con molta pertinenza “il braccio architettonico di Ettore Conti”. Se vi capita di andare a vedere il Cenacolo, non trascurate di entrare anche in chiesa e di sostare davanti alla sua cappella. È grazie a lui se oggi possiamo godere delle meraviglie di Casa Atellani e della vigna di Lionardo, come lo chiama il Vasari. Il suo gusto è stato troppo raffinato e troppo visionario il suo spirito, perciò siate indulgenti, sono sicuro che il fascismo non sia riuscito a guastargli l’anima.


Casa Atellani è oggi una Casa-Museo privata tuttora abitata. Ciò che è visitabile sono solo le sale del pianterreno e i due cortili di accesso sistemati dal Portaluppi, dove convivono armoniosamente colonne, portico, affreschi, in un dialogo fatto di antico e di “intrusioni” novecentesche che sono la cifra dell’ecclettismo del suo ordinatore. In nessun ambiente queste provocano fastidio: la Sala dello Zodiaco e il Soffitto dei Pianeti è affascinante quanto la Sala con i ritratti della scuola luinesca, con quel soffitto affrescato da un tripudio fantasioso di ricami floreali dentro le vele e le lunette. E non disturba quella scala novecentesca nella Sala dello scalone, nella cui balaustra Portaluppi ha incastonato gli stemmi delle quattro famiglie che nel tempo hanno posseduto la casa. È una scala che non conduce ad alcun piano nobile, perché le bombe della guerra hanno fatto al meglio il loro compito demolitore. La disposizione degli arredi voluta dall’architetto, ne fanno però un ambiente vivo, impreziosito anche da pezzi di pregio, come la Crocifissione quattrocentesca sulla parete di sinistra, la tela, anch’essa di argomento sacro, su quella di destra, o la mappa settecentesca di Milano lungo la scalinata, con il tracciato delle mura interne medievali e di quelle spagnole più esterne. Il piano terra immette in quello che resta l’ambiente più suggestivo: il giardino. Lo è stato nel Cinquecento, come sappiamo dalle novelle di Bandello, e lo è stato in epoca contemporanea, come sappiamo da Ettore Conti che ne andava fiero, e che a Portaluppi aveva affidato il compito di riportarlo al suo antico splendore.
L’affaccio dalla balconata permette di cogliere il viale prospettico fino a dove, pochi anni fa, è stata reimpiantata, con gli stessi vitigni di allora, la vigna di Leonardo. Analisi sul materiale organico e sul profilo genetico, hanno permesso di arrivare a questo miracolo. Leonardo aveva avuto in dono questo pezzo di terreno, di cui egli stesso ha lasciato notizie precise, da Lodovico il Moro. Dobbiamo a Luca Beltrami, grande studioso di Leonardo, l’individuazione esatta dell’ubicazione della vigna e la decisione di incorporare “nell’attiguo giardino della casa Della Tela, che il senatore Ettore Conti sta riadattando come abitazione personale”. I milanesi forse non sanno che devono alla caparbia e indefessa volontà di Luca Beltrami e alla sua decisa opposizione a quanti avrebbero voluto demolirlo, anche l’esistenza del Castello Sforzesco e del suo splendido parco nel cuore della città. Gli speculatori erano pronti per farne un prelibato boccone in favore della nuova borghesia emergente e del suo uso privato.

Con emozione ho poggiato i piedi dove il genio da Vinci ha camminato. Ho girato fra i filari carichi di grappoli, ho assaggiato un chicco ancora asprigno, e mi sono detto come sia straordinario che in un luogo come questo possa attecchire la vitis vinifera. Giustamente Leonardo amava molto questo suo pezzo di terra, a quei tempi fuori porta e decentrato. Veniva a prendersi cura delle sue viti, a riposarsi dalle fatiche, e magari a rilassarsi dopo le ore di lavoro dedicate al Cenacolo che gli stava proprio di fronte. Nel giardino era ospitato spesso, e qui poteva conversare con ospiti illustri e memorizzare i volti di Cecilia Gallerani ritratta nella Dama con l’ermellino, e di colei che gli ispirò il ritratto de La bella ferronnière, sulla cui vera identità, la critica si accapiglia da oltre cinquecento anni.

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Taccuino
I CANTIGAS DI SANTA MARIA E LA VIA DURINI
di Angelo Gaccione

Milano, Santa Maria della Sanità

Santa Maria della Sanità è stata fino a lunedì sera (16 luglio) per me, una chiesa misteriosa. Mai avevo avuto la possibilità di mettervi piede in tutti questi anni, e mai, passandovi davanti, l’avevo vista aperta. Per me era una graziosa facciata barocca in cotto che con la sua forma concava convessa, adornava la signorile via Durini che conduce in San Babila, cioè alla Casa della Cultura. Via Durini era sempre rimasta per me la Galleria Strasburgo che sbuca sul Corso Europa, con il pavimento tutto a mosaico; la casa dove era morto Umberto Giordano, quella del numero 20 dove visse Toscanini dal 1909 al 1957, il palazzo del numero 24 che dà il nome alla via, progettato da Francesco Maria Richini verso la metà del Seicento, nel cui cortile qualche volta mi ero infilato di straforo. Avevo poi letto che nel 1925 era passato di proprietà alla famiglia Caproni di Taliedo, e così avevo potuto associare le officine di via Mecenate dove la Caproni costruiva componenti per l’aviazione, al vecchio quartiere operaio della Zona 13 che porta tuttora il nome di Taliedo-Forlanini, in omaggio, anche all’ingegnere aeronautico Enrico Forlanini a cui è dedicato l’aeroporto di Linate. C’erano molte fabbriche un tempo da quelle parti, compreso la Montecatini (dove lavorò e si ferì gravemente il mio fratello maggiore) divenuta poi Montedison, la Ricordi, e tante, tante altre, definitivamente cancellate. Ma, soprattutto, via Durini era rimasta nella mia immaginazione, per l’imponente palazzone dalle fogge vagamente palladiane che domina con la sua stazza quella che è divenuta una delle vie del lusso e che un tempo non lo era affatto. Vi scorreva infatti un malsano canale chiamato Cantarana che aveva finito per dare il nome di Cantarana di Porta Tosa alla zona. Palazzo Cusini si chiama questo palazzo dalla facciata monumentale carica di colonne, obelischi, timpani, medaglioni, statue, putti, festoni e così via, e a realizzarlo sono stati nel 1928 i fratelli architetti Adolfo e Aldo Zacchi. Nel dopoguerra, con le edificazioni banali degli anni Cinquanta-Sessanta e susseguenti, avremmo rimpianto molto la fantasiosa solidità di quella architettura.                                     
E poiché non è sempre vero, come scrive Richelet nel suo Dictionnaire, che “Il palazzo è la casa di un signore di qualità”, queste case hanno finito per avere destinazioni discutibili. 
Ma transeat.

Milano, il Palazzo Floriani
con la casa dove visse Toscanini

Devo confessarlo: più che la curiosità del concerto Cantigas de Santa Maria dell’Ensamble Micrologus, ad attirarmi era stata la sede dove si sarebbe svolto. Finalmente avrei potuto vedere quella chiesa. Avevo preventivamente letto un certo numero di questi cantigas medievali e non mi aspettavo granché, ripetitivi e monocordi come sono. Raccontano di miracoli e di devozioni e sono quasi tutti canti di lode. Più che il contenuto, ad affascinarmi era stato il mistilinguismo arcaico dei versi e le contaminazioni di latino, lusitano, spagnolo di cui sono impastate. E invece l’interno di Santa Maria della Sanità non ha nulla di eccezionale, ed il concerto si è rivelato molto più sorprendente di quanto avessi immaginato. La cornamusa, lo zufolo, il flauto traverso, la viella, la ribeca, la piccola arpa, la guinterna, la chitarra moresca, il tamburo, le due sottili e lunghissime trombe medievali che facevano venire in mente le trombe dei kolossal della Roma imperiale, e le voci dei cantori Patrizia Bovi, Goffredo Degli Esposti, Gabriele Russo, Simone Sorini, hanno fatto di questi cantigas de miragres e cantigas de loores, una seducente polifonia tutt’altro che austera e mistica. Tanto che sia il canto che i suoni, mi sono parsi poco adatti ad accompagnare l’officio e me ne ero stupito. A fine concerto ho scambiato poche battute con uno dei musici e cantori, Simone Sorini, e mi ha confermato che non venivano cantati durante l’officio, ma con molta probabilità sul sagrato e in momenti non rituali. Gli arrangiamenti e le melodie sono quasi tutti dei Micrologus, anche se con un occhio attento ai repertori. I testi invece sono fedeli a quelli della raccolta voluta da Alfonso X di Castiglia e che si trovano nel Codice miniato custodito a Montserrat. Pare che di questi testi poetici religiosi la raccolta medievale ne contenga 400. I Micrologus, beati loro, hanno potuto vedere questo Codice al monastero, dove hanno anche registrato delle musiche.

Patrizia Bovi 

La settecentesca chiesa di Santa Maria della Sanità è attaccata al palazzo dove ha abitato Toscanini e di cui avevo potuto ammirare solo l’elegante balaustra in ferro battuto che adorna il balcone esterno. Questa mattina (17 luglio) ho invece avuto la fortuna, grazie alla squisita gentilezza e disponibilità della dottoressa Ada Cattaneo, di visitare l’appartamento dove il grande direttore d’orchestra abitò per quasi mezzo secolo. La casa è ora proprietà della famiglia Floriani e dal gennaio dello scorso anno ospita il Dipartimento di Diritto Commerciale dello Studio Legale Sutti, del cui staff la dottoressa Cattaneo è membro. È stata per me una fortuna doppia perché la dottoressa Cattaneo ha la passione per la scrittura, è una cultrice di storie e leggende milanesi, e ama come me la lingua meneghina e i suoi poeti. Pochissimi i cambiamenti  nei vari ambienti per rispettare quanto più possibile l'aura storica che vi è rappresa. Interventi conservativi sui soffitti lignei tardo cinquecenteschi, diverse suppellettili non moderne che lo Studio Sutti ha disposto in alcuni ambienti. Come tutti i palazzi milanesi di un certo rango,  anche questo è dotato di un cortile interno che preserva dai rumori della strada, e da un giardino interno. La casa dove visse Toscanini ne godeva di uno su due lati addirittura, e di un terzo, ma minuscolo,  situato al piano superiore visibile salendo una rampa di scale. Mi piace immaginarlo seduto lì a gustare un buon caffè, o chino su uno spartito nel silenzio più denso, circondato  dalle piante di questo fazzoletto di verde. 

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Taccuino
BACH, SAN SEPOLCRO E IL MOSÈ
di Angelo Gaccione


C’è chi nega risolutamente e c’è chi nutre più di un dubbio che a mettere le mani per una trascrizione per strumenti ad archi dal Clavicembalo ben temperato di Bach e dalla Fuga in fa minore del figlio Wilhelm Friedemann, sia stato Mozart. Chi sia stato a noi importa poco, di sicuro chi lo ha fatto nutriva ammirazione per i due musicisti tedeschi, e voleva eseguirli con strumenti diversi. A me questi sei brani (cinque adagi e fughe e un largo e fuga) eseguiti dal Trio D’Archi “Il Furibondo” (Liana Mosca violino, Gianni De Rosa viola, Marcello Scandelli violoncello), nella Chiesa di San Sepolcro mercoledì 11 luglio compresi sotto il titolo “Mozart trascrive Bach, padre e figlio”, hanno deliziato e tanto basta. Il furioso del trio mi è parso Scandelli, la sua esecuzione al violoncello è stata tanto passionale e coinvolgente, quanto quella di Mosca e De Rosa è stata misurata e contenuta. Il posto poi meritava davvero. La chiesa di San Sepolcro nell’omonima piazzetta, alle spalle della Biblioteca Ambrosiana di cui è parte integrante, nel cuore di Milano che più cuore non si può. Addirittura dentro il perimetro delle mura imperiali romane, e dove l’antico foro pullulava della sua vita mercantile. Questo per dire del luogo dove nel 1030, su volere della famiglia Rozo proprietaria dell’area, si darà impulso a quello che quattro anni più tardi diverrà l’edificio sacro. Solo in seguito però la chiesa assumerà il nome attuale, dato che nella parte inferiore (la cripta aperta di recente al pubblico dei visitatori) era stato costruito un sepolcro per ricordare quello di Gerusalemme, un sessantennio più tardi, a ricordo della liberazione del Santo Sepolcro ad opera dei crociati, si decise la nuova dedica. A quanti vogliono conoscerne più dettagliatamente storia e vicende, consiglio il libretto di don Mario Panizza San Sepolcro di Milano, pubblicato dalla DeAgostini. Sono una quarantina di pagine e apprenderete quanto basta. Con il suo ordito medievale e la toponomastica che lo ricorda, questo segmento di città è fra quelli a me più cari, e quando posso, soprattutto alla domenica pomeriggio o in piena estate quando la città si svuota, mi piace in solitudine vagare alla ricerca di quelle che sono ormai divenute le mie memorie. In via Armorari c’è l’edificio dove nel 1918 Ernest Hemingway ferito fu accolto e curato; allora vi aveva sede la Croce Rossa Americana, oggi è una banca. Due passi più il là, in quella che ora è la via Cesare Cantù, c’era la casa del popolano milanese Antonio Sciesa, più noto forse col nome di Amatore; il patriota tappezziere che agli aguzzini austriaci oppose il suo celebre tirrem innanz, al tradimento. Le casupole di allora sono sparite e l’area è occupata dal maestoso edificio della Banca d’Italia che lo occupa su più lati, fino a lambire quello che ora è lo slargo dedicato a Pio XI, e dove ha sede una delle più prestigiose istituzioni milanesi, la Biblioteca Ambrosiana voluta da Federigo Borromeo, con la sua altrettanto celebre Pinacoteca. Finalmente da qualche anno la piazzuola è stata pedonalizzata, e al posto delle macchine che vi parcheggiavano davanti e vi correvano sui due lati in un fluire incessante, ci sono ora delle panchine in legno dove si può sostare con tranquillità. Ho avuto il privilegio molti anni fa, di visitare l’Ambrosiana accompagnato da una guida di eccezione, monsignor Ravasi, allora Prefetto di questo luogo meraviglioso e oggi cardinale in Vaticano. Ho ancora le sue parole risentite negli orecchi: “Ma si rende conto che qui abbiamo il più ricco Codice Atlantico di Leonardo, la Canestra di Caravaggio, il Cortile degli Spiriti Magni, e siamo assediati da tutte queste macchine e dal loro incessante rumore?”. Io ne scrissi su un settimanale milanese e poi in un volume piuttosto robusto. Il Rettore aveva, seppure con ritardo, vinta la sua battaglia e lo sconcio che imbruttiva la creatura di Federigo fu eliminato. Non è così, purtroppo, nella parte posteriore dell’Ambrosiana, dove ci sono la chiesa di San Sepolcro con la sua cripta e l’ingresso della Pinacoteca. Quanto le macchine parcheggiate imbruttiscano questa piazza salta subito all’occhio appena si percorre il breve tratto della via Federigo. E se invece si percorre l’altrettanta breve e stretta via Dell’Ambrosiana, si è costretti ad appiattirsi quasi contro il muro per ripararsi dalle macchine. Basterebbe spostare altrove il Comando di Polizia e obbligare i residenti (qui risiede la Milano danarosa) a cercarsi un parcheggio. Nei paraggi ce n’è più di uno. Per cogliere nella sua interezza torri e facciata, si è costretti ad arretrare fino all’imbocco di via Della Zecca Vecchia. Durante il concerto in San Sepolcro riflettevo su come fosse confortante possedere dei luoghi del silenzio, nell’affannato correre metropolitano dentro un tempo che non controlliamo più; di come fosse prezioso che quel magnifico rito musicale potesse avvenire lontano dal frastuono. Di domenica pomeriggio queste contrade ritrovano il loro silenzio. È stupefacente come bastano pochi metri per lasciarsi alle spalle il delirio mercantile di via Torino, lo sferragliare dei tram di via Orefici, il viavai incessante di Corso Vittorio Emanuele. Rarissime macchine e quasi nessun passante fra le Cinque Vie, e così posso percorrere indisturbato Via del Bollo, via Santa Marta, via Santa Maria Fulcorina, via Bocchetto, via Santa Maria Podone, e sostare sul cantone dove le lapidi con i nomi dei giovanissimi partigiani massacrati ci ricordano a che prezzo è stata ottenuta la libertà; vedere gli ultimi ruderi ammonitori dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che devastarono la città; rendere omaggio al luogo dove Gaetano Crespi, poetta e studios de la lengua meneghina, come recita la targa, l’è vivuu e l’è mort. Non trascuro quasi mai di percorrere il tratto di via Morigi e passare davanti alla casa del caro e compianto Roberto Guiducci e della sua sposa Armanda, per un saluto e un pensiero a questi due colti intellettuali e raffinatissimi poeti, cui Milano deve molto e che ha dimenticati. E quasi sempre attraverso la via privata Maria Teresa dove abitava Carlo Bo, e mi spingo fino alla bella piazza Mentana che meriterebbe di essere meglio curata e liberata dalle auto. Più in giù il Carrobbio, San Lorenzo con il parco delle Basiliche e il suo colonnato corinzio di origine romana, piazza Vetra e la via Gian Giacomo Mora... sono i luoghi che rimandano agli affettuosi ricordi dello scrittore Emilio De Marchi e alle tragiche vicende descritte dal Manzoni nella sua Storia della colonna infame. La via Santa Maria Podone sbuca in quella che è oggi piazza Borromeo. La casa del cardinale è lì, così come quella del cugino Carlo, cardinale a sua volta e poi santo. Di Carlo c’è anche la statua, proprio accanto alla chiesa di Santa Maria Podone. Ad entrambi bastava scendere dalle loro “domus auree” per entrare in un luogo di culto. Ma se volevano recarsi in San Sepolcro o all’Ambrosiana, non avevano che da percorrere i tre minuti di strada, tanti ne ho contati io per fare la prova. Non finiremo mai di biasimare il cardinal Federigo per quello che ha fatto passare allo storico Giuseppe Ripamonti; Manzoni, che al Ripamonti deve molto, gli ha reso giustizia, altrettanto ha fatto Milano dedicandogli quella che è in assoluto la via più lunga della città. Non finiremo tuttavia di lodare abbastanza il cardinale, per aver donato ai milanesi i suoi due gioielli che tutto il mondo ci invidia: la Biblioteca e la Pinacoteca.  
Non è sempre aperta la chiesa di San Sepolcro, e bisogna approfittarne. Il responsabile Giuseppe Frinquelli mi ha lasciato il suo numero di telefono e si è messo a disposizione perché possa vederla in dettaglio fra una decina di giorni, quando rientrerà a Milano dopo una pausa. Voglio sostare più tempo davanti al Cristo ligneo dell’altare, all’affresco del Bellasio, al dipinto del Nuvolone, alla tela di San Giorgio e il drago del Procaccini, al gruppo di statue cinquecentesche in terracotta dipinta in allestimento, e che compongono il Compianto per il Cristo morto, con quella Maddalena che allarga le braccia disperata e la madre svenuta. Indugiare ai piedi delle due absidi laterali dove a sinistra gli apostoli scolpiti a dimensione naturale sono disposti lungo la tavolata dell’ultima cena, e in primo piano c’è il Cristo intento a lavare i piedi a san Pietro. A destra, invece, c’è il gruppo in cui il Cristo è condotto davanti ad un Caifa che si straccia le vesti e a un san Pietro che lo rinnega. Le scene delle due rappresentazioni sono realizzate da statue gigantesche di forte impatto. Raffigurano un Cristo, chissà perché, piuttosto in là con gli anni, e così per una parte degli apostoli. Certo un Cristo biondo e con gli occhi azzurri di certa iconografia suona alquanto improbabile per un palestinese, ma anche qui si è esagerato con le fattezze, in fondo si trattava di un giovane di trentatré anni.

La cripta invece resterà aperta tutta l’estate e dovete proprio visitarla, lo dico anche a quei lettori non milanesi, nel caso si trovassero in città. Fino al 15 settembre si potrà vedere anche il cortometraggio sul Mosè, realizzato da Antonioni nel 2004 dal titolo Lo sguardo di Michelangelo. Io ci sono andato ieri pomeriggio proprio per vedere questo documentario e vi assicuro che ne vale la pena. Il regista ferrarese aveva 92 anni quando lo realizzò, morirà a Roma tre anni più tardi nel 2007. È molte cose insieme questo cortometraggio di 15 minuti: è un omaggio alla potenza creativa del Buonarroti, al senso di umanità a cui l’arte ci richiama con la sua bellezza e il suo mistero, alla sua perennità, ma è anche una riflessione attonita sulla caducità della vita, un interrogativo silenzioso sull’esistere e la sua parabola transeunte. Non ci sono parole in questo video realizzato rigidamente in bianco e nero. Il bianco della pellicola rispetta il bianco del marmo e ne indaga minuziosamente ogni piega, ogni dettaglio. La cinepresa scandaglia, si insinua, indugia, fissa su un particolare, dilata un primo piano, sfuma in dissolvenza come un sogno... La tomba di Giulio II ed il gruppo marmoreo che lo adorna, sono colti nella fissità gelata della morte, nel silenzio eterno che si è solidificato, pietrificato. Ed è solo con il silenzio che ci si può accostare. I passi affaticati di un Antonioni anziano e sofferente (la mano destra sempre in tasca, forse rimasta offesa dopo l’ictus), seguono la striscia di luce che il portale semichiuso e avvolto nella penombra di San Pietro in Vicoli, proietta sull’impiantito. Sono il solo rumore registrato costeggiando la fila di colonne per arrivare davanti alla tomba col Mosè. Nessuna concessione all’orpello, alla magnificenza, nessun elemento dell’esterno, né la facciata, né la lunga scalinata di san Francesco di Paola che ho tante volte salito per venire qui. La chiesa è vuota e la cinepresa si concentra solo su quel riquadro ben delimitato. Ad Antonioni è concesso il privilegio di superare la balaustra e di avvicinarsi al Mosè come a nessun altro è stato forse permesso negli ultimi anni. Egli può persino accarezzare la statua che enormemente lo sovrasta e nei cui confronti appare minuscolo, commosso e intimidito. Da questo momento in poi inizia un vero e proprio dialogo silenzioso fatto solo di sguardi. Sono gli sguardi e i silenzi  di due artisti che portano lo stesso nome, e che si incontrano dopo cinquecento anni: l’uno in carne ed ossa, l’altro attraverso il capolavoro ricavato dall’inerzia informe di un minerale che si è fatto anch’esso carne ai nostri occhi. Non sapremo mai quali pensieri hanno attraversato in quei quindici minuti la mente di Antonioni. A noi restano i gesti delle sue mani, il silenzio, gli occhi attenti dietro le lenti, le pieghe delle sue labbra, le espressioni assorte, il cenno di saluto alla statua, lo sfrigolio della fede che porta al dito mentre la mano scivola dolcemente su un ginocchio del Mosè, che la cinepresa di Andrea Boni, suo aiuto regista, segue passo passo. La fine del filmato, è scandita dai passi del regista che ora, in senso inverso, seguono la stessa striscia di luce disegnata sul pavimento, mentre il Magnificat IV toni di Giovanni Pierluigi da Palestrina eseguito dal Vocal Ensemble Camerata Nova, ne accompagna l’uscita dalla chiesa.

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IL DEMONE DEI REFUSI
di Angelo Gaccione
La copertina del libro

Confesso che il titolo Titivillus. Il demone dei refusi, mi aveva depistato. Ero convinto si trattasse della personificazione laica, tutta moderna, di quel dispettoso e malefico diavoletto che, inviso e temuto come la peste da tutti coloro i quali hanno a che fare con la scrittura e la stampa di ogni genere (libri e giornali soprattutto), si diverte a fare lo sgambetto, a seminare zizzania, creando imbarazzanti equivoci di ogni sorta nei testi, stravolgendo spesso il significato della frase e del discorso. Ho sempre nella memoria il gustoso episodio raccontatomi dal compianto e caro amico don Luigi Pozzoli, letterato e parroco in Santa Maria al Paradiso di corso di Porta Vigentina qui a Milano. Finito di battere al computer uno dei suoi testi per “Odissea” (a cui ha collaborato fino alla sua improvvisa e dolorosa scomparsa) che conteneva delle allusioni all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, gli era venuto fuori questa definizione: un uomo con la testa sulle palle, al posto di sulle spalle. Lapsus scopertamente freudiano (vista la condotta pubblica del Nostro), ma era evidente che malignamente il diavolo ci aveva messo la coda. I refusi a stampa sono sempre stati una dannazione, e le errate corrige che tuttora troviamo nei libri, ne sono la riprova. Già nel lontano 1563 essi obbligarono il tipografo veneziano Cavallo, ad inserire a prefazione di un’opera di Achille Fario Alessandro, questa deliziosa impotente e sconfortante presa d’atto dal titolo Alli benigni lettori: “In tutte le attioni humane quasi di necessità convien che succedano de gli errori: ma dove più facilmente, in più diversi modi, et più ne possono accadere che si avengano nello stampare i libri, non ne so immaginare alcuna. Et parmi la impresa della corretione di essi veramente poterla assomigliare al fatto di Hercole intorno all’Hydra de i cinquanta capi: percioché si come quando egli col suo ardire, et forze le tagliava una testa, ne rinascevano due, così parimenti mentre co’l sapere, et con la diligentia, si emenda un errore, le più volte s’imbatte che ne germogliano non pur due, ma ancho tre et quattro, spesse fiate di maggior importanza, che non era il primo...”.


Mi sono trovato invece fra le mani, un delizioso libretto per eruditi vergato da Julio Ignacio González Montañés (Pagg. 68 € 6,00) e pubblicato da una piccola raffinata editrice di Perugia, la Graphe.it che basa la sua politica editoriale sul concetto pubblicare meno per pubblicare meglio. Come dire: pochi libri e per pochi. Idee che non potevano non mandare in sollucchero un libridinoso come me. Rifiutarsi di trattare un libro come una merce qualunque, dedicargli la giusta attenzione, seguirlo nel tempo e non bruciarlo nello spazio sempre più contratto di un mercato divenuto nevrotico e drogato dalla quantità, è un’ottima pratica di resistenza, oltre che un salutare viatico per l’intelligenza.
Il demone di cui si tratta nel libro di Montañés, e di cui egli segue le tracce storiche, è noto nelle cronache degli amanuensi e degli scrivani medievali, con il nome di Titivillus. Ma appena si va a controllare la letteratura e la sua geografia, ci si rende subito conto di quante varianti ha subìto questo nome. Varianti che non hanno, tuttavia, alterato nel tempo e nei luoghi la natura della sua origine e lo scopo. L’origine si situa all’interno dell’orizzonte ecclesiastico cristiano, lo scopo è di tipo ammonitorio; uno spauracchio per porre un freno a quella che probabilmente era diventata una vera e propria degenerazione della celebrazione ritualistica. Pettegolezzi, ciarle, distrazioni, comportamenti poco consoni al luogo sacro da parte dei fedeli; omissioni di sillabe, di parole, a volte di brani interi, oltre che di storpiature fonetiche e di suoni incomprensibili da parte dei chierici, durante le messe, la recita delle Ore, la liturgia, e in modo particolare di tutta la funzione omiletica. Possiamo immaginare come alla svogliatezza si unisse anche la stanchezza dovuta alle ripetizioni e alle ore antelucane delle funzioni. Inventarsi un diavolo in grado di prendere nota su pergamene di tutte queste manchevolezze, di questi pessimi comportamenti e abitudini, per esibirli nel giorno del giudizio a cui si è chiamati, poteva essere un efficace deterrente. Come dire: attenti che Titivillus vi osserva, controlla e prende nota, e riferirà a chi di dovere. 


Un diavolo, Titivillus, che può vantare la conoscenza della scrittura e delle sue regole, e che armato di penna o di stilo, non si lascia sfuggire neppure i refusi e le distrazioni dei copisti al lavoro negli scriptoria. Ammonimento, questo, ancora più severo, perché si tratta di testi sacri e dunque non ci si può permettere errori. Occorre restare vigili, non farsi tentare dal maligno, perché nell’eterna lotta fra il bene e il male, le distrazioni e gli errori sono indotti dal demonio. In questo senso Titivillus svolge una doppia funzione: di controllore, perché sia garantita la corretta trascrizione; di distrattore,  perché sia compromessa. In entrambi i casi l’errore come origine diabolica e non umana: In fondo una visione giustificatoria.

Nella veste di annotatore dei peccati di omissione lo troviamo raffigurato in alcune pitture murali, capitelli, stampe e incisioni, e se diversi trattati, exemplum e detti edificanti sentono il bisogno di sottolineare questa funzione, possiamo immaginare come certe omissioni e distrazioni fossero diffuse ed andassero stigmatizzate. Nessuna conferma documentaria, invece, della forzatura tutta otto-novecentesca di fare di Titivillus, il patrono della stampa.   

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SONAR IN OTTAVA
di Angelo Gaccione
Accademia Dell'Annunciata
Foto di Alberto Panzani

I milanesi dovrebbero essere orgogliosi di avere un’istituzione così prestigiosa come la Cappella Musicale. Noi di “Odissea” nutriamo grande ammirazione per questa Associazione Culturale. In questi 25 anni, tanti ne ha compiuti, ha svolto un ruolo indispensabile per la diffusione e la conoscenza della musica antica, e l’ha portata nelle chiese più vetuste e ricche di storia della nostra città. A dire il vero, una fetta di appassionati non fa mancare il sostegno alle sue rassegne ed ai suoi festival internazionali, e vi accorre numerosa, com’è avvenuto lo scorso 25 giugno al concerto dell’Accademia dell’Annunciata nella Basilica di Santa Maria della Passione. La basilica straripava di pubblico e occupava le tre ampie navate di quella che è la chiesa più grande di Milano dopo il Duomo. Cosa si può desiderare di meglio che assistere ad un concerto dedicato a due dei più grandi geni della musica di tutti i tempi, a quel ruscello armonioso che è il tedesco J. S. Bach, e a quel vero e proprio vulcano in eruzione che è il nostro A. Vivaldi, e per giunta in un luogo dove ovunque volgi lo sguardo non puoi che restare ammaliato? Dall’Ultima Cena di Gaudenzio Ferrari alla Crocifissione di Vincenzo Campi; dalla Deposizione di Bernardino Luini alla Flagellazione di Giulio Cesare Procaccini, solo per citare alcuni maestri dell’arte lombarda, e che impreziosiscono le numerose cappelle. L’ottagono dell’imponente cupola vi rapirà con i suoi decori e quella forma di “torta a spicchi” che compone come una “raggiera”, e che invece vuole essere una stella, la “stella del mattino”, che nella simbologia cristiana è il simbolo della Vergine. Ma gli amanti degli organi saranno certamente colpiti dai due magnifici esemplari incastonati nelle nicchie dell’altare maggiore. Occupano i due corni, quelli che nel gergo ecclesiale sono definiti “in cornu Epistolae” e “in cornu Evangelii”, rispettivamente il lato destro e il lato sinistro. Anni fa ho avuto la fortuna di sentirli suonare entrambi questi due organi “affrontati” e dalle ante dipinte, in un dialogo “antifonico”, denso, robusto, accompagnare i versetti dei salmi pasquali. Quello di destra si deve alla maestria di Gian Giacomo Antegnati. Di Antegnati Milano può vantarne più di uno perché il grande maestro organaro, nel corso della metà del Cinquecento, costruì quelli delle chiese di Sant’Eustorgio, San Carpoforo, San Nazaro in Brolo, Santa Margherita, del Duomo, e soprattutto quello a me più caro di San Maurizio al Monastero Maggiore, perché grazie alle rassegne di Musica e Poesia che vi si svolgevano, ho potuto ascoltarlo più di una volta e apprenderne la storia. Lo ammiravo durante i concerti di musica medievale, rinascimentale e barocca, troneggiare dall’alto del loggiato, magnificamente fuso con le opere di tanti straordinari maestri, e con i meravigliosi affreschi di Bernardino Luini e figli, in quel refettorio sublime che noi consideriamo, a giusto titolo, la Cappella Sistina di Milano. Ho avuto altresì, il raro privilegio di presentare in questo luogo, sotto lo sguardo di angeli musici muniti di liuto e flauti, e di una sant’Agata martirizzata che regge i seni tagliati su un vassoio, la mia corposa antologia Poeti per MilanoMa torniamo al concerto in Santa Maria della Passione. 


Un momento del concerto
Foto di Alberto Panzani

Concerto in do maggiore (per archi e basso continuo), Sinfonia in re maggiore (per archi e b. c.), Concerto in do maggiore (per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Vivaldi; Concerto in do minore (versione per violino, violoncello, archi e b. c.), Concerto in re minore (versione per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Bach; Sonata in do minore (per archi e b. c.) di J. G. Goldberg, allievo di Bach a Lipsia, e a cui il maestro dedicò le famose Variazioni Goldberg; questo il delizioso programma che l’Accademia dell’Annunciata ci ha offerto, in un crescendo di entusiasmo dovuto alla bravura di questa giovane orchestra barocca diretta dal maestro Riccardo Doni, ma soprattutto per il virtuosismo  di Giuliano Carmignola al violino, e di Mario Brunello al violoncello piccolo, che hanno mandato in estasi il pubblico e che ha tributato loro una serie ininterrotta di ovazioni. I due bravissimi interpreti hanno mostrato di gradire la calorosa accoglienza del pubblico milanese, e hanno generosamente concesso più di un bis. A chiusura una struggente aria della Passione secondo Matteo: niente di più intonato per una Basilica che dalla Passione deriva il suo nome. Sul trio: Doni, Brunello, Carmignola, ogni parola è superflua; bastano quelle pertinenti di Raffaele Mellace che firma quasi tutte le schede del catalogo del programma del festival dal titolo Milano artemusica, e che, apertosi il 3 giugno, si concluderà il 23 agosto.


Abbiategrasso. Il Palazzo Pretorio

Mi sono molto compiaciuto del fatto che l’Accademia dell’Annunciata, sia nata ed abbia sede, ad Abbiategrasso; è una grande cosa che sia ospitata addirittura nel castello bramantesco di questa graziosa cittadina, che ha un suo centro storico tutt’altro che banale.
Purtroppo il maestro Doni, con cui mi sono complimentato scambiando al volo due battute, mi ha detto che ad Abbiategrasso questo gioiellino è quasi sconosciuto. Peccato. Allora dalle pagine di questo giornale voglio dire agli amici abbiatensi (e agli amministratori cui questa nota arriverà), di tenerselo caro e considerarsi fortunati a possederlo. Sono davvero pochissime le cittadine lombarde e non, a poter vantare un ensamble musicale. E soprattutto di una tale qualità.  
  
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IL TALENTO IGNORATO DI ANDREA LUCHESI
di Angelo Gaccione
Andrea Luchesi

La Chiesa dell’Assunta in Vigentino dà il nome alla Piazza dell’Assunta su cui si trova ubicata. In realtà chiamarla piazza è un po’ esagerato: si tratta di un semplice slargo al fondo di una traversa della lunghissima via Ripamonti. Non è una chiesa blasonata e forse è per questo, oltre alla posizione decentrata, che non è nota ai più. Tuttavia la sera del 13 giugno scorso si è rivelata, almeno per un appassionato di musica sacra e barocca come me, una magnifica doppia piacevole sorpresa. Mi ha regalato, deliziandomi, un bellissimo concerto, e ha colmato un pezzetto della mia abissale ignoranza.
Nulla sapevo, infatti, del compositore veneto Andrea Luchesi e dei suoi straordinari meriti, oggi quasi del tutto seppellito in un colpevole oblio.
Intanto ho scoperto che la Chiesa ha una sua Orchestra dell’Assunta, e già questo è straordinario: vuol dire che è in grado di proporre delle piccole rassegne alla città. Non so se l’ensemble che ha eseguito questo Concerto Straordinario dedicato a Luchesi appartenga a detta Orchestra, o se, come spesso avviene, era integrato da musicisti “in prestito”. In ogni caso il maestro Giovanni Battista Columbro (cui si deve, credo, la scelta di questo omaggio), lo ha diretto in maniera impeccabile, e tanto il Concerto per clavicembalo e archi in Fa Maggiore (al clavicembalo Graziella Baroli), quanto la Grande Sinfonia in Re Maggiore per fiati e archi, sono risultati ottimi. La Grande Sinfonia contiene una quantità di echi e di suggestioni davvero sorprendenti. Ci sono stati dei momenti i cui passaggi melodici, i timbri sonori mi evocavano Mozart, Beethoven e non solo.
Dalle note del programma stese dal direttore Columbro, ho potuto successivamente appurare come quelle mie reminiscenze non fossero arbitrarie. Di come Luchesi a Bonn fosse stato effettivamente maestro di Beethoven, e come in quella città avesse ricoperto il prestigioso incarico di Kapellmeister a vita, giuntovi su invito del principe arcivescovo per organizzare l’orchestra del principato. Di come Luchesi e gli altri grandi maestri italiani operanti nelle più celebri capitali europee della musica (Sammartini, Fischietti, Guglielmi, Boroni, Paisiello, Sarti, Piccinni, Bianchi, Tarchi, Boccherini, Salieri, Clementi, Porpora...), avessero influenzato la musica europea.
Plagi, false attribuzioni, impossessamenti più o meno fraudolenti, commissioni dietro compensi di committenti che spesso se ne attribuivano la paternità o le commerciavano come proprie, inesistenza della tutela del diritto d’autore, condizioni difficili di vita che spesso obbligavano gli artisti a cedere il frutto della loro creatività a ricchi signori dietro compenso... Fino a quella editoria “imperial-sciovinistica” come la definisce Columbro, germanocentrica e che ha dominato per tutto l’Ottocento, che ha apertamente ignorato l’enorme debito che a questi grandi talenti italiani devono la musica europea, e moltissimi dei protagonisti più celebrati.    


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MATERA LA MAGICA
di Angelo Gaccione



Potete viaggiare in ogni dove e varcare tutti i confini, ma dovete, almeno una volta nella vita, approdare necessariamente qui, a Matera, nella magica Matera. Infilarvi fra le sue grotte e i suoi ipogei, percorrere i suoi calanchi e le sue salite, sostare fra i suoi slarghi e le sue piazzuole, battere il suo acciottolato e le sue pietre, affacciarvi dai suoi strepitosi balconi e abbracciare in un solo sguardo tutta la luce che contiene. Matera è una città di sassi, la citta dei Sassi, per uomini pietrificati, per uomini abbarbicati al tufo e all’arenaria, come le pertinaci piante di ogni sorta che tra le pietre hanno trovato asilo, si sono insediate, hanno messo radici. Ammassi di pietre su pietre a formare ciclopi e giganti in difesa di chiese e terrazze;  posti a guardia di questo arcaico disarmonico armonioso presepe, che squilla di tutto il suo biancore, e dove il tempo ha lasciato le sue tracce. Ne ha scavato rughe e ferite come su un volto di vecchio. Dovete lasciarvi avvolgere dai bagliori di un tramonto, e dalle sue struggenti tinte. Mentre il vento accarezza i tetti e fischia tra i vicoli, spingendo il veliero di nuvole che riprende la sua rotta verso Sud.   

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FRANCO TOSCANI: PENSATORE E POETA
di Angelo Gaccione

La copertina del libro


Franco Toscani, a cui mi lega una lunga e affettuosa amicizia, non è solo un acuto saggista e un appassionato studioso di filosofia, come ben sanno i lettori di “Odissea” di cui è da sempre collaboratore, è anche un frequentatore di poesia, come mostrano i suoi versi rari ma necessari. Nel gioco del mondo (Ed. Scritture, pagg. 70 € 10) è stato pubblicato lo scorso settembre e raccoglie quarantanove testi scritti ed elaborati tra il 2003 e il 2017. I lettori di Toscani sanno che i suoi studi alternano meditazione filosofica e saggistica militante, e che per la complessità della materia, richiedono un’applicazione assidua e un ampio respiro temporale. Alla poesia (questa è la seconda raccolta dopo La benedizione del semplice) ha riservato uno spazio segreto ed evocativo da ritrovare nei momenti di più fertile e stimolante abbandono. E se i luoghi ne favoriscono l’accensione lirica (Appennino emiliano-ligure,  Monte Armano, alta val Nure, da sempre frequentati e cantati), la riflessione attinge al serbatoio della cultura più amata per rintracciare gli echi e i segni inseparabili dal proprio sentire. Poeta e pensatore, è questo il binomio del suo fare, perché l’uno e l’altro sono fratelli, come magistralmente rivelano i versi di pagina 19: “... fratelli sono/ nel dono essenziale/ di terra e cielo/ di canto e pensiero.../

Di natura e di uomini, di morte e di eros, di sentimento e di memoria, di caducità del tempo e di altro ancora, dicono i versi di Toscani, e lo dicono con parole scabre, essenziali e prive di ridondanze, come dimostra il testo “Abbandono” che voglio riprodurre integralmente per i lettori:
Quando morte
verrà
dell’abbandono
esser capace
vorrei  
come mia madre
dell’addio avere
il coraggio
con la lacrima
e il sorriso
del compimento.

Pubblicato nella collana I Riflessi, la raccolta di Toscani è introdotta da una interessante e puntuale nota del filosofo Remo Bodei.

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NICOLINO LONGO: POESIA ET ALIA
di Angelo Gaccione


La sottomissiva funzione dei verbi servili (Poesia et alia) di Nicolino Longo pubblicato da BastogiLibri (pagg. 104 € 15,00) raccoglie alcuni testi poetici (quasi tutti usciti sulle pagine di “Odissea”) sapidi, straniati ed irriverenti come ci ha abituati il poeta calabrese, fotografie in bianco e nero e a colori principalmente della sua amata sposa a cui dedica anche una sorta di divertente “ballata” celebrativa di 120 versi come dono per il sessantesimo compleanno. Toccante e spassosa la “ballata” fa il paio con l’altro omaggio, sempre per la sua Maria, dal titolo “La gioia più grande” che voglio riprodurre per intero perché sono sicuro che altrettanta gioia procurerà ai lettori.
Se dopo morto/ un giorno assai lontano sentissi/ alla porta del Paradiso/ una voce calda e suadente che/ con birignao mi dicesse:/ “Nicoliiinooo/ sono Mariiiaa”/ Io per la troppa gioia/ cadrei fra gli angeli per terra:/ sarebbe il cuore ad aprirti/ e a farti entrare/ E a sette chiavi/ a chiuderti/ in sé per sempre/
Tra gli alia voglio invece soffermarmi sulla prosa memoriale intitolata “Estate 2016”. È una nostalgica poetica rievocazione della raccolta delle ciliegie e di una mietitura. I ragazzi di città e i figli dell’industrializzazione prima e della terziarizzazione selvaggia dopo, non hanno neppure sentore delle meraviglie visive ed olfattive che questi due riti, queste due pratiche dell’universo contadino hanno impresso nella nostra visionarietà e nella nostra memoria di fanciulli.
Longo condisce la sua rappresentazione con molti termini dialettali (anche questa dei dialetti, delle lingue madri, è una perdita irreparabile  e che il tritacarne dell’omologazione linguistica renderà vieppiù emarginati e periferici) e che a me, che di quel variegato e spumeggiante impasto di dialetto calabrese sono figlio e di cui quotidianamente mi servo, hanno risvegliato curiosità non solo di natura filologica, ma la messa a confronto delle varianti che i singoli termini evidenziano. Ed è straordinario verificare come a distanza di pochi chilometri il termine preso in esame differisce a volte di una sola consonante, a volte di un unico dittongo. Una minima variante per connotare la specificità di una comunità.
Da segnalare, a prefazione del volume, il pertinente e rigoroso scritto di Carmine Chiodo.

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BOLOGNA OH CARA!
di Angelo Gaccione

Bologna notturna

Uno scrittore vive di miti e se ne crea diversi. A me succede con i luoghi. Ogni volta che vi ritorno sento il bisogno di recarmi in alcuni posti precisi (piazze, chiese, angoli, quartieri) per rivederli, sostarvi, passeggiarvi. Se ad esempio vado a Pavia, non posso fare a meno di entrare nella Basilica di san Pietro in Ciel d’Oro e fare una visita alle spoglie di Agostino e Severino Boezio. Andare a San Miche Maggiore, fare una passeggiata fino a Borgo Ticino attraversando il Ponte Coperto, entrare nei cortili dell’Università dove hanno insegnato alcuni dei più celebri letterati e scienziati italiani, sedermi sotto le sue torri medievali. A Bergamo salgo fino a Borgo Canale per la casa natale di Donizetti, una casa povera situata molto più giù del livello stradale, tanto in basso che così il musicista ne ha scritto: “Nacqui sotto terra in Borgo Canale. Scendevasi per una scala di cantina ov’ombra di luce non mai penetrò, e siccome gufo presi il volo, portando a me or tristo or felice presagio”.
Questa primavera sono tornato a Bologna per un incontro su Pasolini alla Biblioteca Renzo Renzi di via Azzo Gardino, alla Cineteca, uno strano contenitore di forma circolare la cui piazzetta è stata dedicata al poeta. Le giornate erano meteorologicamente magnifiche, con il sole luminoso e un cielo carico di grosse nubi bianche su un fondale azzurro intenso. Da via D’Azeglio al n. 9 dove ho soggiornato, cuore che più cuore non si può, avevo a portata di sguardo e di passi Piazza Maggiore, Piazza del Nettuno e Piazza Re Enzo. Avete idea di quali tesori architettonici racchiude questo breve perimetro? Dalla Basilica di san Petronio dove non trascuro mai di entrare per vedere la gigantesca meridiana del Cassini riprodotta sul pavimento e che risale ad oltre la metà del 1600, e quanto in questa chiesa è contenuto. La sua facciata non finita mi ha sempre affascinato, mi evoca l’immagine di un corpo rimasto privo del suo vestito buono per l’improvvisa scomparsa del sarto che lo aveva ideato. Quasi un rispetto sacrale alla sua memoria per non far torto al suo genio. Come dire: lui lo ha iniziato, ma nessuno potrà finirlo.
Intoccabile come la Sagrada Familia di Gaudì a Barcellona.
È rimasta semisvestita la domus del divus Petronius protector et pater, ma in fondo è stato un bene perché indica a noi e a quelli che verranno, che tutte le cose del mondo soggiacciono alla legge della precarietà. Al Palazzo dei Notai che fu sede di questa corporazione medievale per oltre 150 anni, al Palazzo d’Accursio sul cui frontale, proprio al di sopra dell’enorme portale e dentro una nicchia, troneggia la statua di bronzo di papa Gregorio XIII, quello del calendario gregoriano. Ha un braccio alzato ed è colto dallo scultore nell’atto di benedire la sua città. I bolognesi lo avevano spacciato per san Petronio per preservare la statua dalla furia anticlericale napoleonica. Sopra vi avevano inserito la scritta riferita al santo, e così hanno potuto gabbare le truppe francesi. Sede del Comune, questo palazzo si allunga fino alla Piazza del Gigante, ma più diffusamente conosciuta come Piazza del Nettuno, per via della statua col tridente che sovrasta la fontana del Giambologna, al Palazzo del Podestà e a quello di Re Enzo così chiamato perché vi morì il figlio di Federico II. Da un po’ di anni quella che è chiamata  Salaborsa, (funzionava da sostegno all’attività mercantile che si svolgeva sotto la Piazza Coperta), meravigliosamente ristrutturata, è divenuto un punto di riferimento e di incontri con la sua ricchissima biblioteca multimediale, la sezione dei libri per bambini, i suoi caffè, le sue strutture liberty e le sue vetrate déco. Passeggiarvi, sostarvi, o semplicemente guardarsi intorno, è un’esperienza da fare se si approda in questa città. C’è anche un piccolo passaggio interno dedicato allo scrittore alessandrino Umberto Eco che a Bologna insegnò a lungo, anche se ha sempre vissuto a Milano, città dove è morto. Insomma è un perimetro di grande suggestione e di grande armonia architettonica. A me Piazza Maggiore piace goderla di mattina presto quando è semideserta, quando comincia appena ad animarsi, ma non è ancora nella sua piena attività; a quell’ora, se il cielo è terso e c’è una leggera brezza come ora, lo spazio che racchiude la piazza si presenta in tutta la sua maestà. Mai ho trascurato, nei miei viaggi a Bologna, una visita alle cosiddette Sette Chiese e ai loro meravigliosi chiostri di Piazza Santo Stefano. Qui ho sostato a lungo seduto sotto le volte dei colonnati dei palazzi, i portici, per cui Bologna è così bella, come scrive Pasolini, e ho assorbito finché ho potuto tutta l’armonia del luogo, l’atmosfera che mi ispira. E sempre mi spingo fino al Ghetto Ebraico prendendo per via dei Giudei o via dell’Inferno, per ragioni che ognuno può intuire, così come vado in via dei Poeti perché lì il mio amico Roberto Roversi, anch’egli ottimo poeta, aveva la sua libreria antiquaria, e vi ha passato parte della sua vita. È il mio modesto omaggio sul filo di una memoria che non si arrende al tempo. Naturalmente percorro in lungo e in largo i portici e la zona universitaria, entro in cortili e chiese e vado a caso, sostando dove il mio intuito o le mie conoscenze mi obbligano, e ci resto tutto il tempo che mi occorre, senza fretta. Qualche volta imbocco le lunghe direttive che arrivano fino alle varie Porte: Santo Stefano, Saragozza, Porta Maggiore...
Ma se sono molto stanco ed ho camminato a lungo, entro nella via dell’Achiginnasio e vado alle Pescherie Vecchie, in via Calzolerie, via Caprarie, via Orefici, via Artieri, fino a Piazza Mercanzia. Sono le viuzze medievali dell’antico mercato della città, colma di odori di ogni tipo, per i negozi e i banchetti che vendono pesce, dolci, salumi, frutta, mortadella, tortellini, formaggi di cui ci si può deliziare, sentire la cadenza tipica della lingua emiliana, parlare con chiunque, perché questo concentrato di popolarità è sempre disponibile e come tutti i luoghi del commercio è vitale ed aperto all’incontro. Se posso corro in via Piella per affacciarmi dalla finestrella che guarda su uno dei rari canali rimasti scoperti e dove l’acqua scorre accanto alle fondamenta delle case come a Venezia o ad una delle tante città d’acqua italiane. Questo scorcio ci ricorda che sotto la città scorre acqua e che fino ad un paio di secoli fa anche Bologna era piena di canali. Li hanno coperti per rifare il riassetto urbano, un po’ come Milano che ora vorrebbe riaprire almeno quelli di via Sforza o della chiusa di Leonardo del Ponte delle Gabelle, nella zona tra Brera e San Marco. È quasi un appuntamento obbligato il mio, con questo piccolo pertugio bolognese. È legato a ricordi di un tempo passato, un tempo di giovane e di studente, un tempo felice fatto di volti, di contestazione, di passioni.

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DIECIMILA.
IL PICCOLO GRANDE LIBRO DI ANDREA KERBAKER
di Angelo Gaccione

La copertina del libro

Narrazioni che hanno come protagonisti i libri ce ne sono diverse. Nel 1998 curai un volume di racconti collettivi sul tema della notte; ognuno dei ventidue scrittori presenti ha raccontato la notte col suo stile, le sue visioni, i suoi fantasmi. In uno di questi racconti notturni dal titolo “Caos” di Raffaele Nigro, i libri si animano e, ubbidendo alle loro inclinazioni e preferenze, non solo cambiano di posto sovvertendo l’ordine di catalogazione disposto dal suo proprietario, ma addirittura combinandosi arbitrariamente si rimescolano al punto che l’incipit delle Rime dell’Angiolieri è stato sostituito da un brano delle Confessioni di Ippolito Nievo, tra le Rimembranze di Berni si sono inseriti versi del Foscolo, tra l’Innamorato del Boiardo brani della Vita Nova di Dante, e così via. Insomma, i libri durante la notte si sono cercati dei compagni di viaggio e si sono organizzati “una nuova vita nella piazza della mia libreria”, come scrive efficacemente Nigro.
Nell’agile delizioso libretto di Andrea Kerbaker ripubblicato da Interlinea di Novara: Diecimila. Autobiografia di un libro, è un libro a parlare e a raccontare la sua storia e lo fa in prima persona. È uno dei diecimila, come segnala il titolo, di una vasta biblioteca, poiché il suo proprietario è un accanito, appassionato bibliofilo. Chi come me ha avuto il privilegio di visitare la “Kasa dei Libri” di Kerbaker in Largo De Benedetti qui a Milano, e di essere guidato attraverso i vari ambienti dove i libri conducono la loro esistenza di inquilini preziosi e di riguardo, può capire a fondo questa Autobiografia. Non se ne lamentano, ma anche loro, benché la Casa goda di un certo blasone, stanno stretti ed hanno problemi di spazio come noi comuni mortali, distribuiti e ammassati come sono in ogni angolo, in ogni anfratto, disposti a colonne, a torri, sospesi al soffitto e pendenti dall’alto, debordanti nei tre piani della Casa. 
La storia che il protagonista del volumetto di Kerbaker ci racconta non è solo la sua storia, ma è uno spaccato di esistenza di altri compagni di sventura e di avventura. La vita grama tra scatoloni e polverosi scaffali di librerie; l’indifferenza di clienti distratti, avventori dai gusti spesso superficiali e discutibili, di lettori esigenti, acquirenti spericolati. E ancora: il privilegio della vetrina e del posto ben in vista, gli onori di una seconda vita attraverso la trasposizione  cinematografica, l’approdo nelle case e nelle librerie di lettori accorti e sensibili; ma anche il tempo vuoto e interminabile dell’immobilità, muti tra scaffali dimenticati (perché un libro senza un occhio che lo legga è muto, come dice Eco, non ha voce e non ispira sentimenti, riflessioni, intelligenza, e perché come aggiunge Kerbaker “per un libro, non esser letto è forse la peggiore delle fini ), fino al rischio di venire svenduti, declassati del loro valore, o, peggio, finire al macero in una morte ingloriosa perché ritenuti inservibili. L’amara poesia che la prosa di Kerbaker ci consegna non nasce solo dalla separazione che il libro deve subire quando un compagno più fortunato lascia la massa obbligata a restare dov’è, dall’incertezza del destino nuovo che attende chi se ne va; nasce soprattutto dall’aver conferito un’anima a queste fragili povere creature di carta, esposte ad ogni minaccia: un libro che rovina da un’altezza significativa a causa del gesto maldestro del suo possessore, è spacciato; è spacciato se inavvertitamente chi lo ha acquistato fa rovesciare fra le sue pagine il bicchiere pieno che tiene vicino al libro sul comodino. Un’anima umana e un occhio attento a registrare ogni dettaglio, ogni sussulto. Dal loro sentire ci è rimandata la psicologia dei frequentatori di librerie: come scelgono, cosa scelgono; le case dove i libri approdano, il carattere dei loro padroni, le relazioni, le vite di coppia e di singoli; il loro status sociale, le loro convinzioni ideologiche, la cura o meno che costoro hanno nei loro riguardi, le abitudini alla lettura, i luoghi preferiti per questo momento di raccoglimento e di silenzio solenne.
Capolavori di ogni tempo e libri che non hanno lasciato neppure una lieve traccia di sé, scorrono in questa narrazione. Libri che tornano ad avere una loro rivincita a distanza di decenni, contro e malgrado i tempi fulminei del consumo, delle mode e del mercato, che tratta queste creature come una merce qualsiasi. Ma anche libri che riescono ad opporre un margine di resistenza a tutte le invenzioni tecnologiche che vorrebbero cancellarne la forma in cui noi, perversi ed incalliti gutenbergiani libridinosi, li abbiamo conosciuti ed amati. Ed allora anche il libro protagonista di Diecimila continua a godersi il suo momento di trionfo e di gloria, perché il lettore Numero Quattro, come è indicato nella sequenza degli acquirenti, lo ha selezionato tra il gruppo da portarsi via. Continuerà la sua esistenza ed il suo viaggio perché ha ancora tanto da dire e “da dare”, in barba a Internet e a tutti i surrogati della modernità. Almeno fino a quanto un lettore irriducibile e premuroso, si lascerà incantare da quelle parole e da quella scrittura.

Andrea Kerbaker
Diecimila.
Autobiografia di un libro.
Interlinea Ed. 2017
Pagg. 80 € 12,00
      

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AREZZO. L’ORTO DI VASARI
di Angelo Gaccione


Sentite come parla del suo orto Giorgio Vasari in una lettera all’amico cardinale Minerbetti: “Il mio orto, alido e sitibondo di me, sentendo che io vado, rimette le fronde, già secche per il dolore di vedermi stentare per le case altrui, doglioso nel vedersi da altre mani troncarsi le cime delle erbe et sbarbare i cesti delle ricche foglie, vero ornamento, honore et veste della fruttifera terra...”. 


Quello che Vasari chiama orto, in realtà è un giardino che circonda la casa di via XX Settembre che l’artista compra nel 1541 nel borgo di San Vito, e che a quel tempo era formata di campagna e orti. Una zona più fresca e silenziosa e di sicuro con un’aria migliore rispetto al resto della città fittamente urbanizzata. Era qualche tempo che volevo venire ad Arezzo per vedere proprio la casa del Vasari. In altro tempo mi ero limitato a visitare l’esterno della città, e avevo anche trovato chiusi alcuni luoghi. Per esempio la casa natale di Petrarca e diverse chiese, ma avevo potuto godere del Duomo e del Palazzo dei Priori, della Fortezza Medicea e di Palazzo Pretorio, di Santa Maria della Pieve, della fascinosa Piazza Grande con le case medievali e delle Logge Vasari, sotto i cui archi mi ero anche seduto per ristorarmi. Questa volta invece ho potuto fermarmi un numero di giorni sufficienti per esplorarla da un angolo all’altro e non mi sono fatto sfuggire nulla o quasi. Ho potuto con più agio sciamare dall’Anfiteatro Romano fino alle mura del Prato dove vigila il patriottico monumento al Petrarca; da Piazza Guido Monaco col monumento a questo figlio illustre del quale, se non è certa la sua nascita qui, ha qui tanto operato, dando al mondo il tetragramma prima e la solmisazione dopo, che alla musica apportarono un immenso beneficio, al Borgo di Santa Croce, e così via. 


Non ho ovviamente mancato l’appuntamento con le numerose chiese, e in particolare con la basilica di San Francesco di cui a suo tempo mi aveva colpito la facciata grezza e non finita (me ne ero ricordato anni dopo parlando di San Lorenzo di Firenze, e così è finita nelle pagine di Romanzo impuro nella parte ambientata in questa città), perché volevo vedere la Cappella Maggiore con i magnifici affreschi di Piero della Francesca  nel ciclo della Legenda della Croce. Di questo pittore ho visto tutto in città diverse, ma devo dire che questa chiesa meritava davvero. I suoi dipinti sono ammirevoli, ma non sfigurano artisti come Paolo Schiavo, Lorentino d’Andrea, Niccolò Soggi e il grande Spinello Aretino. Le vele della Cappella dipinte da Bicci di Lorenzo sono pregevoli, e le immagini si sono nel complesso ben conservate. Il racconto di Piero (perché tutta questa pittura ha un intento narrativo, didattico e simbolico) è superbo: le scene ed i colori squillanti, lo scandaglio teologico degli episodi della Bibbia di facile lettura per la sensibilità di una cultura che nel Rinascimento doveva ancora mantenere fortemente la sua cifra educativa e morale. Nella scena dell’Incontro della regina di Saba con il re Salomone, Piero si è ritratto in vesti sontuose e con lo sguardo frontale stranamente rivolto altrove. Non guarda, come il corteo di personaggi, all’incontro e all’evento dei due protagonisti che si stanno stringendo la mano. Ne è quasi estraniato ed indifferente. Nell’episodio della Battaglia di Ponte Milvio colpiscono invece gli occhi di Costantino e del suo bianco destriero, indomiti e fieri della imminente vittoria. Un enorme crocifisso dipinto da anonimo del XIII secolo introduce alla Cappella. Un altro in legno, anch’esso anonimo, è del XIV secolo lo trovate nella chiesa, ed è quanto di più umano e terreno possibile. Se ne avessi il tempo mi piacerebbe dedicare un lavoro corposo a questo simbolo cristiano, alle migliaia che ne ho visto scolpito, dipinto, affrescato, inciso, intarsiato a mosaico, in ogni dove. Non mi sono dispiaciuti in questa chiesa né il san Francesco giovane e sbarbato, né la statua in bronzo dell’Immacolata che lo scultore contemporaneo fiorentino Mario Moschi ha regalato alla basilica. Mi è dispiaciuto invece il prezzo esagerato del biglietto e soprattutto l’assoluta mancanza di cartigli esplicativi. Nulla di nulla, neppure uno straccio di guida che dica qualcosa ai visitatori di questa Cappella, e per somma di beffa una rivista del costo di 9 euro disponibile solo in francese, cosicché gli italiani non se la possono portar via, mentre i visitatori di lingua francese se la devono pagare.


Tutt’altra storia, invece, alla Badia benedettina delle sante Flora e Lucilla in piazza della Badia. Tutt’altra storia grazie all’anziano ma vivace e simpatico parroco don Vezio Soldani, che si è messo a disposizione e ci ha raccontato ogni dettaglio, fatto gustare aneddoti, opere e storia, con semplicità e sintesi. Ho usato la particella pronominale ci perché non ero solo in questa chiesa, assieme a mia moglie qualche straniero e un paio di “sperduti” italiani. Ci sono città straordinarie dove nessuno mette piedi, in compenso vanno a New York o alle Maldive. Anche su questa chiesa ha messo le mani il Vasari che l’ha completamente modificata. La sua presenza qui è molto forte: vi è stato portato, nel 1865, l’altare maggiore che aveva realizzato tra il 1562 e il 1564 per custodire le sue spoglie e quella della sua famiglia, e che in origine era stato collocato nella Pieve di Santa Maria. È stata per me una vera delusione apprendere da don Vezio che i resti dell’autore de Le vite e quelli dei suoi familiari (genitori, nonni e moglie), non erano dentro l’altare di questa chiesa come mi ero immaginato, e che invece erano andati dispersi. Vi sono rimasti i loro ritratti che l’artista ha dipinto, e nel Lazzaro e la Maddalena Vasari ha riprodotto il suo volto e quello della moglie. Tutto il complesso monumentale vasariano è straordinario, come straordinaria è la sua Assunzione, una tavola enorme del 1567 in cui si è ritratto fra gli apostoli con un libro in mano, forse il suo trattato sulla pittura. Ci sono opere di grande valore in questa chiesa, e basta citare qualche nome: Lappoli, Baccio da Montelupo (ottimo crocifisso ligneo), Segna di Bonaventura, il paliotto quattrocentesco (ambito Neri di Bicci), Maiano, Simone Mosca...


La casa natale del Petrarca, ora proprietà dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze di Arezzo, è in via dell’Orto al n. 28. Salendo il Corso Italia, tra la Pieve e la Cattedrale, compare questa costruzione solida, con il chiostro e un loggiato al piano superiore. Come sappiamo il poeta è morto ad Arquà, ora Arquà Petrarca, e ad Arezzo in realtà ha vissuto appena otto mesi, per via dei contrasti politici del tempo (il padre era della fazione dei guelfi bianchi) e ad Arezzo ci tornerà una sola volta in occasione di un viaggio a Roma per il Giubileo del 1350. Dunque il rapporto con la città è stato alquanto marginale, e tuttavia volevo vedere dove ha aperto gli occhi e cosa rimaneva in questa casa. Praticamente poco: l’attuale edificio è del XVI secolo edificato su quello che rimaneva dell’antica struttura. Vi si conservano opere d’arte, cimeli petrarcheschi, materiale numismatico dell’Accademia e i 4 mila volumi del letterato e naturalista Francesco Redi, che sono un notevole patrimonio per la città.
San Domenico invece non ve la dovete proprio perdere. Intanto per la sua singolare forma (probabilmente non finita), poi per la pendenza che la caratterizza, e ancora perché da fuori pare molto più piccola, rispetto all’omonima piazza, di quanto in realtà è all’interno. Qui il crocifisso di Cimabue che tutti abbiamo negli occhi per averlo visto tante volte sui libri d’arte, è posto al centro dell’abside. Non dimenticate che nel momento in cui lo dipinge Cenni di Pepo (Cimabue), ha solo vent’anni. Mi ha sempre impressionato quello stomaco “a caciocavallo” del Cristo che attira l’occhio più del volto dolente, più del corpo esile e quasi femmineo degli arti. 


Sfortunatissimo pittore, poco si conserva di altrettanto ben tenuto della sua opera, andata quasi pressoché perduta. Sulla destra troverete una crocifissione di segno opposto, quella di Parri di Spinello. È un affresco ben conservato, se si eccettua il pezzo di una delle figure che attorniano la Vergine affranta. Del padre di Spinello, Aretino, c’è una bella Annunciazione e una composizione più ampia, sempre ad affresco, di santi, martirii e miracoli, che sempre abbondano in pittura. Presente anche una madonna con Bambino affrescato da Duccio di Boninsegna e una terracotta “invetriata”, come si dice in gergo, di un San Pietro realizzato da Giovanni della Robbia assieme al fratello Girolamo. L’interno ha dodici monofore gotiche da cui filtra la luce, con i bordi a fasce come si vede nell’arte senese.
Ho scoperto che la Casa Vasari è ha pochi metri da questa chiesa, basta percorrere un breve tratto della via San Domenico e svoltare. Da sola la casa vale un viaggio ad Arezzo. Non è una semplice casa, è il luogo dove l’artista dà il meglio della sua visione artistica, della sua potenza creativa, del suo pensiero e della sua visione di mondo di uomo del Rinascimento. La acquista nel 1541, ma ci lavorerà per oltre 26 anni. Vuole affrescarla tutta e tornarci per riposarsi dalle fatiche e dal continuo girovagare per le continue faticose committenze. La finirà nel 1568, ma morirà appena sei anni dopo. La godrà per periodi piuttosto brevi con la giovanissima moglie Niccolosa Bacci, perché conteso com’era non gli era facile tirarsi fuori. 


Il piano nobile vi introduce nella Sala del Camino detta anche del Trionfo della virtù. Sul soffitto, dentro un ottagono, tre figure dal seno nudo, lottano aspramente. Sono l’Invidia e la Fortuna scacciate dalla Virtù. Alle pareti figure allegoriche, paesaggi, poeti della classicità. Nella Camera della Fama e delle Arti, la Fama è dipinta seduta sul globo terrestre e squilla la sua tromba per annunciarla ai quattro punti cardinali, mentre le Arti sono raffigurate nei pennacchi della volta e sono la Scultura, l’Architettura, la Poesia e la Pittura. Nei medaglioni delle lunette Vasari celebra i suoi amati artisti, fra cui il bisnonno Lazzaro, Luca Signorelli, Spinello Aretino, Bartolomeo della Gatta, Buonarroti, Andrea del Sarto, e naturalmente se stesso. La camera di Apollo e delle Muse rende omaggio al dio Apollo e ai vari dèi protettori: Melpomene, Calliope, Tersicore, ecc. con i simboli che li distinguono. Seguono la Camera di Abramo e quella del Trionfo della Virtù. La prima era la sua camera nuziale: per propiziare la fertilità raffigura il Padreterno che benedice il seme di Abramo, la stirpe che si genererà. Questo auspicio non si realizzò, Vasari non ebbe figli, e la stirpe di Abramo, cioè noi uomini, siamo quell’infame prodotto malriuscito, come attestano gli incendi di boschi, pinete e parchi, di questo periodo in ogni dove.  



Ricchissima la quadreria iniziata negli anni Cinquanta e arricchita da successive acquisizioni, contiene opere di artisti come Jacopo Zucchi, Jan van der Straet (italianizzato in Giovanni Stradano), Michele Ridoldo del Ghirlandaio, e tanti altri. Del Vasari vanno ricordati almeno il grande dipinto Cristo portato al sepolcro, opera di grande potenza espressiva e drammatica, e un Giuda. Prima di lasciare la casa, ho voluto sostare a lungo nel giardino e fra le piante. Non è tenuto molto bene: è l’Italia, signori. Ho voluto sostarvi perché immagino quanto gli fosse caro sostare qui, raccogliere le idee e riflettere: nella quiete del meriggio, all’approssimarsi del tramonto, o al mattino presto per prendersi cura delle sue amate piante.
Quelle piante sitibonde di lui, addolorate e dogliose di non averlo presente per prendersene cura.

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VITERBO, LA CITTÀ DI PIETRA
di Angelo Gaccione


Se dicessi che la cosa più bella di Viterbo sono le rondini, naturalmente spudoratamente mentirei. Ma che volete, non accade in tutte le città il privilegio, e diciamolo pure, il miracolo, di essere svegliato al mattino dal loro garrire e dai loro volteggi. Il loro irrequieto sfrecciare senza posa, senza un attimo di tregua, sembra volerci dire che ogni gioia è breve e dunque questo vorticare festoso deve compiersi tutto intero ora, nell’attimo stesso in cui questa gioia ci è concessa, spensierata e dimentica di ogni coscienza. Finestre che si affacciano sui tetti, come queste della  Residenza Nazareth di via San Tommaso, tetti bassi per lo più, perché torri e campanili devono ergersi a loro presidio, in un confronto bivalente in cui potere religioso e potere civile danno la misura della loro forza. Simboli solidi, terreni, innestati nel corpo vivo della città.


Finestre che guardano cipressi, pini, cedri del Libano e suoni di campane in lontananza: non può desiderare di meglio chi come me giunge da Milano, dove il risveglio è annunciato dal caos dei motori, dai mille infernali rumori metropolitani. Di alcune città si dice che non dormono mai, e chi lo dice lo fa a cuor leggero, e non ha alcuna consapevolezza del delirio che sono diventate, e dove ogni rapporto con i ritmi biologici e naturali è stato violato e stravolto. I concetti di riposo, di quiete, di raccoglimento, di respiro della notte, sono scomparsi; e come noi, le stesse creature notturne ne sono state  private. Più nessuno spazio per il fantasticare e il sogno. Tutto è stato irrimediabilmente annegato, perduto in un eterno fluire, in un eterno presente che non conosce discontinuità, interruzioni, pause.
In un tempo passato, i nobili lasciavano le città per recarsi nelle loro dimore di campagna, le ville, a riposare, a villeggiare. Lì trovavano riposo e quiete. Siamo stati noi moderni a passare dal caos urbano al caos delle vacanze, in luoghi altrettanto affollati e caotici dove non si dorme mai, e ci si intontisce di rumori, di decibel alle stelle fino all’alba, fra alcool, pasticche e porcherie di ogni genere.
In realtà Viterbo, questa vera e propria città di pietra, è fin troppo bella. Basterebbero i suoi 5 chilometri di mura che la racchiudono e le sue 10 porte: Porta della Verità, Porta Romana, del Carmine, Faul, Fiorentina, Murata, sto citando a memoria, o l’intero quartiere medievale di san Pellegrino con le sue volte, torri, porticati, il suo acciottolato, il concio in peperino che trionfa ovunque, per dirne tutta l’importanza.



Manufatti notevoli come il magnifico chiostro longobardo di Santa Maria Nuova, chiese, fontane a fuso e palazzi a bizzeffe, qualunque direzione voi prendiate, e non solo quelle più canoniche come la piazza Plebiscito nel cui perimetro trovate il palazzo dei Priori e quello del Podestà, o la Piazza della Morte che vi conduce, attraverso il Ponte del Duomo, in Piazza san Lorenzo dove svetta il campanile della Cattedrale e troneggia il Palazzo dei Papi. Le vie e i corsi sono una continua sorpresa e conviene procedere a caso, sarà la città a venirvi incontro ed a stupirvi. Anche ciò che riterrete minore vi sorprenderà, potrà accadervi con il palazzo Ascenzi, ora sede del Circolo Cittadino Viterbese dove nel giardino scoprirete una magnolia della seconda metà dell’Ottocento e un nespolo selvatico gigantesco. La guerra non ha risparmiato questo palazzo, come mi informa Maria Rita De Alexandris, per fortuna ricostruito subito  dopo. Come il curioso altare della appartata chiesa di san Sisto che si protende verso l’alto con la sua lunga gradinata. Deve aver fatto una strana impressione ai fedeli che vi sono entrati per la prima volta, e si sono trovati il loro celebrante sospeso così in alto. Tuttora l’effetto rimane intanto. 


Se all’esterno la città si presenta colma di suggestioni, gli interni (palazzi e chiese) sono ricchi di capolavori di maestri che dal medioevo arrivano fino al XVIII secolo. Darne conto in uno scritto così contenuto sarebbe far loro torto. Mi sarebbe piaciuto vedere il Museo della Ceramica della Tuscia (un’altra eccellenza viterbese e dintorni), ma era chiuso. Il Palazzo Brugiotti che lo custodisce è anche tenuto male. Peccato. Come peccato davvero è la chiusura  definitiva dello storico Caffè Schenardi al numero 11 di Corso Italia, nella vicina Piazza delle Erbe. Nato ai primi dell’Ottocento, come tutti i Caffè europei aveva visto passare dalle sue sale e dai suoi tavolini, la vita politica e culturale della città, e ospiti di una certa levatura. 


Fa tristezza vederlo chiuso e solo un paio di immagini in bianco e nero ne rimandano, agli innamorati come me, l’atmosfera. A questi magici luoghi e alla loro precaria esistenza, ho dedicato molti anni fa un racconto dal titolo “Un caffè accanto al sigaro”, compreso ne La striscia di cuoio, libro più volte premiato. Come fa tristezza vedere lungo i muri di Palazzo Farnese, degli orribili pluviali di lamiera. Il punto non è quello che ci è stato lasciato in eredità dalla storia e dalle epoche passate, il punto è come lo custodiamo, come ce ne prendiamo cura. E soprattutto come e con quale coerenza a questi manufatti accoppiamo, facciamo innesti, accordiamo ciò che è moderno perché non stridi, non offenda, non gridi vendetta. Turba, altresì, e angoscia, il silenzio mortale e l’abbandono a cui parte del centro storico pare condannato. Vendesi e affittasi ad ogni passo. Le porte in rovina, i muri sbrecciati, l’acciottolato divelto, le crepe, se non riparati per tempo, finiscono fatalmente per deperire. Lo spostamento di parte della popolazione al di là della cinta muraria, nella parte nuova della città sicuramente più comoda e ricca di servizi, potrà creare problemi al nucleo antico. La città dovrebbe interrogarsi su tutto questo ed aprire una discussione pubblica collettiva. Il rischio è che una grossa parte del centro storico diventi un museo all’aperto degradato, muto e privo di vita. 

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CIVITA DI BAGNOREGIO: LA CITTÀ CHE MUORE
di Angelo Gaccione

Civita di Bagnoregio

La cosa che più mi stupì, arrivando una domenica di giugno (e precisamente il 25 intorno alle 19, mentre il sole cominciava a declinare e nel cielo comparivano le prime strisce colorate del tramonto) sulla piazza Cavour di Civita di Bagnoregio (come si fa a dare il nome di Cavour alla piazza di un borgo etrusco medievale, è il mistero dei guasti prodotti dell’eccessiva esaltazione risorgimentale), è trovarvi l’allestimento di un coro e orchestra che si apprestava ad eseguire il Requiem di Mozart. Non che qui Mozart fosse stonato, anzi, ma proprio il Requiem in quella che è stata definita “la città che muore”, mi colpì molto. Probabilmente a nessuno del numeroso pubblico presente era venuto in mente questo accostamento, ma il mio insano mestiere ha, fra le sue perversioni, quella di una fantasia oltremodo eccitata.

Negli ultimi tempi ho firmato più volte degli appelli promossi dal governatore del Lazio Zingaretti, da Comitati e altre benemerite associazioni cui sta a cuore la salvaguardia di questo splendido borgo arroccato su una roccia di tufo. Ora apprendo che si sta cercando di sensibilizzare l’Unesco perché venga dichiarato patrimonio dell’umanità. Speriamo. Da più parti si sostiene, tuttavia, che è un’impresa disperata fermare il degrado di una materia la cui deperibilità sta nella natura stessa della sua essenza. Il tufo è un materiale fragile e delicato facilmente aggredibile dal variare degli agenti atmosferici. Lo sperone su cui il borgo sorge, continua a franare e a produrre crepe. Un’agonia lenta che angoscia tutti coloro i quali amano questo abbraccio di case, fantasiose e bizzarre nel loro disporsi, i suoi angoli poetici, i suoi piccoli giardini cintati, le sue pietre, il suo ricamo di viuzze. Non ho competenze per dire se questa sfida per impedirne la definitiva scomparsa è possibile. Tutte le volte che vado a Pavia a vedere la bellissima facciata della basilica di san Michele Maggiore, mi accorgo che pezzi di arenaria si sono sbriciolati; che le intemperie hanno prodotto altro guasto da un anno all’altro. E questo avviene ovunque, e sempre me ne torno immalinconito. Resta la segreta speranza che prima dell’inevitabile, la ricerca metta a disposizione degli studiosi, dei restauratori e dei tecnici, altre possibilità e altri rimedi. Un brutto ponte sospeso nel vuoto, si è dovuto realizzare per arrivare dentro il borgo di Civita dove risiedono un pugno di famiglie e alcuni esercizi necessari al ristoro dei visitatori. L’impatto visivo non è dei migliori, ma è stato necessario perché un’ambulanza vi possa arrivare, e così un furgone per le merci. Si sarebbe potuto valutare se non si potesse farne uno con materiali diversi e soprattutto visivamente più armonico. Ma forse la questione è che non si dovrebbe destinare ad altro, ciò che la storia, il tempo e le necessità, hanno fissato in quel modo. Un eremo per mistici contemplativi, una rocca a presidio militare di difesa e quant’altro, non possono essere trasformati in luoghi dei nostri bisogni contemporanei, senza farli diventare altro. Di innesti il tempo ne produce molti e le cose si stratificano come il terreno delle ere geologiche. Fa davvero impressione, ad esempio, vedere sulla piazza Cavour, incombere con tutta la sua mole, la cattedrale di san Nicola che è della fine del Cinquecento, dentro il borgo medievale del teologo Bonaventura, così piccolo e così raccolto. Ma il dominio cattolico dello Stato della Chiesa, non poteva non marcare il territorio, non lasciare i suoi simboli e innalzare i suoi campanili. Come oggi il potere finanziario con i suoi grattacieli, come ieri le torri dei Signori.    

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FORTUNE
di Angelo Gaccione

Giorgio Bassani

Quale sublime fortuna accompagna la vita di certi uomini che può contare sulla memoria fedele di altre anime (rare, ma ancora esistenti), che ne custodiscono vivido il ricordo e la difendono con una passione così pervicace e ostinata che commuove. Confesso di aver provato una punta di invidia nel sentire con quale devozione la professoressa Silvana Onofri, membro della Fondazione Bassani di Ferrara, raccontava dell'autore di Cinque storie ferraresi, di come ne prendeva le difese e rievocava i ricordi di un lontano passato. E come subito si è messa amichevolmente a disposizione per portarmi sulla tomba dello scrittore il giorno dopo, nel cimitero degli ebrei in via delle Vigne.
L'idea, magnifica, era farmi ascoltare il testo poetico “Rolls Royce” proprio davanti alla sua tomba, in quel cimitero disteso tra i vecchi, assopito nel campo tutto arreso a uno sguardo infinito, come ha scritto, e dove riposano i suoi cari.
La mattina del primo giugno però, trovammo il cancello chiuso per una delle tante feste ebraiche. Non ci perdemmo d’animo, munita di un piccolo stereo portatile, Silvana, che era arrivata in bicicletta, mi portò sul terrapieno delle mura di San Giovanni, proprio nel punto in cui Bassani ne Gli occhiali d’oro descrive il cimitero dall’alto. In linea d’aria la sua tomba era appena sotto le mura e non visibile; visibili erano qua e là alcuni cippi schermati dalle piante, ma il posto non poteva essere più consono. Non accade tutti i giorni la fortuna che un’ammiratrice colta e informata si prenda la briga di farvi ascoltare la voce di un amato scrittore a pochi metri da dove il suo corpo riposa. Che vi dedichi con pazienza alcune ore del suo tempo per dirvi che anche il magnifico polmone verde che state attraversando, denominato Canpagna dentro la Città, è qui integro perché il suo amato scrittore, presidente per un periodo di Italia Nostra, levò anche la sua di voce e lo difese come patrimonio collettivo. Un parco stordente di profumi di alloro perché di questa pianta è stracolmo. E quale meraviglia per me avervi scoperto alcuni alberi della mia fanciullezza: il gelso bianco e il gelso nero. Dal sugo dei frutti dolcissimi di quest’ultimo, un rosso stupendo, ci imbrattavamo mani e viso, torso e gambe; i più maturi di essi ce li scagliavamo addosso in una battaglia innocua dopo esserci quasi del tutto denudati. Guai se fossimo tornati a casa con pantaloncini o magliette colorati di rosso! Portavamo i segni di “ferite” da cui saremmo presto guariti: bastava strofinare su tutto quel rosso ostinato, alcuni gelsi rossicci ma non ancora maturi, e come d’incanto ogni traccia spariva.

La tomba di Bassani nel cimitero ebraico
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Ferrara. Un particolare del Duomo

A Casa Ariosto, dove lo scrittore Roberto Pazzi ha avuto la grande generosità di venire il 31 Maggio scorso, per dire altrettante generose parole sullo scrittore Carlo Cassola, riferendosi alla vita di provincia raccontata dall’autore de Il taglio del bosco, ha affermato che mai si sarebbe separato dalla sua magnifica città, mai avrebbe lasciata per un altro luogo la sua Ferrara. Che grande fortuna, mi son detto. Ho riflettuto molto nei giorni seguenti su questa sua perentoria dichiarazione d’amore, e ho pensato al misero destino degli sradicati come me che hanno perso una terra senza averne fino in fondo acquisita un’altra.

Roberto Pazzi
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A Palazzo Schifanoia in via Scandiana il visitatore ci va per farsi sedurre dai magnifici affreschi del Salone dei Mesi. Ma a me è capitata la fortuna, stanco dai troppi giri a piedi, di fare sosta anche nell’ampio giardino che lo delizia. E quale non è stata la sorpresa nello scoprirvi degli stracarichi alberi di visciole! I piccoli aciduli frutti di queste piante, sconosciuti ai più, non erano neppure degnati di uno sguardo. Per terra, un tappeto fitto di quelli già abbondantemente maturi. I rami ne trionfavano, ma nessuna mano, se non la mia, si è levata per raccoglierne alcuni. E pensare che al Portico di Ottavia, quasi di fronte alla sinagoga di Roma, gli ebrei continuano a fare una gustosissima torta di visciole e ricotta, capace di farvi schivare non solo la noia, ma sopportare persino il traffico delirante della città.

Le visciole

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CORTILI APERTI
di Angelo Gaccione

Milano. Cortile di palazzo Borromeo

Queste giornate dei “Cortili Aperti” sono divenute ormai canoniche qui a Milano, un po' come l'apertura di musei, castelli, magioni nobiliari, siti archeologici e beni del patrimonio culturale in genere, in ogni parte d'Italia, visitabili gratuitamente in alcuni periodi dell'anno.Sabato 20 Maggio, a Milano era una calda, magnifica, giornata più che primaverile ed era una di queste “giornate aperte” alla visita dei cortili di alcune tra le più blasonate dimore altoborghesi e nobiliari. Si trattava dei soli cortili per le case abitate, ma per le case museo come ad esempio Bagatti-Valsecchi di via del Gesù, palazzo Morando di via sant'Andrea, o il Poldi Pezzoli di via Manzoni, si potevano vedere, pagando una quota contenuta, palazzi e arredi, ambienti e collezioni. L'area compresa tra quella che oggi viene definita “quadrilatero della moda” (un tempo oramai lontano borgo delle arti e delle cospirazioni), offriva ben 9 possibilità: palazzo Belgioioso, casa Bergamasco, casa Marchetti, casa Del Bono, palazzo Morando, palazzo Borromeo D'Adda, palazzo Anguissola Antona, casa museo Bagatti Valsecchi, palazzo Vidiserti. Alcuni di questi luoghi li conosco a memoria e non so quante volte li ho visitati, di altri ho anche scritto. Le vie che li contengono fanno parte della mia mappa mentale per ovvi motivi e percorrerli è per me sempre una grande emozione. Tra la via Manzoni e la via Montenapoleone questi luoghi mitici hanno sede e hanno una forte presa sulla mia immaginazione. Al numero 8 della via Manzoni è nato lo scrittore Carlo Emilio Gadda nel 1893, come indica la lapide semisbiadita, anche se è morto a Roma dove sono andato a fargli visita molti anni fa, al cimitero acattolico, vicino alla Piramide Cestia di Porta San Paolo. Al numero 29 c'è il Grand'Hotel et de Milan con la suite 105 dove Giuseppe Verdi morì nel 1901 e dove si conserva intatto l'arredo, nella stessa disposizione del fatale, gelido gennaio di quell'anno. Ho avuto la fortuna di poter visitare in privato quelle stanze, qualche tempo fa, grazie alla liberalità della Direzione, di esserne sufficientemente edotto ed infine omaggiato di un raffinato volume stampato da Franco Maria Ricci, che attraverso gli ospiti più illustri racconta un secolo di storia milanese. Avrei voluto presentare il mio libro Milano città narrata edito dalla Meravigli, in uno dei saloni di quest'albergo, ma poi si optò per la Galleria Vittorio Emanule II.
Una delle anguste traverse di via Manzoni conduce, attraverso via Morone, alla casa dello scrittore de I promessi sposi, e la cui singolare facciata si apre sulla piazza Belgioioso dove c'è l'omonimo imponente palazzo, ma sulla via Morone ci sono ora Casa Bergamasco (al n. 2) e casa Marchetti (al n. 4). I cortili aperti di questi palazzi, sobriamente neoclassici e dotati di colonne, sono appartenuti a patrizi, a patrioti, a letterati. D'Azeglio che aveva sposato la sfortunata figlia del Manzoni, abitava proprio di fronte alla casa dell'augusto suocero. Un'altra traversa gronda anch'essa di storia e di memorie, la via Bigli. Al numero 21 abitò la contessa Clara Maffei, il cui celebre salotto accoglieva letterati, artisti, musicisti, patrioti, cospiratori. Rivoluzionari che si battevano ardentemente per l'indipendenza della patria dal dominio austriaco. Questo stesso palazzo vide il soggiorno giovanile (dal1894 al 1900) di Albert Einstein, a cui questa città fu sempre cara, e più avanti, al numero 15, visse il poeta Eugenio Montale che vi morì nel 1981. Ma via Bigli è importante perché al numero 10 c'è palazzo Vidiserti, dove il 18 marzo del 1848 i capi dell'insurrezione stabilirono il loro quartier generale, per dare vita a quelle che passeranno alla storia come le
eroiche Cinque Giornate di Milano. L'uscita opposta affaccia sulla via Montenapoleone, oggi dominata dal lusso sfacciato e dalle griffe di stilisti e marchi di ogni genere. Un tempo quei palazzi videro altre temperie ed altri scopi. Al numero 23, quasi a ridosso del quartier generale, c'è la casa in cui visse tra il 1840 e il 1848, il più acuto teorico della rivoluzione, Carlo Cattaneo. Ma oggi chi se lo ricorda più? Le lapidi diventano via via illeggibili e chi entra nei cortili di questi palazzi o percorre queste vie, è più sedotto dalle merci esposte nelle vetrine scintillanti, dal lusso e dalle Ferrari parcheggiate, che centinaia di telefonini immortalano come totem divenuti trionfali, piuttosto che dalle memorie patrie o letterarie. Segno dei tempi. Feticci di una modernità avviata spensieratamente al suo declino.

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KAMEN’

La rivista di poesia e filosofia, Kamen’, diretta da Amedeo Anelli a Codogno, provincia di Lodi, è arrivata al 50° numero ed ha compiuto 26 anni. Sia in bosniaco che in sloveno il sostantivo kamen significa pietra, se è questo il senso che Anelli ha voluto attribuire alla testata, allora bisogna riconoscere che la sua creatura ha davvero una buona tempra ed è resistente come la pietra. Ventisei anni e 50 numeri per una rivista di questo genere non sono affatto uno scherzo. Questo cinquantesimo numero (pagg. 114 € 10,00) fa un magnifico regalo a noi estimatori dello scrittore Giuseppe Bonura, perché apre il fascicolo con oltre 40 pagine a lui dedicate. La sezione compresa sotto il titolo “Letteratura e giornalismo”, è curata, introdotta, e annotata, dall’ottimo Alessandro Zaccuri che si conferma una volta di più come il più appassionato, attento, devoto alla memoria dell’amico, che fino alla sua scomparsa ha condiviso le stesse pagine del quotidiano “Avvenire”, su cui Bonura ha esercitato la sua critica letteraria con un’acribia, un’onestà, e una credibilità piuttosto rare. Il Bonura critico, militante radicale ed estremista, non faceva sconti a nessuno: si poteva dissentire dai suoi giudizi, ma non erano mai dettati dalla malafede, semmai dal convincimento profondo che essendo il lavoro sulla letteratura preciso come quello di un maestro artigiano, non si poteva mistificare, e lui ne sapeva riconoscere i difetti perché possedeva quell’occhio esercitato che il buon maestro ha affinato sul campo in anni e anni di pratica con gli utensili più acconci e su una materia che non sempre si lascia plasmare e addomesticare. I brani riprodotti da Zaccuri danno un assaggio di questa sostanza di Bonura, il lettore ne è felicemente sorpreso e spiazzato perché è costretto a rivedere ciò che gli era sfuggito, ciò che la superficie aveva nascosto, e la sua intelligenza ne viene illuminata. Molti in questi scritti sono gli spunti che fanno di Bonura il “solitario” di cui parla Zaccuri, valgano per tutti quelli sul Manzoni.
A.G.  

[Per contatti con la Redazione della rivista amedeo.anelli@alice.it 
Libreria Ticinum Editore Tel. 0383-212285]


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IL GIOVANE FAVOLOSO
di Angelo Gaccione

Recanati. Palazzo Leopardi con la chiesa

Sorvolo sulla diatriba cinema-letteratura vecchia come il loro rapporto, e non entro in merito agli aspetti più propri della “macchina” spettacolare che attengono al puro mezzo espressivo e alla sua finzione, ricordando a me stesso, come ha scritto Enzesberger, che la lettura è un atto anarchico e ognuno vi coglie ciò che più lo interessa e da cui è affascinato. Dunque, anche l’angolo visuale da cui si pone il regista, deve rientrare a pieno diritto in questa legittimità. Mi importano invece i dati salienti. Il primo resta che la regia di Mario Martone si tiene molto a bada, e questo è un pregio. Il secondo è che dentro la narrazione cinematografica, ha inserito una recitazione apertamente teatrale che è il fascino de Il giovane favoloso

Elio Germano nel ruolo di Leopardi


Tutta la recitazione di Elio Germano, che è l’interprete di Leopardi, lo è. Il fuori (quello che il lessico della settima arte chiama gli esterni), è ridotto all’essenziale e le inquadrature non vi indugiano mai troppo. Lo sguardo su Recanati è quasi sempre colto da dentro: la finestra del palazzo del conte Monaldo come palcoscenico, il fuori come fondale per lo più evocato, ridotto all’essenziale, con sequenze brevi e senza compiacimenti descrittivi. Gli scorci del borgo, la notte, il belvedere di palazzo Venieri da cui lo sguardo spazia verso la vallata, la luna che incornicia un ritaglio di cielo, i pochi stacchi sul colle dell’Infinito. Ma lo stesso avviene a Napoli: il Vesuvio con la sua lava hanno più il carattere di fondale teatrale dipinto, che quello oggettivo e reale che la macchina da presa registra. Scelta dunque molto attenta, considerati gli scenari di grande suggestione -Recanati in primis-, e poi Firenze, Roma, e in particolare Napoli con il suo folklore, il suo colore, la sua vitalità.

Recanati. La piazza con il monumento del poeta

Il film nella sua centralità verte su due istanze: il desiderio di gloria di un giovanissimo genio, e il desiderio di fuga. Per gloria deve intendersi qui non la ricchezza e il successo come li intendiamo oggi nella loro più deteriore accezione. Non dimentichiamoci che Leopardi era già ricco ed era un conte. Gloria per un letterato e un uomo di pensiero quale Leopardi è, significa semplicemente che gli scritti prodotti da quella arte e da quel pensiero, devono poter entrare in risonanza con gli spiriti più eminenti, ricettivi e sensibili del suo tempo, per essere discussi e valutati con sguardo aperto e sgombro da pregiudizi. Cosa che evidentemente non poteva avvenire nel clima soffocante di Recanati, dominato da una madre bigotta e dalla presenza ossessiva e invadente di un clero reazionario. Ricordiamoci che le Marche erano sotto il rigido controllo dello Stato Pontificio. La fuga non è che consequenziale a questo prepotente bisogno che abbiamo appena illustrato.

La Biblioteca

Il padre, conte Monaldo Leopardi, ama profondamente il figlio e ne sa riconoscere il talento. Non solo di Giacomo, in verità. Ho visto nel palazzo di Recanati e nella immensa enciclopedica biblioteca paterna (voluta e messa assieme dalla sua caparbietà, non lo si dimentichi), i magnifici disegni di Paolina e quelli di Giacomo stesso; ma apprezzava anche  le eccellenti qualità di studioso del figlio Carlo.  
Ho visto la sezione dei libri proibiti e messi all’Indice a cui i tre ragazzi potevano liberamente accedere per leggerli e consultarli in piena libertà. So della sua indulgenza verso i dinieghi del figlio a prendere parte alle continue funzioni religiose che avevano luogo nella loro chiesa privata, posta proprio di fronte al palazzo, e in cuor suo non vuole affatto farne un ecclesiastico, come vorrebbe la madre e la componente materna degli zii. Se opportunisticamente Giacomo avesse voluto conseguire fama e ricchezze, la carriera ecclesiastica gliele avrebbe servite su un piatto d’argento. Quello che Monaldo non ha compreso, è che è stata proprio la sua liberalità intellettuale a “minare” lo spirito del figlio; sono state le letture dei libri della sua immensa biblioteca, gli autori altrove proibiti che il figlio ha avuto in mano, lo “studio matto e disperatissimo”, a fornirgli la dinamite. Da lì sono venuti gli elementi della sua Weltanschauung, della sua disillusa visione dell’esistenza e della sua caducità. Una visione tragica e un pensiero nutrito dal dubbio che erano stati propri dei grandi tragici dell’antichità prima di lui, e delle intelligenze più profonde e inquiete della modernità. Lui non era che il più contemporaneo di quella schiera, e se il caso aveva voluto radicarlo nell’Ottocento, non era sua la colpa. Il secolo delle “magnifiche sorti e progressive”, il secolo dell’ottimismo positivista non poteva sedurlo. E tuttavia aveva pur scritto una canzone “All’Italia” nel 1818, ma poi erano venuti i moti e le successive repressioni con le fucilazioni, le impiccagioni, il carcere e l’esilio dei patrioti e dei rivoluzionari. Se il suo animo di poeta non poteva non cogliere la bellezza straordinaria della natura, il suo pensiero non poteva tacerne l’arbitrio, il cieco procedere, in cui non c’è posto per nessun Dio regolatore. Solo la cieca forza di cui la furia del Vesuvio è l’emblema.


Quando infine il padre gli accorderà il permesso di lasciare Recanati, l’esperienza si rivelerà per molti aspetti fallimentare. Gli ambienti intellettuali lo deluderanno: sarà così a Roma, sarà così a Firenze. I salotti lo annoiano, gli intrighi lo disgustano e li trova meschini. Napoli con tutte le sue contraddizioni e malignità, resta il luogo più ospitale e gioioso, il più caloroso, sempre protetto dall’affetto fraterno di Paolina e Antonio Ranieri. Ad ogni modo restano centrali il “borgo selvaggio” Recanati per la forza della poesia, Napoli per i bagliori di felicità dell’esistenza e dove si accentuano la svolta materialista e la polemica contro il romanticismo cattolico. E soprattutto, dove, nasce quell’Odorata ginestra / contenta dei deserti.
Il paradosso è che il filosofo del nulla e dell’inutile e sconsolato vivere, il cantore della natura matrigna, ci ha lasciato alcune delle poesie più belle dedicate da un poeta alla natura. Di tutto questo il film rimanda i suoi echi, consapevole che la materia era tutt’altro che disposta a lasciarsi addomesticare. Il tentativo è stato comunque encomiabile e certamente agli studenti offrirà spunti per interessanti approfondimenti. Ottima la prova attorale di Elio Germano e molto belle le atmosfere. 

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POETI IN PROPRIO
di Angelo Gaccione

La copertina del libro

Comincerei dalla dedica: all’amico Angelo Gaccione, sono sempre un poeta postumo. Una dedica giustamente criptica, ma che si chiarirà più avanti. Molti conoscono Franco Paone, qui a Milano, e lo hanno incontrato spesso in occasione di presentazioni di libri, letture poetiche ed altre manifestazioni culturali. Sanno che è stato amico di molte figure importanti della poesia e della cultura scomparse, e che tuttora di molte egli lo è. Non sanno invece, perché raramente o forse mai, lo hanno sentito leggere versi in pubblico e tanto meno hanno visto un suo libro in circolazione. Per me, Giampiero Neri e il folto gruppo che frequentava il salotto letterario di Irene Stefenelli in via Marcora (piazza della Repubblica) e altri luoghi della Milano dei libri (e non solo), non era un mistero la sua attività di poeta e non lo era l’ottima qualità della sua poesia. Non lo era nemmeno ad un poeta come Vittorio Sereni che di Paone è stato estimatore, e che lo ha più volte incoraggiato a pubblicare i suoi versi e di smetterla di fare il “postumo in vita”. E poiché Franco sapeva che io ero al corrente della sua produzione poetica, ecco spiegata la dedica che il 5 dicembre scorso, portandomi Invariazioni sul nero alla Casa della Cultura dove stavamo occupandoci di un romanzo, ha voluto apporre sul frontespizio. Un richiamo a quella lontana stagione e a quella remota eco Sereniana. Postumo lo rimane ancora ad abundantiam, se diamo retta al nutrito elenco di titoli riportati nella quarta di copertina.
Veniamo ora alle date: 1953-2016. Questo è l’arco di tempo in cui Paone ha raccolto l’intera produzione poetica, messa assieme in ben 63 anni, praticamente una vita. Possiamo però immaginare quanti altri testi non siano entrati in questa corposa pubblicazione (336 pagine), e quanti ne ha scartati o dovuti sacrificare. Se teniamo conto che Franco è del 1935, si capisce come il suo rapporto con la poesia sia cominciato in un’età giovanissima e non si è più interrotto. Dunque Franco ha concepito la sua vita come inseparabile dal fare poetico e dalla sua espressività.
L’edizione. In perfetta coerenza con le sue vedute e le sue convinzioni critiche verso l’industria editoriale e l’inflazionato mondo della poesia, Franco ha aspettato di giungere alla veneranda età di 81 anni per decidersi di dare alle stampe la sua produzione poetica. Probabilmente ha sentito l’esigenza di essere lui stesso a scegliere, sistemare e dare ordine ai testi, per evitare che “dopo”, da “postumo”, la scelta fosse arbitraria e non conforme alle sue vedute; ma ancor più perché ha voluto essere lui stesso factotum della sua opera: autore, sistematore, curatore, annotatore, editore in proprio, esegeta. Si vedano le tre note poste in apertura del libro, le spiegazioni che dà a Giuseppe Jacona sul collage di aggettivi posti a sottotitolo del corpus: sinfonico, tattico, ortopedico, lunare, e la nota conclusiva della penultima pagina sul perché di quel Parenti Neri Editori messo in copertina. Personalmente non so se è mai esistito un Franco Parenti Editore come sostiene Paone; per certo è esistito e ancora opera un Neri Pozza editore, e che il Neri Parenti regista è molto noto ai cinefili. Ad ogni modo, qualunque siano le motivazioni, quello che è chiaro a noi pochi possessori del volume di cui Franco ha voluto farci dono, è che egli non ha tollerato che altri, se non lui, su questa pubblicazione mettessero le mani. Ha gestito tutto in proprio, tiratura compresa, ha messo ciò che ha voluto in copertina e che più lo rappresentasse (la foto del Porto Antigo dell’Isola di Sal di Capoverde), ha rifiutato che il libro avesse un prezzo, e soprattutto assicurarsi  che vada nelle mani giuste, quelle mani in cui il libro possa trovarsi bene e a proprio agio.
La materia. Trattandosi di oltre 260 componimenti e considerato i sei decenni che attraversa, si capirà facilmente come il libro rifletta su un ventaglio di temi fra i più vari. Ma quel che qui più conta, è il modo come i temi vengono affrontati; come il verso “piega” la materia alle sue esigenze; come questa si debba “adattare” al lessico, allo strumento del poeta, alla sua fucina, e come da questa forgiatura il verso ne esca arricchito e spiazzante. Tutto questo è possibile perché Paone ha affinato un orecchio oltremodo sensibile, sempre vigile a tenere a bada la zavorra e di alleggerire il suo “carico”, ed in particolare a servirsi di due antidoti magnifici che padroneggia a meraviglia: l’ironia e il cinismo. Queste due risorse così ben impiegate, fanno dei versi di Paone una mistura godibile che non lascia scampo ad alcun ottimismo consolatorio.
Qualche esempio.

l’amore la pace
per colomba che ne voli
prestato sempre
nudo alla porta
- ieri bimbi m’han donato
una conchiglia
dentro millanta a eco il mare
e vaste lande lontane…
così la misura di tutto è nell’acqua –
della colomba
ala e verso massacrati

*
a una ragazza
che di cognome
si chiama Guerra
- due punti-
i tuoi seni sono il suono lontano
delle sole bombe che amo

*
ricetta:
schiarire con lucido per scarpe incolore
di marca inglese
la pelata del Ciriaco-Bettino

per il passato
i fratelli Caltagirone che furono e sono
di Caltagirone
e anche Giulio che è dello stesso luogo
e di tanti altri posti
a macchia d’olio

per contorno
una smaneggiata di chiappe
alla nipotina


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EDITORI
di Angelo Gaccione

La copertina del libro di Silvio Raffo


Buona notizia quella della nascita delle Edizioni New Press di Cermenate (Como), un’editrice che ha deciso di rivolgere la sua attenzione esclusivamente alla poesia. Direttore della Collana battezzata Il Cappellaio Matto, è il critico letterario e poeta egli stesso, Vincenzo Guarracino. Guarracino ne è l’anima e sta procedendo con la relativa necessaria cautela che l’impresa richiede, considerato quanto il settore sia inflazionato e superaffollato. Poiché Vincenzo ha messo in gioco il proprio nome, è naturale che voglia fare della sua creatura una cosa degna e di qualità; che il catalogo acquisti il necessario prestigio e si imponga all’attenzione dei cultori e delle intelligenze più esigenti. Alberto Mari e Silvio Raffo sono i primi due poeti pubblicati e sul cui valore e il robusto cursus poetarum non si discute. Pregevole nella semplicità della grafica, tuttavia a mio parere l’edizione dovrebbe risolvere alcuni aspetti fondamentali per una Collana elitaria come la poesia: quella della copertina eccessivamente delicata nel suo biancore e che si sporca con estrema facilità, quello del prezzo di copertina troppo alto (18 euro per un libretto di appena 60 pagine sono un vero salasso) che rischia di penalizzare un mercato già di per sé asfittico. Se mi posso permettere qualche suggerimento (da cultore di libri e da addetto ai lavori), considerato che gli editori sono anche diretti proprietari, oltre che esperti stampatori, inserirei le alette di copertina per rendere più accattivante l’edizione (una preziosità utile), e soprattutto l’uso della rilegatura in filorefe per salvaguardare il libro nel tempo. Questa buona, antica pratica, sta diventando sempre più marginale e i libri finiscono per sfarinarsi fra le mani. I cultori di libri sanno che questi elementi rivestono grande importanza, per un oggetto così particolare, e che certamente non può considerarsi una merce qualsiasi.  

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Il poeta Silvio Raffo

[Riportiamo uno dei magici testi poetici della raccolta di Silvio Raffo
Veglia d’autunno, pubblicata dalla New Press Edizioni, 2016]

SILVIO RAFFO

(Kind will be Death)

Con noi sarà gentile. Noi l’abbiamo
esaltata in bei versi tante volte
fingendo di ascoltare il suo richiamo
dalle torre a ogni cambio delle scolte.

Più lieve di un respiro all’ascoltarsi
sarà il suo passo. Tacita catarsi
di frenetiche corse, e ridondanti
passioni folli ed insignificanti

*
(sweet winter)

Ci attende un dolce inverno che ogni male
dissolverà nel gelo dei tramonti –
per letto avremo lividi orizzonti
e la neve sarà nostro guanciale

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SCRITTORI
di Angelo Gaccione

La copertina del volumetto

Encomiabile quanto prezioso, questo progetto letterario di Federico Migliorati, di ricomporre dei ritratti intimi e più privati di scrittori, in agili volumetti in cui oltre alla parola, una decisiva importanza rivestono le immagini. Il tutto attraverso una serie di colloqui diretti con gli autori, per i viventi, e attraverso conversazioni con i parenti più prossimi e con sodali e amici che li hanno frequentati, per gli autori scomparsi. Aneddoti, foto, documenti inediti, lettere, stralci di manoscritti, immagini di parti di città legate all’opera dell’autore preso in esame, la facciata della casa dove ha vissuto, la tomba e quant’altro può rientrare nell’interesse prima di tutto del ricercatore, e quindi del lettore. A supportare questa esplorazione di Migliorati, c’è la Fondazione Zanetto di Montichiari (Brescia) che ha dato di recente alle stampe un delizioso tascabile dedicato a Bassani e alla sua Ferrara, con una conversazione con la figlia Paola dal titolo Giorgio Bassani: nel giardino della cultura. Si tratta di un librino di 40 pagine che gli estimatori di Bassani sicuramente apprezzeranno.

Per richieste: Fondazione Zanetto
Via XXV Aprile n.30
25018 Montichiari (Brescia)
Tel. 030-2121040
Cell. 366- 4311080

Email: graphiclin@libero.it

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FERRARA DELLE DELIZIE
di Angelo Gaccione





Boiardo, Ariosto, Tasso, Bassani, Frescobaldi, Antonioni, Florestano Vancini, Foà, Pazzi, De Pisis, Boldini, Savonarola, Previati, Dossi, Cosmè Tura, Francesco Barbieri detto il Guercino, Achille Funi, Biagio Rosetti, Dossi, Sebastiano Filippi detto il Bastianino… e  potrei continuare questo elenco ancora per diversi righi. Fra quelli che vi sono nati e quelli che vi hanno lavorato e vissuto, Ferrara vanta un florilegio di nomi straordinari che hanno eccelso in ogni campo. Se può bastarvene uno vi citerò Copernico che vi insegnò diritto canonico, come ricorda la lapide affissa sul palazzo Arcivescovile di corso Martiri della Libertà, che quasi tocca il fianco della Cattedrale e che dà il nome alla piazza. Vi sono luoghi in cui si va e si ritorna come in pellegrinaggio, tanto sono carichi di simboli, di archetipi e di miti che hanno alimentato ogni fibra della nostra immaginazione. Si sono sedimentati nella nostra memoria come visioni incancellabili e ci è doloroso il solo pensiero che potrebbero più non esistere. Sono stato in dubbio a lungo se scrivere o meno questa nota: Ferrara è come Venezia, è stato detto tutto. E mentre l’incuria e il terremoto di questi mesi e di queste ore, stanno cancellando vite umane e pezzi straordinari del nostro patrimonio artistico e culturale, un nodo mi serra la gola: e con la più impotente e sconsolata coscienza mi rendo conto di quanto tutta questa preziosa bellezza sia fragile, vulnerabile, effimera. Di quanto le istituzioni del mio Paese siano indifferenti ad essa, di quanto il meglio di questa mia dolente patria sia a rischio di estinzione. Comprenderete dunque con quale animo io possa raccontarvi le meraviglie di questa città dopo averla esplorata con trepidazione da cima a fondo, e quale sia l’angoscia che mi attanaglia per ogni sua possibile, irreparabile perdita. 



Quanto sia rimasta bella Ferrara lo si può vedere dalle sue mura. Per nostra fortuna ci sono ancora delle città o dei piccoli borghi che le mura le hanno preservate: Lucca, Montagnana, Palmanova, Sabbioneta, Bergamo alta, Monteriggioni, e tante altre ancora che mi sono imposto di visitare prima di chiudere gli occhi, sperando che il doppio terremoto (“morale e geologico”), come ha ben sintetizzato in una telefonata il mio amico pittore Filippo Gallipoli e che assedia la nostra bellissima, infausta Nazione, ce ne lasci il tempo. Quasi 9 chilometri di mura la cingono e la contengono con i loro baluardi a cuneo e i loro torrioni, ma quanto fosse stata ancora più suggestiva lo attesta l’impianto antico riportato dalle carte, con i pontili a mattoni che scavalcavano il Po. Cos’abbia fatto di magnifico l’architetto Biagio Rossetti con la cosiddetta Addizione Erculea è visibile a ogni occhio che sa guardare. E fortunatamente la città ha saputo mantenere la sua intelligente misura e ciò che svetta verso l’alto sono solo le torri e i campanili. Persino le architetture della fascistissima Ferrara sono state rispettose e conservano una loro severa eleganza e nobiltà. Naturalmente a sedurre un impenitente appassionato come me, è la Ferrara dei vicoli medievali, quella stupenda di via delle Volte, quella dei magnifici portici che scorrono sui due lati di via san Romano, la rettangolare piazza Trento e Trieste, un tempo più appropriatamente piazza delle Erbe, con la bella Cattedrale di san Giorgio nel cui catino absidale squillano i colori di un “Giudizio Universale” affrescato dal Bastianino, la Loggia dei Merciai e la Torre dell’Orologio, le vie del ghetto ebraico: via Mazzini,  Vignatagliata, Torcicoda, via Vittoria… ed è davvero un peccato che gli originali nomi spesso siano stati cambiati in omaggio agli eventi della storia successiva. Il cuore comprende il celeberrimo Castello Estense da cui non si può prescindere, e lungo il cosiddetto Muretto dovete obbligatoriamente sostare, perché seppure non abbiate letto Bassani, una lapide vi ricorderà gli undici martiri innocenti trucidati per rappresaglia dai fascisti nel novembre del 1943. Il palazzo del Comune con il monumento equestre di Borso d’Este, e più avanti una piazzuola armoniosa dove si erge un’altra statua, quella con il volto corrucciato di un altro cittadino illustre, il monaco Savonarola, che morirà arso vivo sul rogo.








Tutto questo “cuore” è affollato di edifici di grande fascino, ed io ho potuto godermelo alloggiando in via dei Prati a pochi metri dal Castello, e mi sentivo bene perché quasi di fronte, in via Lollio, c’è la casa della mia carissima amica Erminia Scaglioni, e abbiamo scarpinato fino ad avere male ai piedi, e con un tempo che non ha risparmiato di infierire. In un passato più lontano avevo tenuto una dissertazione pacifista nella bella casa del prof. Masini il cui terrazzo si affacciava proprio sul Castello, e quella sera avevo ricevuto l’onore della preparazione di una ricetta medievale: un dolce, se la memoria non mi tradisce. Lungo il corso Ercole d’Este fino al Quadrivio degli Angeli si trovano tre capolavori del rinascimento: il Palazzo dei Diamanti, il Palazzo Turchi di Bagno e il Palazzo Prosperi-Sacrati, nati dall’intelligenza architettonica di Biagio Rossetti. Non sovrastano, non opprimono e questo è un pregio in più. C’è anche un enorme Palazzo Bevilacqua-Rossetti-Pallavicini lì attorno, dai nomi delle tante famiglie che lo hanno abitato e posseduto; ha una strana forma a ferro di cavallo e i suoi mattoni rossi si fanno notare. Cinquecentesco anch’esso non regge però il confronto con un altro Palazzo Bevilacqua-Costabili, situato in via Voltapaletto dalla facciata ricca di decorazioni e oggi sede universitaria; sull’arco del portone due statue sdraiate raffigurano la Concordia e la Verità, e tanto ce ne sarebbero davvero bisogno ai tempi nostri. 







Anche piazza Torquato Tasso era a due passi dalla mia residenza e la Chiesa del Gesù è stata una vera sorpresa: vi ho trovato un “Compianto su Cristo morto” che è un dolente gruppo di otto statue policrome di terracotta, realizzate ad altezza d’uomo e attribuito a Guido Mazzoni. Le figure sono disposte attorno al corpo di Cristo disteso, con la Madonna al centro, addolorata e con le braccia aperte a mostrare tutto il suo sgomento. L’intero gruppo, composto da Nicodemo, Maddalena, Salomè, Giovanni, Giuseppe di Arimatea e Maria di Cleofa, partecipa al dolore e si dispera. La disposizione scenografica e i gesti hanno una presa emozionale fortissima, ed il realismo è tale che pare davvero di assistere ad una scena funebre concreta davanti a noi. 










La piazza Ariostea meriterebbe di essere vista dall’alto per cogliere nella sua interezza la forma ovale che Biagio Rossetti gli ha conferito. È vasta e oltremodo suggestiva, ma pioveva e faceva freddo e, come ho detto, va goduta con una migliore atmosfera. Vagando da traversa in traversa, da angolo ad angolo, da cantone a cantone, mi sono messo sulle tracce della casa di Frescobaldi che è puntualmente comparsa nella via che porta il suo nome, e poi il Conservatorio che gli è stato dedicato. E, mito dopo mito, non potevo non approdare in via Cisterna del Follo al numero uno: qui una lapide ricorda la casa dove lo scrittore Giorgio Bassani ha trascorso la sua infanzia. Come sappiamo Bassani era nato a Bologna, ma i suoi genitori erano ferraresi; a Ferrara ha dedicato romanzi, racconti, poesie e per un periodo vi ha anche insegnato. Ha voluto esservi seppellito, e riposa nel cimitero ebraico di via delle Vigne. Per mancanza di tempo non sono riuscito a visitarlo e dunque è un appuntamento solo rimandato. 





Ho percorso però Corso della Giovecca fino alla Punta della Giovecca, fino a piazza Medaglie d’Oro, visitando tutto ciò che ho potuto. Mi sono infilato dentro chiese e chiostri, in cortili e in palazzi; ho scoperto angoli magici di cui non ricordo più il nome perché i miei appunti si sono bagnati con la pioggia, ed ora la memoria mi tradisce. Ma ho scoperto che gli Ardighieri erano gli antenati di Dante, che la cioccolateria Rizzati è bella, ma troppo cara per i miei gusti; che la ciupèta, il pane ferrarese a bastoncini attorcigliati che ricorda una rudimentale bambola per bambini, si vende anche nel mio quartiere in Porta Romana a Milano; che il Teatro Comunale della città ora dedicato a Claudio Abbado che per un certo tempo lo diresse, ha un vestibolo dalla forma circolare denominata Rotonda Antonio Foschini. Realizzato tra il 1773 e il 1797 da Foschini e da Cosimo Morelli, il teatro si trova a due passi dal Castello, in via Martiri della Liberta, sotto i portici. La sua splendida Rotonda che si innalza verso il cielo è come un occhio spalancato, ed è stato un appuntamento quotidiano per levare lo sguardo verso l’alto e fotografare dentro quel cerchio, le nubi minacciose e gravide di pioggia, o catturare gli sprazzi di azzurro che si aprivano. 





In via Ariosto n. 67 c’è la casa del poeta e non me la sono persa. È in quella parte di città chiamata Arianuova e che il Rossetti riordinò con la cosiddetta “Addizione” voluta da Ercole d’Este. È una casa solida a mattoni, sobria e formata da un piano terra e un piano nobile. Non è sfarzosa, ma ha il privilegio di avere un giardino interno, e già mi immagino il poeta nella quiete più riposante e nel silenzio più denso, lontano dagli affanni diplomatici e dallo stridore delle armi, seduto ad un tavolo, a limare il suo celebre capolavoro “L’Orlando Furioso”. Vi ha fatto incidere una scritta in latino che corre lungo la fascia che divide il piano terra dal primo che così recita: “Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non sordida, parta meo, sed tamen aere domus”. Tradotta vuol dire che l’ha comprata solo col suo denaro, non deve nulla a nessuno e non è gravata da canoni. In più è pulita, decorosa, adatta alla sua persona e dunque ha quanto basta per vivervi bene. Purtroppo la godrà per soli 4 anni: vi era andato a vivere con il figlio alla fine di settembre del 1529, ma il 6 luglio del 1533, all’età di appena 58 anni, Ludovico Ariosto si spegnerà. 


Tra le tante cose preziose presenti nella casa-museo, un libro con le firme di visitatori illustri di ogni dove. Seppure meno illustre, ho lasciato anche la mia.


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FRÉDÉRICK HAAS UN VIRTUOSO DEL CLAVICEMBALO
di Angelo Gaccione

Frédérick Hass

Davvero magnifico il pomeriggio che ieri il clavicembalista francese Frédérick Haas ha regalato a noi appassionati di questo dolcissimo e delicato strumento, oltre che di musica barocca, in una delle Sale del Museo degli Strumenti Musicali del Castello Sforzesco di Milano. Il programma prevedeva un percorso attraverso il nostro Domenico Scarlatti, il parigino François Couperin e lo spagnolo Antonio Soler, conosciuto anche come Padre Soler. Tre grandi del clavicembalo e non solo, compresi sotto un preciso “paragrafo” musicale: “I coloristi del clavicembalo”. Per questa occasione Haas (il cognome tradisce un’origine austriaca-tedesca, anche se in realtà il musicista è nato in Francia, in Bretagna, ma ha studiato sia in Olanda che in Belgio) ha suonato sul clavicembalo Pascal Taskin, strumento del 1788 e che il Museo musicale del Castello vanta assieme ad una vasta e ragguardevole collezione. Il programma proposto dal maestro ha messo in luce le tonalità sonore, timbriche, “coloristiche” dei tre compositori, ma ci ha rivelato altresì il suo virtuosismo esecutivo ed interpretativo che ci ha deliziati e incantati per la sua bravura. Personalmente mi sono stupito per le numerose assonanze armoniche presenti sia in Scarlatti che in Couperin: è davvero sorprendente scoprire quanta italianità c’è in questi due autori, anzi di quanta napoletanetà. Ci sono dei passaggi che rimandano a sonorità proprie della cantabilità napoletana, del ballo alla napoletana. Anche se in Couperin in maniera più romanticamente nostalgica, rispetto al temperamento musicalmente più estroverso e focoso di Scarlatti. Buona l’idea di inserire nel programma il “Fandango” di Soler, da cui abbiamo potuto gustare i ritmi ed il “colore” da danza spagnola, con suoi passaggi che evocano qua e là quello che molto più tardi diventerà il tango.
Pomeriggio magnifico, dicevo. Se posso permettermi un appunto, direi che l’eccessiva vastità della Sala non era adeguata alle potenzialità sonore di uno strumento che per sua natura necessita di un ambiente più intimo, più raccolto e meno dispersivo.

[Pubblicato sulla prima Pagina di “Odissea” in Rete venerdì 21 ottobre 2016]
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MILANO PIAZZA DEL DUOMO
I FUNERALI LAICI DEL “GIULLARE”
di Angelo Gaccione




E sempre allegri dobbiamo stare
ché il nostro piangere fa male al Re,
fa male al Re e al Cardinale
diventan tristi se noi piangiam…”

Ha avuto i funerali laici che aveva predisposto e che di sicuro si era immaginato. Forse non aveva previsto solo che la sua bara sarebbe stata esposta sul sagrato della Cattedrale, lui dichiaratamente ateo, di quella piazza dove aveva più volte parlato. Un funerale pubblico com’era doveroso, perché non c’è stato in questi ultimi sessant’anni, personaggio più pubblico di Dario Fo. Si può dire, senza tema di essere smentiti, che la sua vita sia appartenuta quasi interamente allo spazio pubblico, a quanto dentro lo spazio pubblico si muoveva e si determinava. Dunque è stato giusto che la sua morte fosse quanto di più pubblico possibile. Nessuna parola alle autorità, che pure erano presenti: la coerenza prima di tutto e fino in fondo. Ma la musica quella sì, lui l’avrebbe voluta, la musica allegra, scanzonata, da circo, da teatro popolare, quella che anche lui spesso usava nei suoi spettacoli, quella surreale, ironica, canzonatoria, apparentemente illogica, e a cui prestava le sue parole, perché di parole messe in musica ne ha scritte tante. E il canto: quello di dolore e di rivolta, e li ha avuti tutti e due. Alla “Banda degli ottoni a scoppio” con i loro strumenti a fiato che alle manifestazioni milanesi non mancano mai, anche loro un po’ surreali, un po’ clown e un po’ lunari, abbiamo unito le nostre voci e i nostri canti allegri, irriverenti, politici. Gli abbiamo dato l’ultimo saluto come da noi si aspettava, e la pioggia che ci ha flagellati per tutto il tempo della cerimonia, nulla ha potuto contro la nostra caparbia volontà di stringerci attorno alle sue spoglie. Una fetta significativa della Milano antifascista e non moderata, era in quella piazza. Non ho visto bandiere rosse, ne ho visto un paio rosse e nere degli anarchici, e non c’erano striscioni, se non quello dei giovani del “Cantiere” e quello dei “Compagni del Movimento”. Ma dei giovani hanno distribuito un volantino con questa sua frase: “Il moderato chiude un occhio sulle speculazioni edilizie” e sotto un hashtag con la firma “Io non sono moderato”. I milanesi sanno quanta speculazione edilizia c’è stata in questa città, e quanto suolo si sono divorati le grandi lobbies del cemento per convertirlo in capitali. Noi non l’abbiamo dimenticato, noi continueremo ad essere “non moderati”. Come lui.   

[Pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” in Rete sabato 15 ottobre 2016]
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È MORTO DARIO FO
Scompare una delle ultime voci libere e scomode
della cultura italiana ed internazionale
di Angelo Gaccione

Dario Fo

Milano. Il premio Nobel ci ha lasciati. La notizia ci è arrivata presto in questa piovosa e gelida mattina di ottobre, rendendo la città ancora più gelida. Milano perde un altro dei suoi grandi figli e protagonisti, mentre la nostra agenda vede allungarsi la lista dei morti. Da dove cominciare per ricordare questo pluriforme artista sempre in conflitto con i poteri di ogni sorta, questo militante sempre pronto a sposare le cause più disperate? Potrei cominciare dagli anni della Palazzina Liberty, quando avendogli negato ogni spazio per il suo teatro politico (i proprietari di case rifiutavano persino di fittargliene una, per paura di attentati, e perché certi che le avrebbe trasformate in un “covo” di sovversivi), dopo aver peregrinato da un luogo all’altro (e noi sempre dietro a seguirlo), si decise di occupare quella bellissima struttura immersa nel verde dei Giardini Marinai d’Italia, in Porta Vittoria, che l’Amministrazione Comunale di allora aveva lasciato languire e andare quasi in rovina. Mettemmo le bandiere rosse, i cartelli, i volantini con cui tappezzammo il quartiere e iniziammo a portar via le macerie. Eravamo giovani studenti, lavoratori, appassionati di teatro per lo più, antifascisti e militanti di quel vasto arcipelago dell’opposizione alla disgustosa politica di compromessi e di corruzioni tanto in voga. La Palazzina Liberty rinacque. Il Collettivo Teatrale “La Comune” divenne un luogo di riferimento per la città e non solo. Mamme e bambini presero a frequentare il parco, i fascisti che avevano la sede in via Mancini si tenevano alla larga. La domenica si animava di canti e suoni; c’erano quelli del Canzoniere popolare, c’era la solidarietà con i militanti in galera e c’era il Soccorso Rosso militante. Sulle tavole di quel teatro, perché teatro divenne, con Dario e Franca, la sua inseparabile metà, il teatro divenne vita, e la vita vi entrò con tutte le sue spietate contraddizioni. Dario l’aveva adornata di pannelli con i suoi magnifici disegni e dipinti. Quanto la repressione e le autorità detestassero quel teatro e quella Palazzina, chi vi era attivamente coinvolto ne sa qualcosa. Alla fine finirono per riprendersela: preferirono tenerla vuota per altro tempo ancora, inutilizzata ma a loro modo “pacificata”. Il contenzioso con la giustizia si protrasse un bel po’: occupare un luogo in rovina, renderlo bellissimo con le proprie risorse e le proprie fatiche non contava per i normalizzatori della città. Se per noi la proprietà (lasciata al degrado) era un doppio furto, per loro era un reato. E così uno dei più grandi attori della scena internazionale, amatissimo in ogni dove, non aveva a Milano un luogo dove fare il suo teatro. Avversato come gli amici del Living Theatre, anch’essi ignorati e ostacolati in ogni modo dalla Milano istituzionale, costretti a presentare le loro performance in luoghi marginali e di fortuna, finché il presidente francese Mitterand non manderà un aereo a prelevarli e portarseli a Parigi. Potrei continuare con la marea di dibattiti e le mobilitazioni per le stragi, per la battaglia sul divorzio, il movimento delle donne, il Vietnam… fino agli anni più recenti e alle iniziative per rendere questa città più vivibile, più respirabile. Aprì la sua casa in Corso di Porta Romana (a qualche metro da casa mia) e costituimmo un Coordinamento di comitati ambientalisti che organizzò manifestazioni e proteste. Noi di “Odissea” eravamo presenti con un gruppo denominato “Aria Protetta”, che poi era il nome di una delle rubriche del giornale. Ci vedevamo da Fo, ma ci vedevamo anche a casa della poetessa Donatella Bisutti (anche lei collaboratrice di “Odissea”) in via Anelli, dove venivano le scrittrici  Gina Lagorio, Grazia Livi e tanti altri amici letterati e non solo. Lettore di “Odissea” che riceveva in copia doppia, una era per Franca di cui abbiamo pubblicato diversi scritti, fu sempre generoso verso il giornale come lo furono entrambi verso di me. Nel 2001 realizzò il disegno che avrebbe dovuto andare sulla copertina della terza edizione del mio dramma teatrale “La Porta del Sangue”, ma che poi non andò in porto per questioni editoriali che ora non ricordo, e quando fu raccolto in un unico volume tutto il mio teatro da un altro editore, questi volle come titolo complessivo “Ostaggi a teatro”, e dunque il lavoro di Dario rimase inedito. Anni più tardi donò dei suoi lavori pittorici quando allestimmo allo “Spazio Lattuada” la vendita di materiali offertici da vari amici per sostenere la vita del giornale. Mi convocò nel suo studio per donarmi “Il compianto” da pubblicare su “Odissea” accanto al ricordo che scrissi per la scomparsa di un altro collaboratore del giornale e comune amico, il sacerdote don Luigi Pozzoli, scomparso a fine dicembre del 2011. “Pubblicalo sul giornale e poi tienilo come mio ricordo” mi disse. E ora è sulla parete del soggiorno assieme ai quadri di altri amici, e dunque ce l’ho sotto gli occhi, ed il ricordo suo è costante. Nel 2013, in occasione della pubblicazione della mia fiaba contro il potere “Vietato ridere”, gli avevo chiesto di farne l’illustrazione, sapendo quando il tema gli fosse caro. Franca mi telefonò per dirmi che era caduto e non avrebbe potuto disegnare, ma avendo saputo che la fiaba sarebbe stata pubblicata su “A Rivista Anarchica”, avendo una stima grande per gli anarchici e per quella rivista, ci fece dono di una tavola inedita intitolata “Il volo dell’anarchico”. Quel disegno diventò la copertina del numero 377 della rivista, il numero del febbraio 2013 che contiene la mia fiaba. Non dimentichiamoci che uno degli spettacoli più ironici e taglienti di Fo era stato proprio “Morte accidentale di un anarchico” dedicato all’omicidio di Pinelli e alla Strage di Piazza Fontana. Recentemente gli avevo fatto avere il dramma di Francesco Piscitello dedicato a Giuda “L’apostolo traditore” pubblicato dalle Edizioni Nuove Scritture, materia, quella dei Vangeli a cui era particolarmente interessato. Non sono riuscito a portargli invece un libretto di riflessioni e aforismi che avrebbe di sicuro gradito “Il lato estremo”, incasinato come sono stato per tutta l’estate, e coinvolto con gli amici nel “Comitato di Odissea per Turoldo”, di cui ricorre il centenario della nascita. Ogni volta che imboccavo il Corso di Porta Romana e passavo davanti al suo portone mi dicevo: “Uno di questi giorni lo farò”, e poi rimandavo. Il destino purtroppo non rispetta i nostri tempi, e così questa mattina la notizia mi è giunta di buonora, proprio mentre stavo finendo di scrivere una nota al libro di Franco Celenza per la rubrica ‘Officina’ di “Odissea” dove potete leggerla. Le telefonate di amici che avevano saputo della morte si sono susseguite e ho dovuto di continuo interrompere questo ricordo; l’ultimo mi è giunto per iscritto da Novara, dalla saggista e autrice di teatro Chiara Pasetti che ne fissa questo ricordo: “Ho saputo della morte di Dario Fo. Ho avuto solo una volta il piacere di vedere un suo spettacolo a Milano, nel 1995. Applausi a non finire. Due anni fa, mentre mi trovavo ad Arona per intervistare Dacia Maraini, a un certo punto è arrivato... Si sono alzati tutti in piedi. Io gli ho stretto la mano, emozionata, e gli ho detto: sono onorata di conoscerLa, Maestro, e ho aggiunto: sono qui come giornalista ma io in realtà voglio scrivere, anche per il teatro. E lui ha sorriso e ha detto: "Fai bene bambina... insieme a quello dell'attore è il mestiere più bello del mondo". E se ne è andato circondato da un sacco di gente... Volevo solo condividere questo ricordo con te”. Anche tutti noi.

[Pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” in Rete giovedì 13 ottobre 2016]
e nella rubrica “I Taccuini di Gaccione”
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SENIGALLIA LA BELLA
di Angelo Gaccione

Piazza del  Duomo 

Penso che basterebbero tre o quattro dei suoi capolavori per rendere obbligatorio un viaggio a Senigallia. Il magnifico Foro Annonario con il suo andamento circolare e la fila di colonne che sorreggono le volte dei portici, la Rocca dei Della Rovere in piazza del Duca, l’armoniosa e ampia piazza Garibaldi (così l’hanno ribattezzata), ma per me continua ad essere piazza del Duomo, perché un Duomo c’è davvero, sobrio, neoclassico e senza fronzoli. Ma oltre al Duomo c’è dell’altro: il Palazzo delle Dogane, il Palazzo Vescovile con la sua Pinacoteca Diocesana, l’Auditorium (a suo tempo chiesa dedicata a san Rocco), il Ginnasio Pio e la Filanda, nota anche come Palazzo Micciarelli, il tutto a comporre un rettangolo vasto e ben delimitato che è una vera felicità per lo sguardo, e dove, come in tutte le meravigliose piazze italiane, è estremamente piacevole sostare. Se poi vi spingete verso il mare (Senigallia è una città d’acqua bagnata dal mare e attraversata da un fiume, il Misa), una gradevolissima sorpresa si presenterà ai vostri occhi: tra il Lungomare Marconi e il Lungomare Dante Alighieri, lì dove si allarga il Piazzale della Libertà, una originalissima Rotonda di un bianco sfolgorante, si protende nel mare per diversi metri, sorretta da un lungo pontile ed è come un balcone aperto verso l’orizzonte, verso l’infinito. Questo scrigno, semplice ed legante, si deve alla genialità dell’architetto Enrico Cardelli, che la concepì nel 1933 in una visione sobriamente razionalista. 

Veduta aerea del centro di Senigallia

Ma a Senigallia c’è molto di più e lo scoprirete sciamando fra le sue viuzze, attraversando i suoi ponti, i suoi portici, le sue piazze. Improvvisamente potete trovarvi davanti alla sfarzosa sfavillante Chiesa della Croce, al Palazzo Mastai (la famiglia di quello che salì al soglio pontificio col nome di Pio IX), al palazzo del Governo, alla Fontana del Nettuno e a quella delle Anatre, ai portici Ercolani o alla Porta Lambertina. Questa città   ha anche il volto di amicizie che mi sono care, come quello di Laura Margherita Volante; lei vive ad Ancona, ma a Senigallia abbiamo condiviso delle allegre e spensierate giornate. Collaboratrice da anni del nostro giornale, Volante è una delle più abili scrittrici di aforismi italiane: per costanza verso questa forma espressiva, ironia e profondità, è tra le migliori in assoluto. A lei devo anche l’amicizia col grande fotoreporter di guerra (e non solo) Giorgio Pegoli, che ha il suo laboratorio subito dopo il Ponte 2 Giugno, il ponte che scavalca fiume Misa. Si tratta di via Carducci, l’animata via che si allunga fino alla bella Porta Lambertina. Di Pegoli “Odissea” ha pubblicato alcune delle sue foto più drammatiche e dolorose, scattate in mezzo mondo nei teatri della devastazione bellica e della morte. Pegoli è uno dei figli più prestigiosi di questa città; ha realizzato reportage in ogni dove: dal Vietnam al Ciad, dal Nicaragua al Libano, dalla Cambogia all’Afghanistan, dalla Bosnia al Kosovo…


Iraq 2014 (Foto: Giorgio Pegoli)

Il suo archivio è enorme (oltre 50 mila immagini dai tanti reportage realizzati per il mondo; più di 1.600 negativi in bianco e nero sulla Senigallia di una volta, ecc.) e i suoi scatti sono insieme vita e arte, come dimostrano i magnifici servizi realizzati a Scanno, a Venezia durante il carnevale, in Puglia, o nei vari Sud del mondo, per documentare un universo in pericolo, tradizioni, usi e costumi che potrebbe scomparire. Come è scomparso quel mondo di fascino e di fatica marinaro, a cui Pegoli ha di recente dedicato un corposo e documentatissimo volume dal titolo “La sciabica”. Si tratta di una tradizionale forma di pesca che a Senigallia e dintorni è stata per lungo tempo praticata.   A questa attività e ai suoi protagonisti, alla sua Senigallia, Pegoli ha voluto rendere omaggio con i suoi scatti. Il suo obiettivo segue con partecipazione umana i vari momenti della pesca, ne fissa i gesti, le movenze i volti, che il bianco e nero rende ancora più vivi di quanto appaiono. 

La Rocca del Duca

Fossi l’assessore alla cultura di quella città, non esiterei a dedicargli una sezione intera del Museo d’Arte Moderna, dove tra l’altro si conserva l’archivio di un altro celebre fotografo senigallese, Mario Giacomelli, tanto più che il Museo contempla già gli ambiti della fotografia e dell’informazione. Purtroppo questa estate ho mancato l’appuntamento col Museo; lo avrei visitato volentieri per dare un’occhiata anche ai materiali che il gruppo “Digit Art” di Milano, di cui ha fatto parte un altro amico e collaboratore di “Odissea”, l’artista digitale e pittore Giuseppe Denti, ha donato anni fa. Si tratta di una consistente raccolta di Copy Art (1987) e di diversi esemplari della rivista “Taccuino Apografo” del periodo 1981-1987. Sarà per la prossima volta, sperando di trovare la città più pulita, soprattutto alle spalle del Lungomare Alighieri, e soprattutto priva di quelle coperture di amianto che ancora fanno bella mostra di sé, su alcuni stabilimenti balneari e sulla tettoia di alcuni alberghi. Terra di marinai e di artisti, Senigallia, ma anche terra di antifascisti, uomini liberi e di martiri, come mostra, fra le tante, la lapide collocata sotto una delle volte dei portici, in memoria dell’anarchico Ottorino Manni.


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MILANO: BOOK CROSSING A PORTA ROMANA
di Angelo Gaccione

Milano, Porta Romana, "La biblioteca più piccola del mondo


Domenica scorsa, percorrendo a piedi il corso di Porta Romana per tornare a casa, ci siamo imbattuti in una piacevolissima sorpresa. Dico ci siamo imbattuti, perché ero in compagnia di mia moglie, ed è lei che ha scattato la fotografia che questa sorpresa documenta. Proprio all’inizio di via Orti (siamo a pochi metri dall’arco di Porta Romana e dall’abitazione del premio Nobel Dario Fo), accanto ad una piccola aiuola che conserva anche un prezioso melograno, è stata installata una specie di “biblioteca” all’aperto. Si tratta di una semplice struttura metallica dal formato di una scatola, di un metro o poco più, sorretta da un sostegno di ferro anch’esso più o meno di questa misura, fissato nel terreno. Uno sportellino a vetri ma senza alcuna chiave, in modo che possa facilmente essere aperta e chiusa, protegge questo contenitore al cui interno, su due scansie è sistemato un certo numero di libri. A idearla e posizionarla in questo luogo, sono state due Associazioni molto attive nella zona e in città: Comitato CO4 e Quarto Paesaggio Milano. 
Ho trovato questa idea degli amici delle Associazioni davvero fantastica. Li definisco amici anche se in realtà ignoro i loro nomi e i loro volti, ma io credo davvero, com’ebbe a scrivere Proust, che esista una consanguineità delle menti, - e, aggiungerei io - delle passioni, e dunque come scrittore non posso non sentire amici   persone che verso i libri nutrono, come me, tale riverenza e tale amore.
Ho deciso di mettermi in contatto con loro dopo che questa riflessione sarà resa pubblica sulla prima pagina di questo giornale, ma intanto lasciatemi dire tutta la gioia che ho provato davanti a questa umile, preziosa edicola; a questo gesto delicato, civile, altruista.    
“Ecco un angolo di Svezia a Milano”, mi sono detto, e la sera stessa ho voluto condividere con l’amico filosofo Fulvio Papi questa scoperta. Ne è rimasto felicemente sorpreso anche lui: una bella prova di civiltà di stampo nordico, a cui noi latini non sembriamo più abituati.
Questa che possiamo in assoluto definire come la più piccola biblioteca pubblica del mondo, è nata con un unico scopo (anche se di scopi ne sottende diversi): condividere e scambiare libri. Farli circolare liberamente, lasciando che essi incrocino altre vite,   quelle dei lettori, e che dentro queste vite possano fecondare.
Chiunque passerà di qui, potrà, se lo desidera, aprire questo piccolo “tabernacolo”, scegliersi un libro e portarselo via, avendo cura, come recita la scritta lungo il bordo, di lasciarne uno in cambio: per altre mani, per altre menti. Perché la biblioteca resti piena, perché la catena non si interrompa. Perché questa circolazione anonima, volontaria, orizzontale, è un dono di uno a tanti e di tanti a uno.
Spero che questa buona pratica possa sopravvivere, che nessuno rubi i libri e li rispetti (sono creature troppo fragili), che il contenitore resti immune dal vandalismo metropolitano, dalla rozza stupidità del bullismo che imbratta e devasta senza riguardi. Spero soprattutto che anche il tempo sia clemente: ne vorrei vedere il “tetto” coperto di neve questo inverno, e luccicante al primo sole.
Forse a qualcuno un libro allevierà un dolore, gli farà compagnia e si sentirà meno solo, gli lascerà una cicatrice o lo farà indignare. Un buon libro può molto.
Ma basta, sono in debito e devo affrettarmi, devo portarne uno anch’io.
[Settembre 2016]

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ILLUSIONI


Molti artisti vivono con la fallace illusione che i posteri, e le epoche future, siano sempre migliori di quelli contemporanei e che dunque, la loro opera sarà valorizzata da questi presunti futuri geni della sensibilità e dell’intelligenza. Per quale misteriosa ragione gli uomini futuri dovrebbero possedere queste magnifiche virtù, non è dato sapere. A me pare che ad ogni passaggio d’epoca stia avvenendo un irreparabile peggioramento, sia dei comportamenti collettivi che della manipolazione delle coscienze, e dunque c’è poco da essere ottimisti. A me basta l’aver conosciuto a fondo la mia epoca, per non farmi alcuna illusione.

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DESENZANO. IL TIGLIO E LA FOGLIA
di Angelo Gaccione

Un tiglio del lungolago di Desenzano mi ha regalato una foglia. Mi è caduta delicatamente in grembo, ero seduto su una panchina sotto la sua ombra a mirare i volteggi dei gabbiani. Era il 7 di agosto del Duemilasedici dell’Era post Volgare. Un’Era decisamente post e molto, molto volgare, in verità.
Erano le 15 e 20, come annotava la “cipolla”, e il cielo azzurro era spennellato qua e là da strisce bianche dalle forme più curiose.
Il lago cullava gli anatroccoli, la brezza muoveva le fronde e le chiome, i barchini gonfiavano le vele. Lo sguardo inseguiva i monti lungo l’intero profilo, e l’arco delle due penisole che si aprono per accogliere i traghetti. Virava, lo sguardo, fino alle punte estreme di Sirmione e Manerba, da sponda a sponda.
È di un giallo caldo la foglia. Rovesciata pare un cuore. La terrò dentro i fogli del taccuino come si usava una volta. Foglia fra i fogli.
“Grazie” io dissi al tiglio “per questo dono”.
Non c’è quasi più nulla di gratuito a questo mondo.
[Desenzano, 7 agosto 2016]

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DESIDERI E MERCATO
di Angelo Gaccione

Quanto meno bisogni avete,
tanto più sarete liberi
Cesare Cantù


Che il mondo sia divenuto un gigantesco mercato, è evidente anche dal modo come ci esprimiamo linguisticamente. E che noi esseri umani siamo fondamentalmente importanti perché rivestiamo il ruolo onnivoro di consumatori, è altrettanto scontato. I consumi sono aumentati, si dice con soddisfazione; i consumi sono calati, si dice con spavento; i consumi ristagnano e il mercato è fermo… Pare che tutto il senso più profondo della nostra civiltà, ruoti intorno al concetto di mercato e di consumo. Si dice che il desiderio crea il bisogno ed è il mercato che lo soddisfa. La formula potrebbe essere rovesciata dicendo che è il mercato a creare il desiderio, e che poi lo soddisfa come fosse un bisogno. In qualunque modo si strutturi la formula, il risultato finale rimanere identico: il consumo. Forse è una banalità dire che i bisogni nascono con la nascita dell’uomo. Bisogni primari da soddisfare subito per evitare che la sua vita sia messa in pericolo. Fame, sete, freddo, caldo, tutela della propria incolumità e della propria salute. Con la nascita dei legami sociali e l’ampliarsi delle relazioni parentali, i bisogni si dilatano ed acquistano nuove forme. Lo sviluppo della produzione economica e la sua diversificazione procede passo passo con la disponibilità delle risorse e della capacità tecnica di poterle trasformare. In teoria la sfida fra desiderio e bisogno potrebbe procedere all’infinito, l’uno alimentando l’altro e viceversa. Vista la stretta interdipendenza, il desiderio può far nascere il bisogno e il bisogno può far crescere il desiderio, senza soluzione di continuità, restando entrambi prigionieri di un circuito che non ha termine. Considerato dal punto di vista della produzione delle merci, questo rapporto può apparire ad alcuni esaltante, ad altri spaventoso. Nuovi desideri generano nuove merci, e nuove merci generano nuovi desideri. Finora ha funzionato così, e la produzione mondiale ha dato fondo a questa logica senza mai fermarsi, né domandarsi quanto questo modello sia effettivamente utile al bisogno di chi di quelle merci fruisce. Desideri artificialmente indotti creano nuovi bisogni, nuovi bisogni creano nuovi mercati pronti ad accogliere quei desideri divenuti bisogni e che prontamente la produzione soddisfa. Se c’è un mercato è naturale che qualcuno lo occupi e lo soddisfi. Quando parliamo di mercato e di soddisfazione di bisogni, è questa girandola vorticosa e inarrestabile che dovremmo tenere presente. Forse i bisogni sono contenuti e i desideri illimitati. Forse i bisogni veri di un uomo sono circoscritti alla tutela del suo corpo fisico, così come dalla natura gli è dato, e non dovrebbe oltrepassare quel limite. Di sicuro il punto dove ci stanno conducendo desideri illimitati e bisogni non necessari, (spaventosa produzione di rifiuti, saccheggio indiscriminato delle risorse primarie e prospettiva concreta di un disastro ecologico definitivo, ecc.), è un punto di non ritorno, una terra desolata.
[2015]


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LA FOGLIA DI FICO
di Angelo Gaccione

C’è dell’incredibile in quello che accade nel mio Paese a causa della testa bacata di qualche funzionario. Si danno ordini per coprire delle sculture durante la visita in Campidoglio del presidente iraniano Hassan Rouhani, presupponendo che la vista di quei marmi avrebbero potuto turbarlo. È singolare come si ritengano oscene e disturbanti delle semplici statue, ma non ci si vergogna della corruzione e del malaffare che alberga nel Belpaese, universalmente considerato fra i più corrotti del pianeta. Dovrebbe essere tutto il contrario, in una nazione che possiede il settanta per cento dell’intero patrimonio artistico e architettonico mondiale. Bisognerebbe andare fieri di questo patrimonio e tutelarlo come si dovrebbe; viceversa, vergognarsi dell’ondata inarrestabile di scandali quotidiani che ci espongono al disprezzo del mondo.
Il bello è che non c’era stata, da parte delle autorità iraniane, alcuna richiesta di brache e mutande per le statue. Ma i funzionari di certo ignoravano che Rouhani ha studiato a Glasgow alla Caledonian University, e non è uscito dalle caverne.
Ma ammettiamo che un “ospite” straniero, fosse pure il più potente e ricco sovrano della terra, accampasse pretese del genere; non dovrebbe essere necessario ricordargli il secolo dei lumi, basterebbe molto più modestamente citargli questo proverbio russo di meditata e rara saggezza: “In un monastero straniero non cercare di imporre la tua regola”.         

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AIUTO, DEVO MINGERE! 
di Angelo Gaccione


La vicenda è fin troppo banale. Siamo nella bergamasca e precisamente ad Averara, è Ferragosto del 2005 e sono le 2 di notte. Stefano Rho è con un amico e devono mingere (notate la raffinatezza del verbo e di chi sta stendendo questa nota) perché nel locale dove sono stati, hanno assorbito più liquidi di quanto la vescica ne possa contenere, e questa giustamente reclama. Comunemente, se uno non soffre di claustrofobia e sopporta i meravigliosi aromi che promanano dalle latrine dei magnifici locali pubblici italiani (e non solo), provvede alla bisogna dei bisogni (che artista!) al chiuso delle medesime. Può capitare di trovarsi all’aperto e non avere sottomano né un locale né una latrina, e le cose possono complicarsi. Se poi uno è incontinente o soffre di prostata, la situazione può diventare seria. Ad ogni modo Stefano Rho e il suo amico non soffrivano di incontinenza, e la loro età nel 2005 non era da prostata, ma non avevano a portata di pene un vespasiano. Decidono così di innaffiare un cespuglio. È raro che un carabiniere alle due di notte  controlli i cespugli, (a Milano non controllano né cespugli né muri, e al sabato notte in diversi luoghi della città gli effetti della birra regalano afrori di una certa intensità), ma una probabilità su un milione è sempre possibile. Ed ecco scattare un verbale di euro 200 e una segnalazione. Il giudice di pace di Zogno lo multa per atti contrari alla pubblica decenza, anche se l’unico pubblico presente alle 2 di notte è il carabiniere. Stefano Rho paga e tace, forse anche lui si è convinto di aver fatto un’azione disdicevole. La cosa sembra finita lì, ma non è così. Se vuoi fare il professore (e Stefano Rho vuole fare il professore) devi essere “pulito”. La regola, nel paese di Vitulia, è rigida e così Stefano, 11 anni dopo, si trova a pagare con il licenziamento dall’Istituto “Giovanni Falcone” di Bergamo, dove nel frattempo è entrato di ruolo come ottimo docente di Filosofia, questo lontano peccato urinario. Una inflessibile e solerte Corte dei Conti, confortata dal parere autorevole dell’Avvocatura dello Stato, impone all’Istituto la sua draconiana decisione. Giustizia è fatta. E così Vitulia, al penultimo posto nella classifica dei paesi meno corrotti dell’intera Europa, e ai primi posti per corruzione dell’intero globo terraqueo, può dormire sogni tranquilli. Buona notte. Scusatemi mi scappa da mingere: sono indeciso se farla sul palazzo della Corte dei Conti o su quello dell’Avvocatura dello Stato. Non potranno licenziarmi: io faccio il poeta.

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OMAGGIO A RAVENNA
di Angelo Gaccione
Sant'Apollinare in Classe
Mi chiedo che cosa posso aggiungere di originale, parlandovi di Ravenna, a quanto è stato già scritto da viaggiatori autorevoli e provenienti dai paesi più diversi: da Henry James a Byron, da Oscar Wilde a Klimt, da Hermann Hesse a Freud, da Jung a Fo, da Eliot alla Yourcenar e così via. Potrei parlarvi di strani frammenti di sogni (chissà perché il mio soggiorno a Ravenna è stato affollato di sogni come non mi accadeva da tempo), o delle mie scarpinate fino a farmi dolere i piedi. Di Dante no, sarebbe fin troppo banale, e prima o poi qualunque intellettuale finisce per approdare nella via che porta il suo nome ed infilarsi nella cappella dove riposano i suoi resti, per rendergli omaggio. Certo i mosaici di cui la città va fiera ed è nota in tutto il mondo sono strepitosi, e le tre basiliche (san Vitale, sant’Apollinare in Classe, sant’Apollinare Nuovo) vi lasciano senza fiato. Così come sono magnifici il Mausoleo di Galla Placidia, la Cappella di sant’Andrea del Museo Arcivescovile, il Battistero degli Ariani, quello degli Ortodossi detto anche Neoniano, e la pavimentazione della cosiddetta Domus dei Tappeti di Pietra. E conservano tutto il loro fascino i deliziosi chiostri appartati, come le piazze che qui e là vi compaiono improvvise per sorprendervi. Io non sono rimasto indifferente neppure alla piazza dove troneggia la bianca facciata cinquecentesca di Santa Maria in Porto, che corre lungo la via Di Roma, la più trafficata della città. Dal balcone di via Cerchio, con la luce del mattino, era particolarmente suggestiva, e quando un ammasso di nubi bianchissime stazionava dietro il campanile, il fondale azzurro del cielo conferiva a tutta la piazza uno scenario magico. Abbiamo avuto la fortuna di fotografare questo spettacolo, ed è un vero peccato che gli archi della Loggetta Lombardesca si trovino alle spalle della piazza. Tuttavia essa è abbastanza armonica e gli edifici bassi e colorati, le aiuole fiorite, il verde e le sculture offrono un bel colpo d’occhio. E non sono rimasto indifferente al bellissimo mercato liberty di piazza Andrea Costa, da tempo lasciato a se stesso, e che per me è prezioso quanto il Foro Annonario di Senigallia. Sarebbe un grave danno per la città se questa fantasiosa costruzione dovesse andare definitivamente in rovina. Tuttavia io stravedo, letteralmente stravedo, per i bei campanili tondi addossati alle chiese e che le sovrastano. Ad un primo impatto possono apparirvi tozzi e grevi, se paragonati agli snelli campanili di più tarda età e fattura. Ma se li osservate a più riprese e in momenti diversi della giornata, magari con la luce chiara di settembre e un ricamo di nuvole bianche che fanno da cornice ad una quinta azzurra di cielo, vi appariranno diversi. Le feritoie che ruotano lungo l’intero “fusto” dal basso in alto (monofore, bifore, trifore), spezzano il senso di pesantezza e interrompendo il pieno assoluto dei mattoni, ne accentuano lo slancio. Questo gioco di intermittenze fra  pieni e il vuoti conferisce ai campanili una certa leggerezza e lo sguardo ne è catturato. Per uno che ritiene architettonicamente significative le stesse ciminiere a mattoni delle vecchie filande e degli opifici costruiti tra Otto e Novecento, (alcune miracolosamente sopravvissute alla furia iconoclasta del “nuovo” e del “moderno”, e per fortuna continuano a svettare affilate e leggere verso il cielo anche qui a Milano), questi campanili tondi di Ravenna sono una testimonianza forte di quella architettura verticale che si diffonderà nell’intera Europa cristiana.

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LA RIVOLUZIONE PERMANENTE DELLA MODA
di Angelo Gaccione


Gli uomini della mia generazione portavano toppe ai pantaloni; spesso capitava di vederne anche su quelli di noi ragazzi. Erano i segni della povertà e il risultato del passaggio da un fratello all’altro di indumenti e vestiari. Probabilmente qualcuno se ne vergognava e oggi nessuno di loro indosserebbe pantaloni con rattoppi e vistosi squarci, come quelli imposti dall’industria della moda a giovani completamente privi di senso critico e di buon gusto. Ragionando col filosofo Fulvio Papi, qualche tempo fa, a proposito del carattere continuamente mutevole della moda, gli ho fatto rilevare come essa rappresenti bene l’essenza del capitalismo nella sua “rivoluzione permanente”. Se ci pensate, la moda è l’unica rivoluzione permanente. Una rivoluzione che non genera sangue ma profitti. Ed è arrivata ad un punto tale di condizionamento collettivo, da imporre indumenti stracciati a prezzi che non lo sono. Regalando persino qualche momento di illusoria felicità ai propri acquirenti-devoti. Abbiamo convenuto che il capitalismo ha vinto su tutta la linea e che può imporre qualsiasi tipo di merce, ad un mercato conformistico e sempre più omologato, anche la più discutibile e aberrante. Sono sempre più convinto che il consumismo, in fondo, non è altro che il trionfo del cassonetto della spazzatura, e dell’inutile.


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ANIMALI E GUERRA
di Angelo Gaccione

Nel “Genesi”, nel paragrafo della creazione dell’uomo si legge: “Crescite et multiplicamini, et dominamini piscibus maris, volatibus coeli et omnibus animalibus”. Dio dà dunque all’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, il dominio su tutte le creature della natura, animali compresi. Gli uomini hanno asservito gli animali per il loro tornaconto, ben prima che venissero a conoscenza delle parole contenute nel primo libro del Pentateuco. La domesticazione non ne ha attenuato lo sfruttamento, se non in quelle civiltà che hanno considerato sacrali alcuni di essi, elevandoli ad ornamento della casa e addirittura adorandoli. Impiegati per la fatica fino allo stremo, gli uomini li hanno seppelliti persino nel buio delle miniere dopo averli “pietosamente” accecati. Il massimo della degradazione, gli uomini lo raggiungono, coinvolgendo queste povere creature nella più barbara e criminale pratica partorita dalla mente umana: la guerra. Elefanti, buoi, cammelli, cavalli, muli, asini, cani, gatti, piccioni… adoperati come macchine da guerra, come supporti logistici. Esistono fotografie in cui si vedono cavalli e muli bardati con maschere antigas; gatti adoperati per verificare l’esistenza di campi minati; cani con addosso esplosivo, volatili ammaestrati per rilievi fotografici dotati di macchine da ripresa. La pittura che li ritrae, così come la fotografia, non hanno suscitato nei critici d’arte e negli osservatori di quelle immagini, mai un solo commento di indignazione o di pietà verso queste involontarie vittime della follia umana. La battaglia di Anghiari con il suo terribile, forsennato scintillio di lance e di spade, come lo stordente clangore di una qualsiasi battaglia campale fatta di cannonate e di tamburi, non è drammatica solo per i corpi dei cavalieri e dei soldati che vi sono coinvolti. Guardate attentamente il pazzo terrore che promana dagli occhi di quelle creature coinvolte in un massacro di cui non capiscono il senso. Immaginate per un momento il battito dei loro cuori a mille per la pulsione del sangue, la lacerazione della carne, le amputazioni, gli urla, le grida, le esplosioni assordanti delle granate. Sono convinto che neppure i pittori che li hanno raffigurati nelle loro tavole o affrescati sulle pareti, si siano mai domandati che cosa potessero sentire nel loro corpo, che fremiti li attraversasse.
Nessun essere vivente potrà mai eguagliare la spietata, gratuita ferocia degli uomini. La guerra dimostra che la catalogazione imposta da questi ultimi alla natura, è arbitraria e falsa e i generi andrebbero capovolti. Alla luce di ciò che sappiamo e da come il suo comportamento si è rivelato nella storia, bisognerebbe operare una ulteriore distinzione-correzione all’interno dei cosiddetti regni della natura, secondo lo schema qui suggerito: minerale, vegetale, animale, bestiale-artificiale. Dove per regno animale (esseri dotati di un’anima), è da intendersi qualsiasi specie, (compreso quelle che l’uomo ha fatto scomparire), presente in terra, acqua e aria, e per regno bestiale-artificiale, la specie bipede dotata di parola. A quest’ultima categoria va attribuita senz’altro la nominazione che più le si addice: quella di bestia. Umanizzare gli anima-li, im-bestia-lire quelli che finora abbiamo definiti uomini, non solo è più vicino alla verità, ma è un atto di giustizia. Non esiste in natura nessun animale capace di fare più danni della bestia-artificiale definita uomo. Neppure le forze endogene come le abbiamo conosciute: terremoti, maremoti, meteoriti, uragani, e così enumerando. La sua crudeltà è razionalmente organizzata, scientificamente programmata, artificialmente elaborata e premeditata. Si fa torto agli animali facendo derivare da un retaggio primigenio appartenuto a questi ultimi, il comportamento belluino della bestia-artificiale. Evolvendo, cioè diventando altro, l’uomo ha perso la natura animale. Se ne è allontanato definitivamente fino al punto di non somigliarle più. Diventando bestiale-artificiale, la sua crudeltà è figlia di questa seconda e nuova natura. Questa sì belluina. La parola belluina era sconosciuta agli antichi e non era di certo riferita agli animali. La parola belluina (e dunque la sua natura) appartiene alla bestia-artificiale chiamata uomo e alla pratica da cui deriva: guerra. Guerra è un termine neutro: Bellum. Da bellum a belluino: la traslitterazione ha una solare evidenza. Guerra: la più spietata, crudele, fredda, impassibile e disumana pratica civica, concepita dalla bestia divenuta artificiale. 

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DÈI, RELIGIONE E GUERRA
di Angelo Gaccione


Un dato è incontrovertibile: che si prendano in mano i poemi di Omero, la “Teogonia” di Esiodo, la “Biblioteca” di Apollodoro, gli scritti di Eschilo e di Pindaro, o si vanno a considerare i miti precedenti della tradizione orientale - per esempio il mito ittita di Ullikummi - la nascita degli dèi e l’Olimpo, si fondano sulla guerra e sullo sterminio. La guerra spietata che li vede contrapposti per il dominio e la supremazia, non si esaurirà con il conseguimento dello scettro e il ristabilimento della gerarchia dell’ordine divino imposto da Zeus. Tutte le vicende, sia olimpiche che terrene, vedranno gli dèi in una ininterrotta contesa armata diretta, o attraverso i cosiddetti eroi mortali e terreni, fomentando fra costoro discordie, rivalità, guerre, e ogni sorta di mostruosità. L’Olimpo non nasce né pacifico né tollerante, e tanto meno la religione che ne discenderà; e pacifici e tolleranti non lo saranno gli uomini sulla terra. C’è conflitto in Cielo come c’è conflitto in Terra.                                                             
Sono dèi spietati ed esigenti dotati delle stesse passioni umane e dei peggiori difetti. Richiedono continui sacrifici umani; sgozzamenti ai piedi dei loro altari e dentro i loro templi, pretesi addirittura dalla mano amorevole degli stessi padri costretti a sgozzare figli innocenti; ecatombe di poveri animali inconsapevoli della follia e del fanatismo religioso degli uomini delle società antiche. Misere creature immolate in un disgustoso bagno di sangue. 
Riconsiderate sotto l’aspetto criminale della guerra e dei sacrifici umani e animali, quelle società - con l’impianto religioso che le sorregge - appaiono disgustose, feroci,  fanatiche, vendicative. L’esaltazione mitica dei cosiddetti eroi, celebra in realtà una genia di portatori di morte, sadici ed efferati, che non ha nulla a che fare con la pietà. Basta analizzare gli episodi salienti dei conflitti e il comportamento dei singoli eroi, per rendersi conto del loro odioso modo di procedere. Non ci si ferma neppure davanti agli infanti ancora in fasce, messi a morte senza scrupolo alcuno; straziati nel corpo e mutilati nel più bieco dei modi. Né davanti agli anziani indifesi e senza forze. Gli stupri sulle donne inermi sono diffusissimi e si arriva persino ad impedire la sepoltura dei cadaveri, lasciati all’oltraggio e alla voracità delle fiere.                                          Vista dall’ottica delle vittime innocenti, l’epica omerica è barbara e feroce come tutte le guerre; e come tutte le guerre rivelano la loro criminale follia. Con un aggravante in più: il coinvolgimento dell’Olimpo e di una religione altrettanto spietata che le giustifica. I poemi omerici e quelli degli scrittori successivi, non sono soltanto alta poesia, sono soprattutto un ammasso spaventoso di carneficine perpetrate con il contributo e il consenso degli dèi. L’abilità poetica dei cantori può rendere tutto più scintillante, ma il sangue resta sangue. 

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OGNI BENE VIENE DALLA TERRA
di Angelo Gaccione

Ho un profondo rispetto per la civiltà contadina e per il lavoro della terra. Quando ero ancora un ragazzino, mia madre mi lesse qualcosa che non avrei mai più dimenticato (forse un racconto, forse una poesia) e il cui titolo era il seguente: “Ogni bene viene dalla terra”. Da adulto ho sempre tenuto presente questa incontrovertibile verità. Una volta, in occasione di un incontro pubblico piuttosto animato, dissi più o meno questo: ogni civiltà che si sarebbe susseguita nel corso del divenire storico, avrebbe apportato la sua dose di utile e necessario vantaggio, e prodotto molte e rivoluzionarie modifiche, ma non avrebbe potuto in alcun modo cambiare le basi su cui si fonda la nostra esistenza di esseri umani. Saremmo, cioè, sempre dipesi dalla terra.
Se ci pensate, noi potremmo fare a meno del petrolio e delle macchine; del laser e dei computer, ma non possiamo fare a meno del cibo per nutrirci. Cibo che in tutte le sue componenti ed elaborazioni, ha una sola e assoluta provenienza: la terra. Potremmo fare a meno di tutte le invenzioni più complesse e sofisticate nate dalla nostra fervida intelligenza ed immaginazione, ma non ci è possibile fare a meno di due semplici elementi della nostra sopravvivenza umana: acqua e aria. E anche questi due elementi hanno una sola e unica provenienza: la terra. L’acqua nutre la terra che a sua volta nutre le piante e che a loro volta nutrono ogni essere presente sulla terra. Respirare, bere e nutrirsi, sono le basi indiscutibili della natura e dunque della terra.
Provo molta tristezza quando mi capita di imbattermi in certi atteggiamenti da snob; si tratta generalmente di giovani o di professionisti le cui origini affondano nella civiltà contadina. Hanno mutato la loro condizione e ora il nuovo status di piccoli borghesi (in genere piuttosto ignoranti) li fa vergognare di ciò che sono stati, di ciò da cui provengono, come se essere nati da una famiglia o da antenati contadini, da gente che ha sopportato la grande fatica della terra, fosse un marchio di infamia. Tentano disperatamente di lavare questa “infamia”, per far dimenticare quelle origini e farsi accettare nel consesso della nuova classe verso cui sono approdati. Ridicoli. Semplicemente ridicoli e gretti. Verga ci ha dato un ritratto esemplare di questi ridicoli parvenu, nel suo “Mastro don Gesualdo”.
Io credo, invece, che bisogna andarne fieri. Senza gli uomini votati al duro lavoro della terra, non ci sarebbe disponibilità di alcun nutrimento per il genere umano, e questo sarebbe in pericolo. Senza il loro prezioso lavoro, gli stessi stupidi superficiali snob che guardano al mondo contadino e della terra con sufficienza e superiorità, morirebbero di fame. Se improvvisamente i lavoratori della terra decidessero di produrre solo per il loro unico fabbisogno: governanti, ministri, teste coronate, ambasciatori, cancellieri e cacasenno di ogni tipo, si ritroverebbero a domandare l’elemosina sui cantoni delle vie. Disavvezzi all’arte della coltura e della semina; incapaci di sopportare la fatica dei campi; tutti costoro non avrebbero scampo. Il loro denaro non gli servirebbe più, come non gli sarebbero di aiuto alcuno aerei, auto o computer. Non potrebbero mangiare le ruote delle loro belle macchine, i titoli che esibiscono nelle loro case, gli oggetti preziosi di cui si circondano. In casi di carestie, nulla è più importante di un tozzo di pane, di una giara d’olio, di un sacco di umili patate. Nessun diamante vale quanto un tomolo di legumi, uno staio di cereali o una forma di caciocavallo. Dipendesse da me, farei in modo che i beni della terra, tutti i beni della terra, compreso l’acqua e gli alberi che ci danno l’ossigeno, avessero il costo maggiore in assoluto e fossero considerati gli unici veri beni incommensurabili della vita. Svaluterei diamanti e computer, auto e televisori, ponendoli al più infimo gradino del valore monetario. E a chi ponesse obiezioni gli direi: “Ecco, ingoia questo saporitissimo telecomando. Assaggia un pezzo di questo gustoso pneumatico. Spalma sulle tue fruscianti banconote una fetta di questo magnifico personal computer”.   
Dite che cambierebbe opinione?   


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MINIMA IMMORALIA
IL CAPITALISMO È MISERIA PER I POPOLI
di Angelo Gaccione


Abbiamo sperimentato il Capitalismo e abbiamo sperimentato il Comunismo: in entrambi questi sistemi non c’è stata alcuna uguaglianza fra gli uomini, nessuna abolizione delle classi, nessuna liberazione. Fame, morte, guerra, persecuzioni, devastazione della natura, rapporti spregevoli nei confronti degli animali e delle altre creature, intolleranza per i diversi. Sono cresciuti i profitti, le lobbies, le nomenclature, le privatizzazioni dei beni pubblici e comuni, le armi di sterminio e gli eserciti. Nessuna giustizia per le classi più povere, nessuna pace. Ora è tempo di ripensare un’altra socialità, un’altra visione possibile nei rapporti fra gli uomini e l’ambiente in cui si trova a vivere; un’altra riconsiderazione di tutte le risorse naturali e delle altre specie: animali e vegetali che hanno permesso fin qui la nostra sopravvivenza. Fuori dal profitto e fuori dai regimi finora conosciuti. Ci occorre una nuova e più profonda immaginazione, ricordando che qualsiasi sistema sociale che non ponga al centro la riconsiderazione degli esseri umani e delle altre specie della natura, va respinto come criminale. E soprattutto ricordando che i tempi per uscire da questa moderna barbarie sono stretti, maledettamente stretti”. 

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CAFONARIA 4
di Angelo Gaccione

La cafoneria è ovunque e Londra non è immune. Da qualche tempo un’orda di ridicoli e arroganti rampolli figli di quel volgare “zurrume” composto da governanti e ceti ricchi degli emirati arabi, scorrazza impunemente per le strade della capitale londinese con fuoriserie di lusso sfacciatamente kitch, e con a fianco, manco a dirlo, le solite immancabili puttane. Vanno a velocità folle e spericolata, mettendo a rischio l’incolumità dei passanti. Si permettono in questa parte di “tollerante” occidente, ciò che a tutti gli altri è legalmente proibito. Insomma, fanno quello che vogliono e le autorità fingono di non vedere. Potenza del denaro: i rampolli portano moneta pregiata, spendono e spandono nei locali più esclusivi e non è prudente inimicarseli.
E così davanti alla prosaicità dell’argent, anche il proverbiale, ipocrita bon ton inglese, si adegua alla cafoneria. Va, in altre parole, a farsi…
Scegliete voi il verbo più appropriato.     


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MINIMA IMMORALIA
SUI DESTINI DELLA NAZIONE
di Angelo Gaccione


La nostra è ormai una nazione irrecuperabile; tentare di migliorarla appare sempre più un’impresa disperata e molti la danno per perduta. I tempi per una nostra “ragionevole” rivoluzione morale che ne rovesci i postulati, sono sempre più stretti. È molto probabile che arriverà prima la natura con la sua spietata capacità selettiva. Tutti i segni ci dicono che sta lavorando in questo senso, e forse ben poco rimarrà in piedi. Ho pietà solo per gli animali e per le piante: di queste innocenti creature ho davvero pena. Ma col tempo si riprenderanno il loro posto e torneranno a star meglio, senza la nostra disgustosa bieca presenza. Come dovrebbe essere ormai a tutti noto, la natura non ha bisogno della nostra nociva presenza. Da tempo siamo divenuti i suoi becchini, ma la nostra ecatombe sarà lei a celebrarla. 

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CAFONARIA 3
di Angelo Gaccione


Negli ultimi tempi sempre più malvolentieri prendo la Metropolitana. Il motivo è il diffondersi di una particolare forma di cafoneria. Bipedi italiani e stranieri di ogni sesso, si piazzano davanti alle porte di uscita e creano un muro che si è costretti a fendere con piglio piuttosto deciso, per poter scendere. Di volontà propria non si spostano, e se li fissi in attesa sperando che muovano un passo, stai fresco! restano lì impalati come ebeti. “Devo passarle sopra la testa?”, ho detto giorni fa ad una signora che mi si era parata davanti; “guardi che senza di lei il Metrò non parte” ho concluso ironico. Non è necessaria una intelligenza particolarmente spiccata per capire che basterebbe posizionarsi ai lati delle aperture e aspettare che i passeggeri scendano per potere poi comodamente entrare. A Milano non è così, e un branco di pecore vi si affolla davanti. A volte penso che in fatto di intelligenza e di comportamento, sia avvenuto un cortocircuito nell’evoluzione umana: dal gorilla all’uomo e dall’uomo alla capra. Con il dovuto rispetto per la capra.

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CAFONARIA 2
di Angelo Gaccione

È molto più facile debellare il cancro e migliorare l’assetto economico della società, che liberarsi della cafonaggine. La cafonaggine è una pianta ostinata e tenace, ed estirparla sarà un’impresa piuttosto ardua. La difficoltà non consiste soltanto nella sua pervasività, ma nel fatto che attraversa tutte le classi. Noi italiani ne siamo abbondantemente contaminati e a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, abbiamo fatto notevoli progressi peggiorativi in questo senso. Abbiamo ricostruito i beni della nazione (fabbriche, ponti, strade, scuole, case, palazzi…), ma le macerie del nostro comportamento civico non sono state rimosse; anzi, le rovine si sono accumulate. Per rimanere nell’ambito della metafora, con l’esplosione del boom economico e del consumismo, quelle rovine sono divenute gigantesche discariche. Che non vi sia automatismo di rapporti fra miglioramento economico e miglioramento dei comportamenti sociali e civici, è oramai un luogo comune. Probabilmente questo automatismo migliorativo non funziona neppure in rapporto all’istruzione. Se fosse così, la società avrebbe dovuto già da tempo essere largamente migliorata. Tuttavia, al di là di qualunque raffinata analisi possibile, sulle cause e sui tempi, resta il fatto che la cafonaggine e la perdita di decoro civile, hanno investito anche quei ceti sociali che più di tutti ne erano stati immuni. Sono diventati di massa. Società di massa uguale cafonaggine di massa, è un’equazione che sembra combaciare molto bene.
Ci sono dei luoghi che per la loro natura e per il significato simbolico che li contraddistingue, dovrebbero indurre ad atteggiamenti “consoni”. L’aggettivo non è dei migliori, ma è il più usato. Eppure non è più così. Quello a cui mi è capitato di assistere nella sala d’attesa del padiglione “Devoto” del Policlinico di Milano, dove ho dovuto forzosamente sostare alcune ore per un prelievo di sangue, mostra come la cafoneria, nell’indifferenza generale, abbia invaso persino un luogo di sofferenza come un ospedale. Pazienti che strillano senza riguardo nei loro telefonini, altri che raccontano i loro fatti a voce alta disturbando i vicini, porte che sbattono di continuo ad opera di pazienti, infermieri, medici che non si peritano di prestarvi attenzione come dovuto e che ti fanno sussultare. Insomma un luogo di delirio, una fiera, un mercato, dove la cafoneria regna sovrana e non si leva voce alcuna per far cessare questo andazzo. Probabilmente i responsabili non ne sanno nulla: è raro che i responsabili siano al corrente di ciò su cui sono tenuti a controllare. E se anche lo sapessero si guarderebbero bene dall’intervenire. E sapete perché? Perché si tratta di una struttura pubblica, cioè terra di nessuno; e siccome è terra di nessuno, naturalmente nessuno se ne cura. Ben diversamente vanno le cose nelle strutture private, e non è che siano a corto di cafoni.  Semplicemente tengono al buon nome del servizio, che poi vuol dire al buon nome della cassa, perciò vige un altro clima.

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CAFONARIA 1
di Angelo Gaccione


All’ossessione e alla mania dell’uso dei telefoni cellulari ho dedicato un racconto ironico e pungente dal titolo “Russa”, scritto nel dicembre del 2012 e pubblicato l’anno successivo nel libro “La signorina volentieri” (pagg. 35-40). Nel frattempo la situazione è ulteriormente peggiorata. Orde di cafoni di ogni età e nazione, hanno invaso ogni luogo e ogni ambito (che siano mezzi pubblici e ospedali, poco importa) e non si fanno scrupolo alcuno. Qualche settimana fa ho dovuto forzatamente scendere dall’autobus numero 73 proveniente dall’aeroporto di Linate. Avevano letteralmente trasformato l’autobus in un vero e proprio zoo, in cui bestie dalle sembianze umane, starnazzavano, barrivano, miagolavano, chiocciavano, belavano, abbaiavano, ululavano negli idiomi più diversi, con le orecchie attaccate ai loro telefonini. Non mancavano, ovviamente, gli italioti, milanesi e non, ma a darci dentro con più foga, si distinguevano bipedi di sesso femminile di lingua spagnola (ecuadoregne? peruviane?) e dei paesi dell’Est. Fossi stato il conducente avrei fermato il mezzo e mi sarei rifiutato di proseguire se quella assordante cagnara non si fosse all’istante interrotta. Una volta sui mezzi pubblici campeggiava questa scritta: Vietato parlare al conducente; ora che la buona educazione se n’è andata, spodestata da un comportamento disinvolto figlio del progresso, e dallo sviluppo della tecnologia, non ci sono divieti che tengano. Ci si dovrà fare, come si dice, il callo? Ci si dovrà assuefare alla cafonaria (conio un neologismo per la nuova era) che avanza, indice di sicuro “progresso”? “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”. Non è un mio pensiero, è una riflessione di Einstein.