Racconti
UNA PARTICOLARE CREMAZIONE
di
Danilo Caravà
Eccomi
qui, sull’attenti, in attesa che venga il mio turno, stretto, ogni oltre dire,
tra chi segue e mi precede. Eccomi qui solo, malgrado, o piuttosto nella
costatazione di essere fra altri… Il pensiero fatalmente è attratto da
quell’unico buco nero in grado di deviare, di catturare la sua luce… la mente
va a quando tutto questo accadde. Io non ero cosciente, e stavo meglio di ora;
vi assicuro che gli anni passati forzatamente a meditare mi hanno confortato in
questa nichilistica costatazione, più fredda e tagliente di un aforisma di
Cioran. Il tempo mi scivolava addosso senza alcun attrito, ero perfettamente,
completamente, indifferente del più remoto eone, e del più distante futuro, nel
quale l’universo tutto avrebbe potuto disfarsi e farsi, più volte della tela di
Penelope. Nessuna nascita, nessuna morte, solo passiva testimonianza
oggettuale, condizione invidiabile dalla più alta forma di meditazione
spirituale… Invece, a un certo punto,
chissà per quale caso, eccomi qui, prima di tutto solo, perché, intendiamoci
una volta per tutte, l’autocoscienza è prima di tutto uno stato di cattività,
di prigionia, di dolorosa separazione da tutto il resto. Come può non essersi
accorto di tutto questo Cartesio? Come non può essersi trovato, a un certo
punto, murato, attraverso il muro del cogito? Certo, i primi tempi c’era
qualcosa che mi regalava una sorta di… voi come lo chiamate? Brivido, ecco, un
brivido… ogni volta che venivo scelto, mi sentivo un po’ come quei ragazzi di
vita pasoliniani, che vedono la macchina fuoriserie fermarsi giusto davanti a
loro… Ti senti importante, senti quanto quella misera esistenza da handicappato,
senza braccia e gambe, possa essere riscattata da uno sguardo, da
un’attenzione, da una carezza. Ha qualcosa di meravigliosamente sulfureo,
profuma di magnifica dannazione… parlo del fatto di sentirsi desiderati,
sentire il fiato della passione altrui che ti si riversa addosso, il piacere di
chi usa senza limiti il tuo corpo… Io vivevo, in un certo senso, di quel
piacere riflesso, osservavo non con semplice curiosità, bensì con la sadica
scientificità dell’amante che scruta, dopo il picco del vostro piacere, la
sdrucita vulnerabilità del vostro sguardo, ancora provato da quella dolce
morte. Mi hanno usato, certo, sono stato oggetto delle più svariate parafilie,
dalle più particolari devianze sessuali, potrei dare molto materiale di lavoro
al dottor Freud. Mi hanno riempito di tatuaggi, hanno graffiato lacerato, la
mia fragile pelle, e non è che il fatto che non potessi lamentarmi, gridare, significava
che apprezzassi ogni volta quello che mi si stava facendo… mi hanno addirittura
quasi mutilato, e lasciato a brandelli il mio corpo, abbandonandosi all’arte
che il marchese de Sade conosce bene. Mi sono sentito un martire… ecco… è il
termine giusto, un martire, un san Sebastiano trafitto dalle frecce del vostro
grossolano e distruttivo interesse. Ho
persino provato qualcosa di simile all’estasi, arrivando a sfiorare, oserei
dire quasi toccare, quel dito del dio michelangiolesco della Cappella Sistina.
Ma, al vertice dei lunghi periodi di scoramento, in cui venivo lasciato per ore
e ore, per giorni, settimane, mesi, al buio, nella peggiore cella di punizione
che possiate mai immaginare, ho bestemmiato ogni possibile divinità, l’ho
rinnegata, ho trovato l’insensatezza e l’assurdità come uniche statue votive da
adorare. Almeno voi potete piangere… conosco bene le vostre lacrime che, di
quando un quando, mi bagnavano la pelle, quella vergogna che sentite, a volte,
peggiore del bagnato risultato dei vostri orgasmi, nel mostrare quella condensa
dell’anima, quella liquefazione della vostra supposta forza interiore… io non
potrò mai piangere, tuttavia ho imparato che si può piangere senza piangere,
anche senza lacrime, nello stesso silenzio di un paesaggio che lascia al vento
la sua disperata voglia di muoversi… ecco, è arrivato il mio turno…. un attimo
è tutto sarà finito, niente più tempo, solo impersonale eternità, di nuovo
tutto sarà perché niente sarà… sento già
un caldo terribile che mi ustiona, che mi accende ogni lembo di pelle… cerco
disperatamente un ultimo pensiero, mentre mi ricordo che qualcuno ha detto che
dove si brucia me e i miei simili prima o poi si bruciano gli esseri umani…
poi… mi arrendo all’unica frase sensata che può lasciare in eredità un libro che sta per essere
incenerito, scontata certo, ma terribilmente necessaria, fine!
FUORI DA UN LIBRO: un “classico” coming out
di Stefano Molinari
Non
c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato,
e
nulla di segreto che non sarà conosciuto.
(Vangelo
di Luca, 12, 2)
Uno dei miei primi coming out, particolarmente significativo e
memorabile, accadde sul finire della mia adolescenza con il mio professore di
greco del liceo.
In quel tempo (oltre mezzo secolo fa, all’inizio degli anni
Settanta) il professore aveva una cinquantina d’anni, all’incirca l’età dei
miei genitori; era sposato e aveva due figli, un maschio e una femmina, che
frequentavano il mio stesso liceo. Per la sua bravura divenne celebre a Milano,
tanto da essere premiato alla fine della carriera con l’Ambrogino
(l’onorificenza che ogni anno il Comune conferisce ai benemeriti della città):
una fama dovuta non tanto ai suoi studi, benché abbia pubblicato due notevoli
opere su Omero, quanto alle sue doti di maestro.
Nel penultimo anno, alla fine del primo quadrimestre, un po’ di
sorpresa mi chiamò per interrogarmi sui lirici. Esitai ad uscire perché non avevo studiato
gli ultimi argomenti, non aspettandomi l’interrogazione, ma un sesto senso mi
indusse a rischiare (“Magari mi chiede Saffo…”); così presi “Charites”
(l’antologia dei lirici greci), la mia sedia (il professore voleva che stessimo
seduti durante l’interrogazione) e mi sedetti presso la cattedra, a sinistra
del professore. Non chiamò nessun altro, dunque ero solo al suo cospetto. Per fortuna mi chiese proprio Saffo, e l’Ode
seconda, quella che conoscevo meglio: l’ode dell’Amore («non della gelosia!»
come ribadiva il professore), forse il supremo canto dell’Amore.
Poiché è opportuno riportare questa ode sublime, voglio farlo
“personalmente”, con una breve digressione. Circa un quarto di secolo dopo ne feci
una traduzione poetica, ispirato da un sorriso di uno dei miei più grandi amori,
un giovane di meravigliosa bellezza. Stava uscendo dall’aeroporto di Linate,
dove ero andato a incontrarlo, e lo scorsi mentre era ancora un po’ lontano:
aveva il sole pomeridiano in faccia, e pareva muovere le labbra, e all’improvviso
sorrise radiosamente tra sé e sé, per chissà quale pensiero… E allora io mi
rammentai nitidamente la seconda Ode di Saffo, e la sera stessa la tradussi
così:
Saffo – Ode II
Mi sembra che sia simile agli Dei
chi ti siede dinanzi, e da vicino
t'ascolta mentre parli amabilmente
raggiante di sorriso.
Ma questo in petto mi percuote il cuore,
perché ogniqualvolta io ti vedo,
anche se per un attimo soltanto,
la voce mi svanisce,
la lingua mi s'inceppa, e un lieve fuoco
sotto la pelle mi s'insinua subito,
i miei occhi non vedono più nulla,
le orecchie sono sorde,
il sudore mi bagna eppure tremo,
il mio colore è verde più dell’erba,
ed ho la sensazione di trovarmi
a un passo dalla morte.
Ma tutto va sopportato, poiché...
Ritornando alla mia adolescenza, la mia interrogazione (va detto
che non ero un gran che dal punto di vista del profitto) fu addirittura
spettacolare. Dopo aver tradotto e risposto puntualmente alle questioni
grammaticali, iniziai a commentare la lirica con sicura sapienza,
addentrandomi in varie osservazioni psicologiche e letterarie (citai persino
il Cantico dei Cantici – i compagni mormoravano sbalorditi, mentre il
professore assentiva energicamente). Quindi l’interrogazione divenne una
conversazione, a conclusione della quale il professore, ribadendo l’assoluta femminilità
della passione descritta dalla lirica (di una donna per una donna), disse che
io non potevo capirla fino in fondo perché ero un uomo.
Circa un anno dopo, che era il mio ultimo anno, verso la fine
del primo quadrimestre, il professore durante un intervallo mi chiamò e mi
invitò a sedere accanto a lui in fondo alla classe, che in quel momento era
vuota, e mi disse che aveva notato un miglioramento nel mio carattere,
solitamente introverso, turbato e distaccato… Si era sempre chiesto il perché
di una tale inquietudine, che tuttavia adesso pareva alleggerirsi, e questo
si notava anche dal rendimento… Allora osai (era il 1971: mica c’erano i Gay
Pride…): «Professore, si ricorda un’interrogazione che mi fece l’anno scorso,
che andò piuttosto bene, sulla seconda Ode di Saffo?» Il professore annuì prontamente.
«E si ricorda che alla fine lei mi disse che io non potevo capire a fondo quel
tipo di emozioni perché ero un uomo?» Il professore continuò ad annuire.
«Bene: le voglio dire che io le capivo benissimo…» Il professore tacque per
qualche secondo, e poi lentamente disse: «Sei l’ultima persona della classe di
cui avrei pensato una cosa del genere. Pensavo a un amore infelice…» Parole
che mi lasciarono e mi lasciano tuttora perplesso, dato che nella classe non
mancavano ragazzi dai modi spavaldi e dall’evidente interesse per le ragazze (tanto
che una volta il professore di italiano disse al compagno che era stato appena interrogato:
«Ma perché non studi di più invece di fare il “cicisbeo”?»).
Qualche giorno dopo il professore mi telefonò e mi invitò ad andarlo
a trovare. Ricordo che era un sabato, e mi recai a casa sua nel tardo
pomeriggio, e discorremmo a lungo nel suo studio zeppo di classici greci e
latini.
LETTERA D’AMORE
di Danilo Reschigna
Carissimo,
non ti preoccupare: non sono omosessuale, non sono un
fanatico e nemmeno un poveretto che cerca la carità!
Ma se tu preferisci la fantascienza, l’oroscopo,
oppure la cucina: in questo caso dimmelo e non ti disturberò più con le mie
continue richieste.
Ti allontani sempre di più lasciandomi solo e alla
desolata sconfitta del mio cuore. Ti cerco in continuazione e tu mi sfuggi
sempre alludendo al fatto che la vita è corta e sei troppo indaffarato in mille
progetti.
Non fare finta di non sapere chi sono io: lo sai
perfettamente chi hai di fronte a te!
Io, e soltanto io, sono il tuo libro che racconta la
storia dell’uomo: chi non conosce il passato, non potrà capire il presente e
riflettere per migliorare il futuro. Scusami se sembrerò banale ma io ci credo
molto.
Io non sono geloso dei tuoi interessi: calcio,
telefonini e internet ma rivendico il diritto di essere molto più importante
per la tua crescita mentale, etica e soprattutto culturale.
Ma tu lo sai che fatica ho fatto per trovare una casa
editrice disposta a farmi pubblicare? E per giunta ho dovuto pagare una
tangente per far in modo che pochi lettori abbiano il piacere, o almeno spero,
di leggermi.
Per te, e solo per te, mi sono vestito con abiti di lusso:
una bella copertina con figure belle colorate.
Non mi dire che preferisci le ricette di cucina: non
ti vedo preparare manicaretti, con pazienza e dedizione: sei troppo occupato a
cercare armi per il tuo sfogo preferito che è la guerra!
Sogghigni?… Non prendermi in giro alludendo che ti
affascina l’oroscopo: lo so che la tua è tutta una scusa per addebitare il
fallimento della tua esistenza al destino delle stelle e non alla tua
incapacità morale e intellettiva.
Non affermare che preferisci la fantascienza: sei
troppo pragmatico e privo di fantasia, ti crogioli troppo nelle tue assurdità
terrene per affascinarti alla creatività celeste.
Non ti ho mai sorpreso a cercare di varcare lo scoglio
della mente umana per entrare in una bella libreria: ormai, con la tua
presunzione, credi di aver scoperto il mondo schiacciando un semplice tasto al
computer. Ma lo sai che in libreria si trovano persone molto interessanti che
con la loro curiosità e coraggio cercano di cambiare la società e in meglio?
Forse hai ragione che non ci sono riusciti ma è sempre un apprezzabile
tentativo che spero possa stimolare molti giovani nell’avvenire.
Solo una volta ti ho visto in un negozio di libri per
ricchi signori e mi avevi adocchiato, stavi pensando di aggrapparti alla mia
fantastica copertina e sognavi di leggermi mentre sentivi alla radio l’ultimo
successo di Jovanotti ma poi hai scelto di comprarti e costava molto: “La vita
del maiale in terra calabrese”.
Ma perché non mi vuoi apprezzare come merito!
Ti ho offeso con qualche frase che ho detto o qualche
gesto da te interpretato come offensivo? Se mi è successo mi scuso molto:
probabilmente è stata la mia distrazione nel contare le mie pagine: ne ho
troppe! Perché oltre al testo completo, devo numerare anche la prefazione, la
postfazione, la dedica e l’indice. Ma perdonami ancora e ti giuro, anche se un
peccato giurare, che non ho fatto a posta e mi scuso molto ma proprio molto.
Purtroppo, se devo essere onesto, ho sentito altri
miei colleghi che hanno il mio stesso problema: in Italia si legge pochissimo!
Anzi, a tanti di loro è andata pure peggio, sono stati
emarginati in una stanzetta tutta sporca e zeppa di cimici: quando posso li
vado a trovare portandogli un po’ di conforto e sentendo i loro lamenti mi fanno
piangere, credimi, e mi ricordano i brutti manicomi di una volta. I ricordi mi
fanno anche pensare che molti dei miei compagni, nelle varie dittature storiche
e fanatiche espressioni religiose, sono stati arsi vivi: che spaventevole
doloroso supplizio è stata la loro lenta implacabile agonia e che perdita di
tanti amici e anche fraterni è stata per tutta l’umanità.
Forse non ti sono molto simpatico e ti posso anche
capire: molti di noi sono dei barbosi trattati di medicina, di matematica
oppure di culti di fede ma caspita ci sono anche tanti amici per la lettura che
divertono i bambini e che sono molto importati per la nanna dei piccoli; ci
sono, miei stimatissimi alleati, di grandi avventure che fanno compagnia alla
solitudine di tanti anziani.
Non oso annoiarti di più: perché capisco che la tua
giornata è aggravata da scomodi impegni mondani e allora scusa la mia accorata,
angosciosa e supplichevole lettera.
Ma ti volevo annunciare un mio immenso desiderio!
Io ti amo!
LIBER
di Cesare Vergati
Quel cinquenne ancora in
piedi (postura milite a riposo certo il crepuscolo in dissipazione appena
timide luci remoto sguardo assonnato superstite testimone ultime armi) stette
ampia mano aperta la mancina sponda quindi destra sponda mano aperta ampia
propriamente ebbene questa lamina
(antica scrittoria materia) in animo evidentemente
intimo aspetto corteccia vitale intonso stato la forma quando a ricordo bimbo
allora vide padre accanto sì sottili lamine (chissà treenne) l’esiguo ventre asciutto
magro in essenza infine l’esame ricercatore (a microscopio) così puranche fini
sezioni d’oro d’argento l’orefice presso (probabilmente quattrenne)
precisamente (lo seppe) artista da preziosi metalli (e gemme) i gioielli d’orafo
per meraviglia ornamenti quanti umani (sublime ozio al risveglio l’aurora l’esempio)
quando quel cinquenne ancora in piedi osservò attentamente (paterna lezione
imprescindibile a pensiero) e libro tanto sorpreso e medesimo tempo entusiasta
(più oltre comune balocco la felicità rudimentale fanciulli spensierati da qui
a là l’aia coloniale) sentì insofferente il superfluo buccia (i più frutti) e
crosta (pane a sempre per talvolta formaggio) se a mente quel cinquenne ancora
in piedi osò più carezzamenti (l’estasi d’amante audace in percezione furto d’amante
sensazioni) in mentre gli occhi stralunati (accadde infatti al genitore l’ippopotamo
il mangiare quante mele d’un attimo la gola la gelosia insieme lunga attesa il
guardiano inatteso tormentato ritardo) questo fanciullo conobbe senz’altro
fremito quindi piacere eccitati toccamenti nuda natura l’interno d’albero
tuttora come smarrito (il militare denudato gli abituali abiti da guerresca
cerimonia il cieco colpisce e nuvole evanescenti sì cangianti) e nondimeno quel
cinquenne ancora in piedi per angusta incapace quasi coriacea bisaccia (il
tenere in sé poca e poca materia / ebbe difatti a guardare la magnifica
meraviglia il viandante in armacollo il doppio sacco a cercare cibo per ogni
dove per ogni tempo) sicuramente intesa ed estrazione cinque fogli vergini (vergine
cera terreno vergine a memoria) così tuttavia tra denti ferma penna (diceva fiero)
d’oca quando ora questo bambino l’estro presente poeta (a parole prime
verosimilmente a vista giorni andati il padre il più scrivere appunti le
spiegate pagine su ligneo tavolo in atmosfera laboratorio / la gioielleria la
sartoria la pasticceria la madre artista in gusti e culinaria la mineralogia) il
lasciare d’improvviso allora e strumento a forme e concetti da spalancata bocca
(il senso l’urlo la puntura d’insetto insolente) in terra. Quel cinquenne
ancora in piedi in ultimo seduto la roccia a quadrato dura (morbida carne fanciullo)
tanto in industria parole e parole inconfessabilmente fragile vulnerabile a lui
inconsuete saette il caparbio indicibile per cui questo fanciullo pensò l’utile
quante figure il senso da lato scarabocchi (innumeri svolazzi il pigro scolaro
affaccendato le libere fantasie) da altro curiosi bizzarri comunque sottili arzigogoli
l’intento il trovare motivo l’attuale dormiveglia inibito artigiano in forse
come fare d’oca la penna perfino represso impulso creare frammenti disonorevoli
(frusto animo a squarciare delicata ala piuma delicata) impeto a frangente
corteccia e pancia l’amato scrittorio oggetto di sempre così su umida terra di
sempre il cinquenne ancora seduto appena chino (riverente cortigiano il massimo
timore sovrano accigliato a titolo burbero personaggio a sudditi di sempre) delicatamente
deponeva foglio dopo foglio il biancheo loro volto visibile invece le linee orfana
ancora mirabile miscela questa volta in animo nereo almeno rivolo d’inchiostro
l’irrefrenabile desiderio tre vuote pagine loro insoddisfatto rimanere vacue
righe (d’invidia sorelle due già sazie scarabocchi arzigogoli) allora quel
cinquenne ancora seduto abbandonò esitazione come risoluto (il milite stanco oramai
il ritorno in proprio regno sì suo mestiere il campo a semina alberi a frutti
variegati a luci e sapori) afferrò penna d’oca quando a modo irresistibile
volontà il nero su bianco iniziò fantastico viaggio certamente incomprensibili
detti sconclusionati contraddetti l’intento fare piene le pagine tre tuttora
inconcepite sebbene a più sguardi divertito questo bimbo percepì a chiaro
motivo piacevole suo svago tali schizzi d’estro e immaginazione (il pittore stranito
ai colori inadatti lo scultore alle inadatte forme stranito) ebbene tornò la
casa materna paterna i fogli sottobraccio (passeggio d’amici sì spensierato finalmente d’angustia libero il
fine adesso i fratelli a carta distesi (il sorriso gustoso tra labbra birichine)
finalmente ligneo tavolo a cucina spostato sua camera a letto grande vistoso all’occhio
là dove (il senso quotidiano rito) quel cinquenne consapevole inusitata forza parole
e parole decise il tempo a sé davanti andare loro incontro (il crepuscolo in
dissipazione) al risveglio occhi svegli ristorata mente decise il tempo davanti
a sé giorno a giorno mese a mese anni a anni a sapere la corteccia l’intimo suo
l’antica disseccata lamina quindi a tempo manoscritto le tre pagine in caparbia
indole d’insieme per cui questa notte a piena visione il poema a figura onirica
domani presto a scritte parole il crepuscolo incurante.
UNA PARTICOLARE CREMAZIONE
di Danilo Caravà
Eccomi qui, sull’attenti, in attesa che venga il mio turno, stretto, ogni oltre dire, tra chi segue e mi precede. Eccomi qui solo, malgrado, o piuttosto nella costatazione di essere fra altri… Il pensiero fatalmente è attratto da quell’unico buco nero in grado di deviare, di catturare la sua luce… la mente va a quando tutto questo accadde. Io non ero cosciente, e stavo meglio di ora; vi assicuro che gli anni passati forzatamente a meditare mi hanno confortato in questa nichilistica costatazione, più fredda e tagliente di un aforisma di Cioran. Il tempo mi scivolava addosso senza alcun attrito, ero perfettamente, completamente, indifferente del più remoto eone, e del più distante futuro, nel quale l’universo tutto avrebbe potuto disfarsi e farsi, più volte della tela di Penelope. Nessuna nascita, nessuna morte, solo passiva testimonianza oggettuale, condizione invidiabile dalla più alta forma di meditazione spirituale… Invece, a un certo punto, chissà per quale caso, eccomi qui, prima di tutto solo, perché, intendiamoci una volta per tutte, l’autocoscienza è prima di tutto uno stato di cattività, di prigionia, di dolorosa separazione da tutto il resto. Come può non essersi accorto di tutto questo Cartesio? Come non può essersi trovato, a un certo punto, murato, attraverso il muro del cogito? Certo, i primi tempi c’era qualcosa che mi regalava una sorta di… voi come lo chiamate? Brivido, ecco, un brivido… ogni volta che venivo scelto, mi sentivo un po’ come quei ragazzi di vita pasoliniani, che vedono la macchina fuoriserie fermarsi giusto davanti a loro… Ti senti importante, senti quanto quella misera esistenza da handicappato, senza braccia e gambe, possa essere riscattata da uno sguardo, da un’attenzione, da una carezza. Ha qualcosa di meravigliosamente sulfureo, profuma di magnifica dannazione… parlo del fatto di sentirsi desiderati, sentire il fiato della passione altrui che ti si riversa addosso, il piacere di chi usa senza limiti il tuo corpo… Io vivevo, in un certo senso, di quel piacere riflesso, osservavo non con semplice curiosità, bensì con la sadica scientificità dell’amante che scruta, dopo il picco del vostro piacere, la sdrucita vulnerabilità del vostro sguardo, ancora provato da quella dolce morte. Mi hanno usato, certo, sono stato oggetto delle più svariate parafilie, dalle più particolari devianze sessuali, potrei dare molto materiale di lavoro al dottor Freud. Mi hanno riempito di tatuaggi, hanno graffiato lacerato, la mia fragile pelle, e non è che il fatto che non potessi lamentarmi, gridare, significava che apprezzassi ogni volta quello che mi si stava facendo… mi hanno addirittura quasi mutilato, e lasciato a brandelli il mio corpo, abbandonandosi all’arte che il marchese de Sade conosce bene. Mi sono sentito un martire… ecco… è il termine giusto, un martire, un san Sebastiano trafitto dalle frecce del vostro grossolano e distruttivo interesse. Ho persino provato qualcosa di simile all’estasi, arrivando a sfiorare, oserei dire quasi toccare, quel dito del dio michelangiolesco della Cappella Sistina. Ma, al vertice dei lunghi periodi di scoramento, in cui venivo lasciato per ore e ore, per giorni, settimane, mesi, al buio, nella peggiore cella di punizione che possiate mai immaginare, ho bestemmiato ogni possibile divinità, l’ho rinnegata, ho trovato l’insensatezza e l’assurdità come uniche statue votive da adorare. Almeno voi potete piangere… conosco bene le vostre lacrime che, di quando un quando, mi bagnavano la pelle, quella vergogna che sentite, a volte, peggiore del bagnato risultato dei vostri orgasmi, nel mostrare quella condensa dell’anima, quella liquefazione della vostra supposta forza interiore… io non potrò mai piangere, tuttavia ho imparato che si può piangere senza piangere, anche senza lacrime, nello stesso silenzio di un paesaggio che lascia al vento la sua disperata voglia di muoversi… ecco, è arrivato il mio turno…. un attimo è tutto sarà finito, niente più tempo, solo impersonale eternità, di nuovo tutto sarà perché niente sarà… sento già un caldo terribile che mi ustiona, che mi accende ogni lembo di pelle… cerco disperatamente un ultimo pensiero, mentre mi ricordo che qualcuno ha detto che dove si brucia me e i miei simili prima o poi si bruciano gli esseri umani… poi… mi arrendo all’unica frase sensata che può lasciare in eredità un libro che sta per essere incenerito, scontata certo, ma terribilmente necessaria, fine!
FUORI DA UN LIBRO: un “classico” coming out
di Stefano Molinari
Non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato,
e nulla di segreto che non sarà conosciuto.
(Vangelo di Luca, 12, 2)
Uno dei miei primi coming out, particolarmente significativo e memorabile, accadde sul finire della mia adolescenza con il mio professore di greco del liceo.
Nel penultimo anno, alla fine del primo quadrimestre, un po’ di sorpresa mi chiamò per interrogarmi sui lirici. Esitai ad uscire perché non avevo studiato gli ultimi argomenti, non aspettandomi l’interrogazione, ma un sesto senso mi indusse a rischiare (“Magari mi chiede Saffo…”); così presi “Charites” (l’antologia dei lirici greci), la mia sedia (il professore voleva che stessimo seduti durante l’interrogazione) e mi sedetti presso la cattedra, a sinistra del professore. Non chiamò nessun altro, dunque ero solo al suo cospetto. Per fortuna mi chiese proprio Saffo, e l’Ode seconda, quella che conoscevo meglio: l’ode dell’Amore («non della gelosia!» come ribadiva il professore), forse il supremo canto dell’Amore.
Poiché è opportuno riportare questa ode sublime, voglio farlo “personalmente”, con una breve digressione. Circa un quarto di secolo dopo ne feci una traduzione poetica, ispirato da un sorriso di uno dei miei più grandi amori, un giovane di meravigliosa bellezza. Stava uscendo dall’aeroporto di Linate, dove ero andato a incontrarlo, e lo scorsi mentre era ancora un po’ lontano: aveva il sole pomeridiano in faccia, e pareva muovere le labbra, e all’improvviso sorrise radiosamente tra sé e sé, per chissà quale pensiero… E allora io mi rammentai nitidamente la seconda Ode di Saffo, e la sera stessa la tradussi così:
Saffo – Ode II
Mi sembra che sia simile agli Dei
chi ti siede dinanzi, e da vicino
t'ascolta mentre parli amabilmente
raggiante di sorriso.
Ma questo in petto mi percuote il cuore,
perché ogniqualvolta io ti vedo,
anche se per un attimo soltanto,
la voce mi svanisce,
la lingua mi s'inceppa, e un lieve fuoco
sotto la pelle mi s'insinua subito,
i miei occhi non vedono più nulla,
le orecchie sono sorde,
il sudore mi bagna eppure tremo,
il mio colore è verde più dell’erba,
ed ho la sensazione di trovarmi
a un passo dalla morte.
Ma tutto va sopportato, poiché...
Ritornando alla mia adolescenza, la mia interrogazione (va detto che non ero un gran che dal punto di vista del profitto) fu addirittura spettacolare. Dopo aver tradotto e risposto puntualmente alle questioni grammaticali, iniziai a commentare la lirica con sicura sapienza, addentrandomi in varie osservazioni psicologiche e letterarie (citai persino il Cantico dei Cantici – i compagni mormoravano sbalorditi, mentre il professore assentiva energicamente). Quindi l’interrogazione divenne una conversazione, a conclusione della quale il professore, ribadendo l’assoluta femminilità della passione descritta dalla lirica (di una donna per una donna), disse che io non potevo capirla fino in fondo perché ero un uomo.
Circa un anno dopo, che era il mio ultimo anno, verso la fine del primo quadrimestre, il professore durante un intervallo mi chiamò e mi invitò a sedere accanto a lui in fondo alla classe, che in quel momento era vuota, e mi disse che aveva notato un miglioramento nel mio carattere, solitamente introverso, turbato e distaccato… Si era sempre chiesto il perché di una tale inquietudine, che tuttavia adesso pareva alleggerirsi, e questo si notava anche dal rendimento… Allora osai (era il 1971: mica c’erano i Gay Pride…): «Professore, si ricorda un’interrogazione che mi fece l’anno scorso, che andò piuttosto bene, sulla seconda Ode di Saffo?» Il professore annuì prontamente. «E si ricorda che alla fine lei mi disse che io non potevo capire a fondo quel tipo di emozioni perché ero un uomo?» Il professore continuò ad annuire. «Bene: le voglio dire che io le capivo benissimo…» Il professore tacque per qualche secondo, e poi lentamente disse: «Sei l’ultima persona della classe di cui avrei pensato una cosa del genere. Pensavo a un amore infelice…» Parole che mi lasciarono e mi lasciano tuttora perplesso, dato che nella classe non mancavano ragazzi dai modi spavaldi e dall’evidente interesse per le ragazze (tanto che una volta il professore di italiano disse al compagno che era stato appena interrogato: «Ma perché non studi di più invece di fare il “cicisbeo”?»).
Qualche giorno dopo il professore mi telefonò e mi invitò ad andarlo a trovare. Ricordo che era un sabato, e mi recai a casa sua nel tardo pomeriggio, e discorremmo a lungo nel suo studio zeppo di classici greci e latini.
LETTERA D’AMORE
di Danilo Reschigna
Carissimo,
Ma se tu preferisci la fantascienza, l’oroscopo, oppure la cucina: in questo caso dimmelo e non ti disturberò più con le mie continue richieste.
Ti allontani sempre di più lasciandomi solo e alla desolata sconfitta del mio cuore. Ti cerco in continuazione e tu mi sfuggi sempre alludendo al fatto che la vita è corta e sei troppo indaffarato in mille progetti.
Non fare finta di non sapere chi sono io: lo sai perfettamente chi hai di fronte a te!
Io, e soltanto io, sono il tuo libro che racconta la storia dell’uomo: chi non conosce il passato, non potrà capire il presente e riflettere per migliorare il futuro. Scusami se sembrerò banale ma io ci credo molto.
Io non sono geloso dei tuoi interessi: calcio, telefonini e internet ma rivendico il diritto di essere molto più importante per la tua crescita mentale, etica e soprattutto culturale.
Ma tu lo sai che fatica ho fatto per trovare una casa editrice disposta a farmi pubblicare? E per giunta ho dovuto pagare una tangente per far in modo che pochi lettori abbiano il piacere, o almeno spero, di leggermi.
Per te, e solo per te, mi sono vestito con abiti di lusso: una bella copertina con figure belle colorate.
Non mi dire che preferisci le ricette di cucina: non ti vedo preparare manicaretti, con pazienza e dedizione: sei troppo occupato a cercare armi per il tuo sfogo preferito che è la guerra!
Sogghigni?… Non prendermi in giro alludendo che ti affascina l’oroscopo: lo so che la tua è tutta una scusa per addebitare il fallimento della tua esistenza al destino delle stelle e non alla tua incapacità morale e intellettiva.
Non affermare che preferisci la fantascienza: sei troppo pragmatico e privo di fantasia, ti crogioli troppo nelle tue assurdità terrene per affascinarti alla creatività celeste.
Non ti ho mai sorpreso a cercare di varcare lo scoglio della mente umana per entrare in una bella libreria: ormai, con la tua presunzione, credi di aver scoperto il mondo schiacciando un semplice tasto al computer. Ma lo sai che in libreria si trovano persone molto interessanti che con la loro curiosità e coraggio cercano di cambiare la società e in meglio? Forse hai ragione che non ci sono riusciti ma è sempre un apprezzabile tentativo che spero possa stimolare molti giovani nell’avvenire.
Solo una volta ti ho visto in un negozio di libri per ricchi signori e mi avevi adocchiato, stavi pensando di aggrapparti alla mia fantastica copertina e sognavi di leggermi mentre sentivi alla radio l’ultimo successo di Jovanotti ma poi hai scelto di comprarti e costava molto: “La vita del maiale in terra calabrese”.
Ma perché non mi vuoi apprezzare come merito!
Ti ho offeso con qualche frase che ho detto o qualche gesto da te interpretato come offensivo? Se mi è successo mi scuso molto: probabilmente è stata la mia distrazione nel contare le mie pagine: ne ho troppe! Perché oltre al testo completo, devo numerare anche la prefazione, la postfazione, la dedica e l’indice. Ma perdonami ancora e ti giuro, anche se un peccato giurare, che non ho fatto a posta e mi scuso molto ma proprio molto.
Purtroppo, se devo essere onesto, ho sentito altri miei colleghi che hanno il mio stesso problema: in Italia si legge pochissimo!
Anzi, a tanti di loro è andata pure peggio, sono stati emarginati in una stanzetta tutta sporca e zeppa di cimici: quando posso li vado a trovare portandogli un po’ di conforto e sentendo i loro lamenti mi fanno piangere, credimi, e mi ricordano i brutti manicomi di una volta. I ricordi mi fanno anche pensare che molti dei miei compagni, nelle varie dittature storiche e fanatiche espressioni religiose, sono stati arsi vivi: che spaventevole doloroso supplizio è stata la loro lenta implacabile agonia e che perdita di tanti amici e anche fraterni è stata per tutta l’umanità.
Forse non ti sono molto simpatico e ti posso anche capire: molti di noi sono dei barbosi trattati di medicina, di matematica oppure di culti di fede ma caspita ci sono anche tanti amici per la lettura che divertono i bambini e che sono molto importati per la nanna dei piccoli; ci sono, miei stimatissimi alleati, di grandi avventure che fanno compagnia alla solitudine di tanti anziani.
Non oso annoiarti di più: perché capisco che la tua giornata è aggravata da scomodi impegni mondani e allora scusa la mia accorata, angosciosa e supplichevole lettera.
Ma ti volevo annunciare un mio immenso desiderio!
Io ti amo!
LIBER
di Cesare Vergati
Quel cinquenne ancora in piedi (postura milite a riposo certo il crepuscolo in dissipazione appena timide luci remoto sguardo assonnato superstite testimone ultime armi) stette ampia mano aperta la mancina sponda quindi destra sponda mano aperta ampia propriamente ebbene questa lamina
BOOKCROSSING UNCINATO short story
di Fabrizio Sebastian Caleffi
C'è chi insegue un profumo, chi ricerca un colore, chi rincorre
una palla a spicchi arcobaleno e c'è chi trova un sapore: io ho trovato un
libro.
“Heil Heil”
suona più come un coro da stadio che come la mistica invocazione a una rock
star. Del resto, siamo nel mese di marzo del Trentotto, il rock non è ancora
nato e la Coppa Rimet, invece, è già stata e vinta dalla nazionale italiana,
che la riconquisterà per la seconda volta consecutiva tra tre mesi allo stadio
Yves du Manoir di Colombes, presso Parigi, battendo 4 a 2 i magiari caposcuola danubiani.
Fossero intervenuti con le forze ammassate al Brennero, avrebbero respinto
anche i tedeschi, appena entrati trionfalmente a Vienna: “heil heil heil”. Da
un mezzo militare targato WH32230 è sceso il Capo, al culmine della sfilata tra
due ali di folla vociante: “heil heil”. Colmo di una gioia impettita non
disgiunta da una punta di malinconia retrospettiva, il Capo si gode solo a metà
la sua spropositata rivincita, cercando di nascondersi che avrebbe magari
preferito esser celebrato pittore in futuro ricordato campione d'arte degenerata.
Non te la mettono più la Bibbia sul comodino della camera d'albergo...
scattando a passo marziale, il Capo ha intercettato lo sguardo di una
ragazzina, Ilse Paulsen, che agitava freneticamente la sua bandierina uncinata.
Ah, averla modella alle lezioni di nudo e ritrarla, scomponendone gli arti in
volumi e il torace in cubi! Ma l'imbianchino, come lo chiama, sprezzante, un
teppista teatrale che l'ha in antipatia, è diventato il Capo, dopo aver
pubblicato un libro di successo. Gli heil si son taciuti, come quando si sta
per tirare un calcio di rigore. -Mein Kampf- bercia il Capo e gli scherani
schierati in parata tremano: dove trovar seduta stante il gran libro del Capo,
richiesto dall'autore in persona? Hai
adocchiato la bella Bibbia sontuosamente
rilegata su un banchetto di book crossing poco prima di piazza del Popolo e
l'hai ghermita, pensando di ricavarci qualcosa. Poi hai scacciato il pensiero
speculativo: la regalerai a chi ti sta aspettando da Rosati. Se mai ci
arriverai: fin dai Greci in via del Babuino arriva l'eco d'un tumulto.
Facendo scattare un braccio nell'heil più teso che si sia mai
visto e porgendo con l'altro un volume dalla cover gotica, uno spettatore a
tiro di voce s'è avvicinato al Capo, che lo lascia fare, bloccando l'intervento
dei suoi gorilla.
- La Tua Battaglia - gli sussurra il fan col
tono di un cameriere che stia offrendo a un cliente di riguardo una saftige
Forelle, una trota succulenta. - Ein Stift - strepita il Capo. -Una penna, una
penna- ripete il seguito, con la modalità degli infermieri in sala operatoria.
E la penna salta fuori. Ora il Capo vorrebbe scrivere una bella dedica a Ilse
Paulsen e sta per ordinare che gliene declinino le generalità, ma, alzato lo
sguardo sulla folla, si rende conto che la ragazza s'è eclissata con la sua bandierina
e allora “Wie heissen Sie?” lo domanda al fan, pronto a rispondere -Heinrich
von Mayerling - così aggiungendosi al volo sia il von che il ling, che, anni
dopo, il concittadino Wilder userà per il personaggio dell'autista della diva
del muto, l'ex regista von Mayerling, nel suo film “Viale del Tramonto”. E qui,
malgrado l'onniscienza del narratore, tramontano le nostre informazioni sul
Mein Kampf con dedica... e sulle peripezie che l'hanno fatto finire,
occultato nella rilegatura di una Bibbia, sul banchetto di un book crossing
romano. Tu hai cercato di arrivar da Rosati, accodandoti alla marcia di
Roma degli squadristi no vax che sta sconvolgendo la zona. Ma, tra marciatori
disordinati e forze dell'ordine, preso in mezzo, hai dovuto tagliare la corda.
Solo una volta rientrato all'hotel, ti rendi conto che della Bibbia t'è rimasta
solo la copertina. Il contenuto l'hai perduto scappando. E l'ha raccolto un
inquilino di Casa Pound. Il ragazzotto cortocrinuto legge solo alcune key
worlds: una è nome e cognome del Capo in copertina. Porta il trofeo a “casa”,
senza aprirlo. Dove il solo a dargli una guardata è uno strano simpatizzante,
testa da skin con capigliatura punk, vegano devoto alla fiorentina, laziale con
segreta propensione romanista maturata attraverso un vecchio amore nerazzurro
focalizzato su SpecialOne e quindi giallorossizzatosi all'arrivo di Mou alla
guida dei Lupi. Il nostro, che si fa chiamare Aquila, forse in riferimento
all'animale totemico della Lazio, trafuga il Mein Kampf autografato, intenzionato
a svenderlo come un Pinocchio che baratti un libro di scuola con l'ingresso al
circo. Aquila, però, strada facendo, preda di una curiosità anomala nel suo
ambiente abituale, cede alla tentazione di sfogliare il libro al punto di
mettersi a leggerlo. Lo fa sedendosi su una panchina, occupata da un sacco a
pelo che la indica domicilio notturno di un homeless. E su quel giaciglio
Aquila Lupo s'accascia, assumendo la posa di un tossico in viaggio. La sostanza
da lui assunta è la memoria di una giovane olandese che ha perso la vita e
trovato l'eternità in un campo di sterminio, dove incontrò il suo destino e,
forza del destino... osiamo?... oso... sì, osiamo... la coetanea
viennese, destinataria iniziale del dono di un pittore mancato. Qualcuno... no,
non sapremo mai chi... né quando... o perché... qualcuno ha incollato, dopo
il frontespizio, sulle pagine del Mein Kampf le pagine del Diario di Anna. E
Lupo Aquila, leggendone le parole, ha le guance inumidite di pianto. Quella
lacrima sul viso ha spiegato molte cose. Molte. Non tutte.
(10/10/2021)
[Fabrizio Caleffi: Scrittore, Commediografo,
Attore]
IL LIBRO DI KUAN
L'aveva trovato sulla
panchina del parco, dove si recava spesso a praticare il Tai Chi Chuan. Lesse
il titolo. Lo masticò. Aveva osservato con attenzione anche la figura
riportata sulla copertina. Si trattava di una ragazzina che, nei lineamenti del
volto, svelava la purezza della sua età. Rimise il libro al suo posto. Kuan
era arrivato da poco tempo in Italia e non ne comprendeva ancora la lingua.
Giorni dopo, ritornato al parco per i suoi esercizi Tai, non lontano dalla
panchina, si accorse che, in una pozzanghera, tra le foglie imbevute, c'era
anche un libro. Si avvicinò. Lo riconobbe. Lo raccolse. Rimasticò il titolo. Strati
di copertina, tamburellati dalla pioggia delle notti precedenti, si erano
staccati. Del volto della giovinetta, in gran parte cancellato, restavano
residui sparsi nel bianco. Non lo aprì. Lo espose in un punto dove arrivavano
i raggi del sole. Restò a lungo a guardarlo. Decise di portarlo a casa. Intervenne
con dei fogli assorbenti e lasciò che si asciugasse.
Sul tavolo poteva osservarlo meglio. La pioggia aveva cancellato alcune lettere
del titolo, il nome dell'autrice, invece, era rimasto inalterato. Kuan, ogni
giorno, osservava i livelli di asciugatura. Quando, finalmente, aprì il libro,
si accorse che alcune pagine erano incollate. Con molta prudenza, riuscì a
staccarle, salvandone, in parte, il contenuto. In parecchie di esse la
scrittura era stata assorbita dall'acqua, in altre, restavano frammenti o
lettere dell'alfabeto, sparse o consumate. Poche pagine, fedeli alla grafica
originaria, risultavano leggibili. Quel libro, per Kuan, era diventato emblema
di tutti i libri. Gli venne in mente Fahrenheit 451, e, come i personaggi del
romanzo, anche lui cominciò a memorizzare alcuni frammenti. Non conoscendo la
lingua, gli sembrava di entrare in punta di piedi in quell'oggetto, che si
imponeva desertificando ogni logica. Ridisegnò le lettere mancanti del titolo,
inserendole al loro posto. Compiaciuto dell'effetto visivo ottenuto, fece dei
ritocchi anche sull'immagine di copertina. Sulle pagine bianche sovrappose
lettere dell'alfabeto italiano insieme ad altre della sua lingua d'origine.
Kuan ripeteva a voce alta cercando di cogliere il suono di ogni fonema, di ogni
sillaba. Pensieri mormorati, come una preghiera, gli svelavano i segreti della
nuova lingua. Tacque. Un mattino vide una parola vivere.
[Angela Passarello: Poeta]
*
IO SONO HEMINGWAY
Buongiorno, mi presento: sono Ernest Hemingway. Lo scrittore. Un po'
sgualcito, incipriato, ma sempre il vecchio Ernest: l'originale, ve l'assicuro.
Come dice, signora? No, non ho i peli sul petto. Quello con l'Amazzonia sul
petto era il mio avatar. Volete sapere perché avevo un avatar? Perché ero un
fuggitivo. Sì, fuggo da quando sono nato. Ma ora sono stanco. Questo non vi
interessa? Come? Volete un gossip letterario, qualcosa di inedito sul mio
lavoro? Volete sapere come ho scritto i miei quarantanove racconti? Quei
racconti li aveva scritti il mio primo avatar. Storie americane. Io non sono
americano. Quel mio avatar era un tipo ambizioso. Si era messo in testa di fare
lo scrittore per diventare famoso. Me li fece leggere. Per avere un mio parere.
Ero stato allievo di Tolstoj e potevo dargli un parere onesto. Li lessi e
pensai che fossero spazzatura. Proprio così. Ma chissà?! Forse mi sbagliavo.
Era l'unica copia. All'epoca non esistevano i file riproducibili con un click e
non c'erano altre copie di quei racconti in circolazione. Non ricordo nemmeno
se fossero quarantanove o qualcuno in meno. Non importa quanti fossero. Li
buttai. Avete capito bene. Letteralmente li buttai nell'immondizia. O in un
fiume? No, non mi ricordo dove li buttai. Ma non ci sono più. Puff! Spariti.
Ogni tanto me ne pento e vorrei rileggerli. Qualche volta fantastico che non
fossero poi così male, ma che fossi io il retrogrado, quello che non li aveva
capiti. Sogno che fossero troppo moderni per poterli apprezzare. Ma la verità
è che non lo so. Non lo so più. È passato un secolo. Non mi ricordo più
niente e non posso dirvi se ho buttato un capolavoro nell'immondizia o se fosse
spazzatura. Come dite? Volete sapere che cosa è successo dopo? Poi dissi al
mio avatar che li avevo persi. Proprio così. Li avevo messi in una valigia e
li avevo persi in una stazione. Qualcuno mi aveva rubato la valigia. Non potete
nemmeno immaginare la disperazione di quel ragazzo. Per rimediare mi offrii di
riscriverli da capo perché mi ricordavo la trama di tutti i racconti. E quel
che non ricordavo, lo inventavo. Forse ne aggiunsi qualcuno mio, originale,
ispirato alle sue storie americane. Li riscrissi tutti da capo a modo mio:
quarantanove racconti. Non fu un editing o una revisione. Fu la scrittura da
zero di quei racconti sui ricordi di un giovanotto americano. Allora pensavo
che fosse tutta farina del mio sacco. Mi ero ispirato solo alle sue storie, ma
i racconti li avevo scritti io da cima a fondo. Oggi ammetto che senza i
ricordi americani di quel ragazzo di nome Ernest Hemingway, forse quei racconti
non sarebbero stati gli stessi. Io che cosa potevo raccontare ai miei lettori?
La mia fuga precipitosa dal vecchio mondo. Non ero americano. Ero un fuggitivo
e non potevo raccontare la mia vita a nessuno. Così prendevo in prestito le
vite degli altri. L'editore accettò subito i nostri racconti. Ebbero un grande
successo popolare. Fu così che dissi ad Ernest Hemingway: “Ora sei uno
scrittore di successo. Adesso puoi scrivere tutto quello che vuoi ed il
pubblico lo leggerà”. Ma lui non la pensava così. Era felice del successo e
basta. Perché rovinarlo e sprecarlo con i suoi libri? Forse era stata una
fortuna aver perso il suo manoscritto. Non gli interessava più scrivere. Con
la scrittura aveva chiuso. Per sempre. O quasi. Come giornalista forse avrebbe
potuto scrivere ancora qualcosa, ma non più come scrittore. Ora gli
interessava solo essere quello scrittore di successo che si era immaginato. Fu
così che decidemmo che io avrei continuato a scrivere, mentre lui se ne
sarebbe andato in giro per il mondo a raccogliere il mio successo. I diritti
restavano a me: la signora Hemingway. Ma senza il signor Ernest Hemingway quel
successo non sarebbe stato lo stesso. Già! Proprio così. Allora ero giovane e
ritenevo che tutto quel successo fosse unicamente dovuto a me, ai miei scritti.
Ma oggi ho passato il secolo e penso che dopotutto metà di quel successo fosse
dovuto a lui: Ernest Hemingway. A quel suo modo di essere scrittore nel mondo.
Cosa? Volete sapere se ho scritto io “Il Vecchio e il mare”? Certo che l'ho
scritto io. Ero in gita in barca con un paio di miei amici rivoluzionari. Me ne
stavo lì seduto e pescavo. Ad un tratto un grosso Merlin ha abboccato all'amo.
Tirò per ore. Finché alla fine lo liberammo. Quando ci raggiunse la notizia
del Nobel, dissi no. Questa volta non sarebbe andato il mio avatar a ritirarlo.
Se non potevo ritirarlo io, allora non sarebbe andato nessuno. Scrissi un bel
discorso pieno di grandi ideali e glielo feci leggere davanti a me. Lui mentre
lo leggeva era rassegnato. Immagino che gli sarebbe piaciuto molto ritirare quel
premio. Ho perso la memoria delle cose passate, ma a sprazzi mi tornano ancora
in mente quei giorni. Volete sapere come sono finito qui? Non lo so più. Anzi.
Lo so bene, ma è una storia troppo fantasy per essere raccontata da me. Non è
adatta al mio piglio asciutto. La verità è che sono solo. Sì. Solo in un
mondo che non è il mio. Il mio avatar non c'è più da tanto tempo. E con lui
sono morto anch'io come scrittore. Ho provato a rimettere insieme degli appunti
e a far uscire qualcosa di postumo. Ma alla fine ho smesso. Certo. Non ero solo
Hemingway. Ero anche altri scrittori. Quelli hanno continuato a vivere per un
po'. Ma poi con Lady D è finito il Novecento. Ho passato il secolo da un pezzo
e ho visto il nuovo millennio. E ora conto i miei anni al contrario come i
gamberi. Sono sempre stato un tipo curioso. Cerco di essere moderno e curioso a
modo mio, per quel che posso. Quando qualcuno mi parla della Prima guerra
mondiale, posso dire: io c'ero. Se mi parlano della seconda, io c'ero. La
rivoluzione a Cuba me la ricordo. In Vietnam ero sopravvissuto al mio avatar e
anche lì c'ero. Il mio secolo è stato tutto il Novecento, se volete saperlo.
Ed ora siamo qui. Ogni tanto riconosco qualche vecchio amico, vecchio forse
quanto me. La cosa mi fa piacere. Mi fa sentire meno solo. Ma siete venuti
tutti qui per una ragione. Anzi: vi siete tutti connessi oggi per una ragione
ed io con i miei discorsi perdo la ragione. Sono qui per presentarvi il mio
nuovo libro. Volete sapere il titolo? Vi accontento subito: Oltre il tempo. Come me. Per chi si fosse
connesso solo ora a questa video presentazione, io sono Hemingway e questo è
il mio ultimo romanzo: Oltre il tempo.
[Kyara van
Ellinkhuizen: drammaturgo e cineasta]
A FIUTO
Quando ormai in agonia tale
vecchiardo (il tempo quanto moribondo) a esauste forze su impiantito riverso
certo se rovinò le piastrelle per ceramica in veste unica tinta chissà sbiadito
giallo (il simile appassita gerbera fin dentro abito suo sì a croma morto volto
malato genitore perché malefico morbo) ché non ebbe sostegno dove solo la
cucina l’uomo su umido panno tralasciato malandato straccio in abuso mattutino
lavoro pulitore (il labride che accudisce a pulizia pesci altri e maggiori) finalmente
defesso / e tuttora ansimante il capo duramente e battuto come aguzza pietra a
mortifero spigolo lungamente disteso vaso scarlatta pianta cadavere l’aspetto
accanto se in angolo la spalancata porta grande osservò una volta in più (lo stato
quasi il dormiveglia questo infinito tempo presente) ebbene lustra teoria d’avorio
i birilli perfettamente giustapposti (la linea minima schiera i giocatori pronti
all’agone) la domestica gara perché generazioni per ludico certame (a parole
padre solenne e guerriero) una volta in più il vecchiardo osservò se
dormiveglia a sentimento (mancino occhio davvero chiuso al mondo destro occhio
davvero al mondo smarrito) lo sgomento probabilmente (accade ché la caduta turba
invero persino frutto in terra alfine sciupato) così l’agonia in animo in corpo
l’agonia (certo l’affievolimento visibile marasma in decadente lucignolo sfibrato
volto all’oscurità) questo uomo sì morente stremato a vita a vita spossato
nondimeno fece l’atto (il sovrumano sforzo ultimo) lento afferrare l’antico
libro a giallastre pagine malandato in forma e parvenza a lui appena accanto l’idea
primeva ancora in mente ebbene (il ritorno l’infantile evo) irresistibile desiderio
l’annusamento quindi difatti naturalmente (qui sovrumano bisogno) a vista
insanguinata bocca labbra vermiglie a visione tutta serrata l’intento (per l’appunto)
in forte aspirazione il naso tramite l’odore il ventre il prezioso cartaceo
bene materia adesso profumo al morente uomo la testa offesa poggia sottile mantello
rappreso sangue ora il nero quando il buio la notte le intemperie a ricordo
allora ancora adolescente (il magnifico ozio la stagione a sole a mare in
abitudine dispetti e pensieri altisonanti esibizioni e nascondimenti) usò sì
carezzevole l’atto mettere naso in libro gli studi nuovi a suo esclusivo
possesso poi quotidiano inebriamento prima certo delibare parola e parole (la
gioia il gustare poesia il vino schietto) verosimilmente il piacere l’artista l’alta
qualità in lavoro il cesello scalpello a dire a dura pietra figura finalmente
fatta. Il vecchiardo tornò a mente gli attimi (a sapere a breve il decesso) l’emozione
nuovamente l’annusare quando puranche in difetto d’aria (succede indubitabilmente
il minatore il luogo l’operaio in asfissia il panico se invade ineluttabile
inviso eppur immancabilmente presuntuoso) pensò destino eguale fuor d’acqua la
quale tracina sé batte numerose volte coda testa ventre vivido a mostra ( la
meta ritorno a casa ) su scabro in quel mentre superiore ponte lungo l’imbarcazione
veloce certa enorme pesca a festa (quel prossimo convivio artigiani e
cortigiani) così l’occhio spento e mancino l’occhio destro estremamente affaticato
(il dormiveglia il pensiero) provò effimero sguardo il malandato libro ben
serrato mani per ultimo atto (la forza inattesa il moribondo a dire la sua nell’essenziale)
perché tuttora l’annusamento l’estasi tuttora il passeggero sovvenimento l’immagine
i birilli la oblunga forma panciuti (quale il soddisfatto locandiere a fine
pasto fiero la sua cucina a sé lauta cena prima il profondo sonno a rimedio massacrante
opera esaudire desideri e bisogni viandanti e nobili il brevissimo soggiorno
suo ostello) grassi a base a cima magri il sovvenimento passeggero certo se
rovinò le piastrelle per ceramica in veste unica tinta chissà sbiadito giallo (il
simile gerbera appassita fin dentro abito suo sì a croma morto volto malato
genitore perché malefico morbo) ebbene in apparenza instancabile vecchiardo (l’agone
la vita tuttavia la morte comunque) fece segno a sé l’annusare lo sgualcito libro
in animo profumo inebriante sebbene in vestito il poco malandato odore volatile
patina in indole muffa (propriamente l’immagine il micelio per vissuto saprofito
appena evanescente patina il soffice il
velluto) perché infine il vecchiardo il respiro sfinito ancora spasmi d’infanzia
(d’esofago l’allor timore soffocamento l’incubo seppellimento vivo in bara
lignea chiusa a sempre) in preda dunque convulsioni questi il busto
contorcimenti (dolorosissimo calpestamento quando involuto natrice dal collare
a sapere aglifo al morso inoffensivo a corta sosta il suolo bagnato il dopo
magniloquente temporale) tremebonde braccia il maldestro fare naufrago il quale
annaspa senza remore la cerca d’appiglio chissà sperso pezzo il legno
sicuramente galleggiante per cui a fine la vista l’udito a fine le dita in
sensibilità defunta defunto gusto la serrata bocca d’acciaio il parere blocco a
monolito ebbene il capo su aperto libro a grinze il volto a pieghe la carta
elegantemente poggio (l’amante su seno su petto l’amante) a lato mancino
tuttora in animo quel corpo il naso fermo a sembianza la sospensione il respiro
come il volere a sempre quello trattenere senza remore.
[Cesare Vergati: Scrittore Poeta]
Inverno
Salotto Bisutti Solstizio d'inverno e letterati (Zanini è il secondo a sinistra seduto vicino a Marina Corona) |
***
Vecchiaia
I suoi congegni corporei sono da tempo in avaria, ma il vecchio e solitario signor Stovvi convive cordialmente con i tanti acciacchi che lo affliggono, li chiama per nome come fossero dei cuccioli e addirittura gli parla: a uno dice “Vieni qua”, a un altro intima “Non fare i capricci!”, a un altro ancora domanda “Vuoi la pappa?”. Così si animano i giorni del signor Stovvi, che in qualche modo ha rimesso insieme una famigliola, perché la sua da molti anni non c’è più.
Concerto
Oggi l’orchestra “Ad maiora” ha accettato di tenere un concerto di beneficenza nel cortile di una casa di cura riservata a persone con disturbi psichici. Durante l’esecuzione di un brano di Mozart, dolcissimo e - per così dire - aereo, tutti i pazienti, radunatisi sui balconi o affacciatisi alle finestre, hanno però espresso un forte disappunto con grida ostili o facendo boccacce. Di lì a poco si è levato all’improvviso - come talvolta capita in primavera - un gran vento che ha rovesciato i leggii degli orchestrali e disperso qua e à gli spartiti. Siccome questi sono stati recuperati e sistemati in modo frettoloso e caotico, la strumentazione si è quindi tradotta in un gran pasticcio e la musica ha patito mille stridori e dissonanze, ma i ricoverati hanno gradito moltissimo tale metamorfosi, battendo le mani e incitando a gran voce tutti gli interpreti.
Caspar David F. Viandante su mare di nebbia |