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NOTE

CORELLI IL SUBLIME
di Giovanni Battista Columbro
 


Corelli in un dipinto

Arcangelo Corelli: uno tra i più importanti violinisti di ogni tempo, il compositore che formò il gusto del tonalismo europeo. Un carme anacreontico del conte Venerosi, settecentesco nobiluomo pisano, lo pone nientemeno al di sopra di Orfeo:
 
Con buona pace
del terren trace:
s’ei fosse nato
d’Orfeo ne’ tempi
più segnalati esempi
avrebbe dato…
 
Nonostante all’epoca la musica fosse sovente considerata un semplice “accessorio”, Corelli nel 1706 ebbe il privilegio di entrare a far parte della celebre Accademia d’Arcadia romana col nome di Arcomelo Erimenteo a fianco di Bernardo Pasquini (Protico) ed Alessandro Scarlatti (Terprando).
Nato nel 1653 a Fusignano di Romagna, non lontano da Lugo, allora nello Stato Pontificio, Corelli ben presto si trasferì a Roma (la sua presenza nella capitale è attestata dal 1675) dove risiedevano molti mecenati tra cui la regina Cristina di Svezia e il cardinale Benedetto Pamphilij, responsabile dell’Archivio Segreto Vaticano, particolarmente impegnato a promuovere la cultura del suo tempo. Tra i suoi protetti figurava anche G.F. Haendel, per il quale il cardinale fu autore nel 1707 del libretto dell’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno.  Alle sue dipendenze v’erano celebri virtuosi ai quali ben presto si aggiunse Arcangelo Corelli, il cui nome fu spesso affiancato al violinista Matteo Fornari e al violoncellista Giovanni Lorenzo Lulier.
Quando il cardinale Pamphilij si trasferì a Bologna come legato pontificio, i tre musicisti passarono alle dipendenze del cardinale Ottoboni, altro indiscusso promotore delle muse nella Roma di Innocenzo XI, al secolo Benedetto Odescalchi, ricordato come il “Papa minga”.
Corelli morì a Roma l’8 gennaio del 1713 e fu sepolto nel Pantheon accanto a due straordinari pittori italiani, Annibale Carracci e Raffaello Sanzio. Qui il cardinale Ottoboni gli fece erigere un monumento funebre su progetto del celebre architetto Filippo Juvarra. Da quel momento il Pantheon divenne luogo privilegiato per l’esecuzione della musica corelliana ad opera dei suoi allievi. Nel lascito testamentario del compositore figurano numerosi violini e, essendo il nostro un appassionato collezionista di quadri, ben 140 tele, alcune di grande valore, come un dipinto di Brueghel destinato al cardinale Colonna, altro suo protettore. Il testamento olografo, redatto tre giorni prima della morte, è oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Roma.


Corelli

L’arte di Corelli fu caratterizzata da una lucida e incessante ricerca di pulitura, di bilanciamento stilistico, di simmetria delle frasi melodiche al punto che i suoi lavori furono assunti a modello di nitore formale da molti compositori coevi e non solo. I suoi discepoli diretti ed indiretti, quali P. Castrucci, A. Mascitti, F. Geminiani, G.B. Somis, P. A. Locatelli, G. Visconti, A. Bonporti, M. Fornari, F. Gasparini, F.M. Veracini, (per limitarci ai soli italiani), ebbero in lui una fonte inesauribile di vitale autorità strumentale, un magistero mai più eguagliato. E proprio per aver raggiunto nell’ambito del sistema modale settecentesco maggiore/minore l’apice di equilibrio tra polifonia e tonalità in un contrappunto su solide basi tonali, oggi Corelli è universalmente riconosciuto maestro tra i maestri, come già il suo editore veneziano Zatta lo aveva definito.
Non solo, Corelli diede uno straordinario impulso alla forma della sonata con la pubblicazione, tra il 1681 e il 1700, di cinque raccolte di sonate da chiesa e da camera, in cui seppe esaustivamente declinare le potenzialità strumentali degli archi, in particolare del violino suo strumento di elezione.
Nel suo complesso il corpus corelliano esprime una sublime semplicità, senza nulla concedere ad estrosi e plateali virtuosismi; la tessitura dei violini si mantiene in una gamma limitata e solo casualmente vengono impiegati nei registri acuti.
La sua ultima opera, la Sesta, pubblicata ad Amsterdam nel 1714 sotto l’attenta cura dell’allievo Matteo Fornari e dedicata al principe elettore Wilhelm von der Pfalz, è senza timor di smentita l’opera più sontuosa di Corelli: i dodici concerti che la compongono mostrano per intero tutta la sapienza compositiva del fusignanese in quanto summa dell’intero materiale armonico, tecnico e melodico della sua attività trentennale.
A testimonianza dell’incanto compositivo corelliano, l’opera Sesta ebbe un enorme successo. Nella prefazione alla ristampa dei Concerti Grossi per i tipi Peters (Lipsia 1937) a firma di Waldemar Wohel si legge: “Quando i Concerti grossi di Arcangelo Corelli furono eseguiti per la prima volta a Londra, ebbero un tale successo di pubblico che gli esecutori si videro costretti ad eseguirli tutti di seguito dal primo al dodicesimo”.
Ancora oggi la musica di Corelli mantiene la sua valenza per quella perfezione che conferisce semplicità alla complessità e che non cessa di destare meraviglia in chi sa guardare con i giusti occhi. Così il cantautore Franco Battiato nella sua canzone Inneres auge:
 
Ma quando ritorno in me
Sulla mia via a leggere e studiare
Ascoltando i grandi del passato
Mi basta una sonata di Corelli
Perché mi meravigli del creato.

 

L’opera Sesta di Corelli si propone quale «quintessenza di una ben altrimenti fluida e ricca prassi orchestrale» come riporta il musicologo C. Fertonani nella Enciclopedia della Musica edita da Einaudi nel 2006.  Essa consta di otto concerti ‘da chiesa’ con scrittura più contrappuntistica e con fugati manifesti e quattro concerti ‘da camera’ con preludi e movimenti di danza, anche se la differenza a volte sfugge sia al compositore che all’esecutore.
Singolari furono le trascrizioni di J. C. Schickardt per due flauti dolci e basso continuo, di T. Billington per organo o pianoforte ed altre ancora; non dimentichiamo a latere l’indiscutibile discendenza dalla celebre opera Quinta di Corelli dei Concerti Grossi di Geminiani e neppure la “dichiarazione d’amore” di Haendel nei suoi Concerti Grossi del 1739.
Sulla scorta delle numerose trascrizioni nel tempo di quest’ ultima opera corelliana ha avuto origine la versione di questa nostra registrazione che propone una scelta di sei dei dodici concerti originari. 
In questa nostra nuova proposta l’organico si allarga dai soli archi agli strumenti a fiato. Tale presenza non deve apparire straniante ma filologica, in quanto grazie a vari studi e ricerche è ormai comprovato che le orchestre corelliane prevedessero una cospicua presenza di fiati.
Georg Muffat, che conobbe Corelli, nei suoi trattati ha descritto l’assoluta variabilità esecutiva delle opere corelliane, avallata oggi dai più recenti studi di F. Piperno e già nel Settecento dal Crescimbeni nelle sue Notizie Istoriche degli Arcadi morti: […] in tal copioso numero e varietà di strumenti […] massimamente nell’accordo di quei da fiato con quei da arco, che bene spesso eccedevano in numero di cento.”
Al contrario di altre trascrizioni la nostra versione lascia intatte le tonalità originali e affida sovente ai due Traversieri il ruolo originariamente affidato ai due Violini solisti, secondo la prassi assai comune nelle prime decadi del Settecento di affidare ad un flauto le parti di violino: ampia testimonianza si trova nelle opere di G. P. Telemann, P. A. Locatelli, J. M. Leclair, J.S. Bach.
Nel Saggio per ben suonare il flauto traverso Antonio Lorenzoni invitava ad eseguire con lo strumento musica di Corelli ed in Francia verso gli anni ’30 del Settecento si stamparono espressamente per il flauto Traversiere sei Sonate della celeberrima opera Quinta.


L'Orchestra Barocca di Cremona

L’organico da noi scelto prevede un Concertino formato da due Traversieri (a volte dialoganti con i due primi violini) Violoncello e Tiorba, nel Concerto Grosso si aggiungono due violini di ripieno, una viola, un fagotto, un violone, un clavicembalo e un’arpa.
Per ciò che concerne l’utilizzo del materiale sonoro abbiamo apportato piccole modifiche melodiche che, senza intaccare in alcun modo la struttura originale dell’intera opera, si sono rese necessarie per la tecnica digitale dei due solisti principali, ovvero i flauti, ma sempre nel rispetto della prassi storica.
La ripresa dei vari da capo con moderate ornamentazioni affidate prevalentemente ai due Traversieri afferisce alla prassi dal tardo Seicento italiano secondo cui, d’altra parte, non sono da considerarsi ornamentazioni i numerosi trilli, le appoggiature, i gruppetti, mordenti e flattement che normalmente vengono eseguiti in estemporanea sulla base dei trattati e dell’esperienza esecutiva perché non presenti sulle partiture.
Concludendo ci piace pensare che la severa ombra di Corelli abbia aleggiato sulla nostra registrazione indicandoci affetti, fraseggi e agogica per meglio far apprezzare all’ascolto lo splendore e l’aureo chiarore delle sue note.
 
 

La copertina del Cd


Arcangelo Corelli  
Concerti Grossi Op. VI
Edizioni Discografiche Urania Records
Trascrizioni e concertazione Giovanni Battista Columbro
Esecuzione con strumenti d’epoca
Registrazione effettuata a Cremona in Palazzo Pallavicino
dal 17 al 19 ottobre 2019
Orchestra Barocca di Cremona
direttore G. B. Columbro

 

 


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PER VIOLA SOLA
di Simone Libralon*
 
Richard Strauss
“Morte e Trasfigurazione” Op. 24 di Richard Strauss è un brano che da subito mi ha affascinato per la sua incredibile bellezza.
Le intuizioni melodiche dell’autore sono a mio avviso assolutamente geniali e colpiscono per la costante attualità.
Nel corso della vita ogni persona inevitabilmente si confronta con il tema della morte e, conseguentemente, con il senso della vita provando un intenso insieme di emozioni spesso anche contrastanti.
Strauss con “Tod und Verklärung” ci cala magistralmente in questa atmosfera colmando di profondissima speranza le nostre visioni.
Parlando esplicitamente della morte di un artista, il poema sinfonico si riferisce infatti ad una poesia di Alexander Ritter, è grandissima anche la visione che ci suggerisce nei confronti della vita: ambire sempre ai supremi ideali, a quella perfezione dell’anima che trascende l’uomo e si realizza solo nello spazio eterno.

Simone Libralon

Mosso da questo sentire ho subito fatto mia questa composizione, tenendomela sempre accanto, tra quelle a me più care.
In modo assolutamente naturale ha preso poi forma il desiderio di condividere la grandezza di questo pensiero, ed è così che è nata la mia versione per viola sola di “Tod und Verklärung” dedicata ad Alessandra Di Stefano e che ha visto la sua prima esecuzione lo scorso 8 febbraio 2020 presso il Santuario di San Giuseppe di Milano.

Raffaello
"Studio per una trasfigurazione" 

Il compito di un artista deve essere sempre volto a comunicare con la società con l’obiettivo di stimolare le anime alla bellezza e al forte sentire.
La mia essenza risponde a pieno a questa vocazione, il mio mezzo è la musica e il mio strumento la viola. Dalla inevitabile necessità di assolvere a tale compito, dopo aver tenuto numerosi concerti per viola sola e aver esplorato il repertorio tradizionale in lungo e in largo, è sorta in me l’esigenza di riferirmi direttamente anche alle opere destinate ad altri organici, per divenire io stesso veicolo della loro bellezza e raggiungere così quegli ambienti che privilegiano un contatto più intimo tra arte e pubblico.
In quest’ottica ho scritto anche un Melologo per viola sola e voce recitante dedicato al Don Chisciotte di Cervantes, su musica di Richard Strauss, una Suite per viola sola che calca il Rigoletto di Giuseppe Verdi e alcune ouverture di Verdi e Rossini.
Tanti altri progetti sono già in cantiere!

Nota biografica

Simone Libralon

*Professore d’orchestra de “LaVerdi”, orchestra sinfonica di Milano, Simone Libralon si è diplomato con lode studiando in Italia e Germania.Oltre all’attività orchestrale tiene regolarmente recital per viola sola. Solisticamente si è esibito per numerosi festival e rassegne sia in Italia che all’estero e sono diverse le occasioni in cui il repertorio solistico è stato affiancato ad altre discipline artistiche come pittura, fotografia, poesia o ad altre tematiche di chiaro interesse culturale. Ha suonato per il Comune di Milano, il FAI, “Lunchtime Recitals” di Londra e il “Miami Music Festival” solo per citarne alcuni. All’interno del vasto repertorio che spazia dalle origini ai giorni nostri è di particolare rilievo l’esecuzione integrale delle Suite e delle Sonate e Partite di J. S. Bach e delle Suite di B. Britten nella versione per viola. Cameristicamente vanta collaborazioni con l’affermato Apollon Musagete Quartett, i Solisti de LaVerdi, Domenico Nordio e il pianista Alessandro Commellato. Negli anni di formazione è stato concertino delle viole dell’Orchestra Giovanile Italiana, prima viola del Miami Music Festival e ha collaborato con diverse orchestre tra cui i Nürnberger Symphoniker e l’Orchestra Cherubini diretta da Riccardo Muti. L’esperienza orchestrale svolta gli ha permesso di suonare per alcuni tra i più importanti festival internazionali come i Proms della BBC, il Salzburger Festspiele, il Festival MiTo, le Settimane Musicali di Stresa, il Festival dei due Mondi di Spoleto e le Serate Musicali di Milano, di lavorare con musicisti di grande fama come Riccardo Muti, Anne Sophie Mutter, Lang Lang e di esibirsi in molti tra i teatri più significativi di Cina, Giappone, Emirati Arabi, Spagna, Slovenia, Inghilterra, Austria, Italia e Germania. Si è perfezionato con Simonide Braconi, Jurij Bashmet e Kim Kashkashian.
  
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La Traviata alla Scala
di Gabriele Scaramuzza


La Traviata finalmente! mi è venuto spontaneo dirmi qualche giorno fa, dopo aver assistito a una (per me) convincente rappresentazione di quest’opera struggente. Con questa edizione la Scala (che verrà replicata fino al marzo di quest’anno, 2019) si è quanto meno riscattata da edizioni senza nerbo, anestetizzate, dominanti negli ultimi anni: se ne usciva (quanto meno io ne uscivo) con irritazione, con sconforto.   
“Struggente”, ho scritto; e tale quest’opera resta malgrado il consumo del tempo. Non si vede perché l’essere l’opera più rappresentata al mondo (così si dice) ne debba inficiare il valore. Allo stesso modo, che sia stata amata da Lenin (come ho letto) non ne intacca il significato; in diverso contesto la passione di Hitler per Wagner non può valere come svalorizzazione del Ring. Un nostro contemporaneo, Rainer Werner Fassbinder, dichiara di nutrire per La Traviata un “amore incondizionato e senza riserve”; dopo quest’opera, scrive, “non ci sarebbe più bisogno di altre opere d’arte, perché non è possibile farne una più perfetta: La Traviata è il massimo che la cultura occidentale possa offrire”. Non è così, naturalmente; altre opere, di Verdi e non, non sono da meno. E ciononostante il giudizio di questo grande regista è degno di considerazione. Non è un’opera solo romanticamente commovente, La Traviata, confinata tra i miti stantii del XIX Secolo. In essa l’amore non può esser ridotto a quell’“archetipo della sentimentalità piccolo-borghese”, in cui Roland Barthes relega La dame aux Camélias di Dumas nei suoi “Miti d’oggi” (trad. di Lidia Lonzi, Milano, Lerici, 1962, p. 164). La Traviata ha un’intensità esistenziale, uno spessore etico, di denuncia sociale, irriducibile a forme di mero sentimentalismo; per questo conserva una sua attualità (come ha sostenuto Gaia Varon nella sua recente presentazione dell’opera al Ridotto della Scala) - per questo viene tuttora ascoltata e amata. Neppure è un’opera “d’occasione”, che solo mette abilmente a frutto un episodio di cronaca, pur famoso a metà dell’Ottocento. Allo stesso modo, su diverso piano, non si può ridurre Aida a un rito per l’inaugurazione del canale di Suez (cosa che peraltro neppure è stata): ha una valenza che (piaccia o non piaccia) va ben oltre questo. Un’ultima notazione generale: in Traviata Verdi gioca se stesso sul piano dell’intensa melodicità e del ritmo vivo che scandisce la vicenda. Le stesse danze non hanno alcun senso esornativo o di mera piacevolezza: fanno parte a pieno diritto del dramma, ne risaltano il senso vissuto. Manca qui lo spessore armonico che caratterizza tanti altri musicisti, Wagner in testa, certo. Ma perché questo dovrebbe sminuirne il valore? Come mi scrive Tiziana Canfori, “Verdi e Wagner lavorano con strumenti diversi, per un pubblico diverso e immersi in cultura diversa. Soprattutto sono entrambi, a modo loro, grandi drammaturghi: qui forse si giocano le differenze più stimolanti”.     
  
Ma torniamo all’attuale edizione dell’opera. La ripresa della “vecchia” (del 1990, ma più volte ripresa, quanto meno fino al 2008) regia di Liliana Cavani (con le scene e i costumi del caso) mi è parsa opportuna. Soprattutto ha fatto dimenticare la regia di Tcherniakov: l’edizione con cui la Scala ha inaugurato la stagione 2013-2014 è stata un vero oltraggio all’opera, bisogna veramente non amarla per ridurla in quel modo. Allora si era in epoca Lissner, direttore musicale era il pur eccelso (ma non certo in ambito verdiano) Barenboim; entrambi (così mi è parso) erano “orientati”, diciamo, dall’antiverdismo drastico di Pierre Boulez. Interprete principale era la pur brava (ma non nel ruolo di Violetta) Diana Damrau; lo stesso direttore Daniele Gatti non ha dato allora il meglio di sé. Ho apprezzato dunque l’odierna Traviata scaligera. Da spettatore digiuno di specifiche competenze tecniche, e ciononostante appassionato, non posso che registrare qui le impressioni e i ripensamenti che l’ascolto ha indotto in me. In primo luogo, si sono rispettate le scansioni temporali del dramma: è un merito non da poco non aver interrotto l’opera con un intervallo unico, nel bel mezzo del secondo atto (come si è fatto nelle ultime edizioni scaligere). Dalla fine del primo atto al secondo passano tre mesi; il secondo atto consta di due parti contigue (mattina e sera dello stesso giorno); passa un tempo non breve tra il secondo e il terzo atto. Questo va rispettato, ha un senso teatrale imprescindibile; come noto Verdi stesso afferma di essere “un uomo di teatro”, e lo era – oltre ad essere insieme musicista a pieno titolo. La direzione è stata affidata alla bacchetta di Myung-Whun Chung: lieve, rispettosa dei pianissimi verdiani, mai sopra le righe, straordinaria nel cogliere le atmosfere musicali. Non certo inferiore ad altre direzioni cui ho assistito dal vivo: quella di Carlo Maria Giulini alla Scala, innanzitutto, nel febbraio del 1956, con Maria Callas e la regia di Luchino Visconti. Ancora alla Scala ricordo (dopo la discussa riedizione di Karajan e Zeffirelli nel 1964, che non ho visto) la nota ripresa nel 1990 di Riccardo Muti. La Traviata l’ho poi rivista (nella prima versione, contestata alle Fenice il 6 marzo del 1853) diretta di Lorin Maazel, che inaugurava la rinata Fenice nell’autunno del 2004 (con Patrizia Ciofi e la regia di Robert Carsen): un’edizione, questa, senz’altro migliore di quella scaligera successiva diretta dallo stesso Maazel. Non dimentico infine la direzione di Yuri Temirkanov di La Traviata al Teatro Regio di Parma nell’autunno del 2007. Lascio invece da parte le direzioni che ho sentito solo in cd: di Toscanini, di Carlos Kleiber, di altri grandi direttori quali Karajan, Prêtre, Monteux, Pritchard...   
   
Tornando alla Scala, all’altezza dell’opera mi sono parsi i cantanti: da Marina Rebeka a Francesco Meli, buona l’interpretazione di Leo Nucci, malgrado l’età. A proposito del ruolo da lui impersonato, non mi è parso improprio che sia stata tralasciata l’insipida cabaletta di Germont alla fine della prima parte del secondo atto. Vengo infine a toccare in momenti comunque significativi dell’opera: questa rappresentazione li ha resi bene, comunque mi ha aiutato a ripensarli. Il Preludio al primo atto presenta e in certo modo sintetizza a ritroso i nuclei fondamentali dell’opera: la morte, il tema di un amore osteggiato non solo oggettivamente, dall’esterno, dalla società borghese simbolizzata dalla festa (riecheggiante nel ritmo di danza che accompagna il primo apparire del tema dell’amore), ma anche soggettivamente, dal passato di vita libera di Violetta (simbolizzato dai frivoli arzigogoli che si sovrappongono al secondo risuonare del tema dell’amore). Le danze che pervadono l’opera, ripeto, non hanno alcun sapore meramente edonistico, “culinario” si sarebbe detto un tempo: sinuosamente seguono la vicenda, ne sono intimamente parte, la gioia che procurano è intrisa del dolore di ciò che accompagnano, e dell’attesa amara di quanto seguirà. La conflittualità interna a Violetta è benissimo espressa. Nel monologo finale del primo atto essa esplode, tra attrazione per un “serio amore” e le remore interiori che la dissuadono; la sua personalità è complessa, duplice quanto meno: è donna che desidera riscattarsi nell’amore, ma anche ha nostalgia della gioia di vivere; il suo addio al passato è presumibilmente nostalgia di, e congedo da, entrambe le cose. Tengo presenti qui le belle pagine di Emilio Sala, soprattutto la “Coda”, di Il valzer della camelie. Echi di Parigi nella Traviata (Torino, EDT, 2008).  


Nel secondo atto il celebre dialogo Germont-Violetta, punto centrale dell’opera; da sempre pone interrogativi cruciali circa il comportamento dei due interlocutori, e di Violetta in primis; dunque circa l’intero andamento della vicenda. Qui ricorro a Gaia Varon, che mi ha fornito una chiave plausibile per intendere il “cedimento” di Violetta e l’atteggiamento di Germont: non è il gioco tanto il contrasto tra una vittima e un ottuso oppressore, quanto un mondo di cui entrambi sono insieme vittime e complici. In misura ben diversa ovviamente: Violetta è vittima dell’ambiente sociale, ma soprattutto del suo esser donna in esso (Gaia Varon riprende criticamente il testo di Catherine Clément, L'opera lirica o la disfatte delle donne, tradotto da noi da Marsilio nel 1979, con introduzione di Giorgio Strehler); non le viene riconosciuto neppure il diritto di denunciare il torto subito - così come fino a non molto tempo fa alle donne era inibito il diritto di denunciare le violenze di cui sono state oggetto. Germont è attivamente complice (a proprio vantaggio) dei tragici pregiudizi della società in cui vive; e tuttavia, già nel dialogo, affiora in lui una sua certa partecipazione al dolore di Violetta. Questo spiega anche l’abbraccio in cui si scioglie il dialogo; abbraccio che suscita perplessità, ma coinvolge entrambi. Solo superficialmente viene considerato da Luigi Baldacci il vero momento di prostituzione di Violetta, un suo cedimento morale di fronte a un verdetto che cancella ogni sua ragione di vivere - una riprovevole rinuncia, a maggior gloria di Germont, la celebrazione del suo trionfo insomma. I due protagonisti partecipano a un clima etico-sociale che li accomuna malgrado tutto; entrambi ne sono segnati. L’individuazione del momento in cui, e del motivo per cui, Violetta “cede”, certo si può individuare già nella sua risposta a Germont dopo Un dì quando le veneri. Ma c’è una sorta di complicità (sbilanciata peraltro) tra i due interlocutori, e penalizza entrambi: sconfitti in realtà sono entrambi sia pur in modi diversi. L’apertura di Germont verso Violetta viene di fatto da lui stesso repressa; ma questo accade perché anche egli stesso è sottoposto ai condizionamenti che agiscono nell’intera vicenda: “maschio per obbligo” era dopotutto anche Germont.


Questo spiega anche il suo riapparire verso la fine del secondo atto a rimproverare (solo moralisticamente? non direi) il figlio dopo l’affronto pubblico di Alfredo a Violetta; ma anche spiega il suo riapparire pentito, da “mal cauto vegliardo”, verso la fine del terzo atto. Anche se qui, bisogna pur dire, l’agonia di Violetta rende tutto più semplice: riconoscimenti e riconciliazioni non costano più nulla a nessuno, e non hanno conseguenze. Se non, se mai, nella scrittura di Dumas, romanzo e dramma.    
E per concludere: dopo ogni ascolto resta viva (e non solo per me) la domanda - cui in questo caso (grazie a Chung) darei una risposta positiva - se la rappresentazione non soffochi quell’unità di senso che attribuiamo a Traviata, e che per me è costituita dalla tinta utopica che la pervade tutta. E ne è latrice in primo luogo la musica.
C’è un’utopia, o forse più d’una, che sostiene l’opera intera, e ne esprime il valore per noi: l’utopia di una guarigione (“Parigi o cara…”), l’utopia della realizzazione di “un serio amore” (così si esprime Violetta) in una società che lo accolga, soprattutto l’utopia di un’umanità animata da insopprimibili valori etici. Quest’utopia si fa critica della società in cui si consuma l’amore di Violetta; è intensamente espressa in particolare nel canto di Violetta, ma percorre l’intera vicenda. Da simili accenti utopici è permeata - quanto meno alle mie orecchie - la voce di Maria Callas, ne è simbolo il suo timbro.
  
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IL LIBRO DI MATTIOLI SU VERDI
di Gabriele Scaramuzza

La copertina del libro

Verso Verdi nutro da sempre un esplicito trasporto (pur sapendo quel che vi è di imbarazzante in talune sue opere) e, come già mi è capitato di sottolineare, i motivi di questo sono estetico-esistenziali, hanno radici nella vita che mi ha cresciuto. Per questo ho avverto l’antiverdismo, che neppure oggi manca, e non di rado si colora di un vero e proprio disprezzo per Verdi, non solo come ostile a un lato della mia persona, ma come una forma di mancata presa, quando non di intolleranza, verso gli strati dell’esistere, comunque storicamente rilevanti e insurrogabili, cui Verdi dà espressione.
Più in generale, non ho mai vissuto l’apprezzamento di un’opera d’arte come un fatto di privata congruenza, né di specifica adeguatezza culturale, men che meno di semplice gradevolezza. Questo tuttavia, certo, non lo affermerei solo in riferimento a Verdi; vale per tutta l’arte che ho amato e amo. E arriva fino a Fin de partie di Kurtág, che di recente ho visto e ascoltato con profonda partecipazione alla Scala. Fermo restando che non hanno per nulla inficiato la mia affezione per Verdi l’amore per la Messa in si minore di Bach, per la Sinfonia in sol minore di Mozart, per la Settima di Beethoven, per Das Lied von der Erde, per Wozzeck, per L’histoire du soldat o per Webern; ma anche alcune mie recenti simpatie ad esempio per Gérard Grisey (in particolare per Les Espaces Acoustiques e per Le Noir de l’ Ètoile), sempre volendo sommariamente esemplificare.          
Da verdiano convinto, cerco sempre di leggere tutto quanto riguarda Verdi. Sono dunque stato subito attratto dal titolo del libro di Alberto Mattioli e l’ho subito acquistato. Mi sembra, e lo è, una giusta valorizzazione di Verdi (“abbiamo bisogno di Verdi, oggi più che mai”, leggiamo fin sulla quarta di copertina) in tempi in cui, checché se ne dica, i detrattori d Verdi non mancano. Già l’origine del titolo è di per sé stimolante: “Su una cabina elettrica di Milano, vicino alla Scala, un writer di genio, Frode, aveva graffittato la faccia del maestro ripresa dal ritratto di Boldini […], ma dipinta di verde, come se fosse un marziano. Lo slogan accanto era geniale: - grigi + Verdi”. La scritta è stata poi coperta, chissà da chi e perché, ma ora rivive nel titolo scelto da Mattioli.
Mi ha però in un primo tempo lasciato perplesso il sottotitolo, che mi pareva riduttivo, quasi volesse rinchiudere questo grande musicista e uomo di teatro in un ambito troppo angusto. Lo stesso rischio era stato peraltro corso anche da Riccardo Muti e Armando Torno in Verdi, l'italiano. Ovvero, in musica, le nostre radici. I miei sostetti sono tuttavia risultati in parte infondati. E non solo perché Mattioli rivendica giustamente l’universalità di Verdi; ma soprattutto perché del tutto sensato, anzi imprescindibile, è il rivendicare le radici da cui Verdi trae alimento, pur non restandovi prigioniero. La “comprensione” di qualsiasi persona o di un evento - e che reclamiamo anche per noi stessi - trae linfa dalla presa di coscienza delle radici in cui la nostra, come ogni esperienza, affonda.   


Giuseppe Verdi

L’angolatura da cui Mattioli guarda Verdi, non nuovissima di per sé, è tuttora fertile, ben oltre il rilievo (eccessivo comunque talvolta a mio avviso) dato all’“italianità”, passata ma anche presente. Tale punto di vista permette comunque di leggere con giusta misura e con occhi disincantati tratti verdiani spesso a torto troppo accentuati, o maltrattati.
Esemplificando, encomiabili sono la contestazione della favola ricorrente per cui Aida sarebbe stata creata per l’apertura del canale di Suez, la critica della “grottesca” (come scrive Mattioli, giustamente) regia di Zeffirelli alla Scala e di altre regie non meno impresentabili; contestualmente viene anche criticata, e a ragione, l’accentuazione di un “intimismo” certo da non sottovalutare, tuttavia da vedere nella sua relazione con gli aspetti pubblici, spettacolari, di Aida.
Ho apprezzato poi il rilievo dell’ambivalenza dei noti versi dedicati da D’Annunzio a Verdi (comunque assai scipiti). Così ho apprezzato l’attenzione dedicata a Stiffelio, opera assai significativa, per solito trascurata. Da non trascurare poi è il rilievo della storicità del canto. Misurata è la contestualizzazione della nota lettera in cui Verdi rivendica il “brutto” di Lady Macbeth a scapito del bel canto, o comunque l’espressività dell’interpretazione rispetto al valore di per sé delle voci.
A proposito di Il Trovatore segnalo: “La sua modernità innovatrice non attiene né agli argomenti trattati né a un rinnovamento della forma musicale. È tutta nella drammaturgia, nel modo di raccontare”. Nelle pagine su La Traviata benvenuto è il rilievo dato a Il valzer delle camelie di Emilio Sala; concordo poi con le parole verso la fine per cui “la forza di quest’opera è tale da elevarla a exemplum morale e a darle un significato profondamente religioso e cristiano”.
Mattioli dedica spazio e giustamente, a Un ballo in maschera, La forza del destino, Don Carlo, e ovviamente poi a Otello e Falstaff. Stupisce però non abbia trattato allo stesso modo Simon Boccanegra: presente, è vero, quanto meno verso la fine del capitolo terzo, dedicato al Verdi politico; ma cui poi non è dedicato alcuno spazio autonomo. Ed è l’opera di Verdi che ascolto oggi con più partecipazione.    
Encomiabile è poi l’invito a “togliere Verdi dalla teca e metterlo in rapporto col nostro mondo”, a ridargli il suo posto nella nostra coscienza - altrimenti non si capirebbe perché Verdi continui a vivere tra noi, che ancora lo ascoltiamo e andiamo a vederlo. Del tutto condivisibile infine è la notazione per cui l’opera da noi (e massimamente Verdi dunque) racchiude in sé anche “una specie di utopia, non solo culturale ma anche sociale”.

Alberto Mattioli
Meno grigi più Verdi.
Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani
Garzanti ed. 2018
Pag. 163, € 16
   
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Francesco Maria Zuccari
Un pregiatissimo compositore francescano del Settecento.
di Giovanni Battista Columbro 

La copertina del Cd

L’ordine francescano ha da sempre riservato somma attenzione alla cultura, sia essa scienza  o arte, ma da sempre riconosce all’arte musicale un ruolo privilegiato.
Presso la Sacra Basilica di Assisi, retta dai francescani minori conventuali (OFM conv.), vi sono documenti ufficiali a testimonianza di una regolare attività di insegnamento e pratica musicale già dalla fine del Quattrocento, il cui testimone, almeno sino all’epoca romantica, non è mai passato in mani estranee all’ordine.
E’ venuta così a crearsi una tradizione apprezzata da nobili e regnanti, durata fino alle soglie del XIX secolo che vanta un nutrito numero di musicisti, tutelata a partire dal 23 aprile 1703 da un decreto che interdiva ai maestri di cappella l’attività al di fuori dell’ordine.  Il paziente lavoro di riscoperta dei compositori italiani dimenticati, avviato nell’ultimo scorcio del XX secolo, ci sta a poco a poco restituendo molte pagine e numerosi nomi di musicisti italiani - non pochi vestivano l’abito francescano - che nulla hanno da invidiare a quella sparuta rosa di musicisti del Gotha della storia della musica che li ha oscurati. Troppo spesso, purtroppo,  l’esterofilia ci distrae dalle eccellenze di casa nostra.
Il fecondo e apprezzato maestro di cappella Francesco Maria Zuccari apparteneva all’ordine dei minori conventuali e la sua lunga attività influenzò quasi un intero secolo di musica.
Nacque alla fine del Seicento a Dosolo, in provincia di Mantova,  posto nel comprensorio di Viadana città natia del celebre compositore francescano dei Concerti  Ecclesiastici, Ludovico Grossi, e di altri eccellenti compositori sconosciuti ai più: Giacomo Moro,  Orfeo Avosani, Berardo Marchesi e Giacomo Antonio Arighi, allievo del celebre  padre G.B. Martini. Furono molti i musicisti della famiglia e tra i più importanti ricordiamo un maestro di cappella di nome Carlo Zuccari sovrintendente alla musica a Mantova prima dell’arrivo di Antonio Vivaldi, ed altri maestri quali  Giovanni, Taddeo, Carlo Francesco.
A completamento dell’elenco dei musicisti a nome Zuccari è qui doveroso ricordare il celebre Carlo Zuccari, nato nel 1704 a Casalmaggiore a poche miglia da Viadana imparentato con il ramo dosolese. Fu eccellente violinista nella Milano dei Lumi, maestro di Pietro Verri e primo violino dell’orchestra di G.B. Sammartini e, neanche a dirlo, in rapporti epistolari con il dotto padre Martini. Se la famiglia Bach in Germania e la famiglia Couperin in Francia furono autentiche dinastie musicali, l’Italia non fu da meno potendo vantare, oltre alla famiglia Zuccari, le eccellenti dinastie degli Scarlatti e dei Puccini (e.g.), testimonianza del mestiere tramandato di padre in figlio.

Ritratto di Francesco Maria Zuccari
  
Nel quadro generale delle realtà musicali della penisola in cui operano i musicisti dell’epoca, Venezia, Roma e Napoli, l’ambiente più conservatore è senza dubbio Roma, dove l’esercizio di un diretto controllo sulle maggiori cappelle musicali da parte della corte pontificia fa sì che permanga netta la distinzione tra musica sacra e musica mondana. Un piccolo segnale ufficiale di apertura da parte della corte pontificia a questo riguardo si ha nel 1749 con l’enciclica Annus qui del 19 febbraio, con la quale Benedetto XIV consente l’uso di alcuni strumenti nelle chiese.
Lontano da Roma B. Galuppi, maestro di cappella in San Marco, disponeva di un organico  con 24 cantori, 12 violini, 6 viole, 5 violoni, 4 violoncelli, 2 oboi, 2 flauti, 2 corni, 2 trombe.
Nella basilica del Santo, a Padova, in quegli stessi anni v’era un organico di 14 cantori, 2 organisti (Francesco Maria  Zuccari qualche anno prima aveva ricoperto in basilica il ruolo di primo organista), 8 violini (primo violino G. Tartini), 4 viole, 2 violoncelli (primo violoncello Antonio Vandini), 2 violoni, 1 tromba, 2 corni da caccia, 1 oboe, un organaro e un alzafolli, il responsabile degli organi. Nel 1768 in basilica fu costruito perfino un quarto organo collaudato dal giovane Andrea Luchesi (che divenne qualche anno dopo Kapellmeister a Bonn ed effettivo maestro di L. van Beethoven, anche se i testi di storia della musica non lo riportano). Nella basilica del Santo le presenze dei musici erano evidenti. Nel Capitolario degli obblighi dei Musici della basilica, redatto nel 1753, sono riportati tutti gli impegni: circa 170 giorni all’anno per i cantanti, 150 per gli organisti e il primo violone, almeno un centinaio per gli strumentisti, al netto di prove e  straordinari.
Maestro di cappella della basilica padovana era in quegli anni era l’apprezzato padre  F. A. Vallotti.
La fama di Vallotti come compositore era assai diffusa - godette dell’apprezzamento anche del re di Prussia Federico II, eccellente dilettante di musica- tanto che a Vienna ancora nei primi decenni dell’Ottocento si eseguivano regolarmente i suoi Responsori per la Settimana Santa. Innegabile, anche se mai argomentata nei manuali, l’influenza della musica vallottiana e più ampiamente veneta sui compositori a lui coevi soprattutto di area austro-germanica. Il Vallotti, più del suo confratello bolognese Martini e come il nostro Zuccari, era versato nello stile moderno. L’ambiente padovano, con la presenza di insigni matematici e teorici quali i conti Riccati, fu sicuramente un punto di riferimento cui guardarono numerosi musicisti d’oltralpe, alcuni dei quali ebbero il privilegio di frequentare lo studio del maestro di cappella della Basilica del Santo.
Pierfrancesco Tosi nel suo celebre trattato sul canto distingueva tre modi di cantare: “Per le Arie per il Teatro lo stile era vago, e misto: Per la Camera miniato, e finito: E per la Chiesa affettuoso e grave. Questa differenza a moltissimi Moderni è ignota”.
Padre Francesco Maria ben padroneggiava lo stile affettuoso e grave, ma fece di più, riuscì come il Vallotti nel difficile intento di amalgamare i vari stili coniugandoli alla sfera degli affetti, con risultati sempre originali e di grande impatto emotivo grazie alla sua viva fonte melodica, come si può chiaramente evincere dalle sue stesse pagine.
Le sue  composizioni, oltre quattrocento, sono quasi tutte conservate presso la biblioteca del Sacro Convento. Altre si trovano nella biblioteca diocesana di Ortona, nell’abbazia benedettina di Metten in Baviera ed almeno una dozzina nella collezione dell’abate musicista Fortunato Santini presso la Diözesanbibliothek di Münster.
Tutte le composizioni (Messe, Salmi, Mottetti) mostrano l’inderogabile presenza del basso continuo declinato nei suoi vari usi, dal mero accompagnamento, all’armonizzazione, al chiaro orientamento estetico. La sua perizia gli consentì di padroneggiare il contrappunto, il suo strumento e il movimento delle parti come enunciava Agostino Agazzari nel suo “Del suonare sopra’l basso con tutti li strumenti”.  Un tempo la pratica era tutt’uno con la personale cultura musicale, bagaglio indispensabile  per ogni musicista.
La Messa in Do minore a 5 voci, registrata per la Urania Records con la preziosa collaborazione di ottimi solisti e un eccellente coro genovese in prima mondiale assoluta, si trova in questo inestimabile Fondo ed ebbe una prima stesura ad Assisi  nel 1723, quando Zuccari svolgeva il ruolo di maestro di cappella, ed una seconda versione con strumenti nel 1745, quando il musicista era primo organista al Santo, ma da quell’anno presumibilmente non fu  mai più eseguita.

Coro "Il Concento" (Sez. Contralti)

I manoscritti non contengono errori, tranne alcune imperfezioni, e non presentano problemi di interpretazione, perfetta è la concatenazione delle parti e l’attenzione alla numerica del basso continuo è a dir poco meticolosa, essendo segnati non solo tutti i numeri dell’accordo pertinente, ma anche quelli delle note di passaggio con le relative alterazioni indifferentemente anteposte o posposte alla numerica stessa.
Il nitore formale dei due lavori è palese. Tutte le progressioni sono dotate di pregevole vis melodica e le modulazioni guidano la melodia in modo corretto, le parti degli archi poi sono ben scritte a degno coronamento della parte vocale, anche se non di facile esecuzione soprattutto nella Messa, ma all’epoca l’orchestra della basilica padovana era assai rinomata e guidata da G. Tartini. I momenti corali, degni di grande pathos e di notevole spessore vocale, hanno considerevole impatto sonoro, i solisti intervengono con pregevoli e solari arie (soli, duetti e trii) di notevole  italianità.  
Nella sua Arte pratica di contrappunto padre G. Paolucci (anche lui minore conventuale come il nostro Zuccari, F.A. Vallotti e G.B. Martini) riporta che in Italia esistevano tre diversi coristi, il lombardo era il più alto, il romano il più basso e tra loro differivano di una terza minore, il corista veneziano si trovava in mezzo ai due. Anche oltralpe la situazione non era diversa come riporta P. Lichtenthal nel suo Dizionario stampato a Milano agli inizi del XIX secolo. Oggi gli strumenti moderni ci hanno abituato ad una accordatura equabile, che erroneamente chiamiamo temperamento equabile, ma nel XVIII secolo vigeva l’inequabilità. Ne è prova, almeno in Veneto, lo scambio epistolare tra padre Vallotti e il conte Giordano Riccati che attraversa molti lustri. Una lettera del 1751 del maestro di cappella del Santo al conte trevigiano riporta: “[…] anche il signor Tartini è persuaso che la quinta G# - D# non cresca di un intero coma; debbo ora aggiungere che ne ha fatto in appresso lo sperimento sul violino, e si  trova che una quinta crescente per un coma è intollerabile ad un orecchio purgato”.
Nel capitolo IV del suo Saggio sopra le leggi del contrappunto” pubblicato nel 1762 G. Riccati affronta in modo chiaro i temi dell’espressione in musica e dell’accordatura: “Fatta la riflessione […]nacque in mente de’ Musici meno periti l’idea di dividere l’Ottava stessa in 12 semituoni […] La vista sarebbe accettabile in grazia della semplicità, ma vi ripugna l’orecchio, il quale giudica troppo imperfetto il temperamento abbracciato dal Sistema generale di 12 Semituoni”. E’ pertanto indubbio che i 12 semitoni degli strumenti moderni siano del tutto inadeguati all’esecuzione di una pagina settecentesca, tanto più se si considera che ancora nella prima metà dell’Ottocento M. Clementi, L. van Beethoven e F. Chopin erano in disaccordo circa l'eventuale introduzione dell'equalizzazione nella prassi musicale a loro coeva.

Orchestra Barocca di Cremona

Nella registrazione si è utilizzata un’accordatura vallottiana che privilegia l’uso dei bemolli e modera l’intervallo di quinta mostrando così maggior precisione nell’intervallo di terza.
Purtroppo dobbiamo rammaricarci del fatto che la conoscenza dell’accordatura del passato spesso non trovi ancora posto nel bagaglio culturale del musicista moderno.


[Il compact disc della Messa in Do minore di F. M. Zuccari è disponibile sul sito dell’editore Urania Records (www.uraniarecords.com), sul sito del distributore Ducale (www.ducalemusic.it), Amazon o Feltrinelli.]


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Elogio della musica italiana del Settecento,
il secolo che ha saputo narrare in musica
di Giovanni Battista Columbro



Il patrimonio musicale oggi conosciuto è innegabilmente vasto, ma non è nulla se paragonato all’incommensurabile materiale inesplorato che a tutt’oggi giace nelle biblioteche e negli archivi italiani in primis ed europei in generale, cui va aggiunto il cospicuo patrimonio di biblioteche e fondi privati. In mezzo a questo oceano di note manoscritte spesso si celano veri e propri capolavori profani ed ancor più sacri,  pagine di alto valore spirituale, apologetico e di indubbio nitore formale, dove la melodia spesso gareggia in bellezza con i testi e le armonie seguono con straordinari simbolismi le pieghe della narrazione poetica.
La musica è strumento della storia sociale dell’umanità, è arte che non ha bisogno di traduttori perché come la preghiera parla direttamente al cuore, senza filtro alcuno.
La riscoperta della musica del passato negli ultimi decenni sta impegnando ricercatori, storici, filologi, musicisti, liutai, matematici, sociologi, filosofi, letterati e musicologi e, seppur lentamente, si stanno colmando le enormi lacune della storia della musica tout court.
Se per ovvi motivi politici e più ampiamente storici i mostri sacri della Wiener Klassik (Haydn e Mozart) hanno oscurato completamente i molti musicisti italiani coevi,  gli studi più recenti stanno facendo riaffiorare non solo un ambiente italiano di indubbia qualità, ma vere e proprie scuole che nulla hanno da invidiare ai musicisti d’oltralpe. Non dimentichiamo che dall’inizio del Settecento ai primi anni dell’Ottocento tutte le corti europee si fregiavano di ospitare musicisti italiani cui conferivano ruoli di assoluto prestigio.


Mi occupo di riscoperte musicali da quasi trent’anni e ogni mia riproposta è sempre suffragata da un’attenta valutazione e posso affermare che le musiche riportate in vita di A. Scarlatti, N. Porpora, G. Sarti, A. Luchesi, G. Paisiello, F. Bianchi, G. Bertoni, A. Tarchi (solo per citarne alcuni) sono la prova tangibile di come spesso la musica italiana costituì il retroterra, l’humus stesso di molta musica d’oltralpe. Perché non ne siamo consapevoli?
La risposta è semplice e immediata: gran parte di questa musica giace inesplorata e ineseguita negli archivi. Interessante sarebbe invece l’indagine sui motivi che ne hanno provocato l’oblio e su quelli che a tutt’oggi ostacolano, e talvolta addirittura vanificano, lo sforzo che con grande sacrificio, spesso tutto personale e con ardire, alcuni studiosi operano nel campo della riscoperta musicale. Ma questo mi indurrebbe ad una lunga digressione non scevra di toni polemici qui del tutto inopportuni che mi prometto di riproporre a breve. L’unico punto su cui oggi vorrei invogliare ad una riflessione è il seguente: perché nel campo della letteratura o delle arti figurative è ormai irrinunciabile il teorema della corretta valutazione di un’opera solo sulla base di un accurato studio del contesto storico sociale e culturale che l’ha prodotta, mentre troppo spesso tale teorema non viene applicato nel campo della riscoperta musicale? Trovo del tutto errato e assolutamente fuorviante l’approccio ad un’opera del passato sulla base di un bagaglio culturale ad essa posteriore e magari da essa stessa ingenerato. Questo argomento mi riporta sulla via maestra.


François Couperin (celebre musicista francese del XVIII secolo) recitava: “Dato che v’è una grande distanza tra la Grammatica e la Declamazione esiste un infinito tra lo scrivere musica e suonarla”. Nell’eseguire una pagina del Settecento, particolare terra di demarcazione tra due esperienze quali il Barocco e il Romanticismo, non è possibile infatti limitarsi ad una mera esecuzione di ciò che sta scritto. Se è vero che da un lato i compositori del passato hanno usato un linguaggio che può essere compreso attraverso uno studio umanistico-filologico, dall’altro è inimmaginabile pensare oggi di avvicinarsi a loro ed alla loro musica senza considerarne l’aspetto più strettamente scientifico, anzi dovrebbe essere il nostro precipuo modo di  agire. Capire in che modo e soprattutto i contesti nei quali la musica prendeva vita, anche dal punto di vista tecnico, abbisogna assolutamente non solo di un animo emancipato da preconcetti e dogmi, ma altresì di volontà e capacità di modificare di volta in volta la propria veste conoscitivo-esecutiva. Compito tutt’altro che facile, visto che la nostra cultura è intrisa di modelli romantici e romantico è il preponderante e trasversale modello esecutivo che privilegia l’estro soggettivo a tutto discapito di un’esecuzione più “fondata” (spesso purtroppo penalizzata oltre che per le ragione testé addotte anche perché affidata ad estemporanei esecutori filologici).
Sono molti i fattori indispensabili per un corretto approccio a pagine di musica del passato: l’uso di partiture originali, i trattati dell’epoca, i frontespizi delle opere musicali stesse, le dediche dei compositori e più ampiamente le cronache del tempo, le fonti d’archivio, le iconografie, l’uso degli strumenti originali nonché la conoscenza organologica degli stessi e delle relative accordature, i documenti di natura amministrativa ed epistolare e quant’altro. 
Imprescindibile è d’altra parte la conoscenza della, o più correttamente, delle prassi esecutive, ovvero di tutto quel complesso di regole vocali e strumentali privo di codificazione grafica, differente per ambito geografico e storico.
Chi esegue quindi musica del Settecento senza badare alla prassi e quindi senza una vera consapevolezza non solo crea un anacronismo musicale, ma non onora affatto il compositore, tradisce nell’essenza il suo tempo e la sua musica: sarebbe come se un pittore intervenisse su una tela antica apportando sue modifiche o interpretazioni. Molte personalità del XVIII secolo quali Werckmeister, Rameau, de Brossard, padre Martini, padre Vallotti, Riccati, Engramelle, Tartini, Mattheson, Fux hanno prodotto tutto il processo chiarificatore della  concezione scientifica (neo-pitagorica) del tempo, ovvero i trattati di musica, ma il loro profuso  impegno viene totalmente vanificato se il musicista odierno al momento dell’esecuzione (e dello studio) non affianca i loro principi.
Non solo, dopo molti anni dedicati alla riscoperta sono giunto alla convinzione che l’unico modo per capire la musica del Settecento passi inevitabilmente attraverso  la conoscenza diretta della musica italiana nella sua veste europea: solo una profonda conoscenza della musica italiana e della sua reale portata storica può restituire alla prassi esecutiva settecentesca la sua possibile realizzazione odierna.
Dalla penisola iberica a San Pietroburgo la musica che si produceva in Europa era principalmente  quella dei maestri dei Conservatori napoletani o degli Ospedali veneziani propiziata dalle numerose relazioni sociali, contorno indispensabile della vita pubblica e condicio sine qua non anche nella vita privata.


Mai un secolo come il Settecento ha saputo narrare in musica e la ricerca su questo periodo dovrebbe essere un capitolo sempre aperto a nuove scoperte, ad approfondimenti e soprattutto a ripensamenti. Purtroppo i pur numerosi testi sulla musica del periodo anziché allargare il campo di indagine e quindi procedere, per dirla come un noto ricercatore odierno, “per superamento di errori temporaneamente presi per verità” che è l’imput stesso di tutta la ricerca scientifica, si sono spesso ingenerati l’uno dall’altro dispensandosi dalla ricerca diretta. Sarebbe pure auspicabile una maggiore e più stretta collaborazione tra musicisti, storici, studiosi di composizione e musicologi: le molte “verità”, tutt’altro che scevre di aneddoti dai toni apologetici e spesso privi di fondamento, si sgretolerebbero anche solo sulla base del semplice buon senso.
Forse non sono in molti a sapere che il cavallo di Troja non era un cavallo bensì una nave fenicia; che W. Shakespeare non scrisse tutte le opere a lui tradizionalmente attribuite  (Lo studioso Henry James definì il divino Wilhelm la più grande e più riuscita frode che si sia mai stata realizzata nei confronti di un mondo paziente); i fratelli Lumière non furono gli inventori del proiettore cinematografico; che Einstein a scuola era tutt’altro che incapace; …che il giorno del funerale di W.A. Mozart, nel dicembre 1791, a Vienna non pioveva affatto, anzi splendeva il sole.
Mark Twain diceva: una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità sta ancora mettendo le scarpe. 

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MUSICA. IL GENIO ITALIANO IN EUROPA
Andrea Luchesi e i grandi maestri italiani
di Giovanni Battista Columbro


Giovanni Battista Columbro

Il prof. Luigi della Croce, decano della musicologia internazionale, in un simposio a Berlino di alcuni anni fa individuò in Andrea Luchesi, nato nel 1741 a Motta di Livenza e morto a Bonn nel 1801, il vero maestro di Beethoven; oggi è ai più completamente sconosciuto. Nel 1771 il maestro italiano fu invitato a Bonn dal Principe Arcivescovo Max Friedrich per riorganizzare l’orchestra del principato e grazie alle sue capacità gli venne conferita la prestigiosa carica di Kapellmeister a vita del principato, come riportano i Calendari di corte. Ebbe tra i numerosi allievi Ludwig van Beethoven, i fratelli Romberg e Anton Rejcha, futuro  maestro a Parigi di Hector Berlioz e Franz Liszt. Se oggi  la figura di Luchesi sta piano piano riacquistando il giusto rilievo nella storia della musica, lo dobbiamo innanzi tutto al grande intuito e alle approfondite ricerche del prof. Giorgio Taboga che, seppur osteggiato dagli apparati accademici, ha per primo indagato sulla vita del compositore e messo in luce i suoi rapporti con i musicisti coevi della Wiener Klassik. Non è dato oggi sapere il motivo per cui  il nome del compositore veneto, ancora presente  nelle varie edizioni musicali del primo Novecento (L. F. Schiedermair e F. Abbiati), sia stato espunto nelle successive riedizioni delle stesse. Attualmente la diffusione ed esecuzione monopolistica delle musiche dei compositori appartenenti alla  Wiener Klassik -Haydn, Mozart e Beethoven- ha del tutto oscurato, o meglio falsato, un dato storico incontrovertibile: la musica di G.B. Sammartini, maestro di cappella a Milano, di D. Fischietti a Salisburgo, di P.A. Guglielmi a Dresda, di M. Boroni a Stoccarda, di G. Paisiello e G. Sarti a San Pietroburgo, di N. Piccinni, F. Bianchi, A. Tarchi  a Parigi, di L. Boccherini a Madrid, di A. Salieri a Vienna, di M. Clementi a Londra e di Andrea Luchesi a Bonn, solo per citarne alcuni, scandivano le mode musicali all’intera Europa e i musicisti di lingua tedesca erano in toto debitori nei confronti di questa infinita schiera di italiani che costellava l’intera Europa. Forse il loro debito è ancora più consistente: non esistendo all’epoca il diritto d’autore, la musica veniva spesso venduta e acquistata, in alcuni casi con tanto di atto notarile. Il nuovo acquirente poteva quindi intestarla a sé o, per i motivi più diversi, ad altri compositori impiegati presso ricchi e nobili signori o addirittura corti. Il venditore era ovviamente vincolato al silenzio. Va qui detto che all’epoca il musicista/compositore, per quanto talentuoso, era a tutti gli effetti un ‘dipendente’, un salariato che sedeva a tavola con i servitori (nulla a che vedere con la nostra idea romantica del ‘genio’) e che   per una nobile famiglia, e ancor più per una corte, la musica era uno dei  più importanti mezzi per affermare il proprio prestigio. 

Andrea Luchesi

In seguito la formidabile editoria d’oltralpe dell’ Ottocento, in veste imperial-sciovinistica (l’Austria e il mondo germanico hanno dominato culturalmente l’Europa per tutto l’Ottocento,  la visione germano centrica dell’intera Europa perdura ancora oggi) diffuse capillarmente composizioni esclusivamente ‘a firma’ di musicisti tedeschi (F.J. Haydn, W.A. Mozart e.g.) e le incisioni discografiche del XX secolo della Deutsche Grammophon hanno poi definitivamente sancito l’appartenenza di un’opera a un determinato autore.È ormai risaputo che lo stesso e pluricelebrato Requiem mozartiano (KV 626) non è stato composto del salisburghese se non  in piccola parte, eppure ancora oggi viene attribuito unicamente a Mozart. Questo vale anche per altri lavori a lui intestati: il celebre tema dell’Ouverture del Flauto magico risulta plagiato dalla sonata in Sib maggiore n. 2 op. 24 di M. Clementi; la Sinfonia n. 37 K444 è di Michael Haydn; le parti staccate della celebre sinfonia Jupiter conservate nell’archivio di Bonn recano la data 1784 ben quattro anni prima di quella, identica, composta da Mozart. Ci siamo mai chiesti perché il genio di Salisburgo pur girando in lungo e in largo l’intera Europa agognando un posto di maestro di cappella e nonostante un agguerrito impresario personale quale fu il padre Leopold, non sia mai riuscito nell’intento? Eppure, per le ragioni prima dette, i compositori di talento ‘andavano a ruba’. Ci siamo mai chiesti perché per l’inaugurazione del Teatro alla Scala del 1778 non fu scelto il giovane Mozart che aveva già composto per il Regio Teatro Ducale di  Milano Mitridate re di Ponto e Lucio Silla? Perché la gestazione delle trilogia italiana che vede la collaborazione con Da Ponte presenta ampie zone d’ombra, non ultimo il fatto che  lo stesso abate, grafomane qual era, nei primi anni dell’Ottocento liquidi in poche righe quella che agli occhi di tutti dovrebbe apparire come la collaborazione più importante  della sua vita? Lo stesso Casanova nella sua dettagliata biografia non cita il celeberrimo Amadè, nonostante avesse collaborato con lui a Praga nell’apportare qualche variante al libretto del Don Giovanni attribuito all’epoca a Da Ponte, ma che  era già stato messo in scena otto mesi prima da Bertati e Gazzaniga a Venezia? Può un musicista comporre quasi settecento composizioni in trent’anni di vita trascorsi in viaggi inevitabilmente lunghi e ‘traballanti’ perché in carrozza (certamente inconciliabili con l’attività di scrittura entro righi musicali) sale da gioco e trastulli vari, sempre a corto di denaro? 


G. B. Sammartini

Del tutto simili le vicende di  F. J. Haydn. Come riporta il Carpani  ne “Le Haydine”,  il compositore ebbe in G.B. Sammartini un ottimo ‘fornitore’.  Il banchiere milanese Castelli, su commissione del principe Estherazy acquistò negli anni dal maestro milanese quasi 1000 composizioni… se consideriamo che Haydn,  all’epoca maestro di cappella del principe, godeva di ben scarsa considerazione non solo da parte del suo stesso maestro, Nicola Porpora, ma persino da parte del suo allievo (per breve tempo)  Beethoven e ancor più del principe Max Franz figlio di Maria Teresa d’Austria e che il ‘divino boemo’ Josef Myslivecek dopo aver ascoltato nel 1780 a Milano alcune sinfonie di Sammartini esclamò: “Ho trovato il padre delle sinfonie di Haydn”, possiamo ben capire a cosa alludesse l’affermazione del Carpani. Sono convinto che una nuova e più attenta lettura dei fatti ci restituirebbe un Mozart eccellente e precoce esecutore, come ben riportano le cronache dell’epoca, e non genio compositore riconducibile anacronisticamente all’ideale romantico oppure, rimanendo sempre in ambito tedesco, si conferirebbe giusta dignità a Michael Haydn, fratello del più popolare Franz Joseph ma a lui superiore per doti musicali, o ancora si  restituirebbe il giusto ruolo storico al grande  Salieri, per cinquant’anni maestro di cappella imperiale, e ad una lunga schiera di compositori italiani defraudati anche del merito di essere i veri antesignani della forma del quartetto.
 … Il compositore del celeberrimo inno nazionale francese? 
Il violinista italiano Giovan Battista Viotti.