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IL PANE E LE ROSE

La biblioteca fantastica di Adamo Calabrese


Illustrazione di Adamo Calabrese









Sulle umbracule, amorose e irridenti
di Claudio Zanini
Mariano Bargellini

L’enigma dei pettirossi che, simili a migliaia di fiammelle arancioni sui teloni azzurri dei TIR nella luce dell’alba, migrano clandestini sul traghetto da Olbia a Livorno, appare come uno dei tanti rebus, arcani, indovinelli, nonsense, in cui ci si imbatte (da cui si è irretiti) nel romanzo La setta degli Uccelli. Non solo si tratta d’un testo che spicca per la ricchezza lessicale, i diversi registri di scrittura e il ritmo del linguaggio - qualità rarissime e inconsuete nel panorama letterario contemporaneo in Italia -; oltre a queste qualità, già peraltro note nella scrittura di Mariano Bargellini, il “romanzo” è ricco di invenzioni sorprendenti.
Ho trovato, per fare un esempio, assai ironica e divertente (direi addirittura comica, di una comicità surreale e, in certi casi disperata: Buster Keaton, Totò, Vladimiro ed Estragone beckettiani...) la messa in scena di vari personaggi e situazioni. Sembrano tutti incalzati, primo fra tutti lo Scriba della Torre, da una realtà che sfugge, che si sdoppia, si moltiplica nelle fisionomie degli innumerevoli sosia e nelle apparizioni degli uccelli, (umbracule: uccelli con cui siamo virtualmente “maritati”, nostre anime aeree e segrete); gli uccelli, dunque, gente piccola e canora (echeggiando Pascoli, così li chiama lo Scriba), abitatrice anch'essa di mondi paralleli, insieme remoti e assai prossimi, da cui allestiscono e inviano segni, enigmi ornitologici, rebus la cui soluzione è spesso sibillina e, soprattutto, mai univoca.

Cito due episodi che mi sembrano paradigmatici. Il primo: sogno in cui lo Scriba vede l’amata Albertine – donna Anima - seduta sopra un masso; sembra che lui possa avvicinarsi, ma lei è stranamente lontana e, per quanti sforzi faccia, Albertine è irraggiungibile. Poi, all’improvviso, egli, con una sorta di balzo, la sorpassa, sfiorandola. Sequenza struggente, da film comico e da ossessione onirica.
Nel secondo, si descrive la luna che, appena fuori da quel teatro che è la Torre avvolta nei grandi fogli di plastica, si affaccia da una cornice di nuvole facendosi pericolosamente avanti, tanto avanti che i nembi in cui è avvolta sembrano assestarsi dietro di lei. Scena da teatro barocco o da film (di Méliès?).
Non a caso ho parlato di cinema. Osservava Carmelo Bene, parlando di Joyce in un’interessante intervista, quanto il suo linguaggio sia incredibilmente visivo, (fisico, empirico) non tanto letterario quanto filmico, fatto di costanti folgorazioni visive di “cose”.
Anche qui, a me pare accada lo stesso. La narrazione è satura di “cose” (parole) che incalzano, urgono, lampeggiano, interrogano e si sovrappongono. Il testo si snoda procedendo impervio e accidentato, affollato da luminosi incagli, osservazioni, “materiali verbali”, ecc., tali da suscitare nel lettore (o nell’ascoltatore della narrazione orale) un continuo susseguirsi d’immagini e concrete illuminazioni, impaginate in lunghi piani sequenza. 
Oltremodo intriganti, a mio avviso, i capitoli dedicati alle due fanciulle/uccello – entrambe ambigue condomine della Torre -, per via di una tensione erotica che, naturalmente, viene condotta fino all’insostenibile apice, sfociando in esiti sorprendenti, ma tutto sommato inconsciamente cercati dall’augure della Torre, dal devolaturo o come dir di voglia. Anch’egli forse anelerebbe a una metamorfosi uccellesca? Non sarà certo un caso se la sua dimora esagonale è infoderata nella plastica con le sei immagini smisurate di un gufo e una civetta (umiliati ad apparire quali testimonial d’un famoso marchio).
La squamosa Roberta, dalle natiche d’alluminio – creatura mitica e cyber, nello stesso tempo - e la punk Duda, abbordate consenzienti per via dell’incontenibile ninfolessia dello Scriba, non lo conducono fino alle soglie dell’anelata trasformazione, all’ambìto commercio con gli uccelli? e lì, frustrato, lo lasciano, irridendolo (beh, gli uccelli ci canzonano, ci beffano, ci fischiano, lo dice lo Scriba medesimo, citando Leopardi)? Metamorfosi di cui lui vorrebbe essere costantemente protagonista; tra l’altro, lui, l’uomo pneumatico, per suo conto, ha già “un uccello in testa” (er hat einen Vogel, come recita un detto tedesco).
Vorrebbe, ma non può; come non può raggiungere Albertine. Nel caso di Roberta (merla rubacuori!) si deve accontentare d’un simulacro di ceramica vetrosa; in quello della Duda, vede svolazzare via tra la nebbia, l’oggetto del desiderio, nelle fattezze d’una cincia dal ciuffo biondo. Di Albertine rimane una raccolta di foto; delle foto costituite, però, della materia dei sogni e ambientate nei paesaggi di un altrove inesistente.
Claudia Azzola e Mariano Bargellini

Le inserzioni di neologismi, citazioni colte, termini desueti e ricercati, arricchite da quelle dialettali, volgari e plebee – vedi quella, magistrale, del controllore della metro, che interpreta, a suo modo, equivocandolo, il colloquio dello Scriba con la Duda – conferiscono al narrato un ritmo con modalità e sonorità polifoniche.
A proposito dei fraintendimenti, dei misunderstanding, di cui è fitto il testo, a un certo punto accade che un passero -“da fiabe e da enigmi”- impari e ripeta il gorgheggiare meccanico di un cellulare. Ma, si da anche l’opposto; quando, di Albertine, affiorano enigmatici segnali. Pare, allo Scriba, di poter colloquiare con la voce della sua perduta donna Anima, scambiando il frinire dell’accensione elettrica del gas (verso quasi da gazza), il tinnire d’un vaso di cristallo, un refolo improvviso, per una sorta di linguaggio oracolare.
Poi c’è l’equivoca incertezza, sempre ricorrente, riguardo la vera natura degli animali; quando quest’ultima si sdoppia rivelando un inquietante aspetto artificiale. Forse, il fringuello che zampetta tra i libri sulla scrivania del mistagogo della Setta degli Uccelli, (la sua umbracula) non è anche un automa a carillon, creatura hoffmanniana? E gli stessi scarafaggi nella cripta della Torre, parenti di quelli che escono dalle pieghe dell’abito del coinquilino domatore, non si muovono come robottini obbedienti, meccanismi con spiccate capacità di scelte autonome? Il topo, sul tavolo dello scrittore è forse il mouse, o viceversa? Più avanti, sorprendentemente, è il topo virtuale (il mouse) a ribellarsi, in combutta con il topolino/icona, a non rispondere ai comandi (l’altro, quello vero, di fogna, scompare per fatti suoi o per ricomparire in altra spoglia?). Per non parlare della merla rubacuori e della cincia dal ciuffo biondo (alias Roberta e Duda) equivoche e artificiose simulatrici dell’umano (o è il contrario?).
Ho già alluso al fatto che lo Scriba, ascoltatore del melodioso linguaggio della gente piccola e canora, ovvero gli uccelli, intendesse ripetere e mimare il loro cinguettio e vorrebbe acquisire sembiante hornithikòs (uccellesco). Tuttavia, se qui fallisce, egli subisce suo malgrado altri, infausti e diversi sdoppiamenti, prima in difformi sue immagini allo specchio, quindi in quelle d’innumerevoli sosia. Anzi, giunge, addirittura, a scoprire nei volti che incontra - da provetto enigmista della fisiognomica qual è - dei tratti, delle sfumature, dei minimi particolari, insignificanti all’apparenza, (financo in capi d’abbigliamento, anche d’altre età ed epoche) che svelano elementi della sua (quale?) identità in altri soggetti, dei cosiddetti cripto-sosia che dissimulano malignamente un perturbante principio di somiglianza. Per finire in gloria, con gli innumerevoli sosia, un autobus affollato di sosia che, con il suo stesso volto, irridenti, gli sghignazzano in faccia. Sembra quasi che il mondo diventi un rispecchiamento dello Scriba ed egli possa identificarsi con tale mondo, ma l’identificazione è sarcastica, una presa in giro. Infatti, subito si dissolve, come in un teatro di miraggi e nebbie, e l’augure della Torre con lui.          
Si parlava, dianzi, di teatro. Qui mi sembra ci si muova sulla ribalta d’un teatro delle marionette, quello di cui scriveva Kleist. Automi e marionette disarticolate, mosse da una volontà estranea, aleatoria, arcana e dispettosa. Un’atroce messa in scena, dove natura e artificio si confondono, e preparano il campo al prossimo (nelle successive narrazioni di Bargellini) imporsi della realtà virtuale ma totalizzante di un videogioco governato da una caotica tempesta d’impulsi elettronici. Ma forse c’è salvezza nelle “anime aeree” (umbracule) libere e leggere (che, nelle gabbie dei videogiochi, non immagino dove andranno, irridenti, a dissimularsi).
Innumeri e complesse sono le situazioni che hanno sollecitato queste considerazioni; altre ancora mi affollano la mente. Per ora mi fermo qui. Comunque, ribadisco e mi ripeto, un testo affascinante, pieno di poetiche suggestioni e tremendi trabocchetti.

*Notizie biografiche

Mariano Bargellini, prosatore narratore. Ha pubblicato: Mus utopicus, I.M. Gallino ed., Premio Bagutta-Opera prima 2000, ex aequo con Giovanni Chiara; Del simulacro perso nei sogni, Edizioni Marietti, 2004; La setta degli uccelli, Corbo ed. 2010.

*Claudio Zanini ha vinto il Premio Guido Morselli 2012 con Il polittico della città di T (Nuova Magenta Editrice) e il Premio Fogazzaro 2013. Ha pubblicato con Bietti Editrice di Milano, “Il posto cieco” (2009), “Nero di seppia” (2010) e “La scimmia matematica” (2013). Inoltre, la raccolta di poesie inedite “Ansiose geometrie”.





IL SENTIMENTO DEL TEMPO
I versi di Finzi riflettono sulla condizione della vecchiaia
di Angelo Gaccione


La copertina del libro di Gilberto Finzi

Confesso che mi sono vergognato a lungo come un ladro. Credevo di averlo irrimediabilmente perso il libro di Gilberto Finzi, rincasando una sera del 16 agosto, dopo un incontro conviviale tenuto in casa di Anita Sanesi, che come sempre ci aveva affabilmente accolti. “Non mancare” mi aveva detto al telefono, “ci sarà anche Gilberto Finzi assieme ad altri amici”. Non ero mancato, e Gilberto aveva firmato per noi copie del suo ultimo prezioso libro. Ma i giorni seguenti non ne trovai traccia in casa fra carte, volumi, giornali e riviste accatastati. Potete immaginare la delusione e il senso di vergogna. Come osare telefonargli?
Poi questa mattina, 28 settembre, il miracolo! Il libro è ricomparso a distanza di un mese e 12 giorni, come posso verificare dalla dedica con data che Gilberto vi ha apposto (16/8 per l’appunto), e ha indicato simpaticamente, accanto a Milano, la dicitura: “da Anita”. 
Questo hanno di buono le nostre povere case sommerse di carte e di libri, a volte nascondono, ma poi quando meno te l’aspetti restituiscono. Come in questo caso.

Gilberto Finzi

Diario del giorno prima” (Nomos Edizioni pagg. 84, € 14) raccoglie in totale 61 testi poetici scritti, come l’autore stesso ci informa nella nota di apertura, tra l’agosto del 2011 e il gennaio 2012. In un arco di tempo, dunque, relativamente contratto. Tutte le poesie portano la data di stesura come a voler rimarcare nelle sue scansioni temporali e nel suo procedere, l’idea del diario. A volte capita che più di un testo prende vita nella stessa giornata, e quasi tutti si susseguono a distanza ravvicinata di un giorno o due, segno che la materia era stata così metabolizzata dal poeta che gli è bastata una scintilla per illuminare tutto il firmamento di pensieri, riflessioni, memorie, sensazioni, visioni, risentimenti, rabbia, che si portava dentro. Il tema di fondo è l’inesorabilità del tempo che passa, la vecchiaia, il divenire vecchi con tutto ciò che questo comporta. Dunque nessuna stoica accettazione, nessuna saggezza da trasmettere, nessuna lectio vitae da consegnare ai posteri. Dimenticatevi Seneca, Cicerone, Epicuro e lo stesso Bobbio. In questo excursus oggettivo, analitico, condotto da un poeta ultra ottuagenario in maniera impietosa sul proprio status di vecchio, si rivela a tutti noi quella condizione umana precaria, marginale, fragile, separata, a cui saremo chi più chi meno condannati.

“…Ora dimenticami, o mia sorte,
nessuno riconosca l’invecchiato “io”,
lo scadimento dei muscoli, degli arti,
le orbite profonde degli occhi
luciferini, le petecchie
nella pelle infisse come chiodi,
la passiva resistenza
a qualunque umana vicenda,
il niente il nulla l’assoluto zero.

Nessuna illusione e nessuna mistificante filosofia della vecchiaia, magari edulcorata dall’abilità funambolica del facitore di versi, dalla sua seduttiva sapienza lessicale. Qui non si fa sconto a nessuno e tanto meno a se stessi. L’età monstre, la “vecchiaia puttana” come la chiama Consolo in un racconto, è lì a ghermire inesorabile, spesso carica del suo sadico risvolto.

…In bagno no, prego, sono tanti i modi,
i luoghi, i destini, non questo
mi tocchi e mi sorprenda,
in bagno, solo, no!”

Nessuna accettazione, nessuna riconciliazione con la fine. L’impalcatura della fede a sorreggere non c’è, qui non è contemplata. L’uomo contemporaneo non può contare sull’esaltazione epica della “bella morte” della civiltà degli antichi; sulla coralità del lutto; sui Campi Elisi. Se Socrate poteva morire sereno circondato dall’affetto dei suoi estimatori; se Epicuro poteva andarsene confortato dalla sua visione, certo che la sua scuola e il suo giardino filosofico avrebbero continuato a prosperare, all’uomo contemporaneo e privo di fede tutto questo non è dato. La sua precaria condizione esistenziale è figlia del vuoto, cammina lungo il sentiero “dell’inutile e sconsolato vivere” tracciato da Leopardi. Può imprecare, è quello che gli resta.
Finzi, attraverso questo libro, conduce un severo bilancio non solo sul suo nuovo status: fisico, sociale, esistenziale (quello segnato dalla vecchiaia), ma dell’intero arco della sua vita negli aspetti salienti. Tornano allora i ricordi e gli scorci della sua Mantova; i visi colti in filigrana di alcuni momenti della giovinezza, gli amici che se ne sono andati, la città divenuta distratta, indifferente, ostile, il degrado morale che corrode la vita civile, il costume, gli ambienti culturali a cui pure è, da protagonista, appartenuto. I due testi che qui ripropongo, vi faranno assaporare tutto il retrogusto amaro che questo il libro contiene.

Vecchio mostro vedilo,
monstre dell’età
(è una specie di ingiuria dell’ipocrisia)
brutto e grosso sei   
invisibile alle nuove
scalcinate generazioni,
tristi senza saperlo,
scure in volto ragazze seminude –
jeans bastardi e brevi top –
ragazzi incolti maleodoranti nei loro
brevi calzoni, nelle calotte craniche dove
dritti o annodati i capelli abbondano,
tutti in sospetto delle parole
che non arrivano,
non contano più: sono i segni
a valicare i nomi, i segni
delle inventate emozioni che vengono e vanno
come bisbocce fuori tempo
fatte per vivere da bruti
semplici nel sogno, violenti nella realtà.
Vecchio invisibile, monstre dell’età
riconosci te stesso, verde e magro,
le prove del vivere, accanto e dopo,
il cielo è azzurro, le piogge lievi,
dietro l’arcobaleno c’è
il breve, il niente, lo spazio perso.
[2-10-2011]

***
L’oro che ti serviva
lo hai perso,
                   non sei stato pronto
a vederti integrato, sei stato
fermo in fondo alla fila
ad attendere
nonhaimaisaputocosache
hai lasciato che colpa o merito
fossero di altri, tu preferivi
enigmatico, persino
ambiguo mostrarti, pur senza fingere,
con poca sostanza, ma con la voglia di sempre
di dire “no” – senza freno,
senza limiti –
a tutto deciso pur di non decidere,
fermo nel non dire, non fare.
Si muovevano intanto gli altri,
i tuoi nemici godevano, qualche
avversario cedeva per stanca emozione,
tutto avveniva: letteratura, politica,
eventi personali e pubblico nullismo,
tutto si teneva, e tu soffrendo
continuavi continuavi
a vivere per te, con te, da te.
Così ti bollarono, i tuoi simili –
se il non fare non è delitto ma etica virtù –
come “probo”
[3-10-2011]     


Per gli aspetti anche “speculativi” del libro, i testi andrebbero riprodotti nella loro totalità. Il lettore abituato alle ardue e a volte “petrose” sperimentazioni poetiche di Finzi, si troverà davanti ad un libro spiazzante. Per me, al contrario, è stata una felice sorpresa. Intanto perché lo ritengo un libro necessario: una materia così insidiosa doveva essere maneggiata con cura per non scivolare nel già letto e sentito, e abbisognava di un poeta attrezzato. Finzi ha lavorato la sua materia magistralmente, e, pur tenendosi al di qua del lirismo, riesce ad emozionarci perché la parola ed il verso si fanno “caldi”, “umani”, e spesso distesi come una narrazione. Al lettore giovane questo libro potrà procurare disturbo e i versi sentirli emotivamente distanti; a chi giovane non lo è più apparirà come uno specchio inesorabile, da cui non è possibile distogliere lo sguardo. 

ALCUNI LIBRI DI FINZI













GILBERTO ISELLA
Salvatico è colui che si salva
(Fantasie leonardesche)
con immaginificazioni di Fiorenza Casanova

dedicato a Fiorenza Casanova

Le distruzioni dell’acqua
(Feltr. p.79)

Opera di Fiorenza Casanova

 Salvarsi dall’impeto delle acque è impresa temeraria alquanto. Dico quell’acque strepitanti e d’opulentissima portata che l’alte cime dei monti consumano e gran sassi disbalzano e persino i mari da essi stessi scacciano, tanta copia d’alieni detriti vi posson riversare, consolidate geologie capovolgendo. Quell’acque, da disegno divino imperscrutabile  sul mondo riverse, che pur  in cangianti guise promosse,  aspre o dolci, malinconiche o gaie al variar degli umori dell’Altissimo, il più delle volte in enormi incontenibili masse si rapprendono. E allora, quasi un’anima propria ostentando e facendosi liquide fiere, rovinano le alte rive, disvellono le più tenaci piante, seco  trainando uomini, bestie, ville e possessioni.
Il più gigantesco, calamitoso sovrabbondare d’acque, di cui si tramanda, fu chiamato diluvio. Condensazione formidabile di nubi, squarciatura del cielo intero, percussione d’onde marine contro obliqui monti. Fortemente gemette la terra, in congiuntura simile tratta e  impotente all’urto, e conobbe indicibile morìa di vite, ma Noé patriarca, secondo le Scritture, ogni sua forza investendo in salvifica impresa, poté un capientissimo guscio costruire e ivi raccogliere ogni specie animale, dal vermicello all’elephas, dall’icneumone alla spillancola, per indi sospenderlo sovra i flutti, onde sottrarre i viventi alla follia dell’immenso flagello. Strumento istesso di Dio, Noè ardiva con Dio competere– non sfugga la istranezza -  nel risolvere i compiti dell’idraulica prima, battendo e storcendo le onde, e non senza reiterati calcoli l’impeto di esso diluvio genialmente temperando, sì da portentosa vetta infine approdare, e ai congegni della macchina mondana concedere nuovo moto.
Ardimento non minore dimostrò, nell’era nostra, Noemi, dilettissima figlia di uno stimato sorvegliante di dighe, trovatasi un dì a fronteggiare l’onda vertiginosa e perversa di un quesito che, studentessa in quegli anni, si era vista rovesciare sull’asciutto foglio di un esame. Trattavasi in verità di un curioso passatempo all’acqua scherzevolmente dedicato, ludo d’infanzia i cui attori  erano l’acqua, una vasca, un rubinetto,  un metallico tappo e un baldanzoso corteo di numeri. Non s’erano ancora gli occhi di Noemi appuntati  alla scena, e la scena stessa del tutto apparecchiata all’osservare, che da una piega del foglio si levò la magistrale voce: “In quanto tempo, dati per cogniti portata del fluido e volume del recipiente, e debitamente messe in conto sospensioni del getto e occlusioni repentine dello scarico, da ascriversi esse a nobili modulazioni volte a tener vivo il sollazzo, la vasca sarà colmata?” Infilatasi la giovinetta con corporale e spirituale ardore  in  tale tormentoso passatempo, un torrentello contesto di  interrogativi punti parve il medesimo traversare, e  seguendo alvei solo a lui famigliari, farsi grosso e minaccevole, e quale abnorme liquido ordigno principiò a battere allo scrigno della mente di Noemi. La quale mente venne espugnata infine, e a immateriale vasca, per insolita conversione, resa identica. E a quel punto la giovine scopertamente si figurò il diluvio che sulla vasca umana dell’intendere e giudicare da sempre incombe. Incombe esso, rappreso in  densissimo nembo di numeri, lettere e altri segni per occulta fattura in varie posture messi, fino a che, consumati gli spasmi suoi, che a quelli di partorienti dee si potrebbero assembrare, con strepito inaudito si scatena. Verticale, breve, inesorabile. E allora, fortemente temendo le precipitevoli acque e tra i lacci del quesito senza posa dibattendosi, in Noemi surse una domanda. Se di tanta numeral furia la mente umana è oggetto, da venirne, più che riempita, istordita al colmo e quasi annichilita,  potrà ancora essa, fantasticando su improbabili vuoti fatti salvi, inclinarsi al quesito  di colmare una vasca? Una insignificante vasca nel vortice matematico del Tutto, tanto maraviglioso da potersi credere per simulazion concepito?

L’asino e il ghiaccio
(p.122 Feltr.)

Opera di Fiorenza Casanova

“La sapienza è figliola della sperienza”, così sentenzia la maggior parte. Ma tale virtuosa generazione sta nell’universale, non nel particulare.  Proporzional sapere, dal sommo al pressoché nullo, ogni esperienza induce, a seconda dei subietti. Si consideri, al riguardo di taluni, il girare a vuoto per piazze e taverne, e ricalcare ogni dì e quasi ricamando le conosciute orme, talora con iterati cenni del capo ai circostanti dando convenzional saluto, fiaccandosi l’anima nella consunzion del tempo, sempre la medesima aria fiutando e al vuoto d’intorno con soffi cadenzati restituendola poi. Quale sapienza ne spillano gli atti, forse una maggior cognizione del tempo e dello spazio? Alcuni gettano carte e dadi, su banchi alla bisogna istituiti, e perseverando assai nell’istudiar loro combinazioni mai non vincono, e ne ignorano  causa. Si narra che un dì un tizio, noto per il quotidiano esercizio del mal dire, sporta appena la bocca sua fuor dall’uscio, ricevette per mano di un anonimo, a mo’ di dono, un involucro in cui v’era lingua di bue fresca, un picciol coltello e spezie forti. Famelico egli e poco avveduto, tornato al suo ricetto, con quella lingua pasteggiò. Ma la sera istessa, rincasata la sua fante, ella scorse sul tavolo un rivolo di sangue e in bella vista lingua umana posata nel mezzo. E udì lamenti forti da oltre una parete. Ignorava, il poveretto, che certuni accadimenti che paiono schietti all’apparire, come è di un innocente dono, tengono riposte e quasi allegoriche significazioni. In specie attinenti a minacce o avvisaglie malvage di contrappassi a preterite colpe destinati.
Se difetto di cerebro v’è, o per destinale insufficienza dell’istesso membro o per via di torbide nebbie in esso cumulate, esperienza a che giova? Questo in quanto agli umani. Ma compartecipando l’uomo dell’anima animale, sì da potervisi con agio commisurare, è da un’esperienza asinina che vorrei trar fabula. Visse in  tempi non lontani un asino mite e paziente, e alquanto laborioso, che essendo d’abitudine strattonato e redarguito dall’insensibile padrone, un dì non tennero muscoli e ligamenti suoi alla prova.  Forse ciò anche a motivo della forte calura che, prorompente da arie sature di raggi  solari, le sue fatiche aggravava e al sonno induceva. Deposta la soma sull’erba, scorse il nostro animale un profondo lago coperto da ghiaccio ristoratore, e subito lo scelse per giaciglio. Addormentandosi egli sovra il suddetto ghiaccio, e fiduciando in un subito conforto, il suo calore lo dissolvé, e l’asino sotto acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.   Neppure l’uomo, che più dell’asino è supposto ponderare gli accadimenti, è al riparo da’ ghiacci. Narrasi di una possente nave, concepita da smisurato orgoglio, che di festaiola brigata oltremodo colma e d’insolenti luminarie, stoltamente procedendo nel boreale pelago, in enorme cattedrale di ghiaccio impattata e una sol ragna di crepe divenuta, inclinatasi di molto affondò. Così nei pregressi tempi. Ma vedrassi ancora a lungo sulla terra gelare acque e ghiacci dissolversi, secondo cicli che natura non muta. E molte anime umane e asinine, gemendo o ragliando secondo costume, da lor corpi malinconiosamente separarsi.

 Come salvarsi dall’orso
(Bur, p.98)

Opera di Fiorenza Casanova


Della nocività dell’orso assai si conversa nelle nostre convalli. Non v’è  baita o malga o casale o il più spesso taverna ove iracundi pastori, talora soggiacendo al flusso di bionde birre o aspri vini, lor nocche forte battendo su antichi e pazientissimi legni, non discettino di come vendicarsi degli orsi predatori. C’è chi enumera capre dai medesimi sbranate, o pecore o galline,  o innocenti stambecchi su per le rocciose guglie coi loro imponenti corni estirpati, e taluno pigliando gusto all’iperbole si spinge persino ad evocare intere mandrie dilacerate e a bocconi fatte, con tibie o bucrani lasciati ancor  madidi di umori, nei solchi del terreno o nei greti di impetuosi torrenti. E  voci persino si levano a denunciare aggressioni contro le istesse umane creature: mai corpi mutili e tronchi in tanta copia si son visti d’attorno, a memoria d’uomo, nella contrada. Se l’orso è colpevole di siffatte sciagure, alle quali assommare è doveroso l’alterazione del valligiano moto dei venti, esemplar pena andrà ad esso somministrata.  
In ogni villaggio son di buon’ora convocati i consigli degli anziani. Modi difensivi di vario tenore si discutono assai. Ove si pone mente a barricamenti d’ogni guisa, argini, muraglie all’antica esperienza del Catai ispirate, e incontro venendo ai buoni auspici dell’armata, che tutte le istudia al solo fine d’isfogarsi in qualsivoglia forma, si discetta altresì di mangani, baliste, arieti e catapulte, e addirittura sonvi evocate quelle moderne bocche di ferro che scarlatte fiamme eruttano. “Ma l’orso”, obiettò un vecchio paesano in un de’ convegni pervenuto con suo forcone, “è il più tenace: l’orso è mostro immenso, e solo virtù di maghi e fattucchiere dalle sue calamità posson metter riparo.  Evvi tuttavia un  rimedio a portata nostra”. Leonardo Vincent, tale il nome del paesano, così seguitò a concionare: “Essendo io di api cultore e di miele espertissimo fatto, posso questo asseverare. Quando l’orso va alle case delle api per torre loro il miele, esse api lo cominciano a pungere, onde lui lascia il miele e corre alla vendetta, e volendosi con tutte quelle che lo mordono vendicare, esperisce vana la fatica sua, in modo che la sua rabbia cresce, e gittatosi in terra, con mani e piedi innaspando, indarno da loro si difende. E il suo corpo, in tutte parti da incalcolabili morsure d’api  martoriato e dal  velen di esse imbevute le membra, immobile in fine sul nudo suolo istà”. Come miele giunser le parole di detto Leonardo agli ascoltanti, sicché tutti, lasciate lor consuete faccende, deposti aratri e vanghe, apicultori divennero e felicemente per l’uomo si compose infine la guerra con i famelici orsi.


Comportamenti d’uccelli (Feltr., p.88 e sgg.)


Opera di Fiorenza Casanova
Quando l’uccello ha gran grandezza d’ali e scarsa coda, e che esso si voglia levare, allora alzerà forte l’ali, e girando riceverà il vento sotto l’ali, godendo di sue spinte. Uccello e vento, su vie d’aria ad essi pressoché compartite, entro rettilineo, obliquoso o circolare moto, quasi da antichissimo e sacral vincolo congiunti, nel grande scenario del cielo si conducono. Or in modo lento e quasi non avvenente, or in velocissimi guizzi e tornate, a seconda dell’umor del volatile e della potenza del vento. Così vediamo gru e cicogne formare lunghissimi cortei, e in ieratiche posture solennemente procedere, il celeste scenario che le accoglie rigando e bipartendo. O al contario, schiere di rondini sfrecciare in alto fino a disparire dall’umana vista, tratte al largo in talune congiunture dall’appello di altri lidi.  Ci sono pure generazioni d’uccelli, quali il nibbio, che battendo poco l’ali, s’affidano passivi al volere del vento, in esso gettandosi e a seconda delle ubicazioni di quello, per diverso condensarsi d’aria, ascendere o calare.
Si dilettano, certo, gli uccelli, a mescersi con gli aerei elementi, essendo per complessione loro affini,  facendosene manto o scudo e, una volta  tali forme di mascheramento  conseguite,  apprestarsi a porre in esecuzione imprese necessarie a soddisfar lor fame. Si narra che, negli antiquissimi tempi, accortisi un dì gli uccelli dell’universal subbuglio generato dal diluvio, al principio della loro apparizione entro  la mirabile scena, presero forma d’insensibile nuvola. In siffatta guisa l’occhio li discerneva, prima che l’insolito viluppo si dissolvesse e nette apparissero sagome di torme declinanti in basso, pronte a posarsi sui morti corpi portati dall’onde e indi a cibarsene.  E moltissime altre maniere di volatili osservate, in relazione sia al muoversi che al tenersi fermi, o mollemente sull’acque galleggiare, come usano anitre e cigni, portare a conoscenza parrebbe opportuno.
Tanti e difformi sono gli atti che natura d’uccello manifesta, eppur sì consoni al comune intendere, da poter apparentare quella per sembianti a natura umana. Volatile anch’essa, per notoria inconstanza e labilità d’umori ch’ogni dì sopporta, come dal quotidiano corso del vivere si evince, e nondimeno atta al volo. Lo si constata con frequenza nell’incontenibile, mobilissimo e quasi in aeree guise studiato spostarsi d’individui nei lochi dei traffici e del mercatare, ove l’istessa merce, qui prelevata e là posta, qui repleta di sguardi e là obliata, in potenzia o in atto a becchi parendo sospesa, dei  capricciosi e obliqui voli dell’umana creatura partecipa. Ma nei casi superni, che mozioni d’animo per così dire sgravate di pratico fine unicamente riguardano, qualunque sprizzo ingegnoso e istantaneo da cerebro mosso vien detto ‘volo della mente’. Memoria d’uccelli che batta l’ali forse in anima umana è scolpita? Molti casi confermerebbero il suddetto supporre. In proposito si ponga mente a una moltitudine di atteggiamenti che in egual modo si confanno a uccello e uomo. Così sonvi uomini-gufo, che amando posar lor zampe sui rami più esposti degli alberi, sogliono stare immobili a osservare i passanti. Il loro fisso sguardare indispettisce l’altra gente, che sentendosi giudicata, e quasi defraudata della propria virtude, a schivare tanta oculare insolenza ratta si dispone. Sonvi i vanesii uomini-paone, gli imperiosi uomini-aquila, e tra i rapaci eccellono, vogliosi di altrui spoglie che a crude lacerazioni sommettono, gli uomini-avvoltoi, ai quattro lati dell’orbe più che uno immagini diffusi.
Eppure l’arte del volo di gran lunga è il vanto dell’alata famiglia. Morso da invidia e parimenti conscio di partecipare della specie dei volanti animali, e intuendo che l’uccello è strumento operante per legge matematica,  l’uomo a mezzo di dure materie e formidabili legacci di metallo e con protratte calcolazioni costruisce uno strumento a imitazion del loro volo, e con esso nell’aere piacevolmente s’intrude, alquanto oscillando e pur in bilico il più sovente standosi. E di ammirare lo spettacolo del mondo disideroso, vede monti sotto i suoi piè, e deserti e mari e  lunghi mantigli di nuvole.  Ma non v’è dì che, vuoi per subitaneo turbamento d’aere vuoi per impazzimento dei congegni, le surriferite macchine precipitose cadute verso il suolo non ischivino.  Talché l’uomo-uccello s’inabissa. Vedrassi allora  cemeteri di carcame torridi  emergere da dune di sabbia, oppure ghiacciati torreggiare tra gli integumenti di artiche biancure. E nondimeno non s’iscoraggia il pensante abitator della terra, che ha potestà di sostenersi infra l’aria con battimento d’ali.

 

 Un modo come un altro per passare il tempo.





Carissimi, purtroppo la sorte e l'insipienza altrui si accaniscono contro di me.
La presenza di tre linfonodi, peraltro asportati, ma infiltrati da cellule tumorali, mi avrebbero consigliato una chemioterapia che fortunatamente ho rifiutato, perché avrebbe avuto conseguenze letali, dato lo stato di sfinimento in cui mi trovo.
Ora le ragioni di questa spossatezza mi sono chiare: un gravissimo scompenso cardiaco, dovuto con tutta probabilità agli effetti dell' anestesia, o a complicazioni postoperatorie di cui non si sono valutate appieno le conseguenze.
Sto cercando, per quanto possibile, di curarmi ma, credetemi, mi riesce difficile anche il minimo movimento.
Per questo sono costretto piuttosto bruscamente a salutarvi, ma, in attesa di recuperare le forze, vi prego di accettare quanto il vostro amico vi acclude in calce.
 Con tanto affetto
Giulio

***
 Allegretto ma non troppo
di Giulio Stocchi
           a Deborah

Guerra intestina

E’ curioso
per uno che ha sempre
predicato
la ribellione
vedere il proprio corpo
ribellarsi
e le cellule moltiplicarsi
impazzite al varco
dove si affollano
per pugnalarti a morte
E’ l’antico dissidio
fra la teoria
e la prassi
al quale assisto
con una certa
trepidazione

*

Se lo conosci lo vinci

Buongiorno
Signor Cancro
Permetta
che mi presenti:
Mi chiamo
Giulio Stocchi
di professione
poeta
come attestano la mia magrezza
e la carta di identità
Giulio Pietro per l’esattezza
in verità
E’ per me un piacere mi creda e un onore
fare la Sua conoscenza
Ma quello
senza degnarmi di un’occhiata
tira diritto       
per la sua strada
roteando la canna
di malacca
tronfio lardone
di malagrazia

con quella sua buffa bombetta
d’antan                                         
il panciotto la catena
il cipollone
e la sempiterna tracotanza
del padrone

*

Ben scavato vecchia talpa!

Mi sorprendo a biascicare
tra me e me
le parole dello scienziato
della rivoluzione
osservando nello specchio                          
il corpo emaciato
che il tumore
va divorando
Quello ingrassa
ed io dimagro
Buon appetito
compare!
dovrei piuttosto dire                               
per creanza
se ancora mi restasse
un filo di voce
per farlo

*

Luoghi comuni
Variazioni sul tema precedente

Quello ingrassa
ed io dimagro
Buon appetito
compare!
dovrei dunque dire
per creanza
Certo non è
un pranzo di gala
la rivoluzione
ma che divori i suoi figli
questo comincio davvero
a sospettarlo

*

Parodie

Una rosa
è una rosa
è una rosa
Un tumore
è un tumore
è un tumore
Il dolore
è il dolore
è il dolore
è il dolore





LE PULCI
di Laura Margherita Volante




"Gli stolti spendono la loro curiosità per sapere gli affari altrui.
Gli intelligenti la spendono nel campo della conoscenza e dei saperi."

"Lo sciocco ti chiede l'età, l'intelligente ti chiede come stai"

"Spesso si tende a scambiare la bontà per ingenuità, ma la bontà vede il benne
perché ne è portatrice sana..."

"Chi comprende i difetti e gli errori altrui non li giustifica ma ne capisce l'origine"

"Peccati di gola. Più il tempo passa e più la gola reclama generi di conforto..."

"W il passato. Le memorie servono per non perdersi in un ginepraio di sciocchezze e futilità"

"L'amore è quando il compagno/a perde una gamba e lo guarda come fosse la Venere di Milo"

"Meglio enfatici che fanatici"

"Uno può anche essere un genio, ma se non tocca l'inferno non conosce ciò di cui parla"

"Chi non ha conoscenza alcuna deve stare zitto!"

"Femminicidi: oggi l'uomo è l'illusione delle disperate...ci cascano e poi muoiono
 uccise per mano della loro illusione"

"Ogni donna merita un piano elevato se no per compiacere si abbassa alla volgarità dei costumi"

"Se ogni uomo pensasse che in ogni donna c'è un po' della mamma della figlia della sorella,
la guarderebbe come si guarda un'opera d'arte..."
           

 

LA LETTURA

Blu elettrico
di Annalisa Bellerio



Quindi sei qui per chiedermi il divorzio, giusto? E la cosa un po’ ti imbarazza. Quando pensate di sposarvi? Flavia è già incinta?”
Gemma guarda il suo quasi ex marito dritto negli occhi, lui ha uno sguardo sorpreso e spaventato, che subito abbassa sul cellulare che continua a toccare, ruotare, prendere e riappoggiare sul tavolo del ristorante.
“Ma no, cioè non so, non è ancora sicuro. Ma lei ci tiene, lo sai, ormai sono tre anni e lei vuole…”
“Lei vuole regolarizzare, certo. Vuole un bel matrimonio con tutto il paese in festa, vuole un figlio, vuole una nuova casa, e soprattutto vuole qualcuno che le assicuri tutto questo. Non ho dubbi su quello che vuole lei. E tu, Damiano, tu che cosa vuoi?”
Ecco, è diventata aggressiva, proprio come si era ripromessa di non essere. Ma era così difficile controllarsi, evitare che il rancore straripasse e la travolgesse. Tre anni. Erano tre anni che lui se ne era andato, o meglio che lei l’aveva spinto a farlo, troppo sconvolta, esasperata, disgustata per sopportare ancora.
Poi era venuto il dolore.
Si erano messi insieme che erano ragazzi, cresciuti entrambi in quel paese di provincia che avevano finalmente lasciato per una casa di una dignitosa periferia cittadina, dove lei ancora vive con il loro bambino di nove anni e un futuro andato in pezzi. In fondo non era male la vita che si erano costruiti, e che lei si aspettava continuasse. Si amavano, amavano il loro bambino, amavano il loro lavoro. Poteva andare avanti così. A lei piaceva insegnare in una scuola elementare e lui aveva non poche soddisfazioni dalla piccola fabbrica di mobili di cui aveva preso le redini dopo la morte del padre. Oppure no? Aveva invece bisogno di qualcosa di diverso? Non sa più chi sia e cosa pensi veramente quell’uomo dal viso di ragazzo e dal fisico robusto e ora, nota, anche un po’ ingrassato che le sta seduto di fronte e che ancora è suo marito.
“Quando nascerà il vostro bambino avrai ancora tempo per Mirco? Lei cercherà di farti dimenticare che hai già un figlio.”
“Dai Gemma, cosa vai a pensare. Ti sembra che possa dimenticarmi di Mirco? Che Flavia possa impedirmi di vederlo? Non è un mostro, Flavia.”
Gemma si morde le labbra per non dare voce ai suoi pensieri.


“Com’è?” aveva chiesto a Damiano più di quattro anni prima, quando Flavia si era presentata in ditta la prima volta. Aveva allora ventidue anni e aveva appena faticosamente finito una scuola di ragioneria. Era figlia di conoscenti in paese in difficoltà economiche, che avevano supplicato lei, Gemma, di chiedere al marito di dare a quella ragazza l’opportunità di farsi un’esperienza di lavoro. Sì, l’opportunità c’era. Serviva un temporaneo aiuto in amministrazione.
“Com’è? Una ragazzotta vistosa”, aveva risposto Damiano. “Non mi sembra il tipo che davvero vuole fare quel lavoro, ma non ci metterò molto a capire che cosa sa fare. Basta che non mi faccia perdere tempo.”
In effetti non c’era voluto molto a capire quello che Flavia sapeva fare. Lei certo non aveva perso tempo e del tempo che aveva fatto perdere a Damiano lui non si era lamentato. Evidentemente non aveva rimpianti.
Era solo Gemma ad avere rimpianti.
Tra poco lui sarebbe tornato al loro vecchio paese, nella sua casa con tavernetta e un fazzoletto di giardino, nella sua nuova vita. E lei sarebbe tornata al suo piccolo appartamento cittadino, alla sua vita spenta in cui solo il suo bambino e i suoi piccoli alunni fanno luce.  
Gemma si guarda intorno nella trattoria dove una recente ristrutturazione ha conservato studiati sprazzi della rustica tipologia originaria. Lui l’ha portata in quel territorio neutrale per parlare di tutto quello di cui devono parlare. Il Natale e le vacanze di Mirco, il computer che non funziona e le spese di casa. Ma come lei si aspettava e temeva, lui aveva anche altri argomenti da affrontare. Il divorzio. Il matrimonio. Il figlio forse già in arrivo.
La sala si sta svuotando. Anche i commensali dell’affollata tavolata d’angolo sono già in piedi a scambiarsi rumorosamente le ultime battute della serata. Gemma e Damiano rimangono soli, mentre i camerieri si muovono freneticamente intorno a loro sparecchiando e preparando i tavoli per il giorno seguente.
“È tardi, andiamo.”
In pochi secondi Damiano chiede e paga il conto e insieme si avviano all’uscita. La stanza del guardaroba è ormai vuota, lui si infila il giaccone di pelle e Gemma cerca il suo, che aveva lasciato accanto. Il suo non c’è. L’unico rimasto è un vaporoso pellicciotto sintetico blu elettrico, con un’alta cintura elastica decorata di perline.
“Dov’è il mio giaccone?”
“Qualcuno l’avrà preso in sbaglio al posto del suo.”
“In sbaglio? Ti pare possibile? Hai presente il mio, è un comunissimo piumino nero lungo col cappuccio, come vuoi che si potesse scambiare con questo!”
Gemma chiede ai camerieri, ma nessuno le presta molta attenzione, non sanno niente e hanno fretta di chiudere.
“Ok Gemma non è il tuo ma mettilo lo stesso, fuori fa un freddo cane.”
Gemma infila a malincuore quell’eccentrico indumento che è esattamente della sua taglia.
“Be’, ti sta bene. Tutto sommato ci hai guadagnato.”
“Non è il mio genere e comunque non è roba mia. Oddio, avevo qualcosa in tasca? Non mi sembra. No, le chiavi le ho qui nella borsa.”
Fuori dal ristorante ci sono ancora gruppetti di persone che si attardano a parlare nonostante il freddo, la compagnia del tavolo d’angolo è ancora quasi al completo e Gemma si avvicina quanto basta per osservare quello che ognuno ha addosso. Ci sono parecchi piumini neri. Ma non il suo.
“Signora, ha perso qualcosa?” Mentre si guarda intorno disorientata un uomo con un sigaro in mano le è andato incontro.
“Sì. Il mio cappotto.”
Il tipo la osserva in silenzio con aria perplessa, continuando a fumare.
“Senti Gemma”, dice Damiano raggiungendola, “torna qui domani all’ora di pranzo e vedi se qualcuno ha riportato il tuo cappotto. Ora è tardi, andiamo.”


Il venerdì Gemma esce presto da scuola. Alle due è al ristorante portando con sé il pellicciotto colorato dentro una grande borsa di plastica. Ma nessuno ha riportato il suo.
“No signora ci dispiace non possiamo tenere qui questa pelliccia, ci lasci un recapito e nel caso la chiamiamo.”
Gemma scrive il suo nome e il numero del cellulare sull’agenda che le è stata aperta davanti, e aggiunge “piumino nero” tra parentesi. Chissà se serve a qualcosa.
“Allora ha ritrovato il suo cappotto?”
Gemma si gira e riconosce il fumatore che la sera prima era davanti al ristorante. È seduto a un piccolo tavolo da solo.
“Oh, buongiorno. Anche lei è ancora qui.”
“Sì.” L’osservazione sembra metterlo in imbarazzo. “Anch’io ieri sera ho perso qualcosa. Una scatola di sigari. Niente di prezioso, ma ci tenevo. Sono passato a cercarla, e visto che ero qui mi sono fermato a mangiare.”
“L’ha trovata?”
“Cosa?”
“La scatola di sigari.”
“Ah, sì, nel parcheggio. E lei il suo cappotto? Ha rintracciato la proprietaria di quella pelliccia blu?”
“No. Non so niente né dell’uno né dell’altra. È proprio una cosa che non riesco a spiegarmi. Sono cose così diverse, è impossibile confonderle.”
“Be’, la tenga lei la pelliccia blu, le stava bene. Non le piace? Non piace a suo marito?”
“Non è più mio marito.” Chissà perché si è sentita di doverlo precisare.
“Oh, allora c’è un’altra cosa che abbiamo perso entrambi. Ma magari per lei non è stata una grave perdita.”
Gemma rimane in silenzio.
“Scusi, sono stato inopportuno. Capisco bene cosa prova, invece. Ha tempo per un caffè? Si sieda, dieci minuti. Io mi chiamo Fausto.”
Gemma si siede di fronte a quell’uomo dal fisico atletico e lo sguardo indagatore, che potrebbe essere un istruttore di palestra e infatti lo è come attività collaterale, perché di lavoro fa il tecnico informatico. Porta i segni di una delusione recente subita con rabbiosa frustrazione. Ne accenna soltanto, e poi con quel modo un po’ brusco eppure accattivante invita Gemma a raccontare di sé. Sembra interessato per davvero. O in ogni caso è uno che sa ascoltare.
Gemma se ne va con il numero di telefono di quell’uomo, con la sua promessa di dare un’occhiata al computer appena possibile, e con un vago senso di leggerezza, di commozione.


Fausto è un uomo di parola. Dopo qualche giorno telefona e dice che gli è saltato un appuntamento e potrebbe passare. In casa c’è anche Mirco immerso in un videogioco. Il problema al computer sembra essere cosa da poco, in mezz’ora è già sistemato, e Gemma prepara un caffè. Lui ha la cortesia di non fumare e di chiedere a Mirco di insegnargli il gioco, così si siede accanto al bambino e per un’altra mezz’ora sta lì a giocare con lui.
È la prima visita e ne seguiranno molte altre. Fausto passa spesso, aggiusta il rubinetto che perde, la porta che cigola, qualche volta porta Mirco con sé in palestra, quando può va a prendere Gemma a scuola, mangia con lei, l’accompagna a fare quello che lei prima faceva da sola. Passano i mesi e Gemma permette a quell’uomo di entrare nella sua casa, nel suo letto, nella sua vita, pur cercando di negare a se stessa quanto le sia davvero di conforto e di appoggio quella presenza gratificante. Cerca di non fare progetti, di continuare a non farsi illusioni, cerca di sottrarsi allo sguardo indagatore di Mirco, quel suo bambino sensibile che percepisce ogni suo stato d’animo e ha capito quali argomenti non toccare, quali domande non fare.
“Di cosa hai paura, Gemma? Di rimanere ancora ferita?” le chiede la sua amica Fiorenza. “Lasciati andare, goditi questa storia che ti fa bene, si vede. Anche a Mirco fa bene avere a che fare con un personaggio maschile, visto che suo padre è completamente rincoglionito. A te lui piace, giusto? E di sicuro tu piaci molto a lui.”
Sì, questa volta è diverso. A parte il conforto e l’appoggio questa storia procura a Gemma un brivido di eccitazione che non provava più da tanto tempo. Si sente viva, ancora giovane e desiderabile, ne ha un’evidente conferma e ne trae una calda energia. Non vuole rinunciarci. Ormai non può nascondersi che non riesce più a farne a meno.
Fausto non fa mistero dell’attrazione che sente per lei e che manifesta in un modo a cui Gemma non è abituata. È geloso. Damiano è mai stato geloso? In realtà non ne ha mai avuto davvero motivo. E poi erano così giovani e innamorati quando hanno cominciato a stare insieme, non potevano che avere davanti un futuro senza dubbi, senza ombre. Avevano dato per scontato il destino che li attendeva. Erano stati troppo sicuri l’uno dell’altra. O almeno lei era stata troppo sicura. E Damiano ora era geloso di Flavia? Forse era questo che voleva, una donna di cui non sentirsi troppo sicuro. Non sembrava il tipo, Damiano, da provare questo genere di eccitazione, ma è vero che a lei non era mai sembrato il tipo da poter fare quello che poi aveva fatto.
Fausto invece non la considera una cosa acquisita, è sospettoso, teme di perderla. Dunque prova per lei qualcosa che Damiano forse non ha mai provato.


“Come mai sei uscita così tardi? È più di mezz’ora che sono qui ad aspettare.”
“Non sapevo che venissi. Mi sono fermata a sentire le prove del coro con il maestro di musica.”
“È per lui che ti sei vestita così?”
“Così come?”
“Con quel vestito. Provocante.”
“Provocante? Ma cosa dici.”
“È lui il maestro di musica?”
Fausto accenna a un uomo giovane e magro che esce in quel momento dalla scuola e va dritto verso la sua bicicletta, senza voltarsi verso di loro.
“Sì è lui, Giuseppe. Insegna qui da tre anni.”
Gemma guarda la faccia di Fausto e non aggiunge altro. Giuseppe è una persona sensibile e timida a cui è molto affezionata. Quando è rimasta sola lui le ha fatto sentire la sua presenza discreta, le ha offerto la sua disponibilità nel caso lei avesse avuto bisogno di qualunque cosa. Le ha sempre dimostrato una gentile attenzione.
“Cosa mi nascondi?”
L’espressione di Fausto è dura, le prende un polso e le torce un braccio fino a farla gridare dal male. Giuseppe si gira allarmato mentre già si sta allontanando in bicicletta, ma Fausto la spinge con decisione e la fa salire in macchina.
“Scusa, non sopporto gli uomini che hai intorno. Mi dispiace. Ti ho fatto male?”
Non sopporta gli uomini che ha intorno. Anche Giuseppe è un potenziale rivale per lui, come chiunque altro.
Quando in estate la mamma di Massimo, un compagno di scuola di Mirco, li invita entrambi per due settimane nella loro casa al mare, Fausto le telefona tutti i giorni. Una domenica le compare davanti in spiaggia.
“Sono venuto a trovarvi.”
E forse a controllare, pensa Gemma. Ma quella visita improvvisa le fa piacere. Lui aveva voglia di vederla. 


Fausto vorrebbe trasferirsi a casa di Gemma e Mirco, vivere con loro, ma lei non si sente pronta a una convivenza. Non ancora. È troppo presto. Ma lui è così possessivo, ci sono continue scene di gelosia quando non c’è Mirco. Le ha lasciato dei lividi sulle braccia, a forza di scuoterla. Le ha tirato con violenza i capelli.
È il suo modo di esprimere il suo amore, Fausto non è uno di tante parole, è un uomo d’azione. Ha paura di perderla, pensa Gemma, che sa di provare la stessa paura. Ha paura che lui scompaia, ma a volte ha paura anche della sua presenza. La paura le tiene spesso compagnia, ne sente accanto il respiro affannoso. 
“Gemma, qualcosa non va?”
Dopo quell’episodio davanti a scuola, Giuseppe la osserva con più attenzione. Deve controllarsi anche con lui, oltre che con Mirco.
“No, va tutto bene. Perché?”
“Ogni tanto hai l’aria di voler chiedere qualcosa, ma poi non lo fai.”
Cosa potrebbe chiedere, e a chi? La sua vita è cambiata, lei stessa è cambiata, deve rimettere ordine nei suoi pensieri, trovare un nuovo equilibrio, cosa c’è di strano? Ha bisogno di tempo, un po’ di tempo ancora prima di decidersi a dare ufficialità al suo rapporto con Fausto. Ma si vogliono bene, non ci sono dubbi. È ormai quasi un anno che si sono conosciuti. Sono legati l’uno all’altra, profondamente.


“Andiamo via il prossimo week-end? Andiamo in montagna.”
“Non posso, Damiano viene a prendere Mirco e abbiamo delle cose da discutere.”
“Ancora? Ma l’hai appena visto, che cosa vuole?”
Sì, Gemma l’aveva visto pochi giorni prima e le era sembrato confuso. Del divorzio non aveva più parlato, neanche del figlio, ma lei non aveva fatto domande. Non voleva essere coinvolta nei suoi dubbi, non voleva essere la sua confidente. E alle domande che lui le faceva sulla sua vita privata lei dava risposte vaghe.
“Ha detto che ha bisogno di parlarmi.”
“Si è stancato della zoccola, vero? Vuole tornare con te.”
“Piantala Fausto con questa storia.”
“Devo piantarla, è così? Devo stare zitto e aspettare le tue decisioni!”
Lui la prende per le spalle, sembra un abbraccio ma la spinge contro il muro e la tiene ferma stringendole le dita intorno al collo. Gemma è atterrita e cerca di difendersi, di prenderlo a calci, di divincolarsi. Appena lui diminuisce un poco la presa gli grida “Lasciami, vai via, tra poco torna Mirco”.
“Mirco, sempre Mirco.”
“Sì, sempre Mirco. Vai via.” Gemma ha gli occhi pieni di lacrime ma cerca di reggere quel suo sguardo furioso.
Non se lo aspetta. Il pugno le arriva in faccia e lei perde l’equilibrio e cade, sopraffatta dalla sorpresa e dal dolore, dall’orrore, dall’umiliazione.


Suona il telefono. Gemma si riscuote e va a rispondere. È Mirco.
“Mamma, Massimo mi ha chiesto se posso stare qui a cena e anche a dormire. Ti prego, mi lasci? Domani andiamo insieme a scuola.”
“Va bene, saluta Massimo e ringrazia la sua mamma.” Gemma cerca di controllare il tremito della voce.
“ Grazie mamma. Che cos’hai? Hai una voce strana.”
“Sono scivolata e ho picchiato la faccia contro il tavolo, ma non è niente di grave.” Meglio dirgli subito qualcosa, prima che lui se ne accorga e faccia domande.
“Davvero? Ti sei fatta tanto male?”
“Un po’ ma non preoccuparti. Buona notte. Ti mando un bacio.”
“Anch’io, ciao mamma buona notte.”
Gemma rimane lì seduta per terra col telefono in mano. Grazie al cielo Mirco non la vedrà in questo stato. Grazie al cielo.
Poi fa il numero di Fiorenza. Quando l’amica risponde, dice qualche frase ma poi i singhiozzi le impediscono di proseguire. Fiorenza spaventata le dice di aspettarla, che arriva appena possibile.
Gemma si alza e si guarda allo specchio. Oddio. Ha un grosso segno nero tra lo zigomo e l’orecchio sinistro. Il livido diventerà ancora più grande, ma temeva peggio. Non c’è lacerazione, non c’è niente di rotto. 
Prende del ghiaccio e se lo mette sopra la botta. Suona il telefono. È Fausto.
“Gemma ti prego perdonami, sono stato una bestia. Come stai? Ti ho fatto molto male, lo so. Non so cosa mi ha preso, non sopporto che tu esca con altri uomini, neanche con tuo marito. Non riesco a controllarmi, lo so devo riuscire a farlo, ti giuro che ci riuscirò, che non succederà mai più. Mi credi?”
“Fausto non ho voglia di parlarti adesso.”
“C’è lì Mirco?”
“No, c’è Fiorenza. Devo andare.”
Fiorenza in realtà non c’è ancora ma arriva poco dopo e la guarda sconvolta.
“Dimmi cosa è successo.”
Gemma racconta ma si accorge di tralasciare i dettagli, di cercare di minimizzare.
Fiorenza vuole che comunque parli con un avvocato, lei lavora in uno studio legale e non ha difficoltà a procurarle quello giusto. Anzi potrebbe farlo già stasera. Ha una cena a cui non può più sottrarsi, ma insiste perché anche Gemma vada con lei.
“Non voglio lasciarti qui sola. Dai, ti aiuto a truccarti e usciamo insieme.”
Gemma non ne ha voglia, ma non ha neanche voglia di stare lì sola in casa. Si lava, si veste, si mette uno spesso strato di fondotinta e sistema i capelli in modo da nascondere il livido.
Al ristorante lui la chiama ancora. Potrebbe non rispondere, invece lo fa. In fondo si aspetta qualcosa da lui, una spiegazione convincente, qualcosa che le permetta di capire.
“Gemma per favore posso venire? Devo vederti.”
“Sono fuori a cena con Fiorenza e altre persone.”
“Siete alla trattoria di Diego?”
“No, in un posto che conosce lei, vicino a casa sua.”
“Come torni a casa?”
“Qualcuno mi accompagna.”
Lui sta per chiedere chi, ma si trattiene. “Gemma ti amo lo sai, non farmi soffrire.”
Ah, era lui a soffrire. Probabilmente era vero, la amava e soffriva, in quel suo modo incapace di controllo, di misura. Doveva forse avere pazienza, aiutarlo a trovare la maniera di esprimere i suoi sentimenti.
Gemma spegne il cellulare e Fiorenza la guarda. “Era meglio non dirgli niente. Lui una volta mi ha accompagnato a casa dopo una cena a casa tua, sa dove abito e qui intorno non ci sono molti ristoranti.”
Non importa, pensa Gemma, ora lì si trova bene e vuole concedersi un piccolo intervallo, una brevissima vacanza da se stessa e da tutto quello su cui deve riflettere. E mentre si sforza di prendere parte alla conversazione ricacciando indietro tutto il resto, qualcuno chiede: “Sta piovendo?” e l’uomo seduto di fianco a lei si gira verso la finestra e scosta la tenda per guardare e Gemma lo vede, lì fuori, vede Fausto in piedi accanto alla macchina di Fiorenza, lo vede che aspetta fumando.
E allora improvvisamente capisce. Capisce perché lui era fuori da quel ristorante quella sera di un anno prima, quando l’ha visto per la prima volta, e capisce la vera ragione per cui anche lui era tornato in quel posto, il giorno dopo.
Capisce che lui non cambierà, che quanto è successo è destinato a ripetersi, che lei deve svegliarsi dal suo lungo sonno e guardare quello che non ha voluto vedere. Capisce che deve rimettersi faticosamente in piedi e andare incontro a una nuova solitudine, che ancora sarà chiamata a dare prova di coraggio e di dignità. Chiederà consiglio, chiederà aiuto, ma poi dovrà proseguire da sola per la sua strada. Sa che deve farlo. Sa che può farlo. È ancora in tempo.

Prima di dover fuggire da un ristorante nascosta dentro un anonimo piumino nero, abbandonando nel guardaroba una pelliccia blu elettrico, troppo appariscente per passare inosservata.    




LA FRASE DEL GIORNO
“Cosa mi manca?
Mi mancano le persone che non mi vedono
e non mi mancano le persone che fanno finta
di non vedermi”

Laura Margherita Volante



POETI

FILIPPO RAVIZZA

Dico

Un dirupo scavato nell’Atlantico
il nostro nome… generazione
del conforto forte battaglia, ansie
del rispetto… come quella sera
e quel mattino, dopo, poi… lì,
sì, lì, lì a Lisbona, pareva quasi
un precipizio il dirupo scavato
nell’Atlantico…
parevi tu parevo io noi tutti…
non dico poco non dico niente,
sai, dico io, la mia generazione
sì lei, lei dico, chinando il capo
al tempo che tutto dimentica
e tutto ama e distrugge perché
destina, dico…
capisci ora… capisci…
dico la mia apparizione…
dico Lisbona allora e adesso…
dico che ti voglio bene… dico
che abbiamo amato veramente
i ponti sentito sai sentito…
“quelle care sfavillanti luci
nella notte, da costa a costa…
il fuoco, l’uguaglianza,
la prossimità degli altri”






MOSAICO.  Per Gregory Corso
di Gilberto Isella


La sovversione è contenuta in una bomba. Quella “Bomba” poetica in forma di fungo che Gregory Corso gettò in faccia al buonismo dei pacifisti russelliani, e che divenne l’emblema dell’intera beat generation (così come l’Urlo ginsbergiano o il vagabondaggio dharmico di Kerouac).  “All man hates you… They’d rather die by anything but you”, “L’uomo morirebbe di tutto piuttosto che te”. Elevando la poesia a deflagratore universale, Corso contrappone con scaltra ironia la Morte cosmica alla piccolo-borghese, replicante, privata (no-feeling, sadless) morte naturale o incidentale. Ne fiuta l’irrevocabilità apocalittica, la complicità con l’antica ekpiroris, ne contorna la sublime sinopia mistico-religiosa, ma ci fa capire allo stesso tempo che nulla trascende l’ordine simbolico.
Scriveva Burroughs nel 1989: “Il rozzo contestatore inglese che buttò una scarpa contro Gregory mentre leggeva Bomba non capirà mai la poesia e i poeti, poiché la realtà poetica non ha niente a che fare con la realtà politica e sociale”. E difatti la poesia è un’esplosione di ebbrezza anarchica insostenibile dalla società. Soltanto il suo dire, rivoltandosi contro l’assetto “troppo umano” di un universo da cui Dio è fuggito, può assurgere al ruolo di mito-bomba:  reazione a catena di immagini e metafore dagli effetti vertiginosi, proteiforme anti-Dio disseminato nel testuale, disposto a scagliare strali infuocati o viceversa a dispensare dolcezze idilliache: “Pinkbombs will blossom”, “Bombe-garofano sbocceranno”.
Disinnescata à tout jamais dalla ragione storica, la bomba si trasforma in un’enorme cornucopia di parole e suoni, riscopre e riillumina tesori letterari del passato, diventa una voliera di uccelli variopinti, una polifonia di gorgheggi e striduli versi. L’atomica, il  maggior tabù dei nostri giorni, sarà allora un “Giocattolo d’universo”, un oceano stellare di segni:

Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tinnante
Infila angeli sui tuoi piedi giubileo
 ruote di pioggia-luce sul tuo scanno
La tua ora è giunta vedi essa è giunta
e i cieli ti hanno assunta
osanna incalescente gloriosa unione
BOMBA O tumulto antifona spacco liquefatto BUM

Corso, come sostiene Vito Amoruso, fa di “un simbolo di una condizione storica l’occasione di una variazione stilistica, fonica e onomatopeica, cioè lo strumento di una rappresentazione e di una presa di possesso solamente linguistiche della realtà”[1] L’area di deflagrazione dell’ordigno-mito non è insomma più vasta di un Mindfield, ossia il Campo mentale dove tutto brucia e si ricompone, all’insegna di una partita che ha sentore di Eterno ritorno (“Evviva la squadra fuori casa del Presente/ la squadra in casa del Passato) per poi archiviarsi  come sogno nel sogno, meta-sogno.[2]

Ginsberg e Corso

La metafora trionfa sopra il mondo. Compiendo n-volte il suo circuito virtuoso, essa produce senso al di là delle sterili opposizioni manichee. Feconda gli insiemi, i vasti alvei della memoria, trova convergenze deliranti (“coyote di vetta e luna”, “fu la vita a ficcargli un cucchiaio in bocca”), promuove l’everything included: rabbia ed euforia, prostrazione e autoesaltazione, veglia e sogno, il magico del quotidiano e il quotidiano del magico.  Gregory rifiuta – nella vita e nell’arte – la contrapposizione degli estremi. Quali poi, e su quali assi ‘privilegiati’? Bello/brutto, alto/basso, stasi/movimento, bianco/nero? Che non sono a ben vedere cifre esistenziali, bensì poli di un’illusoria dialettica. Assai più redditizio – se si vuol cogliere l’Essere nella sua liquida, inesauribile polisemia – esercitare nei modi del jazz (vedi Requiem for “Bird” Parker o For Miles) l’arte del ‘tema con variazioni’, magari inghirlandate di anafore come negli antichi inni di lode. Giaculatorie alla Ginsberg, ma più distese e raffinatamente sofferte, anche se talvolta portate a una proliferazione immaginale estrema, ai limiti del fading.  E così, in Gazoline (Benzina) del 1958, prorompe il Sole, significante e spugna potenziale del Tutto, archetipo di ogni antropomorfica bomba:

Il sole ha la forma di un dito curvo che accenna.
Il sole vortica cammina balla salta corre.
Il sole predilige palma agrumi polmoni tubercolosi.
Il sole ingoia il lago e le alpi Teliphicci ogni volta che sorge.
Il sole non sa cosa vuol dire amare o odiare.
Il sole tutta la mia vita è sceso nel lago Teliphicci.
Oh foro costante dove ogni aldilà è pura Bisanzio.


Ferlinghetti
Dove il “foro costante” rimanda allo “spacco liquefatto” di Bomba:   saturazione energetica, scoppio che apre varchi e lascia che intorno si diffonda, col liquefarsi del senso, la pulviscolare, impalpabile materia dell’altrove. Nella sua maestosità tragica, il Sole sembra incedere fuggendo da se stesso, esporsi ingordo (“ingoia il lago… ogni volta che sorge”) e sottrarsi (“è sceso nel lago”) come l’Essere heideggeriano, al pari di ogni Macro-prodigio che seduca l’intelligenza umana. Per questo il Sole è obliquità, “un dito curvo che accenna”, oracolarmente.  Al fine di scongiurare la propria scomparsa, ha bisogno di sentirsi nominato e rinominato, di farsi capoverso ad libitum, secondo il gioco subdolo dell’anafora, regina dell’inno. Come pochi altri Corso ha cantato l’intrinseca fragilità della Volontà di Potenza, che si nutre di ossimori tanto quanto l’ottimismo imperiale americano. Nella semantica mitica del poeta newyorkese, Bomba, Sole e Potere fanno un tutt’uno. Si legga qualche verso di Power (in The Happy Birthday of Death):

Il Potere è sottopotenziato
Il Potere è ciò che succede
Il Potere è senza corpo o spirito
Il Potere è tristemente fondamentale
Il Potere è raggiunto dalla Debolezza
i diesel non spiegano il Potere
Ginsberg e Corso

La poesia, in Corso, non si inchina alle schizomorfie del Logos, responsabili di ogni dogma etico-gnoseologico. Preferisce ribellarsi agli infingimenti razioidi del sensus communis (la pacifica doxa occidentale nella variante USA), rifiuta  decisamente di classificare i doni di Pandora in base a criteri assiologici, moltiplica i suoi punti di fuga, adegua gli enunciati a un’elastica ‘topologia’ del senso, godendo infine delle proprie contraddizioni. Essa si spinge perfino, sul piano degli exempla, a sovvertire i valori comunemente attribuiti ai personaggi mitologici, prendendo le difese di chi, tra loro, è decaduto o reietto, foss’anche il più impopolare. A proposito del famigerato Polifemo, Gregory glosserà in Mortal Infliction, Maledizione mortale:

Ulisse è morto
a quest’ora è morto
E quanto fu saggio
colui che accecò una creatura immortale?

In tal modo egli rivendica la massima libertà creativa,  lasciando anche trapelare in varie occasioni il personale attaccamento alle lezioni del romanticismo europeo più spigliato, da Shelley a Rimbaud: “Whit a love a madness for Shelley/ Chatterton Rimbaud”, “con un amore un delirio per Shelley/ Chatterton Rimbaud”. In un significativo testo della raccolta Herald of the Autochtonic Spirit, Nunzio dello spirito autoctonio  (1981), l’”autoctonia” che Corso attribuisce a se stesso -vale a dire  l’affermazione sincrona di indipendenza e istintualità ctonia-  comincia con un rito di svuotamento dell’io dagli idoli metafisici ereditati dalla tradizione. Nel componimento, una scherzosa pagina autobiografica intitolata The Whole Mess… Almost, Tutta la baracca… o quasi, domina massicciamente il verbo throwing out, buttar via.

Salii di corsa sei piani di scale
fino alla mia stanzetta ammobiliata
aprii la finestra
e cominciai a buttare via
le cose più importanti nella vita


Gli oggetti della spoliazione intellettuale, debitamente personificati, sono la Verità, l’Amore, le Virtù teologali, la Bellezza e, per finire, l’esistente-inesistente Morte. Non si tratta di un puro esercizio di nichilismo,  perché il tentativo di autodafé ideologico è ostacolato almeno da una delle grandi creazioni dello Spirito, la Bellezza. Assumendo il bello (anche se dissonante) nelle proprie creazioni, il poeta non può ripudiarlo senza smentirsi. E del resto l’aggressività  nei suoi confronti, intrisa com’è di freudiana Verneinung, appare piuttosto equivoca: “Non avendo l’intenzione di buttarla davvero/ feci di corsa le scale/ arrivando appena in tempo per prenderla al volo”. Si salva infine, senza però che l’autore lo confessi apertamente, l’Umorismo. Per quale motivo? Perché gettarlo dalla finestra vorrebbe dire sbarazzarsi anche di questa e, per sineddoche, dell’intera “baracca” della poesia: “Con l’Umorismo non potei far altro che dire:/ Fuori dalla finestra con la finestra!”.  Un gesto chiaramente assurdo, ma anche un segnale a chi legge. L’Umorismo, infatti, va salvaguardato, in quanto ammortizzatore delle pulsioni negative della mente e operatore indiscusso di catarsi. Difettando di questo salutare jolly dello spirito risulterebbe vano poetare. In altra sede il poeta scriverà: “Vorrei che un umorismo mi salvasse dalla filosofia dilettantesca”. E dall’umorismo al clownesco, come ben sapeva il nostro Palazzeschi, il cammino è breve:

E perché ti dicono sii un uomo, non un pagliaccio?
E cosa vuol dire essere un uomo?
…..
Così facile congelare il proprio umorismo
- per far vento al sole.
(Clown, in The Happy Birthday of Death)

Corso e Ginsberg
Allucinare -che non è se non un modo estremo dell’intuire-  significa in particolare infondere luce straniante sulle questioni metafisiche, e in fin dei conti declassarle a inquietudini psichiche. Un residuo di follia, ad esempio, può farci credere di essere Dio. Un tizio sta in piedi alla finestra: “He stands a man stunned with the realization/ that he’s God. He is God!”, “Sta lì folgorato dall’intuizione/ che è Dio. Lui è Dio!”. Lo sarà, non lo sarà? In mancanza di prove di verità circa il transumanare, lo iato tra sentirsi Dio ed esserlo non sarà mai colmato. Ed è bene sia così. Ancora una volta, in Gregory, trionfa la ragion poetica, fatta di domande inevase, dissolvenze logiche e allucinate lacune.  Il Dio più genuino,  d’altronde,  appartiene  ai fantasmi dell’infanzia, all’età in cui, apparendo il mondo intero favola e gioco, conoscenza e visione coincidevano. Leggiamo la prima strofa di Youthful Religious Experiences, Esperienze religiose giovanili, in Herald of the Autochtonic Spirit (1981):

A cinque anni
vidi Dio in cielo
Stavo attraversando un ponte
per comprare del sale
e quando alzai gli occhi
vidi un uomo grosso
con capelli e barba bianchi
seduto a una scrivania di nuvole
con sopra due libri giganteschi
uno era nero
l’altro bianco

Provvederà un confessore -depositario della Legge- a forzare l’ingenuo contrasto cromatico nero/bianco dentro le austere caselle della moralizzazione: il libro bianco non può che registrare il bene compiuto, e quello nero il male. Semplice, no? E magari grazie a un simbolismo così rudimentale -fatto per tranquillizzare le anime belle- l’agire di Dio acquista senso. Ma con quali conseguenze sulla poesia?
La poesia, per il Corso smaliziato degli Unpublished Poems, è quell’anello magico che ci immunizza non tanto dal Dio vagheggiato nei ‘paradisi infantili’ -ispiratore di fabulae e miti- quanto dal Dio della teologia dogmatica (“io non aderii ad arcane trinità”) e dell’esegesi ecclesiale.  Si veda il componimento Fire Record- No Alarm, Rapporto incendi- Nessun allarme:

sto solo
            davanti all’universo
libero da Dio
              padre dei miei figli
e sul mio dito
          l’anello della poesia.

Corso
Nelle vene di Gregory e nei suoi versi scorre sangue pagano, quel  politeismo metamorfico e ‘biologico’ che il peyote o la coca convertono in ebbrezza e che l’antichità classica riassumeva forse, simbolicamente, nella figura di Ermes-Mercurio, il palombaro dell’Altrove, il nume dello sconfinamento illimitato. Erranza, sbando, flânerie, esondazione: temi che irrompono nell’opera corsiana per bulimia vitalistica e senza mai eludere i parametri beatnik, raffinandoli anzi, culturalizzandoli al massimo: dal reale all’immaginario, dal sogno alla veglia, dalla solitudine più disperata alla socievolezza più euforizzante, dal mito greco al prosaico mito americano, dispensatore di traumi e di precipitose ricadute nel ‘reale’. Sempre on the road, per dirla alla Kerouac, sulle due corsie di andata e ritorno. Gregory, insomma è Ermes, traghettatore e nunzio. Ma un Ermes accoppiato alla Musa dionisiaca, maestra di allucinologia à la carte:

Vidi Lei ed esclamai: “Ah Signora Dio!”
Mi fece segno di accomodarmi su un cuscino di velluto dorato
Mi sedetti – e ai Suoi piedi di cigno stavano tre:
Ganesha, Thoth, Ermes,
e su una pipa della cenere scheletrica di Poe
soffiarono un diamante infuocato di hash di Balbeck
“Oh affascinante poeta-stallone che adoro
mio Nunzio Corso Gregorio
(Columbia U Poesy Reading – 1975)

Keruac
Si è parlato spesso di ossessione della morte, a proposito di Corso, tanti sono i cadaveri più o meno exquis disseminati nella sua produzione poetica, e altrettanti gli allegorici mangiatori di carogne. “Ha fatto del mistero della morte il tema centrale della sua poesia”, scrive Fernanda Pivano, ma lo ha fatto proprio perché “è fragorosamente attaccato alla vita”. La morte primeggia, infatti, nel corpus, ma con funzione di filigrana talismanica incorporata al testo-della-vita. È la morte che augura a se stessa buon compleanno, come registra un celebre titolo, è la morte sessualizzata (Eros-Thanatos), è la morte come condizione di rinascita. Il debordante Spontaneous Requiem for the American Indian conduce il lessico tanatografico al parossismo, con un’impennata al verso “Morire morire morire morire morire morire … america, requiem”, salvo  concludersi poi con le profezie più incoraggianti: “alla vigilia di un nuovo mondo da esplorare”, “e presto… dietro di te/ seguendo vennero/ i figli dei fiori”. Il ragazzo Cristo-Beat, protagonista della narrazione, porta “la gentile rotondità di ogni cosa”, convinto nell’intimo che il cerchio dell’Eterno ritorno assicuri la beatitudine.
 Nella raccolta in questione (The Happy Birthday of Death, Il buon compleanno della morte, 1960)  la morte può perfino coincidere, grazie a un’astuta, beffarda sterzata metaforica, con la caduta dei capelli (vedi Hair). Quella calvizie che, fin dal mito di Sansone (Samson bear with me!”, “Sansone abbi indulgenza con me!”) simboleggia la castrazione, nel senso della scomparsa di particolari attributi irrinunciabili per il maschio (pensiamo ai ‘capelloni’ in voga nell’èra-beatniks):

Cosa serve che io cammini per Fifth Avenue
o vada a letto per l’intervallo
o sosti davanti a scuole femminili
quando non mi rimane niente da mostrare.

Ma è il cranio in sé, custode del Mindfield (campo mentale) e dunque della quintessenza umana, il cranio segnato per principio dal chiasmo morte/vita, a doversi salvare e salire in Paradiso, come si evince da Transformation & Escape, Trasformazione ed evasione: “Il cranio!/ “Il mio cranio!/ Il solo cranio in paradiso!”. E se la mente pensante fosse innanzitutto la fucina dell’humour e del clownesco, le virtù più idonee a rivitalizzare il mondo?  A maggior ragione la creatura che le incarna per eccellenza, il pagliaccio, meriterebbe la salvezza: “Se il pagliaccio morisse/ il mese di agosto sarebbe appesantito/ di sacchi di frumento rancido” (Clown). Il pagliaccio, icona del poeta e frequentatore dei luoghi più rischiosi e segreti ha naturalmente a che fare con la Morte (“È per la Morte che rendi nero profitto?”), ma proprio per questo ne esce immunizzato.  La scimmiesca Morte,  grottesca acrobata,  non è del resto che l’immagine speculare del clown-poeta, la sua irriverente controfigura:

La Morte, come la coda di una scimmia,
scende avvolta a spirale su un palo che sale,
che continua a salire.

La vera morte inconsolabile, quella che neppure una risata clownesca consolerebbe, è per Corso la morte dell’infanzia.  Perché con il venir meno di questa età, con il cristallizzarsi sul nostro volto dell’adulta  maschera razioide, sono gli stessi germi del poetare-fantasticare-illudere a dissolversi. Ma se il bambino è cosciente della propria supremazia mentre scruta la desolazione intellettuale della vecchiaia, è capace all’istante di svelenirne la vista grazie alla pietas generata dalla profondità dei suoi occhi. L’infanzia sa davvero sbugiardare diffusi truismi, ‘andare oltre’:

Il bambino vede
la stupidità della vecchiaia
in un sapientone pigro –
la profondità cosciente degli occhi del bambino
innocentemente disprezza quella vista


Tomba di Gregory Corso
Ecco perché il bambino, “perverso polimorfo” come lo immaginava Freud, spesso indossante le vesti di uccello di malaugurio, è destinato a divenire il capro espiatorio della società civilizzata e orgogliosa dei propri conformistici valori.  I suoi contrassegni sono, a guardar bene, quelli del ‘poeta maledetto’ in noi, del contestatore dell’ordine. Egli è Dioniso, e perciò merita la stessa sorte del figlio di Zeus smembrato dai Titani, secondo il mito cui s’ispira implicitamente Don’t Shoot  the Warthog, Non sparate sul facocero, tratto da Gasoline. La folla, dopo averlo riconosciuto, si abbandonerà a un forsennato linciaggio, colta da un raptus omicida di natura ancestrale.  Ma invano, perché se il bimbo non è altro che la Bellezza, la Bellezza non può perire:


Il bambino tremò, cadde,
e si rialzò barcollando,
io urlai il suo nome!
E una furia di madri e padri
gli affondarono i denti nel cervello.
Invocai gli angeli della mia generazione
sui tetti, nei vicoli,
sotto l’immondizia e le pietre,
io urlai il nome! e corsero da me in processione
e rosicchiarono le ossa del bambino.
Io urlai il nome: Bellezza
Bellezza  Bellezza  Bellezza
*

Gregory Corso (1930- 2001). Incarcerato nell’adolescenza a più riprese per ricettazione e rapina. Redento in seguito, ma forse non del tutto, dalla Musa poetica. Uomo di strada e pensatore sottile, ilare e malinconico, testimone tra i più significativi della vita statunitense durante i ruggenti anni sessanta-settanta, all’epoca della guerra in Vietnam e della contestazione studentesca, delle morti per overdose e della lotta per l’emancipazione degli afroamericani, immortalata dal jazz. Ma soprattutto poeta immaginifico e nel contempo straordinario osservatore della realtà.  Uno dei pilastri della beat generation. Così lo ricorda l’amico Allen Ginsberg:

  “Corso è un Poeta dei poeti, il suo verso puro velluto, prossimo a John Keats per il nostro tempo, squisitamente addentro ai modi della Musa. È stato e sarà sempre un poeta caro a molti, risvegliatore di giovani, indovinello e piacere per i più anziani e sofisticati bibliofili, “Immortale” quanto si può essere immortali, Capitan Poesia che incarna la rivoluzione dello Spirito, la sua “poesia come l’opposto dell’ipocrisia”, un solitario, ridicolmente ignorato dai patri allori, divino Poeta Maledetto, poeta fuorilegge fratello di Villon e Rimbaud la cui fama selvaggia si estende da decenni per tutto il globo dalla Francia alla Cina, poeta del Mondo. (marzo 1989)


Ginsberg, Burrowsand, Corso


Note
1.V. Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Bari, 1969, p.191.
2.Minfield: New and Selected Poems, così s’intitola l’autoantologia pubblicata, grazie a finanziamenti pubblici, nel 1989. L’edizione italiana, da cui vengono citati i testi, è uscita a cura di Massimo Bacigalupo per le Edizioni Newton (2007).




                                    


Roma città aperta di Roberto Rossellini, Italia, 1945
di Fiorenza Melani



La storia che vi voglio raccontare è quella della nascita di un capolavoro inaspettato. Di un fiore che, contro ogni aspettativa, germoglia nel deserto del dopoguerra. Questa storia inizia nel 1944, subito dopo la liberazione di Roma da parte delle truppe alleate. Sergio Amidei, autore del soggetto e cosceneggiatore di “Roma città aperta”, propone a Roberto Rossellini di realizzare un film che racconti l’occupazione tedesca di Roma con storie liberamente ispirate a personaggi della resistenza. Storie che gli sono state raccontate direttamente da partigiani con i quali era in contatto o che ha letto sulla stampa clandestina. Roberto Rossellini accetta immediatamente, ed è grazie alla sua presenza di autore già affermato che il progetto può cominciare a prendere corpo.
Rossellini coinvolge Federico Fellini, che allora non era ancora regista cinematografico ma aveva firmato diverse sceneggiature di film popolari e aveva un negozio di caricaturista a Roma. Da Fellini ottiene la collaborazione nella stesura della sceneggiatura, che viene quasi interamente scritta nella sua casa romana, e l’intercessione presso l’amico Aldo Fabrizi, che Rossellini vuole fortemente come protagonista del film. Non sappiamo però quanto Rossellini sia stato fedele alla sceneggiatura originale, ormai perduta, perché il regista crede nell’influenza del luogo sull’ispirazione, nell’importanza dell’interazione tra gli attori all’interno della scena e usa quindi abbondantemente l’improvvisazione a partire da un canovaccio.
Il film nasce tra le macerie della guerra, ma in un clima di grande speranza e tensione verso il futuro. Nel ’44 dopo la liberazione di Roma tutto era distrutto. L’industria cinematografica italiana era stata spazzata via dalla guerra. Cinecittà, uno dei simboli del fascismo per gli americani, era stata trasformata dalle truppe alleate in un campo profughi. È in questo clima, e grazie all’enorme libertà che la mancanza di una produzione strutturata comporta, che può nascere “Roma città aperta”. Così scrive Rossellini nella sua autobiografia: “alla fine della guerra ci ritrovammo come in un deserto. Abbiamo ricominciato da zero, senza fare della poesia sul dolore che avevamo sofferto”.
La lavorazione del film inizia a gennaio e termina a giugno del 1945. È una lavorazione travagliata, che procede a singhiozzo tra ostacoli di ogni genere. Manca la pellicola e Rossellini è costretto ad utilizzare pellicola di risulta, avanzi di magazzino oppure quel che resta agli americani dopo aver girato le attualità di guerra. Non ha il positivo per vedere i giornalieri e controllare così le riprese. Gira senza sonoro per ridurre le spese (gli attori doppieranno se stessi a montaggio completo) e durante la notte, in uno studio improvvisato in via degli Avignonesi n.30, perché di giorno non c’è la corrente elettrica. I finanziamenti non sono sufficienti. La presenza di Rossellini garantisce il supporto di alcuni mecenati, ma le cifre sono modeste e i soldi finiscono in fretta. Rossellini vende l’arredamento di casa per terminare il film, compreso il letto su cui dorme.
Con notevole spirito di avventura da parte degli attori e di tutta la troupe “Roma città aperta” viene terminato e a settembre del ’45 presentato a Roma in un piccolo festival. L’accoglienza da parte della critica è tiepida, diventerà entusiasta soltanto a fronte dei riconoscimenti internazionali. Nel 1946 il film riceve il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e nello stesso anno il Nastro d’Argento per la Miglior Regia e per la Miglior Attrice Non Protagonista: Anna Magnani. Grazie a “Roma città aperta” viene riconosciuto il talento drammatico di Anna Magnani, che diventa una vera e proprio icona della rappresentazione cinematografica della resistenza e viene lanciata in ambito internazionale.

Al contrario della critica, il pubblico lo ama fin dal principio: è il film italiano più visto nella stagione ’45-’46. Il suo valore è affrontare senza reticenze e falsi pudori ciò che le persone comuni avevano vissuto, mettendo in scena una realtà raccontata senza orpelli, a levare come la scultura di Michelangelo.
Con “Roma città aperta” Roberto Rossellini dà inizio alla sua trilogia della guerra (che proseguirà con i film “Paisà” e “Germania Anno Zero”) ma soprattutto fonda il neorealismo, una delle correnti più fulgide della cinematografia del nostro Paese. Tra il 1945 e il 1946 molti autori italiani sentono l’urgenza di narrare storie in modo nuovo, affondando le radici nella realtà, guardando al passato recente o all’attualità del dopoguerra (tra i nomi più importanti: Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Luigi Zampa). È improprio parlare di una scuola, perché ogni autore interpretò il neorealismo in modo personale, ma fu indubbiamente una corrente di pensiero che rappresentava una nuova etica ed estetica cinematografica, nella quale utilizzare il cinema fuori dagli schemi spettacolari tradizionali come testimone di un’epoca. Immagine e messa in scena erano minimali, dovevano avvicinarsi alla realtà, liberarsi dalle sovrastrutture per andare al cuore dell’umanità. Un’attenzione all’uomo e alle sfumature del suo essere che può essere considerata un vero e proprio umanesimo cinematografico.
Rossellini ha sempre rifiutato l’etichetta di neorealista perché non accettava di essere vincolato da schemi contenutistici e formali rigidi e ripetitivi. Per lui il neorealismo era soprattutto una posizione morale: guardare alla realtà nel suo farsi, senza giudizio, partendo da una posizione di estremo interesse e fiducia nei confronti dell’essere umano. Così scrive nella sua autobiografia: “Il realismo è una maggiore curiosità per gli individui, rendersi conto della realtà in modo spietatamente concreto. Una sincera necessità di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario. Oggetto vivo del film realistico è il mondo, non la storia, non il racconto. È il film che pone e si pone dei problemi”.
E se le storie narrate sono gesta eroiche insieme a piccoli intrighi da feuilleton, da romanzo di serie B, è perché così è l’esistenza stessa, perché “i grandi gesti o i grandi fatti si producono nello stesso modo dei piccoli fatti normali della vita”.

                                    

POETI


Lidia Sella

Buon viaggio
nell'imbuto degli anni
sui tornanti della vita
lungo la galleria dei sogni.
Buon viaggio
attraverso i campi
dello spazio-tempo
dentro gli sguardi che incroceremo
fra le isole d’Amore
fino alle spiagge
dove l'oceano del pensiero
depone conchiglie di parole.
Buon viaggio a chi buca
le nubi della mediocrità
e alla musica antica
che veleggia
verso galassie lontane.
Buon viaggio
nelle profondità della morte
e sulle contrade future
che un giorno sorvoleremo
da semplici scaglie di energia.
Buon viaggio a coloro che esplorano
le infinite dimensioni dello spirito
e a tutti quelli che navigano
sulle onde della gioia
mentre ancora posseggono un corpo
e antenne per vibrare
di piacere e bellezza.
Lidia Sella


               


Muse

Mary-Lou
i do not take care of you
because you are old
and in need of care
Mary-Lou
i do not take care of you
because it is my duty
as your husband
Mary-Lou
i do not take care of you
because others would dump you
in an istant
in a nursing home
Mary-Lou
i take care of you
because
love is the greatest thing in the world
i take care of you
because
you always made my soul sing
i take care of you Mary-Lou
because you are the great poem
in my life.

Don Burness
Rindge, USA, 8 september 2012

 ***

 Musa

Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché sei vecchia
e hai bisogno di cure
Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché è il mio dovere
di marito
Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché altri ti avrebbero scaricata
in un attimo
in una casa di cura
Mary-Lou
mi prendo cura di te
perché
l'amore è la cosa più bella del mondo
mi prendo cura di te
perché
hai sempre fatto cantare la mia anima
mi prendo cura di te Mary-Lou
perché tu sei il grande poema
nella mia vita.

Don Burness
Rindge, USA, 8 settembre 2012
Traduzione di Max Luciani

                                           

L’autobiografismo metafisico di Clemente Rebora
di Giovanni Bianchi
 
Numero monografico di "Microprovincia" su Rebora

Il tormento dei versi esiste
Tornare ai poeti serve. Non so come, ma serve al pensiero e alla vita. Per quell’ineliminabile istinto pasquale che la poesia porta inevitabilmente in sé: più vertiginosamente profonda della filosofia, più realistica della politica e delle sue astuzie machiavelliche. Potente perché gratuita. Incontenibile perché timida e sommessa. Luogo della tragedia vera e di tutti i funambolismi possibili: vivente di ossimori continui e ripetuti; scrive infatti per frammenti un discorso infinito e interminabile. Vela senza la barca.
Per questo sono tornato a quel Clemente Rebora che non ho mai dismesso. (Prima e dopo la sua conversione.) Il più frequentato e scalpellato tra i poeti del mio desco da ciabattino. In un andamento sinfonico al quale abbandonarmi, una volta tanto senza note a piè di pagina, in un furto non dissimulato e continuo di pensieri e citazioni altrui. Quasi che la lettura si arrabbi con la critica e la dileggi e che un impulso poetico sgangherato (il mio) s'anneghi nel mare vasto di un rigore vigile e non di rado autofustigatore.
Critica dei tempi ed autocritica, controcorrente e in anticipo rispetto alle odierne generazioni senza storia e senza memoria –barbare di una verginità lieve, impalpabile e orrenda (il ballo di Salomè che decapita il Battista)– per le quali l'autocritica pare declassata a critica delle auto… Nella stagione in cui non è più la politica a farsi musica, ma la musica a farsi politica. Gustav Klimt e il suo gruppo della Secessione viennese potrebbero ben commentare: "Al tempo la sua arte, all'arte la sua libertà".
Dunque Rebora, da un luogo dove insiste esausto il pensare politica, là dove Cristo ha ragione e Machiavelli vince: il verso che prediligo.
Vale la pena ricordare, per scansar equivoci, il principio di Sant'Ambrogio che Lazzati amava ripetere: "Cercare sempre cose nuove, conservando il meglio di quelle antiche". E potrei  anche provare lo slogan: Viva la gioventù! Abbasso il giovanilismo. Tutto preso, lo ammetto nella civil asfissìa, architettando il diavol suo scompiglio, preso all'artiglio dell’io.

Clemente Rebora 

L'artiglio dell’io uccide
Perché l'artiglio dell'io uccide, il poeta cerca in tutto l'esistere un varco e una sortita: quel "solco" che tiene insieme nella metafora un rimpianto contadino che si sporge senza remore nella vertigine metropolitana di una Milano in trasformazione. Luogo poetico ed epicentro di un sisma interiore la minuscola mansarda di via Tadino, la topière dove condivide con la pianista russa Lidya Natus un amore smisurato, ma destinato a finire nell'abbandono.
In campo aperto lo coglie la grande guerra, in prima linea sul fronte goriziano, dove verso Natale l'esplosione ravvicinata di un proiettile d'artiglieria gli provoca un grave trauma nervoso. E prima di venire "riformato", nel nosocomio di Reggio Emilia, un medico psichiatra gli diagnosticherà una "mania dell'eterno".
È dunque la biografia il materiale non al tutto grezzo dal quale estrarre i versi di una poesia consapevolissima e che si esercita anche nelle forme esteriori più minute in una composizione di luogo che vede nell’abbaino di via Tadino gli appunti stesi lungo i fili solitamente destinati all'appendimento degli abiti. Sono le tessere che si tengono, e si possono tenere, in autobiografia e metafisica. La definizione è di Contini ed è azzeccata dal momento che il poeta è portatore di un "io largo", non narcisistico ma collettivo. Nel caso di Rebora addirittura "metafisico". E vedremo perché.
Prendo le mosse da un ricordo. Ero all'aeroporto di Zurigo in partenza per il Corno d'Africa. E mi era capitata tra le mani una intervista a Carlo Bo sulla "Stampa" di Torino dove, allora, Carlo Bo, sottoponendosi a una specie di gioco della torre, affermava che nel terzo millennio in valigia avrebbe forse dimenticato Thomas Mann, ma avrebbe senz'altro riposto Clemente Rebora e l'ultimo Turoldo...
L’io poetico infatti non è narcisistico perché inaugura uno spazio pubblico: quello nel quale Antonio Prete fa campeggiare Giacomo Leopardi, ma anche Shelling e il suo ab-solutus, l’agorà cui fa riferimento Zigmunt Bauman in La solitudine del cittadino globale: uno "spazio né privato né pubblico, ma più esattamente privato e pubblico al tempo stesso". Dove alla forza mite del Poeta corrisponde l'insignificanza del Politico. E dove l'unica cittadinanza possibile è il consumo, che produce spazzatura. È per questo che ritornano le domande: perché  autobiografismo? E in che senso metafisico?
Quanto all'autobiografismo lettori, critici e analisti concordano nel ritenere Rebora riservato e modernissimamente "petroso". Non è e non si atteggia a Vate. Nessuno infatti è indotto leggendolo a pensare al Carducci, proprio per questo magniloquente, sapendo di stare in cattedra rispetto a una Nazione attenta. Non pensiamo neppure al Giacomo Leopardi dei Canti che in All’Italia scrive:

Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.

Non penso neppure al Leopardi delle Operette Morali o dello Zibaldone dei Pensieri. Non penso all'Ezra Pound dei Pisan Cantos e neppure all‘Allen Ginsberg di "Urlo". Non penso neppure a Bob Dylan... Clemente Rebora non ha programmi da esibire. Orizzonti da ostinatamente proporre. Per questo la vita, nella sua densità anche di vita interiore, è testimonianza che si versa nella pagina: autobiografia senza ostentazione. E alla timidezza dell'animo e alla riservatezza della vita interiore corrisponde la dura scorza di una parola lontana –starei per dire ostile– ad ogni petrarchismo:

Al tornar nelle genti io son sconfitto;
Ripiglio i colpi, gemo sotto il basto:
Cristo ha ragione e Machiavelli vince.

Appunto. Una denuncia dura eppure non estranea alla speranza:

Per aguzzar lontano,
Al nostro polmon sano
Anche poc’aria basta
Per respirar profondo,
Se turbini con Dio
La volontà nutrita
Di ricrear nel mondo
Questa angoscia gioita,
Quest'impeto fecondo,
Questo veggente oblio:
Questa vita che è vita.



In che senso metafisico?
Lontano dai petrarchismi, ho detto. Non pregiudizialmente avverso agli sperimentalismi... L'uomo interiore che, secondo l'ammonimento dell'apostolo Paolo, giudica tutte le cose. (Prima e dopo la conversione). Aiutano a comprendere e a introdursi nell'universo reboriano già da subito quei Frammenti Lirici pubblicati nelle edizioni della "Voce" di Prezzolini     
–l'ultima presenza pensosa di una destra italiana altrimenti introvabile– così come i versi e le riflessioni successivi ai voti religiosi presi come rosminiano nella maturità.
Morto nel 1957 a Stresa dopo lunga malattia, per la quale Eugenio montale scrisse: "È un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni –la sua distruzione fisica– sia stato per lui, probabilmente, la parte più inebriante del suo Curriculum Vitae". La ragione del resto è dichiarata:

Quando morir mi parve unico scampo,
Varco d’aria al respiro a me fu il canto:
A verità condusse poesia.

La poesia del viandante inquieto e del poeta errante. Perché preminente in Rebora è l'urgenza di una strada che conduca lontano dall'andamento generale delle cose e quindi dalla loro insopportabile quotidianità. Il non essere sedentario, il rifiutare fin da ragazzo di salire sui marciapiedi, raduna insieme l’ansia della ricerca, una istintiva indipendenza, la difficile definizione del traguardo. E se i Frammenti Lirici nascono nella casa paterna di viale Venezia 12, non è casuale che vengano definitivamente composti nell’angusta mansarda di via Tadino, a stretto contatto con i tetti.
Anche qui un'ansia perfino nevrotica di scorgere il perché che sta all'origine dei versi così come alla ricerca della meta cui i versi tendono. E come si addice a un autentico divoratore d'assoluto, la costante della poesia è il contenuto, una densità del pensiero oltre se stesso, i cui confini sono costituiti da una vigile disperazione e da una sorprendente disciplina apocalittica. Il tutto giocato ai limiti dell'autodistruzione, che quasi si compiace dei funghi velenosi deliberatamente mangiati, e alla tendenza a sfidare la tempesta.
E forse, misurato con il senno di poi, il suo non è istinto apocalittico, ma una tensione spasmodica che progressivamente sostituisce all'impazienza la fede. Testardo e perseverante. Una solitudine da progressivamente popolare, quasi che dalla solitudine stessa nascesse un'istanza di agorà. Come se il paradosso e l'ossimoro fossero la cifra esistenziale prima del vivere che della pagina:

La verità lontano in pigro scorno;
E ritorno, uguale ritorno
Dell'indifferente vita,
Mentr’eccheggia la via
Consueti fragori e nelle corti
S'amplian faccende in conosciute voci,
E bello intorno il mondo, par dileggio
All’inarrivabile gloria
Al piacer che non so,
E immemore di me epico arméggio
Verso conquiste ch'io non griderò.

È dunque lo "sgomento di vivere" l'inizio dell'approccio metafisico all'esistenza e al versificare:


Mentre la terra gli chiede il suo verbo
E appassionata nel volere acerbo
Paga col sangue, sola, la sua fede.

Né serve mutare la location da Milano, a Stresa, a Rovereto. Perché il dramma dell'io non è una tentazione individualistica. O almeno non è soltanto questo. O almeno non lo è per Rebora:

Ai nervi delle strade,
Con àliti e gorghi
Con guizzi e clangori
Ebbra l’ora si stordiva;
Ebbra l’ora si smarriva
Nel senso delle voci
Di giovani a diporto,
Di giovani cercanti
Dal pensiero la vita.

Dove la fatica di vivere non smarrisce il balzo giovanile, pur sapendone tutta la fatica e il rischio che corre di disperdersi in labirinti successivi. Dove importante è per la Giulietta e il Romeo reboriani non demordere.

Clemente Rebora


Prete rosminiano
Ricorda il fratello: "È fermo il treno che torna da Lourdes dove Clemente era stato. Non parlo del treno spettrale e delle ombre che contiene. L'unico vivo tra quelle apparenze è lui che scende a salutare alcune persone che sono venute a incontrarlo".
Perché Clemente ha aggiunto un altro capitolo alla sua storia: l'assistenza agli esseri che si sentono casi del dolore e chiedono la cura degli altri. Un altro pezzo dell'itinerario dove si svolge la vicenda tormentata dell'io. Dove il non detto è che l'individualismo è l'assenza della gioia e perfino del dolore: il vivere superficialmente fuori da se stessi in un io fittizio condanna al vuoto della superficialità, e all'assenza conseguente di una vocazione umana. Nessun dubbio: meglio il tormento del vuoto.
In fondo è il prolungarsi della ricerca iniziata nell’abbaino di via Torino dove Clemente sostava in cucina davanti un mucchio di libri e di carta stracciata. Purtroppo quei documenti e quelle lettere andranno distrutti, anche se il poeta avrà modo di pentirsene sul letto della malattia: "Non appartenevano a me quelle cose... non avrei dovuto".
Ma intanto si è consumato il passaggio dai Canti Anonimi al Curriculum Vitae.
Il fulcro dei Canti è indubbiamente costituito da Al tempo che la vita era inesplosa, probabilmente la più compiuta e riuscita fra le liriche del poeta, che cede il passo per notorietà a Dall’immagine tesa, certamente la più giustamente famosa.
Mentre ancora ci sconvolge la tragica densità di Viatico:

O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
...................
Nella demenza che non sa impazzire,
Mentre sosta il momento,
Il sonno sul cervello,
Lasciaci in silenzio –

Grazie, fratello.

In proposito è stato osservato che questa lirica terribile è tale che "anche il fante Ungaretti rischia di apparirci un letterato compiaciuto".
Né mancano passaggi obbligati di lettura sui quali giustamente la critica invita a soffermarsi. Di quanti exergo mi sono appropriato, a partire dal primo frammento che per me ha costituito una chiave di interpretazione sul confine che separa ed unisce la politica e la storia:

Perde, chi scruta,
L'irrevocabil presente.

Perché devo ammettere che Clemente Rebora ha costituito uno dei punti nodali di sintesi – ma anche di analisi – del mio ostinato frequentare il pensiero cattolico-democratico, pensandolo non riducibile a semplice residuo paretiano. Dal momento che anche gli aspetti più scopertamente elegiaci e rammemoranti costituiscono in Rebora elemento di scavo analitico e materiali da costruzione per un ulteriore del quale egli stesso legittimamente ignora la sostanza ed il limite:

Al tempo che la vita era inesplosa
E l'amor mi pareva umana cosa,
Fanciullo a te venivo
O Carlo contadino.

La sequenza è inusitatamente lunga all'interno dei Canti Anonimi (1922). Ma anche l'andamento idilliaco e il concedersi al sentimento bucolico costituiscono materiali per la ricostruzione di un mondo, quasi una ristrutturazione, capace di indicare i ritmi e le strade di un altro mondo nuovo e possibile.
La catastrofe e l'apocalisse si tengono infatti nel credente Rebora in ordine alla riedificazione di un mondo non pacificato, ma capace di tendere all'oltre da sé. Né è casuale che i Canti Anonimi si chiudano con i versi celebratissimi che aprono l'ultima lirica:

Dall'immagine tesa
Vigilo l'istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno.

Così il ritmo della campagna può pure tornare in città, ma il tempo agreste, pur conservando la sua struggente tenerezza, non riesce ad apparirci con l'innocenza che gli fu propria, perché tutto i tempi e le sincopi metropolitane hanno travolto e stravolto e comunque riassunto nella propria dismisura.
Rebora può militare cristianamente a Rovereto e svernare rosminianamente a Stresa, ma lo stigma milanese è destinato a non abbandonarlo mai: la mansarda condivisa in via Tadino con Lydia Natus e gli appunti appesi ai fili tirati sotto il basso soffitto al posto dei panni lavati restano un eden indelebile che il fracasso della metropoli non riesce a cancellare…
La sua mistica è destinata a restare metropolitana: per questo incapace di chiudersi nei facili devozionismi, che rappresentano il succedaneo freudiano di certi pavidi devoti. Chi ha scritto alcuni decenni prima Viatico non può ritornare a un'infanzia della religione falsa perché incontaminata.
L'infanzia evangelica cui Clemente Rebora accede negli ultimi anni dell'esistenza da religioso è conquista che viene dopo la nevrosi del vivere moderno e delle sue inconciliabili aporie. La memoria, qualunque essa sia, non può essere infatti archiviata. Scrive dunque il 24 dicembre 1955:

e mentre stai e senza sorte certa,
umiliato, e come maledetto,
Dio in misericordia ti conferma.

G. Raboni grande estimatore di Rebora



Patrizia Valduga: Rebora è fra i suoi poeti preferiti


Tornare a Rebora non acquieta né rappacifica. La postmodernità ha provveduto nel frattempo a sostituire New Age ai tradizionali lenitivi della religione. Già, nel frattempo... Quante cose dopo Rebora e senza Rebora, che –come scrisse di lui Giorgio Caproni sulla "Fiera Letteraria" del 2 dicembre 1956– "la parola invece di idoleggiarla ha preferito prenderla risolutamente per il collo". I suoi versi infatti –ha ragione Giovanni Raboni– colpiscono "come una sassata, come un meteorite scagliato dallo spazio".
Lo stile aspro e pulito (sempre pensoso, mai mellifluo) di Rebora deve essere ancora rifrequentato e studiato; e all'impresa dovrebbe servire la lettura dei diari, ancora inediti e custoditi nell'Archivio Rosminiano di Stresa.
Rebora è una miniera nella quale ancora troppo pochi minatori amici della profondità hanno avuto il coraggio di infilarsi. Anche perché agli orafi del bello stile può fare spavento la citazione abusata che a verità condusse poesia.
Uno che ha avuto la capacità di chiamare a raccolta le sue antiche risorse espressive riuscendo ad attualizzarle, "come Poliziano faceva con il latino dei classici". Uno che ha saputo coniugare la rapidità del flash con la ricerca più ardua del Verbo, pur così mischiato alle nostre storie comuni. Uno che prima di un Papa durato pochissimo era riuscito a chiamare mamma anche Dio. Uno che nella civil asfissìa ha osato coniare l'espressione angoscia gioita.
Una "posizione assoluta" la sua. Probabilmente per questo senza seguaci ed imitatori. Chi si pone più di fronte alla quotidianità come divoratore d'assoluto?
Come per Simone Weil si può nel suo caso parlare di "annientamento deciso". Geni vertiginosi ed esistenze sul confine, dove probabilmente non è casuale elemento comune l'attenzione all'altro, fino a risultare spasmodica. Non interessati all'equilibrio dell'essere, quanto alla sua vertigine. Là dove l'intelligenza è obbligata a farsi poesia, indipendentemente dalle convenzioni vigenti.





 LETTURE

LA BAMBOLA CHE NON C’È PIÙ
di Lisa Albertini


Un giorno mia nipote Nelly, intenta a ripescare in una vecchia scatola, rimasta dall’alluvione, foto d’epoca di parenti e amici, rimase sorpresa. Disse a mamy:
“E questa chi è?”, alludendo all’immagine di una foto sbiadita, con lo sfondo verdastro e un ponte in lontananza. Sembrava un fiume in città.
Mamy la guardò di sfuggita. La figura in primo piano era femminile: capelli scuri a caschetto, gonna gonfia a balze chiare e sospese, scarpine cenerentola. Appariva piccola e minuta.
“Cos’è, vorrai dire!”, rise mamy. “Bambole come questa bellissime, di porcellana, si trovavano sui banchi delle fiere nei paesi, il giorno della lotteria. Ed erano così belle che qualcuno, ogni tanto, le fotografava”.
“Ma qui dietro c’è una data ed anche un nome”, replicò Nelly, “non può essere una bambola”. E lesse alcune lettere sbiadite e dei numeri.
“Ofelia millenovecentoquarantacinque”.

Il mattino dopo, solo in negozio, mi trovai a sbirciare tra le statuine esposte in porcellana, lo sguardo rivolto fuori, alla strada dal traffico intenso, continuo. Le mie vetrine erano poste ad angolo tra le due vie. Verso l’altra, lunga e stretta ma tranquilla, avevo l’ingresso.
Tra i passanti, pochi per la verità, vidi una signora, inquadrata dalla vetrina.
Caschetto di capelli neri con frangia a taglio francese, camminava a rilento. Sembrava pavoneggiarsi, con discrezione, nell’abito bianco. La gonna gonfia, al ginocchio, pareva sollevata da due o tre sottogonne a balze, con cappe disegnate in pizzo; il corpino, attillato, si disegnava sotto un golfino nero, mignon; in fondo, brillavano due scarpine a cenerentola.
Mi chiesi chi fosse mai. Sembrava fuori tempo e fuori età, giacché aveva senza dubbio superato i sessanta, ma vestiva come una bambola d’epoca e si muoveva come una quindicenne.
‘Quindici anni...  una bambola’. L’interferenza attraversò i miei pensieri: di quelle con cui giocava nonna e che mia madre raccontava di criticare, quand’era quindicenne. Diceva: “Le bambole di porcellana! Ma come facevano a giocarci? Nemmeno si muovevano, erano pesanti, lo sguardo fisso. . .bellissime, certo, ma solo quello non basta.”
Guardai oltre il vetro quella signora. Le bambole non si muovevano, per l’appunto, ma lei sì. Non si capiva, dall’espressione serenamente onirica, se fosse felice o lo fosse stata. Suggeriva l’idea di un tempo trascorso, dove nulla era lasciato al caso: segreteria condotta alla perfezione o elegante casa signorile, o ancora laboratorio di ricami da condurre in guanti bianchi. . .
Risi delle mie fantasie. Sentii la porta, all’estrema sinistra oltre la vetrina, suonare.
La signora entrò graziosa, sorridente, chiudendo in mano un ventaglio spagnolo, nero a fiori. Chiese il prezzo di ‘Mimì’, la ballerina alta non più di dieci centimetri con la gonna inamidata, di ceramica bianca. La prese in mano e si mostrò soddisfatta.
“Grazie, è proprio bella!”, disse.
“Le piacciono le ballerine?”, chiesi sbirciando Mimì e il vestito della cliente, finché incartavo la statuina.
“Non tanto le ballerine, ma le bambole vestite da ballerina”, disse, mentre riponeva la scatolina nella borsetta di paglia viennese, dal manico d’osso.
“Mi ricordano quelle di casa, in soffitta.”
La guardavo interrogativo, senza parlare. Cercavo di ricordare dove e quando l’avessi vista, forse a un concerto in piazza, la scorsa estate, o a teatro d’inverno in balconata, o forse somigliava al manichino di un negozio, con quella gonna gonfia a godet e il corsetto attillato, che finiva diritto sopra al seno.
Anche finché parlava, gestiva e si muoveva un po’ rigida, come se qualcuno le orientasse, a destra e a sinistra, i fili da marionetta. Quando sorrideva si sporgeva in avanti quasi iniziasse un inchino. Affascinante, in ogni modo.
“Sì, in soffitta”, continuava lei. “Erano di una vecchia antenata, nobile, che ne faceva collezione, pensi un po’! Al tempo in cui le normali bambine avevano per loro bambole di pezza, al massimo con il solo viso di porcellana dipinta. Ma lei era nobile, così le regalavano bambole di porcellana, vestite da ballerina. Con abitini in pizzo bianco, orlato di passamanerie dorate e scarpine a punta modellate, ai piedi. Le trovai una volta da piccina andando in soffitta con mia nonna, che aprì un vecchio cassone cercando un piumino messo in naftalina anni prima e non più usato. Rimase sorpresa anche lei. Non le ricordava. Erano nel sottofondo del cassone, disposte in bell’ordine: cinque in fila, l’una accanto all’altra. Le portai in casa con il permesso di mia nonna. Feci un gran lavoro di ripulitura e poi iniziai a giocarvi. Nella diversità di visi e acconciature, una sola cosa le accomunava. Si muovevano tutte in modo rigido, per via della porcellana. Ciò nonostante mi piacevano immensamente. Anche senza la voce registrata di oggi, quelle parlavano con gli occhi. Una, persino, aveva un meccanismo che le faceva alzare e abbassare il capo, o muoverlo a destra e a sinistra, forse per accompagnare la danza. Erano ballerine, capisce? Non le solite bambole di casa. E ballerine classiche, adatte allo 'Schiaccianoci' o al 'Lago dei cigni'. Così la mia fantasia di bimba volava.”
Pensai meccanicamente all’ora di chiusura che si avvicinava. Ma lei parlava ancora.
“Le ha a tutt’oggi?”, chiesi.
“Oh, no! Purtroppo no. La guerra, i bombardamenti… Ci giocavo in una sala della casa di mia nonna, sotto a una terrazza. La terrazza andò distrutta, e così la sala. Noi in quei giorni eravamo in montagna, sfollati. Ma le bambole non le avevo portate con me poiché erano preziose, in quanto appartenevano alla casa di mia nonna. Così rimasi senza.”
Quasi dispiaceva anche a me, per cui non la interruppi, anche se l’ora di chiusura era passata.
“E poi… vi restai così male quando lo seppi, al ritorno in città, che continuai a pensare alle bambole.  Anche se eravamo tutti felici, poiché la guerra era finita. Non ne parlavo. Nessuno lo doveva sapere poiché, come le ho detto, c’era una gioia, in giro, un’euforia indescrivibile, e nemmeno uno mi avrebbe capita, tantomeno consolata.
Una sera, sola in casa con le luci del salotto dei miei tutte accese, presi a osservare un quadro, una riproduzione delle ‘Ballerine’ di Degas. Talmente belle da lasciarmi di stucco. Senza nemmeno accorgermi provai a imitarne il movimento che era sulla tela, immaginando che fossero bambole, e non creature in carne ed ossa.
Mi muovevo un po’ a scatti, rigida, ma la cosa mi piaceva. Articolavo braccia e gambe come le avessi di porcellana. E mi sentivo molto bella. Toccavo la pelle del braccio e la lisciavo, percependola al tatto fresca e scivolosa.
Lo feci qualche altra volta con un sottofondo musicale, mettendo in funzione il giradischi dei miei senza farmi scorgere. Sino a preparare un balletto. Chiesi a casa di farmi il vestito per la prossima stagione, quello nuovo di ogni anno, bianco a balze, con la gonna rigonfia e un po’ corta. Al pranzo pasquale offersi, a sorpresa, il mio balletto. Riscossi applausi e meraviglia. Al punto che il giorno seguente vollero condurmi dal fotografo, che m'immortalò con uno sfondo a pannello che teneva sempre nel suo studio, di verde campagna con un fiume e un ponte.
Dietro vi scrissero il mio nome: Ofelia. Ora non soffrivo più, così tanto.
Ero divenuta anch’io una bambola ballerina!
Quel gusto mi rimase, nell’animo". Sospirò e chiuse gli occhi, rammentando. Li riaprì bruscamente e guardò l’orologio.

“Oh, ma lo poteva dire! S’è fatto tardi. Mi scusi, mi scusi tanto!”, esclamò. Corse via dal negozio senza nemmeno lasciarmi il tempo di salutarla. Nel chiudere la porta a vetri, dietro di sé, fece con la mano un cenno di saluto, sorridendo. Il caschetto di capelli scuri piegato graziosamente a lato, un lungo orecchino che brillava oscillando, la gonna gonfia in movimento sulle scarpette bianche, in punta di piedi. 


                                      



 LIBRI

NELIDA MILANI KRULJAC. LO SCRITTORE E L’INGIUSTIZIA


Nella foto: Nelida Milani Kruljac



LA BACCHETTA DEL DIRETTORE
Dal nuovo libro della scrittrice Nelida Milani Kruljac, figure indimenticabili destinate a trovare un posto nel cuore del lettore





La prima cosa che colpisce, stordisce per meglio dire, in questo triduo di lunghi racconti, è la percezione della dissoluzione di un mondo, pianificata e portata avanti con determinazione spietata dal regime di Tito, dopo la seconda guerra mondiale. La distruzione di una cultura, quella dell’Istria, centenaria e fatta di riti, usanze, filastrocche, giochi, linguaggio, cibi ed anche mare, agricoltura, pesca, noia, povertà, che nel loro complesso davano un ritmo, un significato, dei valori precisi e dei sentimenti per cui vivere e nei quali morire.
Conduce irrimediabilmente, questa scrittura, al ricordo della narrazione di un altro esule di un mondo perduto, quel Joseph Roth che aveva assistito al dissolvimento dell’Impero Austro-Ungarico. Nelida Milani Kruljac  mi ricorda il grande scrittore austriaco per quella simile e densa atmosfera di nostalgia vicina alla franca tristezza che grava in ogni dove, per la capacità di tingere i contorni di personaggi e luoghi nei dettagli delle memorie culturali. La scrittrice sa imprimere al racconto il giusto ritmo, tra descrizioni, dialoghi e riflessioni.
Negli scritti della Kruljac la viva sofferenza ci contagia, al pensiero di una così grande ricchezza umana andata perduta per sempre, il condensato di secoli di consuetudini, conoscenze contadine o artigianali, le piccolissime sfumature quotidiane di un gesto o di un ornamento, frutto ancor più prezioso perché risultato di una convivenza e miscuglio delle popolazioni italiana, slava ed austriaca. Simile anche in questo caso al popolo di riferimento di Joseph Roth.
Il regime di Tito volle azzerare, polverizzare la memoria italiana e gli italiani stessi: ed ecco, in un batter d’occhio, cambiare il nome delle vie, gli insegnanti italiani sparire ed essere sostituiti da persone che si esprimono in una lingua sconosciuta, difficile da pronunciare e da farsi penetrare nel cuore. Le case, a volte, vengono “nazionalizzate” e tolte alle famiglie italiane che le possedevano da generazioni. Ne consegue un esodo, prolungato e doloroso, fatto contro voglia, di uomini e di oggetti, tutto il trasportabile, lasciando case deserte, case fantasma, riempite in fretta da altrettanti fantasmi stranieri giunti dall’entroterra.
Fascismo, nazismo, comunismo: totalitarismi che hanno spezzato non solo il mondo ma spesso anche la vita del popolo di questa piccola terra, non tanto perché i giovani non abbiano tentato di reagire e di continuare ad amare, a ridere e a costruirsi un sogno, ma perché la violenza e l’abitudine alla violenza ed alla tragedia entra poco a poco, come un veleno, nel cuore e nei gesti, e non è più possibile liberarsene, anzi diventa un destino.
E la tragedia come destino, sembra aspettare al varco quasi tutti i personaggi di questo intenso, commovente libro, che si erge a monumento di un popolo, di un momento storico, che non deve essere dimenticato mai.
Una madre che porta i cibi preferiti sulla tomba del figlio, una giovane sorridente con dei preziosi pettini a dividerle i capelli, un bambino che affronta i nazisti faccia a faccia, un padre che non può perdonare: figure indimenticabili, destinate a trovare un posto nel cuore del lettore.
Nelida Milani Kruljac è riuscita a compiere quello che solo i veri scrittori possono: ha fatto parlare la sofferenza, sua e di tanti altri, l’ha resa condivisibile e comprensibile anche da chi non sapeva nulla del suo mondo, nulla delle piccole case e del mare dell’Istria.
E la sofferenza espressa diventa quasi un balsamo che lenisce, che rende accettabile l’inaccettabile accaduto. Visi, gesti, persone che sono per sempre fissati nella storia attraverso le sue parole; non verranno mai più dimenticati, non scivoleranno nell’oblio.
E questa è la grande rivincita dello scrittore sull’ingiustizia.
Beatrice Anton Rossetti




Nelida Milani Kruljac
La bacchetta del direttore
Oltre Edizioni, 2013
Pagg. 184  € 18,00


                                               


LIBRI

DANTE MAFFIA E IL SUO POEMA TOTALE
di Angelo Gaccione

Dante Maffìa con il presidente Ciampi

In una email di risposta che ho salvato, ma di cui non riesco più a ricostruire con precisione la data (un’altra perdita operata del passaggio dalla scrittura cartacea a quella virtuale), così Dante Maffìa definisce il suo ponderoso poema (oltre 700 pagine e qualche migliaia di versi) “Io. Poema totale della dissolvenza” (Edilet. Edilazio Letteraria, 2013, Pagg. 708 € 35,00):
“…Un mare immenso in cui lo scibile umano è setacciato e ribaltato, con sperimentazioni linguistiche, metriche, filosofiche e via dicendo. Gli apocrifi, ne troverai parecchi oltre alla prefazione, non sono una trovata, ma l’affermazione che la poesia ha ed è un perenne presente e che le “rivoluzioni” sono un fatto di sensibilità, di approdi sottili e quasi impercettibili…”.

Bastano questi pochi segnali per dirvi che ci troviamo davanti ad un’opera totale. Totale non solo nel senso degli stili poetici ascrivibili all’intera tradizione letteraria da noi conosciuta (da quella classica di derivazione greca e magnogreca, alla scuola siciliana; da quella trecentesca toscana, a quella aulica di piglio risorgimentale; da quella barocca dal sapore sensuale, alla ballata dal sapore furfantesco; dai registri musicali e ritmici che accompagnano l’oralità della villanella (tutti di impianto calabrese), alla sonorità della tarantella; dagli impasti mistilinguistici ultrasperimentali, alla figuralità immaginativa e prepotente della lingua terragna che si incarna nel dialetto di Roseto Capo Spulico (terra del poeta) e dintorni. Se leggerete attentamente questi blocchi di versi che compongono i singoli “canti”, troverete persino lacerti delle laudi e delle litanie. Potrei continuare su questa scia per pagine e pagine, tanto è ricca e variegata la fucina di Maffìa. Egli ha lavorato come quegli alchimisti che avendo a disposizione una quantità considerevole di miscele, di pozioni, ne ha dosati gli impasti con sapienza sperimentandone gli esiti, le possibili ed impossibili trasformazioni. Qui davvero la materia è lavorata con l’esperienza del “magister”, del vecchio abile artigiano (ricordiamoci che arte viene da artigiano) a cui, come si esprime magnificamente il filosofo Giordano Bruno, “gli dèi avevano donato l’intelletto e le mani”.

Dante Maffia con il presidente Napolitano

In una conversazione telefonica, avevo chiesto a Maffìa quanto tempo avesse impiegato a comporre un’opera così densa e vasta. La risposta è stata: otto mesi. Non sono del tutto convinto della verità di questa risposta. Qua e là il volume contiene testi le cui date rimandano a periodi diversi e che lui ha successivamente inserito perché coerenti con il discorso del poema che ha poi via via preso piede. Tuttavia se accettiamo per vera l’affermazione del poeta, otto mesi, dobbiamo riconoscere che la materia, e soprattutto il modo di condurla (come ho già detto il registro stilistico muta di continuo), erano stati così intimamente lavorati, così interiormente introiettati, amalgamati, intellettualmente organizzati, che è bastato un tempo limitato di stesura tanto la materia fluiva liquida a rapprendersi dentro lo stampo. È raro che un delirio creativo, un’accensione immaginativa e visionaria duri un tempo così lungo; per la vastità dei temi qui toccati direi veramente impossibile. Non è stato usato a caso l’aggettivo totale, per definire questo immenso lavoro. Qui dentro, come per il poema omerico e dell’Alighieri c’è tutto; non solo i temi canonici (la nascita, la vita, la morte, la guerra, il dolore, l’interrogazione metafisica, la colpa, la gioia, l’eros e così via): c’è la radicalità politica che più radicale non si può; c’è la rivolta contro il cielo e la terra; c’è la parodia e c’è l’invettiva; c’è la corporalità e c’è la malattia; c’è la medicina e c’è la psicanalisi; c’è la filosofia e c’è la scienza; c’è la tecnica e c’è il potere; c’è la letteratura e ci sono i letterati; i contemporanei e gli scomparsi; il fascismo e il consumismo; la democrazia e le sue degenerazioni; i miti del passato e la ridicola mitologia metropolitana contemporanea; c’è il condominio e c’è il mondo; c’è l’America e c’è Roseto; ci sono gli ulivi, il mare, gli antenati, la fatica, gli animali, il sogno, la bellezza, la memoria, il sesso, i libri, il virtuale, i supermarket, le merci, la miseria, gli odori, le lingue e i personaggi di un universo minore che le ha incarnate o rese poetiche, c’è il disfacimento di ciascuno di noi fatalmente votato alla “dissolvenza” come ogni elemento della natura, c’è l’amarezza per tutto questo e c’è la speranza che ha gli occhi curiosi, incantati e innocenti di Ludovico, Ginevra e Alice, i nipoti del poeta, a cui egli stesso dà la parola nelle schede di appendice, accanto a Leopardi, a Lorca, alla Dickinson, a Saffo, ad Eliot, come a voler stabilire un legame di anime, un passaggio di testimone per le intelligenze, una fiaccola che torni a rischiarare, a fare luce, a illuminare gli eterni mali e gioie del mondo, la memoria di chi è destinato a sparire, ma che ha lasciato una traccia fertile contro la barbarie. Mi è sembrato che proprio queste tre giovani voci aprano il poema alla speranza, alla forza indistruttibile della parola autentica e della poesia; così per lo meno è sembrato a me.
Opera totale, ho detto. Dotata di grande forza espressiva e di potenza immaginativa, mi ha molto impressionato per l’ampiezza di vedute; per la capacità analitica, per lo sguardo sapienziale come non accade più ai nostri poeti occidentali, e che ne fanno forse il più importante poeta italiano di questo nostro tempo.

Dante Maffìa con il poeta G. Raboni alla fine degli anni Settanta
  
La copertina del volume
  
Gallery: Una foto curiosa del poeta da giovane, una copertina e un dipinto dedicatogli
dal pittore Ennio Calabria. (Archivio "Odissea")





Dante Maffìa in un ritratto di Ennio Calabria




LA LETTURA                                                       
Un racconto di Beatrice Anton Rossetti

                                    GINEVRA



Mi alzo stanca, nervosa, con le occhiaie. Mi vesto elegantemente: camicia con maniche a sbuffo e inserti arricciati color malva, pantaloni maschili dello stesso colore, scarpe viola con i tacchi; traccio una linea di eye-liner sugli occhi, stendo la crema fondotinta e un po’ di cipria sulle guance. Trascino il trolley in metropolitana, faccio il biglietto.
Quando, finalmente, mi siedo ed il treno si mette in marcia, provo un poco di sollievo: fuori città il cielo azzurro riempie tutto l’orizzonte sui campi, mossi dal vento. Mi metto le cuffie per ascoltare la musica e mi perdo nel sogno vacuo che è dolce perché riesce a non avere alcuna forma. Kilometro dopo kilometro mi sento sempre più libera, tra persone che non sanno nulla di me, a cui non devo dare nessuna spiegazione, in un non-luogo  dove posso essere chiunque .
Scendo eccitatissima alla stazione di Brignole e mi affretto verso la casa che ho visto solo una volta, tra i vicoli, qualche mese fa. Cammino per le strade strette e sporche del centro città: Genova l’ho sempre amata, questa maledetta città azzurra, a volte sudicia, con i suoi grandi palazzi di marmo e gli improvvisi scorci turchini.
Ginevra, detta Gin, la mia migliore amica, quella con cui c’è sempre stata l’intesa emotiva più forte, si è trasferita qui. La mia shiatsu-friend. La migliore.
Mi ero iscritta al corso per diventare massaggiatore shiatsu perché ero disoccupata, non sapevo che fare della mia vita e per giunta, per sopravvivere, dovevo fare l’accompagnatrice.
Eh, la vita è dura quando, due o tre sere la settimana, ricevi una chiamata improvvisa dall’agenzia e devi romperti il collo per prepararti in brevissimo tempo, tutta in tiro: capelli, trucco, profumo, minigonne e top attillato, e guidare come in F1 per giungere puntuale in un ristorante o in un hotel, per incontrare un tipo mai visto - di solito vecchi dirigenti danarosi, a volte giovani tipo malavitosi- e “tenergli compagnia” per due o tre ore (io non accetto di stare tutta la notte).
Poi, di solito, sono noiosissimi, e ti fanno domande idiote come “Ti piace fare questo mestiere?”, io li prendo in giro e inizio a inventarmi di essere orfana o di dover pagare le cure costosissime del mio fidanzato in coma da anni o cose così, per vedere la faccia che fanno. Mi faccio chiamare Mia e, ormai, anche quando sono sola mi rivolgo a me stessa così: Mia è diventata la mia vera personalità.
Allora mi sono detta: “Forse con questo corso per massaggi, potrò trovare un vero lavoro e smetterla con questi incontri disgustosi che mi stanno facendo venire sempre più spesso crisi di ansia e panico ed insonnia. Lo psichiatra da cui sono in cura mi dice di provare a costruirmi una vita più tranquilla, con un vero lavoro e una relazione affettiva stabile, ma ogni seduta costa un occhio, e come farei con un lavoretto mal pagato a continuare ad andare da lui? Ma forse, se stessi bene, da lui non dovrei più andare.


Purtroppo i massaggi io non sono diventata molto brava a farli, perché o premo troppo forte i punti o mi muovo troppo in fretta lungo gli arti; insomma mi hanno dato il diploma per pietà ma non ho trovato  lavoro come massaggiatrice shiatsu e ho dovuto continuare con la vecchia vita; però ora cerco di accettare solo un appuntamento a settimana, per stare più tranquilla.
Ginevra i massaggi invece li fa benissimo e andavo sempre da lei per un trattamento in attimi di stress ed esaurimento, quando ancora vivevamo nella stessa fottuta città. Ma ora non può più aiutarmi.
Mi sento un po’ orfana senza Gin, a volte sogno di percorrere la via di Milano per giungere a casa sua, salire con l’ascensore e dal ballatoio, che lei teneva pieno di fiori, affacciarmi dalla porta nell’ unica stanza che aveva, tutta libri e lampade di vetro colorato e chiamarla . “Ehi Gin, sono arrivata!”. Ma, ormai, mi sono abituata a questo strappo. D’altronde Gin non aveva scelta, quando ha preso la decisione di tornare a Genova.
Girato l’angolo, dopo essermi fumata una sigaretta che mi fa girare la testa e mi mozza il respiro,  riconosco il piccolo portone d’ingresso e mi attacco al citofono entusiasta.
“Ciao Gin, finalmente sono arrivata!”
“Dai, stai calma, Mia, ora sei qui! Staremo finalmente un po’insieme e mi racconterai tutto, mi sembri un poco agitata.” Adoro la sua voce profonda che mi rilassa all’istante.
Mi viene incontro sulle scale: “Ma che borsa c’hai?” sbotta, strigliandomi subito per bene con il suo modo di fare fintamente aspro. Abbasso il manico del trolley e lo trascino su per le scale strette dicendo ansimando: “Una signora non viaggia mai sprovvista del necessario! Ma ce la faccio Gin, ce la faccio, non ti preoccupare!”
“Allora vieni, grande donna, mettiti le ciabattine che ti preparo un tè.”
La casa di Gin è piccola, ma perfetta: nel salotto tendine bianche di pizzo alle finestre, CD ben allineati tra candele colorate e, di fronte allo scaffale, un gonfio divano rosso; una piccola stanzetta profumata di incenso predisposta per effettuare massaggi shiatsu, con al centro dispiegato un futon, alle sue pareti poster con la visualizzazione dei canali energetici del corpo umano ed alcuni arazzi con la raffigurazione di dei indiani. Il bagno è blu e bianco, disseminato di profumi orientali, shampoo alle erbe, smalti colorati per le unghie, spugne di ogni dimensione; sulla mensola una grande conchiglia piena di orecchini minuscoli, piattini con anelli e bracciali.


In camera un grande letto a due piazze coperto da una soffice trapunta bianca e nera ed un comò con specchiera antica. Il vano cucina munito di due pensiline con gancetti -difficilissime da aprire- che contengono: tè, caffè biologico, miele proveniente dalla Sardegna, vitamina D e melassa; crostatine biologiche e infuso di fiori di pesco. Nulla di possibilmente immaginabile manca in questa casa.
“Ah” sospira Gin, “al centro benessere mi sfruttano, tiranneggiano, e non faccio quasi mai massaggi, ma solo la serva. E, allora, mi dico, perché sono andata avanti nello studio dello shiatsu? A cosa  è servito? Ma che vuoi farci? Non c’è altro per ora all’orizzonte ed è da troppo tempo che sono fuori da tutti i giri; poi, in questa città non conosco più nessuno, sono mancata per troppi anni …”
Gin possiede un corpo esile e aggraziato: ha lavorato prima come attrice, poi come attrice e commessa in un negozio di articoli indiani, poi come attrice- commessa in un negozio di articoli indiani e massaggiatrice shiatsu. Poi non era stato più possibile aggiungere altro, almeno a Milano, e Gin aveva dovuto fare ritorno a Genova, dove era cresciuta, e sistemarsi in un appartamento di proprietà della sua famiglia e ripartire da zero, a più di quarant’anni.  Con allegria mi enumera gli undici traslochi della sua vita, concludendo che, a quanto pare, non è proprio destinata alla stabilità.
“Coma va con Bruno?” cambio argomento io.
«L’ho sentito una volta sola in due mesi. Il problema è che io ho un’esigenza di amore e cura che lui mi ha detto chiaramente di non poter corrispondere. Ogni volta che vado a casa sua a Pisa, lui cerca di essere gentile ma io sento che manca il vero coinvolgimento e allora non faccio che piangere; così ho capito che è meglio non vederlo più ed anche sentirlo il meno possibile. Quando l’ho conosciuto, in Grecia, l’estate scorsa, non mi sarei mai aspettata un ‘evoluzione del genere. Non credevo che mi sarei tanto coinvolta nei suoi confronti. Quel giorno le onde erano forti, ma io conosco quella spiaggia da anni e so perfettamente fino a dove si può entrare. Ad un certo punto vedo lui che si avvicina: occhialini sul viso, pinne ed una canna da pesca assurdamente lunga ed inadatta a quel fondale.
Mi dice: “Attenta! Non rischi così, oggi il mare è grosso, non vada più avanti!”
Mi dava anche del lei! Io l’ho guardato e sono scoppiata a ridere. Anche lui ha riso improvvisamente, e a quel punto ci siamo seduti sui miei teli e ci siamo messi a chiacchierare. Io ero molto turbata perché avevo appena scoperto che Georgos, il proprietario dell’agriturismo dove alloggiavo, e con il quale stavo andando a letto da due settimane, si era invaghito di una ragazza appena arrivata, dopo che io mi ero allontanata solo per due giorni. Sai come sono fatta io: mi piacciono gli uomini forti ed un po’ primitivi; e lui, che viveva in mezzo ai cavalli, alle pecore, che faceva il miele con le sue mani, era per me un’attrazione irresistibile. Ero così frustrata che, dal momento che Bruno aveva iniziato a raccontarmi di essere innamorato di una donna sposata e straniera che vedeva pochissimo, anch’io buttai fuori la mia rabbia verso Georgos, raccontando tutta la storia.»
Gin riprende: “Gli ho raccontato tutto: di essermi assentata due giorni per incontrare un’amica e di aver trovato, al ritorno, il mio posto a letto occupato da un’altra.”
“Certo, parlare di queste cose non è un grande avvio per una storia d’amore...” mi permetto di osservare. Mi guarda con i suoi occhi castani, intelligenti e profondi, come se mi vedesse per la prima volta: “Ora che mi ci fai pensare è vero, ma allora io non credevo che avrei avuto un interesse così grande per lui, riuscivo solo ad immaginare una amicizia passeggera e, forse, una scopata.”
“Gli uomini. Anche quando si mostrano apparentemente disinibiti e comprensivi non bisogna lasciarsi andare, perché in realtà sono cambiati poco dal Medioevo ad oggi e vogliono solo ed ancora immaginare che la loro donna sia pura, e che si sia donata solo a loro. O forse Bruno rientra nel gruppo che considera la relazione con una donna come un accessorio da utilizzare solo nei week end o un peso che limita la libertà: e questo è il quadro completo dell’uomo medio, compreso tra i venti ed i cinquant’anni della nostra epoca.” sermoneggio annoiata.
“Comunque sia,” conclude Gin, “non può darmi quella tenerezza di cui sono così bisognosa, e perciò si può dire che le cose sono state da subito, o sono diventate, ormai  irreparabili. Sono andata due volte a trovarlo e due volte è venuto lui, ma è il suo modo di porsi è restare ad una certa distanza. Non dice di amarmi, né fa progetti con me. Facciamo solo del gran sesso, per ore di fila. E’instancabile ed arriva all’orgasmo solo quando lo decide lui. Fantastico. Dal lato affettivo, però, non vuole coinvolgimento e per me è straziante. Meglio non pensarci più e tenermi alla larga.” Scuote la sua massa di capelli lisci e folti, come un leone che volesse liberarsi di un insetto rimasto impigliato.
“Io non trovo un uomo decente neanche se mi ammazzo, per cui, sono resto e, penso, resterò sola per tutta la vita. Mi sento uno schifo, ma cosa posso fare? Ho una vita troppo disordinata per ambire ad una relazione seria.” dico io.
Gin ride: “Ma sei tu che ti stai creando questo destino negativo, perché sei vuota e piena di paura. Non credi in niente, non sai sperare, devi avere il coraggio di cambiare vita e affidarti al destino.
Sto iniziando a pensare, per esempio, che sia l’oblio della fede religiosa, che coinvolge tante persone oggi, a incidere grandemente  sui rapporti tra uomo e donna. Nel passato, anche se non sempre, lo ammetto, c’era un ideale di eros che comprendeva il desiderio di eterno e di un’ armonia celestiale da raggiungere; amare era allora una sorta di mediazione verso il divino: la donna angelo di Dante o Petrarca, la passione romantica di Byron o Shelly, il sentimento disperato di Baudelaire, Mann, Montale, Blixen, era anche una ricerca dell’infinito e persino di Dio.
Si coltivava l’orizzonte di un sentimento profondo, più forte della sola emozione volatile, si cercava anzi di spiritualizzare questo sentimento, di renderlo fonte di ispirazione artistica, di pietà, di estasi, di perdono, di ogni buona acqua che può sgorgare dal nostro cuore. C’era una coscienza morale a cui rendere conto, che, a volte, frenava dallo sfruttare l’altro e di usarlo solo per il proprio interesse.
C’era il paradiso e l’inferno con l’amore al centro, senza via di scampo e senza via di mezzo.
Che fine farà l’amore tra due persone? Che cosa è oggi? Un breve e burocratico  scambio di organi.
Quando colui che era il mio compagno da dieci anni mi ha imposto l’aborto, minacciandomi altrimenti di sparire, perché assolutamente non si sentiva di svolgere il ruolo del padre, ho provato sensazioni simili alle tue. Sono andata in ospedale, ho fatto quello che mi si richiedeva di fare, e poi sono tornata a casa e ho riempito immediatamente le valigie e ho lasciato quell’uomo; dopodiché ho pianto ininterrottamente per tre anni, l’ho odiato più di quanto abbia mai odiato qualcuno in vita mia. E poi sono semplicemente sopravvissuta.”


Improvvisamente scopriamo di avere entrambe il viso rigato di lacrime. Ci alziamo dalle sedie disposte intorno al tavolo e ci stringiamo in un abbraccio consolatorio. La stretta dura a lungo; poi sciogliamo l’abbraccio e ci risediamo un poco imbarazzate, forse, ma felici della condivisione che abbiamo avuto.
“Sì”, riprendo tristemente, “il patto di reciproco sostegno, nella buona e nella cattiva sorte, in salute ed in malattia, in ricchezza ed in povertà, non si applica quasi più alle coppie, sia sposate che non. Questa parte è stata rimossa, per lasciare tutto lo spazio al piacere ed alla libertà di togliersi elegantemente di torno alla prima sgradevolezza. Chi prende appuntamento con me è quasi sempre sposato o fidanzato …
Come sarebbe bello  sapere che chi ti ama resterà nei paraggi, anche se litigherete, anche se lo rifiuterai o dovesse scoprire che una fa il lavoro che faccio io. Qualche mese fa avevo conosciuto un ragazzo bellissimo. Siamo usciti insieme per quasi un mese, ma io non sono riuscita a confessargli il lavoro che faccio e poi quando stavo con un cliente, ero terrorizzata che lui chiamasse e ho cominciato a bere troppo e prendere ansiolitici a manetta. Allora ci ho litigato, gli ho fatto scene isteriche e di pianto e lui ha tagliato di netto con me, comprensibilmente. Ora avverto uno squarcio nella mia carne. Per non parlare poi del trattamento che i clienti mi riservano: ricorda la freddezza che si usa negli allevamenti intensivi verso gli animali o che usavano i nazisti  nei campi di sterminio: mi sento considerata cosa e non persona, ogni dignità negata, sono solo un oggetto che serve ad uno scopo e che poi verrà  distrutto, smembrato.
Negli allevamenti intensivi l’animale viene sgozzato con un colpo secco, profondo e poi lasciato agonizzante a dissanguarsi. L’agonia è lunga, credo sia molto dolorosa, anche. Molte volte mi sento come uno di quegli indifesi animali; poi, inaspettatamente, ho attimi di breve euforia, di tenera aspettativa, quasi, magari solo perché ha smesso di piovere ed il sole luccica sull’asfalto bagnato.”

                                                          II



Gin ed io ci siamo spostate sul bel divano rosso; è ormai sera, le tenebre stanno avvolgendo il mondo e la stanza, dove non abbiamo acceso luce elettrica; mi sento illanguidita per l’affetto che sento intorno a me ma anche molto, molto triste. Improvvisa, la mia suoneria con canzone giapponese spezza l’atmosfera. Ginny si alza e accende la luce.  “Ah, ciao” dico con tutta la dolcezza falsa che posso, “no, stasera non posso lavorare perché sono fuori città da un’amica. Va bene … ci sentiamo magari domani sera … Ciao.”
“Ti sei agitata vero?” dice Gin, vedendo che la mia mano trama un poco.
“Sì, non voglio più fare questo schifo di lavoro, non ne posso più, mi sento una schiava senza la possibilità di costruirmi una vita normale, di vivere un amore vero. Ma che cavolo di lavoro posso fare? Io non sono capace di fare niente di specifico...”
“Senti: io sono stanca e domani mi devo alzare alle 6.30 per lavorare. Andiamo a letto e rimandiamo tutti i pensieri a domani.” Gin mi abbraccia forte e lascia la stanza.
“Prendo la mia fedele pillolina di sonnifero, fumo una sigaretta e ti raggiungo” le grido dietro. Esco a fumare un’ultima sigaretta sul balconcino: i fiori, le conchiglie appese, la luna: ed io, sotto di lei, triste.
Nel cortile una siepe di rose rosse sbocciate emana il suo profumo fino a me, o così mi pare e, vicino, un gatto nero e bianco a pelo lungo si gode la frescura della notte.
Loro godono il momento presente, senza paure o considerazioni alcune. Questa è la vera essenza della vita” penso tra me osservandolo mentre fa dondolare la coda.
Quando entro nella camera da letto, lo faccio con l’aiuto di un accendino pila perché, con le vecchie ante serrate, il buio è completo. Non mi piace dormire senza vedere penetrare almeno  uno spiraglio di luce nella stanza, ma mi adeguo. La camera d’altronde, è fresca, le lenzuola profumate. Gin, nell’altra metà del letto è una presenza tranquillizzante.
Come sempre nel corso della notte, mi sveglio due o tre volte: verso le due, poi ancora alle cinque, poi alle sette. Un incubo: una donna grassa, fortissima, enorme mi aggredisce, non riesco a staccarmela di dosso malgrado provi un senso di repellenza nervosa appena una sua mano riesce a toccarmi. Sono con Gin, cerco di difendermi con tutte le mie forze ma mi sento bloccata; allora Gin le spara, altrimenti quella furia mi avrebbe ucciso.
Mi sveglio tutta sudata e sento Gin trafficare per casa ed uscire verso le sette e trenta per andare al lavoro. Mi calmo, trovandomi in un ambiente ovattato e protetto e mettendomi di impegno, riesco a riaddormentarmi; alla fine mi alzo alle 8.30, un orario che per me significa aver dormito a lungo. Mi alzo con molta calma; faccio un’ ottima doccia; mi metto al tavolo davanti ad un  tè caldo con biscotti; fumo una sigaretta sul balconcino. Sento la pace e la pienezza del momento.
Un momento brevissimo nell’arco del tempo della vita, però esistente e non inutile, un attimo di grazia da assaporare completamente proprio perché limitato.
Vorrei rimanere qui per sempre. Forse questa è la soluzione per essere finalmente sereni e placati: organizzare la vita con degli amici, in una specie di comunità di affetto e sostegno reciproco e di ideali comuni da perseguire. Una vecchia cascina, per esempio, con tanti piccoli appartamenti, dove ognuno mantenga la propria identità ed il suo lavoro da seguire, magari esterno, ma poi al rientro serale, si ritrovi in un gruppo accogliente in cui prevalga la visione comune, la condivisione del dolore sulla solitudine e l’individualismo.”
Penso al romanzo “Sul filo del tempo * con la comunità di Mattapoissett di Luciente; lì si viveva in piccoli gruppi condividendo gli amori, le capacità, le emozioni.
Mentre sto sognando, chiama di nuovo la mia agenzia. “Cosa? Per stasera alle nove? E vuole che indossi un abito bianco … ma io non ho un abito bianco … Vabbè dai, a dopo.”
Uffa, che palle, devo uscire a comprarmi un vestito bianco trasparente.
Esco in fretta e, chiusa la porta alle mie spalle provo subito a riaprirla con la chiave che mi ha consegnato Gin, per vedere se funziona. La chiave non gira. Riprovo. Gira avanti ed indietro, ma non apre.
Sono rimasta chiusa fuori!  Solo un attimo di panico. Calma. Per fortuna Gin sarà di ritorno tra due ore.
Mi rassegno, anche se mi maledico per aver obbedito immediatamente al comando.
Stavo davvero bene e ho interrotto un momento magico.
Vado in edicola e sparlo un po’con l’edicolante dei politici di turno e soprattutto del Capo del Governo; poi mi dirigo verso il centro, tra case vecchie e fatiscenti e affascinanti, tra la vita che pulsa, bevo un caffè, compro, a caro prezzo, lo stramaledetto vestito bianco. Poi, torno sui miei passi, spensierata e, quando arrivo a casa, Gin è già arrivata, moderatamente stanca. Mi guarda con compatimento, avverte la mia agitazione. Cerca di tirarmi su con qualche pettegolezzo:
“Sai cosa mi ha raccontato oggi la mia capa? Lei ha avuto una lunga relazione con un critico musicale: vivevano in campagna, in un’atmosfera surreale dove lei non ce l’ha fatta, le dava un senso di oppressione quel mondo silenzioso lontano dalla città, fatto di nebbia e cognac bevuto la sera di fronte al camino. Però lo amava molto e lo ama ancora. Mentre però era tornata qui in città per riflettere, lui aveva cominciato una relazione con un’altra donna. E’ lei  che, alla fine, glielo ha rubato e che lui ha poi sposato.  La settimana scorsa lui le telefona, le dice che è a Genova per una Fiera, le chiede di incontrarlo. Arriva a casa sua per portarla a cena, ma appena dopo i convenevoli, la abbraccia baciandola sul collo e cadono sul letto. Hanno fatto l’amore tutta la notte.

La mattina dopo riparte, in fretta e furia mentre le aveva detto che si sarebbe fermato ancora un giorno. Ora, le ha proibito di inviargli mail per paura che sua moglie le possa leggere ed anche su face book appena lei accede lui si scollega. Lei lo sogna ogni notte, è un incubo che è ricominciato …”
Io e Gin siamo scandalizzate dal comportamento dell’uomo ed io aggiungo storcendo la bocca:
“Face book: tanti volti, tante pose, feste, risate a due dimensioni, come una zuppa insensata, spesso maschera i sentimenti. Quanti rapporti sono distorti in rete! La verità viene raccontata in parte o per nulla; è scelta, rimaneggiata.”
“La realtà in ogni caso nel nostro tempo è un orpello ininfluente” interviene Gin “l’unica cosa che conta è la propria verità, la propria immaginazione, ci si abitua alla solitudine che è la sola condizione che ci dà sempre ragione, che non sconvolge mai le nostre illusioni e certezze. La donna forse, in questo nuovo gioco è quella che rischia di più il collasso emotivo perché ha bisogno di relazione intima vera, calda.”
“Tutto ciò che appare esteriormente deve necessariamente rimandare ad una dimensione interiore dell’essere, ti ricordi Gin cosa ci insegnavano al corso di shiatsu?” dico io “Ma quale? Mai come oggi, in un mondo semi virtuale, è difficile capire cosa è detto e cosa è taciuto e chi si ha davanti.
Gli esseri umani costruiscono mondi e universi, a volte ingannevoli, a volte poi li distruggono e divengono incubi per chi ne è stato coinvolto. Siamo, mi sembra, più che mai attori: non tutti abbiamo lo stesso ruolo, ma tutti fingiamo, rimestando la verità con ciò che ci è più conveniente dire e forse credere di noi stessi … Ah, mi sto perdendo …”
Ridiamo.
“Forse,” dice Gin “più di ogni altra cosa, oggi l’uomo vuole un rapporto d’amore a distanza.
Una persona eterea, misteriosa, una beatrice, alla quale rivolgersi piangere e pregare, ma che non veda tutti i giorni, anzi quasi mai, assente, lontana, morta forse, che lasci tutto lo spazio intatto.
Se pensi che ancora nel 186...e qualcosa, la donna era considerata proprietà del marito e solo nel 1975 in Italia è stata sancita la parità tra i coniugi, capirai che l’uomo ancora non è pronto ad un rapporto alla pari e forse neanche noi.
Il classico gioco: la donna deve sedurre e compiacere, il maschio deve dominare e far soffrire.
Una volta la donna non era vissuta come un vero interlocutore ma un subalterno o un oggetto sessuale, ancora peggio, per i figli e la posizione sociale. Da qualche decennio, invece, è iniziata una nuova era per i rapporti tra uomo e donna basati sulla teorica parità; ma per ora è molto difficile capire se il risultato è stato positivo e come si evolverà. Bruno è gentile, ma distratto, e distante. Ma, d’altronde, cosa pretendo da un uomo di 50 anni che ha ormai delle sue abitudini da solitario alle quali difficilmente rinuncerà? Io mi sono sistemata nella mia casetta, non ho bisogno di nessuno. Eppure come ben sai il mio cuore spesso sanguina. Razionalmente so che aspettarsi dagli altri quello che non possono dare logora i rapporti e forse ci rende ingiusti, pretendendo che essi siano come li desideriamo, e non accettandoli per quello che invece sono, noi diventiamo di conseguenza tiranni.

Spesso gli uomini pensano alla loro soddisfazione momentanea, vivono nel presente molto di più di noi donne che subito corriamo al futuro, alle conseguenze di un’azione; ma, Dio mio, non c’è un po’ di misericordia e di dolcezza in quei cuori? Così bisogna accettarli: freddi, egoisti, vigliacchi, sadici, sfruttatori, manipolatori?  Questa è la giustizia, la giusta libertà di cui hanno il diritto?”
“Bisognerebbe staccarsi completamente dal desiderio di controllare gli altri e di avere consolazione da loro,” intervengo io “è l’unico modo per conservare la propria forza.  Ma questo nell’amore non è possibile e così possiamo solo far fluire tutto onestamente: la speranza, le aspettative sugli altri, le lacrime.”
“E se ci fosse una speranza di riscatto?” Gin mi guarda di sottecchi.
“No, non ci credo più,” dico, “ora non più …”
“E’ inutile che fai così, Mia, sai anche tu che noi esseri umani abbiamo bisogno di speranza e se non possiamo riporla negli esseri umani che deludono, possiamo farlo solo in qualcuno che è oltre l’imperfezione e in buona analisi la cattiveria umana e questi può essere solo Dio. E’ come la storia di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, la conosci? Filumena, una prostituta senza mezzi, rimane incinta e tutte le compagne di sventura le consigliano di abortire. Lei non vorrebbe, ma ha paura di non essere in grado di mantenere e crescere il bambino. Mentre sta vagando in preda ai suoi pensieri, arriva di fronte ad una edicola della Madonna; allora per la disperazione si rivolge a lei per sapere cosa fare. Proprio in quel momento ode una voce che dice I figli sono figli . la voce arriva da una casa vicina, ma l’aver udito proprio questa frase nel momento in cui chiedeva una risposta le fa comprendere che è un messaggio giunto per volontà della Madonna. Decide così di tenere il bambino .”
“E non fa più la prostituta?” chiedo io speranzosa.
“Beh per un po’ la fa ancora ma alla fine avrà un vero lavoro e si sposerà.”
“Ma dai …” mi sento  di nuovo vuota e triste. Penso alla mia difficoltà, al peso che questo lavoro mi dà e vorrei anch’io ricevere l’aiuto della Madonna come Filumena lo ricevette.
Gin percepisce il mio cambio di umore e dice: “Che hai ancora? Sei diventata smorta e preoccupata, ti si è formata la ruga verticale tra le sopraciglia.”
Mi sento così inquieta ed insicura e, inoltre, sento l’impulso di piangere.
“Senti scemetta”, mi dice Gin “oggi ho parlato delle tue difficoltà finanziarie con la mia capa e forse nei prossimi giorni ti proporrà un posticino come receptionist e tuttofare del centro benessere. Ti piacerebbe?”
“Ma, è vero?” strabuzzo gli occhi io.
“Sì, stupidina, però i soldi saranno pochini. Nei primi tempi potresti stare qui da me, ma non a lungo, perché io ormai sono un vecchio lupo solitario ed ho bisogno del mio spazio. Potresti trovare una stanza in un appartamento in condivisione …”
Sento che sto per piangere. “Mi piacerebbe molto accettare questa proposta.” Le dico con il labbro che mi trema.
“E allora dai, amica mia, speriamo che tu debba tornare a Milano solo per poco tempo, per fare le valigie e trasferirti qui.”
L’abbraccio forte e, anche se non vorrei, inizio a singhiozzare e questi singhiozzi e queste lacrime che scendono a fiotti dalle guance, mi fanno finalmente sentire libera.

 *Romanzo di Marge Piercy, 1976.



                                        



                                             ILLUSIONE?

                                   Un racconto di Lisa Albertini

Giuseppe De Vincenti 
"Viandante che guarda il mare"
Omaggio a Theo Angelopulos
Pastello, 2014

 Acqua blu cobalto, con isolotti sullo sfondo d'infinito. Scogli piatti in fila, bianchi sul mare come pietre lunari dai crepacci grigio e argento. Sul fianco d'uno, che un po' discosto dai più emerge alto dall'acqua, una scritta incisa.
Dietro, inconsapevole, un uomo controluce, scuro nei riflessi aranciati del tramonto. In piedi su uno scoglio, Fausto osserva tre nuotatori a colloquio, vicino alla boa. Nel guardarli non si accorge, delle frasi segnate a graffito sulla pietra. Infine, in equilibrio instabile si avvia alla battigia, per fermarsi subito dopo. Una donna, ferma vicino all'incisione, si sta asciugando i piedi. Gli appare di una bellezza ignota, senza inizio né fine. Forse una sirena in corpo femminile giunta d'altri lidi. Guardandola apertamente, vede infine la scritta vicina. La osserva incuriosito ma subito si ritrae, senza leggerla. E' incisa con caratteri dell'alfabeto greco. Egli non ne comprende la provenienza, né l'obiettivo: gli ricorda invece i suoi giochi di ragazzo con lettere in codice su fogli segreti, in uso nelle bande tra i compagni di allora. Di quelli rammenta i visi. Uno, in particolare, che femminile e giovanissimo aveva riccioli biondi e occhi verdi a mandorla.

Fausto ritorna solo all’albergo, dov’è alcuni giorni in vacanza. A sera, nel contemplare la luna piena dalla terrazza, immagina quel volto nuovamente.
E' un viso di bimba, immersa nel gioco a nascondino di allora, svolto nel campeggio adiacente al mare, tra cespugli di mirto e pitosforo. Dietro al muretto a secco dell'oliveto, dove macchie fucsia di oleandri estivi confondevano il profumo di schiacciata all'olio e sale calda il mattino. La portava sempre un vecchio, sull'asino carico di ceste con formelle di pecorino, da vendere al mercato.
E' il volto di Arìe, bimba che veniva dalla Palestina: a soli dieci anni già seducente come una gazzella. Giunta qui così piccola per via di suo padre medico trasferitosi in Italia, luogo dei suoi precedenti studi. Ironia della sorte, dalla sua terra divenuta simbolo di grande dolore, per avervi perso la giovane moglie e un bimbo in un parto infelice.
Fausto si rivede già innamorato, a quel tempo. Dodicenne, nel gioco correva in ogni angolo per trovarla nascosta. Vi riusciva sempre, ma prima di battere sul muretto la sua vittoria, la guardava un attimo negli occhi a mandorla, cogliendone lo sguardo lontano di piccola straniera. Una volta, avvicinatosi veloce, l'aveva vista fuggire con l'immediatezza di una gazzella. Nel volgersi di scatto a guardarla era caduto, strusciando il viso contro un sasso spigoloso. Era stato forse quello, il remoto principio dei suoi amori.

La luna rimane alta, nel cielo sempre più buio. Ora che il silenzio notturno ha addormentato ogni cosa, lo sciabordio dell'acqua, lieve ma presente, è percepibile sino a lì. Fausto ne segue andate e ritorni, sull'onda dei quali rievoca le vecchie storie, dei suoi amori trascorsi.
Anita, sulla barca, quel giorno andando verso l'isola si lasciava guardare con sensuale complicità. La sua figura, splendida nel kimono a rameggi viola, lo induceva a sognare. Così rimase, nel loro rapporto esclusivo dove lui, sultano, governava la schiava cortigiana. Tutto si consumò in pochi anni come fiamma di candela sempre più esile, sino a spegnersi.
Greta, invece, giovane vedova in lutto stretto, l'aveva conosciuta davanti al cimitero in un pomeriggio di pioggia torrenziale. Sola, con un foulard nero grondante appiccicato al capo, la sua figura si disegnava scura, contro il muro bianco dell'ingresso monumentale. L'aveva condotta in auto al portone di casa. Greta ringraziava. L'amore era iniziato solo in seguito, per terminare dopo una decina d'anni, con la malattia fulminante di lei. A Fausto rimaneva il figlio di Greta, conosciuto e già grande al loro incontro.
Solo allora, aveva compreso il desiderio d'un figlio di Anna, da poco segretaria nel suo ufficio. Ai propri ripetuti, e tuttavia vani tentativi di renderla madre, lei aveva risposto con una partenza. Se n'era andata alla ventura. Sosteneva che l'amore così, da soli, era vuoto.
Oggetto di seduzione, uomo compassionevole, padre inesistente, egli si definisce ora, dopo quelle storie stranamente lontane, sebbene vissute sino a due anni prima.

Il mattino seguente, assai presto, si propone di ripercorrere gli scogli del giorno prima. Il mare a un'ora così precoce è liscio, profumato. Le grandi pietre, ancora fresche, sembrano godere del recente riposo notturno.
Si siede vicino allo scoglio diritto e levigato. Guarda la frase incisa per breve tempo, ma intensamente. Le sillabe, mute, sembrano uscire vivaci dalla pietra.
'L'amore è come un fantasma, tutti ne parlano, ma nessuno l'ha visto '.
Il significato delle parole scritte lo attrae, per il gioco del controsenso. In fondo si tratta di attimi, ma esistono pure istanti in cui l'amore è visibile, catalogabile, egli pensa.
Solo ora si accorge della particolare forma di scrittura, dove ogni riga inizia con una maiuscola. Legge l'una di seguito all'altra le lettere a capo riga. Ne esce una frase: ‘L'amore è illusione’ (in greco).
Quest'ultimo accostamento, sibillino, lo lascia sconcertato.

“Ha bisogno di qualcosa?”, si sente chiedere. Gli è accaduto altre volte di sentirsi chiamare. Non si accorge quando parla tra sé e sé ad alta voce.
La domanda proviene dalla turista del giorno prima. E' arrivata in silenzio e siede due scogli più in là. Lo guarda.
“No, no, grazie. Va tutto bene; a volte mi succede”, risponde lui.
“Parlava di amore catalogabile”, ribatte lei scherzando. “Che intendeva?”.
“Niente di strano. Mi riferivo, credo, a quando lo si può misurare.”.
“Ah, allora è vera, l'iscrizione!”, riprende lei.
“Perché?”.
“Beh, l'amore sfugge, non si può misurare in alcun modo. Nessuno lo fa. Sebbene il tempo a volte lo faccia passare per vero, datato. Ma spesso è solo apparenza, in quei casi. Che cosa vi stia dietro, non lo sappiamo.”.
Fausto la guarda perplesso. Ne coglie i tratti del volto, gli occhi. Soprattutto gli occhi di un verde chiarissimo, brillante.
“Non a caso”, continua lei, “quando si fa un incontro particolare si dice sempre che è casuale, assolutamente imprevisto. E se qualcuno ha la fortuna di vivere un amore a lungo, di solito non lo sa spiegare. C'è ma non si vede!”.
“Già”, risponde Fausto. Il suo pensiero è tuttavia lontano, mentre aggiunge: “A volte ci si conosce da piccoli per poi ritrovarsi da adulti dopo venti, trent'anni. Ci si ravvisa a fatica. Ma i sogni fatti da bambini, cancellati dagli anni inclementi tornano a galla d’improvviso”.
Lei lo guarda curiosa. Solo ora si accorge della lunga cicatrice bianca, che lui porta sulla guancia sinistra. Chiude gli occhi, ma li riapre subito dopo.
“Faustino?”, chiede incredula.
“Arìe?”, risponde lui d'impeto.
Vanno nell'area attrezzata e il campeggio c'è ancora.  ALBATROS, anziché VELA BIANCA. E così il riparo nascosto dietro al grande ulivo.
Lei vi si nasconde a fatica. Fausto la vede, e picchia sul muretto la sua vittoria.







MAGICI FILI





IL RACCONTO
Con questo primo racconto la scrittrice veronese Lisa Albertini
inizia la sua collaborazione con "Odissea"


Nella foto: Lisa Albertini


  


PARTENZA

Un contorno di gondole nere, sparse nell’acqua blu verdastra avanti alla riva, con i riflessi brillanti del sole meridiano. Contro il cielo d’un azzurro pastoso denso di luce, diritto in piedi un palo d’attracco delle gondole. Su di esso una gabbianella bianca, pulita, dal becco ocra smussato in punta aperto verso l’aria, in cerca di sogni. Alle sue spalle il Palazzo Ducale, dai bianchi ricami d’un candore abbacinante traforati come pizzi ottocenteschi profumati d’amido, e gli archi aperti di seguito, su colonne snelle, accoglienti nel loro invito a chi passa, di entrare a fermarsi in sosta.       
E in mezzo a loro, sulla Riva degli Schiavoni stesa verso il prossimo ponte bianca di pietra, un brulichio incessante d’uomini d’ogni colore. Fitto, in continuo movimento senz’ordine, ma festoso e ridente.  Soli o a gruppetti felici, guardano verso punti qua e là d’intenso colore. Si avvolgono e si svolgono, le digitali in mano, d’attorno a maschere di rito del Carnevale di Venezia.                         
Un grande pappagallo verde a bolli d’oro, dal becco giallo, signori e signore del settecento ricchi di perle e drappeggi, coppie in verdi abiti lunghi coperti di frutta e fiori, due finte gondole a passeggio, pochi egizi in luminosi paramenti trapunti di pietre colorate…
e numerose altre invenzioni dal sapore magico, nella luce intensa di fine inverno. Nel loro spazio ridotto, ma dilatato dallo sguardo di ognuno si muovono piano, in silenzio. Sussurrano mezzi sorrisi, accolgono compagni di foto con cortese condiscendenza. L’aura di mistero che li avvolge si veste a tratti di giocosa allegria, subito tolta da altri, in diversa pretesa. Volta a volta, con diplomatica noia si spostano in direzioni impreviste e senz’ordine, appunto.
Davanti alla Basilica di S. Marco dal morbido, arcuato disegno orientale, un clan di giocolieri si arrampica su alti trespoli. Da lì fa ondeggiare sinuose strisce  di carta colorata, formando disegni aerei incrociati. Note dal colore intenso, altrettanto modulate, si spandono per la piazza. Sono armonie classiche, composte con passione e sentimento. Accompagnano i motti di spirito delle antiche maschere sul palco in fondo, in preliminari per la prossima recita del pomeriggio.

La gabbianella, che curiosa ha visto tutto volando a lato, a bassa quota, ritorna sul palo vicino alle gondole. Ripensa al ‘suo’ carnevale. E’ per lei quello di sempre, che ogni anno colora le rive di umani, divertenti pupazzi. Con occhio attento ne cerca ancora i colori, che da lì appaiono seminascosti nel brulichio fitto e disordinato. Odora anche, grata, gli effluvi di acqua salmastra, ricca di alghe floride d’un verde vivo, da primavera prossima. Scuote vezzosa le piume verso il gabbiano grande del palo vicino, in un’illusione di futuro affetto, poiché dovrà andarsene tra breve. La chiama il migrare dovuto a lei, giovane. Non vorrebbe lasciare la riva vicino alla piazza; neppure il palo, le gondole nere, l’aria umida e densa. E tuttavia, in uno sforzo naturale, aspro di senso, si alza ad ali spiegate. Vola prima lenta, accosto alla riva. Poi, con sempre maggior vigore in là, sul mare aperto, incontro al proprio destino, ignoto.



Nota Biografica
Sposata con tre figli, laureata in Psicologia clinica a Padova, Lisa (Marialisa) Albertini ha seguito training e corsi di perfezionamento, specialmente in Psicologia relazionale sistemico cibernetica a Milano e in Psicologia forense a Venezia. E’ stata psicologa in Consultorio familiare, insegnante in materie psicologiche per l’ULSS 25 Regione Veneto, consulente tecnica per il Tribunale civile.

E’ psicologa clinica in libera professione. Da una decina d’anni s’interessa di narrativa. Ha pubblicato: ‘La venditrice di bambole’ Maremmi 2004, ‘Di sola madre’ Quiedit 2008 (finalista al premio ‘Vinceremo le malattie gravi’  2013 , Milano Sesto S. Giovanni ), ‘Al balcone di Giulietta e altri racconti’ Quiedit 2011, ‘Il tulipano nero’  Quiedit 2014 (tra i premiati al concorso letterario ‘Città di Castello’ 2013).  I racconti brevi, qui presentati, sono parte di una nuova raccolta inedita. 
    




DOVE FINISCE LA CITTÀ
 
Marina Previtali -Periferia Urbana-

C’è un punto della città dove l’asfalto incontra il nulla. Dove draghi tecnologici ritmano il loro incedere sugli scatti calibrati dalla ferrea battuta delle ruote sui binari nei giunti dilatatori. Musica di sempre per un uomo contemporaneo. Musica fantastica per un bambino ed il treno delle vacanze.
C’è un punto della città che apre un varco ed uno sguardo al di là delle cose, al di là del vero, nell’universo immenso e favoloso della memoria, dell’incoscienza, della perdita della cognizione del tempo e dello spazio. È un punto dove non esisti.
E improvvisamente il nulla della gravità, proietta nei 4 punti cardinali, nello spazio, le tue membra, le tue mani, le tue braccia, le tue gambe, il tuo capo, che si separano dal tuo corpo e iniziano a fluttuare nel grigiore di un etere senza sole e antimateria.

Tiziano Rovelli

                                         

LA LETTURA

DANTE MAFFIA


Del Poema di Dante Maffìa, "Odissea" si occuperà in modo più organico prossimamente, regaliamo intanto ai nostri lettori questo suo meraviglioso,
emozionante omaggio ad uno degli alberi più umani e sacri della tradizione
e della cultura. 

















L’ OLIVO
(con stormire di fronde e cantilene di raccoglitrici)

a Giovanni Pistoia

1

Ma certo, trasgredire un suo consiglio sarebbe
un grave danno e ne potrebbe venire fuori
un lungo travaglio e liti e incomprensioni, meglio
obbedirle per filo e per segno, in fondo
è la Concetta di sempre, sempre prodiga
nelle spiegazioni pronta a dire e ridire
che una buona minestra si fa se l’olio è quello
che viene dagli alberi antichi che svettano grigi
assolati sui poggi e guardano il mare da un lato
e i monti dall’altro a giusta distanza.
È quasi ai novanta, borbotta cammina si ferma
al balcone scruta si siede e sospira. I pensieri
vanno veloci ma ancora conosce chi macina olive
sincere e chi mette nei tomoli chiacchiere e frasche.

2

Alla fine del banchetto la prova del nove
è mettere olio sul pane di casa, assaggiare
lentamente, schioccare la lingua, e aspettare.

3

Ero appena un ragazzo quando al paese
venivano a frotte le raccoglitrici, d’ogni età,
quasi vecchie, donne robuste, bambine,
con gli occhi aperti, le mani a geloni,
lo scialle di lana annodato sul collo.
Un pezzo di pane e due olive, un tarallo,
un sorso d’acqua, due fichi. Cantavano
al freddo le mani gelate, i piedi
nel fango. “L’olio è sacro, lo sai?”.
“No”. Mi pareva che fosse un  liquore
che sa dare anima al cibo. Solo questo,
ed era un pensiero visto in chissà quale storia
appresa la sera davanti al camino d’Antonia.
Il frantoio era zeppo di gente,
la macina andava veloce
tirata dal mulo bendato.
Colava dai fischi quell’oro
sfacciato e solenne.
L’unto era sempre nascosto appeso alla Croce.

4

ORA È UNA CHIESA ABBANDONATA

Tutti i corvi, scendendo da una nuvola pesante,
si nascondevano sull’olivo davanti casa
che subito volava verso l’orizzonte
con la gioia di chi fa una marachella.
Lui conosceva le opere dei grandi,
soprattutto filosofi,
il pensiero del vecchio Kant,
di Socrate e Telesio.
I corvi felici d’ascoltare
parole incomprensibili. L’assenso
lo davano mangiando molte olive.
Poi, nella notte, a pericolo sparito,
l’olivo ritornava a troneggiare
davanti casa. La luna inargentava
la sua chioma. Per quasi mille anni
produsse olio grazie al suo pensare.
Le idee erano linfa, ora è una chiesa
abbandonata, il rifugio d’una scrofa.

5

IL SUO VERDE ERA STANCO

Le mattine di gelo aspro, la furia
della tramontana che tagliava le mani,
e l’infuriare della neve. Ma qualcuno
pensava ad accendere un fuoco
di rami secchi, un crepitare
di ricordi proprio accanto a lui
forse un po’ invidioso dei fratelli
che digradando verso la pianura
gridavano la gloria e l’abbondanza.
Il suo verde era stanco, come chiuso
in un cielo corroso.
Ma ricordava il verde della terra
e l’odore verde del suo nettare,
e il canto della sua anima
che bruciava traguardi e dava l’Unto
in nome del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo.

6

UN LUOGO SACRO AI GIOCHI

L’antro che nascondeva la capretta
nei giorni di pioggia, quel mistero
che aveva la faccia stupita. Era un’isola
di beatitudine, un luogo sacro ai giochi
e io ne inventavo dall’alba al tramonto
sempre nuovi, accogliendo gli altri
al ricovero. In dieci ci rifugiammo
durante una tempesta

e poi vedemmo l’orrore
negli occhi delle madri: i lampi
vi potevano colpire. Ridevamo felici
ancora cullati dal calore del vecchio olivo.
Aveva cuore grande e braccia lunghe,
un gigante buono, una città di sogni.

7

QUANDO DIO CREO’ L’OLIVO

Quando Dio creò l’olivo e lo radicò
per restare secoli e secoli all’addiaccio,
al sole e alle tempeste, lo rese sacro
e stabilì che fosse
l’albero dell’amore.
Benedisse le fronde
e affidò al suo frutto
l’immagine del Figlio.
Un abisso di lumi lo scuote
ad ogni autunno;
c’è una dolce lussuria
nel suo argento immacolato
e s’io lo guardo nel tramonto impallidire
penso a mia madre stanca:
lo guardava paga e innamorata.

8

CHE COSA SAREBBE IL MONDO SENZA L’OLIVO?

Passandoti accanto,
ognuno ti guardava compunto,
ti bisbigliava una frase, ti diceva
una parola dolce, ti sorrideva.
Dalla finestra guardavo incapace
di capire . La tua maestosità era una traccia
e un invito, non cercavi né l’alba
né la conoscenza, offrivi te stesso
nel fiume dell’amore,
non indicavi la strada
del progresso, né quella che porta
alla vita eterna, soltanto mormoravi,
appena la brezza muoveva le sue braccia
o balbettava qualche sussurro,
di vivere in pace, e il contadino
pensava: “Che cosa sarebbe il mondo
senza l’olivo? Una povera cosa
in attesa di nascere”. L’olivo ha un cuore
che trasuda e spande intorno la gioia,
ha le ali grandi, e le parole sante
per gridare al mondo: pace, pace!
E il grido s’apre in un vento caldo
che copre l’universo. Onde si propagano
ripetendo: pace, pace, pace.

9

L’ALBERO CUSTODE

Niente è eterno, eppure tu avevi
il viso di Cristo radioso, e un’ombra
così grande che temevo avvolgesse la mia vita
cancellandomi i sogni turchesi intravisti
quando a frotte ti piluccavano il cervello
torme di passeri affamati.
Dove sono quei sogni? Li hai nascosti
nel tuo seno, oppure sono svaniti?
Da qualche anno sei silenzioso
come se ti specchiassi in me che ho perduto
la freschezza del canto e l’armonia.
Ecco, lo so, tu sei custode
del dolore del mondo e del mio dolore
che somiglia sempre più
ai crisantemi calpestati il due novembre.
Niente è eterno, e quando perirai
anche l’ultimo mio fiato avrà perduto
consistenza e i tuoi frutti saranno
un canto metafisico, una nenia.
Va’, allontanati da me, e sii sempre
le mille braccia amorose, la vastità dell’amore,
sii custode della mia anima fino a quando
potrai sfidare i venti e ridere con gli arcobaleni.
Se ti penso senza più radici

perdo l’anima, mi marciscono gli occhi.

                                      


LA LETTURA - IL RACCONTO

Tutti d'un pezzo 
di Annalisa Bellerio
                                               
                                                  



La partita di calcio finì e subito cominciò la pubblicità. Tommaso non si mosse dalla sua postazione di fronte al televisore. Comparve un bambino che giocando si rovesciava addosso ogni genere di schifezze, sotto lo sguardo soave della madre, la cui serenità d’animo poggiava solidamente sull’esistenza di un certo detersivo. Tommaso raccolse i pezzi sparsi del suo corpo di tredicenne e passò in camera dei genitori per la buonanotte.
“Mamma, perché fai sempre tante scene quando torno conciato dal calcio? Non potresti usare un detersivo di più concentrata forza sbiancante?”
“Ma Tommy, cosa dici? Sai bene che la pubblicità ti presenta un prodotto come se fosse miracoloso. Non vorrai crederci davvero!” protestò la mamma, continuando a spalmarsi sul viso una costosissima crema antirughe e “ridensificante” che, a quanto Tommaso ricordasse, nel corso dei mesi non aveva visibilmente cambiato la situazione.
“Dai Tommaso, vai a letto che è tardi. Domani andrò a parlare coi tuoi professori, quindi sarò qui a pranzo, e nel pomeriggio verranno due mie colleghe per una riunione.”



La mattina dopo, uscendo di casa, Tommaso incontrò il brillante avvocato del piano di sotto, quello che telefonava per protestare ogni volta che lui suonava la chitarra dopo cena coi suoi amici.
“Ciao Tommaso, vieni, ti accompagno con la mia nuova macchina.”
“Grazie, ma la mia scuola è qui vicino…” cercò di sottrarsi Tommaso, deciso a evitare quella poco gradita compagnia. Ma l’avvocato lo prese praticamente per un braccio, spingendolo nella sua direzione senza smettere di parlare.
“Oggi sono di ottimo umore. Domani parto per una vacanza di dieci giorni ai Caraibi, in un’isola incontaminata, lontana dal traffico, dall’inquinamento, dallo stress di questa orrenda città”, declamava l’avvocato avviando il suo gigantesco fuoristrada, con cui ogni giorno percorreva pochi isolati. “Non prendertela per l’altra sera, ma davvero io non posso sopportare il rumore”, spiegò cambiando argomento, notando la scarsa propensione al dialogo di Tommaso. In quel momento una bicicletta tentò di attraversare e lui si attaccò furiosamente al clacson rompendo i timpani all’intero quartiere. “Queste dannate biciclette! Sono un vero intralcio.”
Fu con grande sollievo che Tommaso arrivò a scuola.

Finite le lezioni, si avviò verso casa senza fretta, perdendo tempo coi compagni. Si era dimenticato che, contrariamente al solito, la mamma era a casa, dopo il colloquio coi professori.
“Oh, eccoti finalmente, vieni a mangiare, Tommy”, lo chiamò la mamma con voce che gli parve rassicurante. “Allora, la professoressa di matematica dice che vai abbastanza bene, ma potresti fare di più.” Quando un giorno Tommaso le aveva chiesto di fermarsi un poco per spiegargli meglio un problema, lei aveva avanzato mille scuse. Per fortuna era intervenuta una giovane supplente, molto più simpatica e disponibile. “Anche la prof. di lettere è contenta, ma ti raccomanda di leggere molto.”
“Sì, Tommy, cerca di perdere meno tempo coi videogiochi e prenditi dei libri”, intervenne Francesca, la sorella maggiore, disponendosi a guardare la sua telenovela preferita.





Più tardi nel pomeriggio Tommaso prese la bicicletta per andare in piscina, e lungo la strada si fermò in una libreria. Mentre rovistava tra gli scaffali, arrivò una commessa. “Cerchi qualcosa di preciso? No? Bene, per la tua età puoi scegliere romanzi classici, di avventura, dell’orrore, di magia…”
“A me piacciono i racconti un po’ ironici.”
“Racconti ironici? Magari senza nessun intento didattico? Ma no, per i ragazzi della tua età i racconti non sono previsti. Guarda qui, c’è un’ampia scelta di romanzi, ti consiglio…”
“Ecco, questo un mio amico l’ha letto e mi ha detto che è bello”, la interruppe Tommaso estraendo dallo scaffale un volumetto di racconti di un autore sconosciuto.
“Non dovresti essere così influenzabile”, commentò con tono acido la commessa, avviandosi alla cassa.

Dopo un’ora di nuoto, Tommaso incontrò i suoi amici negli spogliatoi e cominciarono a parlare tutti insieme.
“Insomma, ragazzi, che confusione che fate, e che disordine che lasciate in giro! Non siete i soli qua dentro!” protestò un signore appena uscito dalla doccia, dove era stato circa mezz’ora, ignorando la coda di quelli che aspettavano il loro turno.
Fuori, cominciava a piovere. Tommaso inforcò la bicicletta e corse a più non posso, sfrecciando nel traffico lento e zigzagando abilmente tra i passanti.
“Ma dico! Credi di essere il padrone della strada?” lo rimproverò un signore mentre raggiungeva con calma la sua automobile che, lasciata in seconda fila a motore acceso, aveva creato un discreto ingorgo.
“Si credono unici al mondo, non hanno nessuna attenzione né rispetto per gli altri”, concordò un’elegante signora, mentre il cane che teneva al guinzaglio faceva i suoi bisogni in mezzo al marciapiedi.
Tommaso non riuscì a evitare di arrivare a casa completamente bagnato.
La mamma, in compagnia di due colleghe, quando lo vide rimase sconvolta.
“Tommy, ma sei fradicio! E poi con quei pantaloni, che ti lasciano la pancia fuori! Non potevi metterti una giacca, o un impermeabile? Ti verrà un accidente!”
“Per i giovani la moda è più importante della comodità”, sentenziò la collega bionda, barcollando pericolosamente sui tacchi a spillo.
“E non hanno nessun riguardo per la propria salute”, aggiunse l’altra collega, accendendosi l’ennesima sigaretta.
Tommaso si chiuse in bagno ad asciugarsi, poi si chiuse in camera.




Dopo cena, suo papà lo guardò con aria severa. “Tommy, mi avevi detto di aver fatto mettere a posto i freni della bicicletta, invece ho visto che sono esattamente come prima. È pericoloso, lo capisci? E poi non mi piace affatto che tu non dica la verità.” Fu interrotto dal suono del suo cellulare. “Sì? Ah, buonasera ragioniere. No, non sono in casa in questo momento e non posso controllare. No, tornerò tardi… cercherò di vedere domani. Sì, ci risentiamo, buonasera.” Spense e sbuffò. “Quel rompiscatole, non riesco a liberarmene. Mi raccomando”, disse rivolgendosi a tutti i presenti, “se chiama qui il ragionier Fuselli, io stasera non ci sono.”
“Ciao a tutti, io esco”, salutò Francesca infilandosi il giaccone.
“Dove vai?” chiese la mamma.
“Vado al cinema con Stefano.”
“Ma come, non avevi detto che non volevi mai più sentirlo nominare?”
“Ho cambiato idea”, tagliò corto Francesca chiudendo la porta.
“Cosa vuoi”, commentò il papà rivolto alla mamma, scuotendo la testa, “dai giovani non si può pretendere la coerenza.”     
(12-7-2007)


                                        

Il corpo della modella
di Annalisa Bellerio





L’aula di figura era affollata e avrei già dovuto iniziare la lezione, ma la modella non arrivava ancora. Il ritardo si dilatava e così la mia impazienza e il mio nervosismo. Gli studenti e i frequentatori esterni del corso parlavano a voce alta tra loro o al cellulare ingannando l’attesa, voltandosi ogni tanto verso di me con aria interrogativa. Suonò il mio telefono. Era Simona, la modella che usavo spesso ed era sempre puntuale. Mi spiegò che era al pronto soccorso, era scivolata sui gradini della metropolitana umidi di pioggia e aveva una caviglia gonfia e dolorante. Le dispiaceva molto ma non era riuscita ad avvisarmi prima e neanche a rispondere alla mia chiamata. Le dissi di non preoccuparsi e le feci gli auguri, cercando di controllare il disappunto. Non facevo più in tempo a chiamare qualcun’altra a sostituirla, non mi restava che dirottare la lezione su una scultura o un modello anatomico in gesso. Mentre mi muovevo verso il deposito, mi si avvicinò una giovane donna che avevo visto più volte al mio corso, di cui ricordavo qualche lavoro dal tratto incisivo e essenziale.

“Professore, mi scusi, ho capito che la modella ha avuto un incidente e non può venire, se a lei va bene posso posare io al suo posto.”
La guardai sorpreso. Aveva un corpo esile e un viso minuto, capelli scuri molto corti e due occhi che mi guardavano seri, traboccando di riflessi verdi e di malinconia.
Non aveva certo l’aspetto consueto della modella dei pittori, dalle forme piene e generose, se non addirittura abbondanti. Sembrava piuttosto una ballerina classica, attardata in un fisico adolescente. Ero incerto, ma anche tentato da quell’offerta imprevista.
“Ha mai posato?”
“No.
“Ci vuole molta pazienza e disponibilità a stare a lungo piuttosto scomodi e in questi giorni anche al freddo.”
“Penso di poterci provare.”
“Va bene. Proviamo.”





Lei si ritirò dietro il paravento a spogliarsi e ricomparve con addosso soltanto una lunga camicia e così salì sulla pedana e si sedette sul piano d’appoggio coperto da un materasso e da un’ampia tela drappeggiata. Si tolse la camicia e rimase nuda, con un piede a terra e l’altro appoggiato sul materasso, tenendosi con una mano la caviglia della gamba piegata e voltandosi verso di me con una rotazione del busto.  
“Come mi devo mettere?”

Gli allievi del corso guardavano un po’ stupiti e un po’ divertiti la compagna che si improvvisava modella, ma nessuno trovò la cosa troppo eccentrica. Non ci furono obiezioni né commenti inappropriati. Uno dei più creativi le girò intorno considerandola da più angolazioni e alla fine disse: “Secondo me potresti stare così”. Gli altri erano d’accordo con lui.
Preferisco far decidere alla classe le pose da adottare, così salii sulla pedana a sistemare la stufetta in modo che fosse orientata il meglio possibile verso quel corpo esposto alle gelide correnti dello stanzone in cui ci trovavamo. Tutti cominciarono a disegnare, sui banchi o in piedi al cavalletto, oppure seduti precariamente tenendo appoggiato verticale su un ginocchio il foglio fissato a un supporto.
Guardavo la giovane donna che stava in posa con naturalezza, ma assorbita e compresa nel suo ruolo. Aveva una struttura leggera ed essenziale fatta di poca carne compatta attraverso la quale si indovinavano le ossa, sottili ed eleganti. In realtà non sembrava un’adolescente. Non faceva pensare a forme acerbe in divenire, e la sua non era affatto una magrezza emaciata, ma come distillata, delicatamente liberata del superfluo, e percorsa da una tensione consapevole e matura.
Girai per la classe a osservare il progredire dei lavori. Tutti si accorgevano di come la nuova modella richiedesse una costruzione anatomica rigorosa, perfettamente sorvegliata, che non poteva nascondersi dietro volumi gonfiati e linee espanse, ma rimaneva ineludibile in trasparenza. Era una prova difficile, una sfida stimolante. Avevo voglia di tirar fuori anch’io un foglio e mettermi a disegnare, continuai invece a intervenire qua e là come il solito, con correzioni, osservazioni e suggerimenti.
Ogni tanto qualcuno si alzava e cambiava il punto di osservazione, iniziando un nuovo disegno con una prospettiva differente.
Dopo quasi un’ora in cui la modella non si era mai lamentata e non aveva mai chiesto di potersi muovere, proposi un intervallo di riposo prima di una nuova posa. Lei si coprì e si alzò per sgranchirsi, io mi complimentai per l’atteggiamento professionale e le portai un caffè. Lei intanto si mise a girare per la classe guardando come ipnotizzata i disegni che la ritraevano. Tirò addirittura fuori il cellulare e ne fotografò alcuni. Poi tornò sulla pedana pronta alla nuova posa, questa volta distesa su un fianco, e così rimase, ferma ma non rigida, per più di mezz’ora.
Alla fine della lezione si rivestì in fretta e girò ancora tra i banchi irresistibilmente attratta da quei disegni. Qualcuno degli autori più produttivi gliene regalò uno, con sua timida ma evidente gratitudine.
“Buongiorno professore, ciao Olga e grazie” salutò un ragazzo uscendo dall’aula.
Aspettai che lei tornasse verso di me per darle il compenso che le era dovuto, ma lei lo rifiutò.
“L’ho fatto per me” dichiarò. Chissà cosa voleva dire.
“Grazie, Olga” le dissi anch’io, usando per la prima volta il suo nome.



Per la lezione successiva convocai un’altra modella del gruppo di quattro o cinque su cui potevo contare e che chiamavo a rotazione. Seduta tra gli altri allievi individuai Olga, che mi rivolse un breve sorriso. Durante l’intervallo mi avvicinai al suo banco curioso di vedere quello che aveva eseguito durante l’ora precedente e le chiesi se avesse da mostrarmi altri suoi lavori. Aprì la cartelletta e lasciò che esaminassi quei corpi accennati, non finiti, attraversati da un senso di irrequietezza, di sofferenza o di vuoto. Avevano qualcosa di commovente e insieme di inquietante.

Mentre riponeva i fogli che via via le restituivo notai che si era tagliata un dito con la carta e che il sangue rischiava di macchiare i disegni. Le presi la mano alzandola davanti al suo viso.
“Attenta, ti sei fatta male.” Ormai ci davamo del tu.
Appena si accorse della ferita si allontanò da me con violenza e con un’espressione di terrore, e cominciò convulsamente a tamponare il sangue che usciva, tenendosi il dito avvolto in due o tre fazzoletti. Finì di mettere via i fogli, chiuse la cartelletta e se ne andò via senza neanche guardarmi.
Che strana creatura, pensai. Da artista mi sentivo anch’io un emotivo, ma una simile reazione era davvero sproporzionata.
Per due settimane non la vidi. Mi rendevo conto che entrando nell’aula di figura la cercavo tra i presenti e che la sua assenza mi lasciava deluso. Quando ricomparve provai un innegabile senso di sollievo. Si scusò dicendo che aveva avuto problemi di lavoro, sembrava comunque piuttosto tranquilla e così a fine lezione ne approfittai per farle la proposta a cui avevo a lungo pensato in quei giorni. Stavo preparando una mostra di quadri miei e mi sarebbe piaciuto che lei si prestasse ancora a fare da modella, questa volta per me.
Ebbe un attimo di stupita esitazione, poi accettò.





Arrivava puntuale nel mio studio, si spogliava e si appoggiava ai cuscini, ritrovando facilmente la posa stabilita. I suoi umori erano molto variabili. C’erano giorni che se ne stava chiusa in se stessa e se ne andava senza dire quasi una parola, e altre volte in cui si presentava con aria più rilassata e disponibile e con un po’ di voglia di parlare. Mi raccontò che lavorava come grafica e le era sempre piaciuto disegnare, ma il mio era il primo corso di figura che seguiva dai tempi della scuola. Aveva ripreso da sola a studiare arte, e ne discuteva con me volentieri.
Della sua vita privata non parlava mai ma sembrava che tutto quanto faceva lo facesse da sola. Scoraggiava ogni tipo di confidenza, controllava i gesti affettuosi, evitava il contatto, se non quello con gli oggetti e quanto di inanimato la circondava.
Un giorno si fermò un po’ più a lungo nel mio studio a guardare i miei vecchi lavori, schizzi e disegni accumulati negli anni. Tra tanti ritratti femminili, uno la colpì particolarmente.
“Era solo una modella?”
“No. È una donna a cui sono stato legato.”
“Eri innamorato?”
“Direi di sì. O comunque ha lasciato un segno.”
“Che tipo di segno?”
“Un segno nella mia storia, nella mia immaginazione, nella mia anima. Nessuno su di te ha mai lasciato un segno?”
Vidi ancora sul suo volto quell’espressione di muto terrore.
“Sì, un segno. Nel mio sangue.”
Mi sembrò una definizione intensa.



Completai le opere che volevo presentare in mostra, tra cui i nudi per cui lei aveva posato. Rimase a lungo a guardarli tutti insieme, assorta come era stata davanti ai disegni dei compagni per i quali aveva fatto da modella la prima volta.
“Come ti sembrano, ti riconosci? Pensi che sia riuscito a cogliere qualcosa di te, oltre la superficie?”
“Mi piace come mi vedi. Nelle tue tele il mio corpo non fa paura.”
“Paura? E perché mai dovrebbe fare paura? Il tuo corpo può suscitare diverse emozioni, ma davvero non direi la paura.”
Mi sorprendeva spesso con quei commenti improvvisi e incongrui, che lasciava cadere senza mai prestarsi a una spiegazione. Avevo l’impressione che avesse bisogno di specchiarsi nell’immagine che gli altri coglievano e tratteggiavano di lei, che non sapesse come affrontare se stessa e cercasse altri punti di vista.
Il suo atteggiamento alla vernice della mia mostra sembrò confermare questa idea. Rimase tutto il tempo un po’ in disparte, a osservare le reazioni dei visitatori alle opere in cui l’avevo ritratta. Se ne andò come sempre immersa nei suoi pensieri.
Anch’io mi immersi nei miei.

Un giorno arrivò in galleria in un’ora in cui sapeva che oltre a me non c’era nessuno. Mi si sedette accanto gustando a lungo il silenzio e la sola presenza delle opere esposte.
Era però una delle rare occasioni in cui sembrava avere voglia di parlare. Voleva ringraziarmi per averle dato quella opportunità.

“Vorrei poter vivere soltanto sulla carta, sulla tela, in un’opera d’arte. Vorrei essere davvero quella che hai visto tu mentre posavo, e i compagni del corso, e la gente che è venuta a visitare la mostra. Vorrei che il mio corpo fosse davvero quello” disse accennando alla propria figura dipinta in un quadro che le stava davanti.
Guardò la mia faccia perplessa e un po’ preoccupata e questa volta proseguì, con tono quasi di sfida. “Non posso più continuare a tacere. È successo nell’estate di due anni fa, durante un viaggio dall’altra parte del mondo. Niente faceva pensare che potesse finire così. So che ora anche tu non mi vorrai più vedere, non verrò più neanche al corso, ma ti devo avvisare.”
“Che sei sieropositiva?”
Spalancò gli occhi per lo stupore. “Come lo sai?” mi chiese.
“L’ho capito.”
Era spiazzata e cominciò a tremare.
“Il mio corpo è pericoloso, per me e per gli altri. Chi lo sa ha smesso di frequentarmi e mi sta lontano.”
“Io non l’ho fatto.”
Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e fuggì via quasi correndo. Io non mi mossi.
L’avrei cercata là dove si era perduta. L’avrei trovata.
E lei alla fine sarebbe tornata.



IL LIBRO

Il poeta è un clandestino
di Angelo Gaccione





Confesso di avere avuto più di una perplessità ad affrontare questo nuovo libro del poeta cosentino Carlo Cipparrone: “Il poeta è un clandestino” (De Felice Edizioni 2013, Pagg. 128 € 12,00), per più di una ragione. Basta già il tono asseverativamente perentorio a scoraggiare chiunque vi si voglia applicare. Siamo di fronte ad un libro ultimativo, in più di un senso; stringente nel suo rigore dialettico, spietato nella sua verità; scettico e tuttavia irriducibile. Il libro si presenta al lettore come una lunga sincera confessione, senza bluffare e senza voler nascondere il bilancio di un personale fallimento di poeta. Agli addetti ai lavori (critici, sodali di penna e colleghi poeti) si presenta invece come una parabola dispiegata su più piani per minarne ogni certezza, ogni sicumera, consapevole, alla fine di una lunga carriera di poeta, che poco o nulla resterà nell’affollata foresta della poesia, se non qualche robusta pianta secolare: gli arbusti, gli alberelli, (a cui egli stesso si mescola) faranno vita stentata all’ombra di quegli alberi giganti, per finire inesorabilmente nell’oblio. Il tempo non perdona ed il peso dei poeti nella società si è ridotto fino a divenire trascurabile, se non inesistente.

Antilirico per eccellenza, questo lungo discorso di un poeta sulla poesia e i suoi dintorni, è strutturato in versi (perché questa è la sua cifra), ma ha l’andamento prosastico e ragionante di un vero e proprio pamplet critico, a cui poco, oggettivamente si può opporre. Chiunque è stato in questi ultimi trent’anni dentro il territorio affollato e magmatico della poesia, non potrà che riconoscere quante le sconsolate e disilluse proposizioni del poeta calabrese siano vere. Dalla sua ha inoltre due privilegi: di aver raggiunto un’età che non permette inganni (80 sono ora gli anni del poeta); di aver guardato all’affannarsi e al brulicare dei gruppi, dei movimenti, delle tendenze e delle scuole, da un osservatorio decentrato (la sua Cosenza) con un occhio lucido e scevro da facili abbagli. Una Cosenza tuttavia ricca di personalità poetiche di primo piano, e che conserva tuttora alcune delle voci più significative ed interessanti del fare poesia nazionale. Basti citare per tutti “Capoverso” ed il nutrito gruppo che vi ruota intorno.
La lunga premessa stessa dell’Autore (sono dieci densissime e argomentative pagine in cui egli ragiona a tutto campo sul suo lungo percorso di poeta, sul suo fare poesia, sulle sue “visioni” estetiche, sulle sue pulsioni, e ce ne dà ragione senza fare sconto agli altri ed a se stesso, con un misto di demitizzante autoironia, come poche volte mi è accaduto di leggere in un poeta contemporaneo) è così conchiusamente circolare nella analiticità della sua critica, così minuziosamente definita (dall’interno) dalle sue parole, che non saprei come si possa dir meglio (diciamo così dall’esterno, da altri) dei suoi versi e del suo fare poesia. Anche questo un altro dei motivi scoraggianti di cui dicevo all’inizio, e dunque forse vale la pena vederne dei lacerti di questo “ragionar critico” di Cipparrone.
“Quella contenuta in questo libro può definirsi, pertanto, una scrittura dove le questioni metaletterarie si intrecciano ai temi poetici dando vita a un discorso lucido e razionale; l’autore è, infatti, prevalentemente impegnato ad indagare ed analizzare, ora con maggiore evidenza ora in modo più sotteso, le ragioni della stessa poesia con amara e insieme ironica obiettività, giudicando il proprio lavoro poetico e quello degli altri autori con la stessa imparzialità (…)”. E a proposito della sua di poesia, scrive: “(…) Sul piano stilistico questo ritorno all’umiltà e alla concretezza coincide con una ripresa dialogale, discorsiva, pacata, che riconduce a una poesia di tipo saggistico e accetta l’ironia come umanissima misura di giudizio. Sobria, colloquiale, disincantata, essenziale nella concretezza delle immagini, questa poesia rifiuta preziosismo ed estremismo, tendendo a ricondurre indietro il discorso poetico, un po’ più indietro della meta ideale (il bello), erogandola magari allo stato ancora grezzo di riproposta, attraverso ragionamenti calmi e distaccati, esercitazioni ironiche ed autoironiche, in cui pure è possibile scorgere la sopravvivenza di un’immedicabile malinconia meridionale”. Per la pregnanza del dire e per come Cipparrone illumina la sua poesia (e ci illumina), tutti i concetti più salienti di queste pagine andrebbero qui riproposte. Uno dei testi poetici va tuttavia riportato in questo contesto, se non altro a conferma del suo concreto procedere in versi: “Non pretendiamo troppo/ dai nostri versi, non chiediamogli/ nulla di più di ciò che sono:/ scorie di bosco, inariditi rami,/ foglie secche, tozzi di legno/ che ardendo si consumano./ Servono a tener vivo il fuoco./ Altri verrà dopo di noi/ a dar forza alla fiamma/ a sollevare più alte faville./ (Altri verrà).
Ho scritto in un saggio per un Convegno, diversi anni fa, che “le teorie” poetiche (o se volete le motivazioni) sono tante quanti sono i poeti; ed è giusto che sia così. Non sono invece molto sicuro di quella che Cipparrone richiama anche nel titolo del suo saggio-poema: la clandestinità dei poeti.
Anche il più decentrato, il più nascosto, il più appartato di essi, finisce per venire alla luce attraverso pagine di libri e di riviste, e di consegnarsi fatalmente ad uno spazio pubblico, ad un agorà. Quanta questa esistenza possa rivelarsi precaria, Cipparrone ce lo mostra, ma i buoni versi restano buoni versi, anche se spesso sommersi da un surplus quantitativo divenuto soffocante. Del resto era stato Antonio Mignosi a scrivere questo divertente aforisma: “Vermi e sorci, mosche pidocchi e poeti, che tutte le armi della terra non riescono a sterminare”; dunque non avremo scampo. In questi giorni in cui prendevo in mano il libro di Cipparrone, curiosamente a parlarmi di “clandestinità” è stato il filosofo Fulvio Papi; e di “poetica del fallimento” in una email dalla Croazia, la scrittrice Nelida Kruliač. Sicuramente Cipparrone è stato un poeta parco e avveduto, ed ha pubblicato le sue poche raccolte ad intervalli di tempo molto lunghi, come dovrebbe fare un vero poeta (Le oscure radici nel 1963; L’ignoranza e altri versi nel 1985; Strategie nell’assedio nel 1999); tuttavia per la sua parabola poetica non si può parlare né di clandestinità, né di fallimento: non solo per essere stato, e di esserlo, animatore del dibattito poetico (riviste, quotidiane, antologie, legami e contatti con personalità di primo piano di quel mondo), ma perché i suoi versi hanno varcato anche i confini nazionali, come è attestato dalla traduzione di due suoi libri in Polonia e in America.






                                                  



LA LETTURA

Il fragile contorno delle parole
di Annalisa Bellerio




Uno struggente e umanissimo racconto di Annalisa Bellerio

Secondo piano. Mi investe il solito odore di minestra e disinfettante. Sono più di sei mesi che vengo in questo posto quasi tutti i giorni e ancora non riesco ad abituarmi, a questo odore.
Quasi in fondo al corridoio, la stanza di mia madre è come sempre nella penombra, le veneziane abbassate. Lei è lì, seduta accanto alla finestra con un libro chiuso in grembo.
In che stato sarà oggi? Guarda un punto imprecisato con un’aria persa che mi mette in allarme. Sdraiata sul letto di fianco la sua compagna di stanza dorme, o comunque è del tutto assente. Come quasi sempre.
“Ciao mamma, sono Elisa, eccomi qua.” Mi presento ogni volta, nell’inconfessato timore che anche il mio nome possa stingersi nella sua mente, e svaporare. “Ho fatto tardi, lo sai, il sabato sono tutti a casa e c’è sempre qualcosa che si mette di traverso. Come stai? Cosa stai leggendo?”
Domanda retorica. Lo so benissimo. Da due mesi ha in mano quel romanzo di Isabel Allende e non riesce ad andare avanti. Non ricorda a che punto è arrivata. Non ricorda i personaggi, che cosa è successo prima. Deve tornare continuamente indietro. Si scoraggia. Pianta lì. La mamma non risponde, ma mi guarda con un vago sorriso. Buon segno.
“Come diavolo fai a vederci? Come fai a leggere qui?” Faccio entrare uno spiraglio un po’ più deciso di luce dalle veneziane, e subito la compagna di stanza si agita emettendo sibili indecifrabili.
“Mamma, andiamo fuori di qua.” La prendo sottobraccio e lentamente ci incamminiamo verso il corridoio, e giù nel giardino che nei fine settimana si affolla di parenti di ogni fascia di età, compresi bambinetti tenuti a freno perché qui tutto è fragile e va al rallentatore.
“Vuoi che ti legga io un po’ del libro?” La mamma annuisce con espressione riconoscente.
Comincio a leggere. Lei era maestra, ha insegnato a leggere a centinaia di bambini, e anche a me. Avevo cinque anni e la vedevo assorta nei suoi libri, ne ero curiosa, ne ero gelosa, era un mondo misterioso in cui i miei genitori e mio fratello si rinchiudevano e io restavo fuori. Con pazienza, la mamma vi aveva fatto entrare anche me. Ma ora le parole le sfuggono, si perdono, e lei cerca in tutti i modi di ritrovarle e trattenerle accanto a sé, nei tre scaffali con i suoi libri più cari, il giornale, il blocco per gli appunti, la radio, il dialogo faticoso con me, un poco ogni giorno.
Chiudo il libro e comincio a parlare, piccoli, minuscoli aggiornamenti, marito, figli, parenti, conoscenti, la casa, il lavoro, i libri. Le racconto anche i libri che leggo, come una volta lei faceva con me bambina, quando mi recitava storie e poesie. Si alza un po’ di vento.




Torniamo lentamente nella stanza, dove è arrivata Paula che sta sistemando la biancheria della vicina di letto, raccoglie cose da lavare, tira fuori giornali illustrati e succhi di frutta.

“Buongiorno, Paula.” Un giorno lei ha visto il titolo di un libro della mamma e mi ha detto che quello è il suo nome. È giovanissima, peruviana, parla pochissimo l’italiano, parla pochissimo in generale. È comparsa da un mese, viene due volte alla settimana per occuparsi della signora Elena, il cui figlio lavora come rappresentante sempre in giro per l’Italia, sempre affannato. L’ho visto quattro o cinque volte, mentre ascoltava stancamente sua madre tirar fuori con fatica parole di rimprovero e lamentele. Paula è premurosa e gentile, anche con Elena che la tratta ruvidamente e con lei non parla quasi mai, perché dice che è inutile, non sa l’italiano. A me invece piacerebbe poter parlare con questa ragazza dolce, mi ha detto che la sera studia, che qui ha la mamma e una sorella, che abita lontano, deve prendere la metropolitana e un pullman.
Mi siedo accanto alla mamma, cercando di parlare piano.
“Sai mamma, ci siamo finalmente, lunedì Silvia si laurea. In medicina, ricordi? Avremo un medico in famiglia, sei contenta?”
La signora Elena emette un sibilo. Ci fermiamo. “I medici…”
Aspettiamo, educatamente. Vuole dirci qualcosa.
“I medici, son tutti…”
Nessuno osa fiatare.
“Delinquenti.”
Restiamo immobili, in silenzio. Paula mi guarda con i suoi grandi occhi scuri spalancati, la mamma rimane impassibile. Almeno abbiamo scoperto che la signora Elena ci sente bene. E che aveva un messaggio da lasciare al mondo.
“Buongiorno Elena, buongiorno Valeria, come andiamo? Buongiorno a tutti.”
Appena entra l’infermiera, Elena si gira dall’altra parte, fa cenno a Paula di andarsene, la ragazza raccoglie le cose, ci saluta e se ne va.
“Valeria, oggi la vedo proprio bene, ma quando c’è Elisa sta sempre bene, vero? Anche noi parliamo però, sa? Ci raccontiamo. Durante la settimana, quando non ci sono i parenti. Domani sarà anche peggio. Domani è il mio onomastico, come ogni settimana, ricorda come mi chiamo? Do… Do…”
La mamma la guarda un po’ persa, mi viene l’ansia, ma che modo è, mia mamma non ha tre anni, ma improvvisamente le si spiana il viso: “Domenica”.
“Domenica, proprio così…”
Delle grida arrivano dal corridoio e compare un’inserviente.
“Domenica, presto, c’è Piera che…”
“Oh Maria Vergine, scusate, devo andare, ci siamo di nuovo.”
Piera sta gridando, c’è un trambusto in corridoio, Elena lancia un sibilo, la mamma si stringe le mani spaventata.
Cerco di riprendere la conversazione. “Allora, ti dicevo di Silvia, che si laurea in medicina. Sì, Silvia, Silvia…” Ripeto il nome, in attesa.
“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale… quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti… e fuggitivi.” Fa un respiro profondo. Proseguo in quello che ormai è un rituale a cui nessuna delle due sa rinunciare.
“E sai, forse tra un paio di settimane verrà Federico dalla Germania. Sono tre mesi che non vedo Federico. Federico.” Aspetto.
“Sta Federico imperatore in Como. Ed ecco… un messaggero entra in Milano…”
Io la ascolto recitare a memoria e mi si allarga il cuore.



Ogni giorno, ogni volta, le lancio l’esca e lei aspetta e la raccoglie. Non ricorda i nomi delle cose, delle persone, si innervosisce e si avvilisce, ma ricorda alcune poesie e questo la rasserena.

Ma martedì il rituale si inceppa.
Arrivo di corsa dopo il lavoro, le lascio il giornale sul comodino, la vedo distante e spenta.
Non sorride neanche a Paula, che mi guarda preoccupata.
“Mamma sono Elisa, ecco qui, guarda cosa ti ho portato.” Accendo l’IPad. Me l’ha regalato Federico e non lo padroneggio ancora, smanetto impaziente in cerca delle foto. “Guarda, la laurea di Silvia. È stata brava, sai? Eccola qui, quando esce. E questi sono i suoi amici. Purtroppo Federico non è riuscito a venire a festeggiare sua sorella, non poteva prendere ferie. Guardala come è felice, stasera fa una festa, domani ha detto che viene con me a trovarti. Sei contenta? Vengo con Silvia. Silvia.” Aspetto. Aspetto.
“Silvia, rimembri… il tempo…” Mi guarda sperduta. Oddio.
“… della tua vita mortale”, le suggerisco piano, ma lei scuote la testa, mi guarda con disperazione, indica qualcosa, fa fatica a parlare.
“Il libro, vuoi il libro?” Cerco Leopardi convulsamente negli scaffali, non lo trovo, dov’è?
“Sotto il… il…” Indica sempre più in affanno, no, ti prego, stai tranquilla. Tu e anche io.
“Sotto cosa? Il giornale? Il comodino?” Mi muovo frenetica, guardo sotto il letto, sotto il cuscino. Mi trovo Paula di fianco, alza il plaid posato sul letto e mi porge il libro che era lì sotto. Benedetta ragazza. Sto quasi per piangere come una bambina, ma la bambina è lei, quanti anni hai, quindici, sedici? E sei così attenta, solida, discreta.
“Grazie Paula.”
Il plaid. Il plaid.
La mamma prende il libro, le mani le tremano. “Gli…”
“Gli occhiali?” mi affretto a dire. “Sì, te li do subito, sono nel cassetto?” Non ci sono. “Nell’armadio? In una borsa?”
“Là, sul…”
Su che cosa, per carità del Signore, devo stare calma. Sul tavolo? Non ci sono.
Ho un’illuminazione: “Sul davanzale della finestra?” Eccoli. Glieli do. Sono sfinita e mortificata quanto lei.
Metto a posto le cose che ho tirato fuori dal cassetto e dalla borsa.
Mi trovo in mano il blocco. Con qualche appunto.
Mi attraversa un ricordo. Un pensiero.
Prendo un pennarello dalla mia borsa e torno a sedermi col blocco in mano, lo sfoglio fino alla prima pagina bianca e scrivo in grande davanzale, poi su un altro foglio scrivo plaid, e poi armadio, e poi comodino, cassetto, poltrona, finestra, quadro, specchio, lampada, e così via, scrivo almeno venti parole ognuna su un foglio che poi stacco, la mamma mi guarda, Paula mi guarda, io guardo loro. “Ora mi serve lo scotch.” Mi alzo e mi avvio alla porta, chissà se Domenica ha lo scotch, o forse giù in segreteria.
“Signora”, sento chiamare. È Paula, con un rotolo di scotch in mano.
Questa ragazza è incredibile, come diavolo fa ad avere lo scotch, comunque grazie, stacco i pezzetti e attacco i fogli, ognuno al suo posto. Sembra un’aula scolastica, di prima elementare.
La mamma ha gli occhi che brillano, è così che mi ha insegnato a leggere, col gioco dei foglietti che faceva coi suoi alunni. Ora che il tempo e la malattia hanno invertito le parti, sono io ad allestire il gioco, non perché lei scopra le parole, ma perché non le perda, perché non le senta scivolare via dalle cose, lasciandole spoglie e mute.
Paula ha i grandi occhi incantati, persino Elena per un attimo perde la sua espressione assente e ne assume una quasi stupita.
Vado via prima di Paula, sono esausta.




Il giorno dopo torno a casa e lascio andare Silvia da sola dalla nonna, le porta un libro di racconti brevi (“così non perde il filo della trama”) e una serie di post-it e cartoncini di vari colori e dimensioni. Sono tre settimane che non si vedono, Silvia poi mi racconta che all’inizio è stato imbarazzante, ma poi i fili si sono riannodati, insieme hanno dato i nomi alle cose (“come Adamo, ha detto la nonna”) sulla carta colorata, e ogni tanto qualcuno entrava a guardare.
Nei giorni seguenti la trovo tranquilla, di buon umore. Il gioco la rassicura, le dà appigli. Non oso riproporre il rituale delle poesie, non ancora, le parlo della nuova ragazza tedesca di Federico, si chiama Edelgard, non credo che il nome le susciti echi letterari, non mi pare le susciti echi in assoluto ma è un argomento nuovo che ho a disposizione.
Sabato arrivo nel pomeriggio, e insieme al solito insopportabile odore sono assalita anche da Domenica, Piera ha avuto una crisi violenta, è andata in giro per il reparto a gridare e fare danni, è caduta e si è rotta il femore, l’hanno portata via da meno di un’ora.
“È entrata anche da sua mamma, prima che riuscissimo a fermarla, ha strappato tutti i cartellini colorati, in un’altra stanza ha rotto un vaso di fiori…”
Scappo via, non oso pensare cosa troverò, come la troverò, chissà se è passato un medico, bisognerà darle qualcosa per calmarla, questa Piera possibile che riesca ad andare in giro a fare tutto ’sto casino, devo cercare di stare calma altrimenti la metto ancora più in agitazione.
Mi affaccio sulla porta con cautela, pronta al peggio.
Trovo una calma perfetta. Elena dorme. La mamma è seduta in poltrona, Paula è seduta accanto a lei. Sta scrivendo parole su nuovi cartoncini. Molti sono già stati riattaccati agli oggetti corrispondenti. La mamma fa capire a Paula che ha scritto una parola sbagliata, tovaglia non toalla, lei prende un altro cartoncino e riscrive, la mamma annuisce.
Mi avvicino, mi vedono e sorridono entrambe. Il gioco non si è rotto, il gioco continua.
Le parole non andranno perdute. C’è Paula a raccoglierle.

Le restituisce alla mamma, e intanto le trattiene per sé.

                                                            



LA LETTURA
Emblema
Racconto di Cesare Vergati



Il vegliardo sapeva per lui e sovrunamo sforzo quando a mano tremebonda lentamente – quasi rosso fuscello il vento leggero che piega appena, oramai magro esile – l’aspetto al passante che curioso lo osserva / il vecchiardo intento a minimi lavori cosiddetto giardinaggio il primo mattino già fievole luce incerta al giorno, lentamente l’uomo vecchio tremebonda la mano curva in avanti il busto, la grandissima fatica quante volte giunge a morte, la grande idea di raccogliere e chicco caffè da porre certamente accanto chicco grano chicco frumento se la stravaganza visionario il vecchiardo esausto all’esistenza; così il vecchio uomo il mostruoso tentativo suda il difficile atto – quando il neofita ambisce alla vetta più alta, l’altra mano a tenere tanto tremebonda e piccolo panno a croma unicamente scarlatto – lo splendore il persiano abito di rosso tinto, per cui comunque riesce il sudore a tergere se stupida traspirazione tale irritante incolore liquido l’organismo tuttavia in marasma, la gioia intensa in sé dentro perché a mezzo cammino sicuramente il lieve accenno e delicato il sorriso l’uomo vecchio in ultimo di vita – a ricordo il presente signore e anziano, lo chiamano chissà senile, il lungo questo invernale pomeriggio lo spento camino presso indubbiamente su sedia a dondolo seduto / come a piena mente molte le ricordazioni quando fanciullo quando uomo d’affari sapeva il nonno la casa colonica, la vasta cucina il parente a piegare busto e corpo la ricerca i chicchi grano riso frumento caffè – (fosse a modo di dire primo raccoglitore, a fare collezione d’oggetti rari preziosi strani), perché a mezzo cammino sicuramente il lieve accenno e delicato il sorriso l’uomo vecchio in ultimo la vita che pervicace caparbio, la forza d’essere che si accanisce alla meta, semplicemente – lo sforzo sovrumano, continua solenne e lento piegamento la tremebonda mano verso il grossolano piantito a grezza materia impropria forma a scacchiera bizzarro tavoliere a solo colore nero l’intenso di pece brutto alla vista – quando a ricordanza l’anziano la sedia a dondolo stanchissimo, tuttora pensava tese vivaci mani da bimbo le protendeva a ricevere la lanceolata foglia ruvida a giallognole striature ed unica venatura violacea, quale possibilmente regalo il padre del padre a fama di eccentrico collezionista i chicchi grano caffè frumento riso, il vecchiardo allora perspicace intuisce il pronto sguardo a penetrare il tempo la sua fine – per motivo forze minori infine minute / la candela che strugge a termine, in ulteriore finale sforzo maggiormente curva schiena – dimentico estremo suo decadimento e corpo il senile marasma, il piccolo panno ancora poggiato su umida fronte e tremebonda mano e tremebonda mano il chicco il caffè, così intensamente protesa finché sfinito in tutto e per tutto stramazza al suolo – colui che cade a terra di colpo il colpo di mazza colpito da pastore fuori senno in sospetto di furto a mancanza l’ultima pecora bianca. Quando attualmente l’anziano signore su sedia a dondolo – a ricordo certamente il giocattolo un cavallino di legno le sue assicelle ricurve ed infine l’oscillazione gioiosa, gli occhi tutti a fisso sguardo il focolare  - tale piano la pietra rossagna, se meritato riposo la vecchiaia conosce a memoria, lui uomo di affari, il mestiere che il figlio conosce bene – il figlio in uso il grido al padre tante volte a dire il disprezzo / lo chiama odio / per gente che sta a dondola in vita, che fa così un cattivo affare d’esitenza ed eternità, il figlio le tante faccende pel mondo in voga – l’eccitazione suprema i maestosi compiti – così attualmente il signore anziano i giorni ultimi sta per sé unicamente le tante ricordazioni perché il figlio maschio l’infanzia durante, sapeva bene l’altalena il gioco il giorno durante a toccare ripetutamente  - il farsi di un rito – il ligneo asse a toccare le funi sospese in alto l’insieme dunque che oscilla interminabilmente – il fugace sentore l’animale che libra ludico in aria senza orpelli – così attualmente il sognaore dondola ancora impercettibilmente la sedia – già tutto compreso del suo quotidiano vagare se evanescenti nuvole le ricordanze, a concetto lentamente ora – il sempre maggiore dondolio – protendere il capo il busto se possibile sicuramente le mani tremebonde il volto arrugato – la faccia solchi e grinze segnata il villano il durissimo lavoro perché nei campi, interminabilmente – il fine certo fermo proposito mettere mano a secchi rametti a legna secca – il lato l’antico camino d’epoca il secolo passato, questo sognatore che finalmente la sua sedia dondola sa pienmente il dolce movimento in qua ed in là – il giubilo l’altalena a ricordazione il fanciullo che gioca interminabilmente  - leggera sensuale oscillazione la pietra del camino verso, il sudore la fronte le mani entrambe quanto stanche eppure il simile colui che prende slancio, l’anziano signore – accenno sebbene effimero sorriso le screpolate labbra a morsi oramai lividi e visibile sanguinamento, puerile entusiasmo d’amateur – in aiuto brusco repentino movimento malato corpo tutto degenere il vegliardo – l’esempio antica macchina da guerra che lancia pietre – poiché a violenza di gesto impetuoso incontrollato, il vecchiardo l’efficacia quindi la catapulta – fortemente vibrante il corpo malato degenere tutto quando per l’appunto la bestia in agonia ferocemente piccata rudimentale arnese il cavernicolo in bisogno di sopravvivenza – termina e breve crudele viaggio in focolare il solo volto in cenere tutta imbrattato oramai viso spenta grigiastra fredda polvere polveroso residuo già spento fuoco i tempi passati – finché a morte ineluttabile ferito il naso – l’abbondante sangue ad impasto la cenere abbondante, il signore anziano l’anziano signore – ancora l’abituale ricordanza, remota malinconica ricordazione struggente – sì moribondo l’acuto dolore il corpo straziato sa nondimeno la lontana figura il vecchissimo parente che a vivida immagine curva e piega schiena e corpo strenuamente l’idea di raccogliere minuto chicco caffè, il fervido desiderio allora semplicemente far collezione gratuita e intima tanti granelli di vita.

Cesare Vergati

                                                

Nota Biografica
Cesare Vergati vince una borsa di studio per un anno: USA (Diploma High
School). Si laurea a Roma in Psicologia e in Filosofia. A Madrid e
Barcellona studia letteratura spagnola. Frequenta per un anno la
facoltà di Filosofia a Berlino. Studia e lavora a Parigi per più anni
e consegue il dottorato in Filosofia e psicanalisi. A San Pietroburgo
e a Mosca studia letteratura russa. Dal 1988 è Responsabile Cinema
Institut Français Milano.
Con ExCogita pubblica nel 2004 il primo volume della Trilogia
dell'Eco, A sorpresa, romanzo in poesia, nel 2006 il secondo volume
dal titolo Soldato a veli, romanzo in teatro, dal quale viene tratta
una riduzione-pièce teatrale, rappresentata a Milano e a San Pietroburgo,
e nel 2007 il terzo, Ragazzo a pendolo, romanzo in musica.
I tre libri sono stati tradotti in russo. Nel 2009, sempre con
ExCogita, pubblica la Prima Piega del Trittico d'ombra, Faust o l'inconverso,
nel 2011 la Seconda, Don Giovanni o l'incomodo, tradotto
in francese, con testo a fronte, e in russo; entrambe le opere sono
state rappresentate in teatro a Milano. La conclusione della Terza

Piega, oggi, con questo Falstaff o l'inconsueto.







UNA CERIMONIA PARTICOLARE
Era una giornata di novembre  particolarmente uggiosa, faceva freddo e pioveva.
La Chiesa era aperta per celebrare il funerale di una persona che il Parroco conosceva appena,
e non avrebbe potuto dire nulla di particolare se non le solite omelie funebri.
Aveva chiesto a colui che aveva ordinato di celebrare la messa funebre notizie intorno a quest’uomo così solitario che, pur abitando da qualche anno nel paese, non aveva fatto amicizia con nessuno, anzi pareva che le persone lo guardassero in modo strano e gli erano ostili, ma quella persona non aveva dato che vaghe risposte, però gli aveva detto che era una bravissima persona.
Gli aveva chiesto come era morto: “Era molto malato di cuore” gli aveva risposto.
Alla ulteriore domanda se era credente in quanto non l’aveva mai visto nella sua Chiesa, lui lo guardò direttamente in viso e gli rispose: “È mai stato a trovarlo a casa sua?” alla risposta di diniego aggiunse: “Le sue opere le dimostreranno quanto lo fosse, e per la Chiesa non si preoccupi  lui amava andare in una piccola Cappelletta del suo paese di origine vicino ai suoi cari, dove trovava quella pace e serenità che gli erano necessari”
Si erano lasciati così senza altre spiegazioni; quello che non riusciva a capire era questo funerale voluto proprio nella Chiesa del paese dove non aveva mai posto piede. Comunque non si pose altre domande.




Il buon samaritano

Ricordava solo di averlo visto qualche volta percorrere la piazza appoggiato ad un bastone, vestito in modo non trasandato e  con lo sguardo fisso a terra, come a non voler essere salutato; ricordava che un giorno gli aveva detto “buongiorno” sperando di instaurare un rapporto, ma lui di rimando senza alzare lo sguardo aveva ripetuto “buongiorno” ed aveva continuato a camminare.
Non l’avendolo mai visto in Chiesa, non sapeva se si fosse mai confessato e comunicato a meno che lo facesse nell’altro luogo al di fuori del paese.
Aveva quindi deciso il giorno precedente di chiedere aiuto alle parrocchiane più assidue (che molti chiamano in tono dispregiativo: le beghine) per cercare di sapergli dire qualcosa in più in modo che potesse almeno dire due parole su di lui.  Queste si erano date da fare e avevano sondato con i vicini di casa che tipo era; ma questi dissero di aver ben poco da dire salvo qualche stranezza anche un po’ noiosa, intanto lui aveva con sé due o tre cani anch’essi piuttosto malandati, i tipici cani  abbandonati nei canili, certo non cani di razza ma un incrocio dei più incredibili, comunque abbaiavano se qualcuno si avvicinava alla cancellata. Quando chiesero se avesse una moglie, dei figli, degli amici, risposero di malavoglia che aveva una domestica a ore che gli rigovernava la casa durante la settimana, che veniva da fuori paese e non faceva amicizia con nessuno, neppure con i bottegai, che comunque parecchie persone andavano da lui: potevano essere  giovani come vecchi.  Ricordavano che un Natale erano arrivati parecchi bambini accompagnati da giovani donne e per l’occasione lui aveva addobbato anche un pino all’esterno con delle luci e avevano sentito che vi era molta allegria quel giorno poiché arrivavano le voci dei bambini molto festose. Ma a volte avevano visto anche qualche sbandato che lui riceveva, anzi qualcuno era rimasto a dormire nella casa per qualche mese, anche qualche zingara che li aveva messi in un certo allarme; ad ogni modo lui non cercava un rapporto amichevole di buon vicinato e dopo qualche approccio e qualche domanda sulle persone che riceveva, lui pareva infastidito ed era approdato ad uno svogliato “buongiorno o buonasera”, dopo di che avevano desistito e  lo avevano evitato; in pratica di lui si sapeva ben poco e poi non era nativo di lì. Aveva comperato cinque anni fa quella villa che confinava con la loro e che aveva anche un bel giardino intorno ed un orto sul fondo; quello che riuscivano a vedere dalle loro  finestre è che lui si prodigava molto per l’orto, anche se ultimamente avevano capito che non stava bene perché lo aveva trascurato. Non potevano parlare né bene né male, certamente non era un solitario, ma aveva voluto essere estraneo alla comunità del paese e questo indispettiva non poco le persone. Aggiunsero che vi era poi una persona che regolarmente andava da lui ogni settimana, un uomo sui cinquant’anni che arrivava con una automobile di un certo pregio e si fermava tutto il pomeriggio, l’avevano pure visto che portava con sé delle valigie e delle borse, altro non avrebbero potuto dire. Conoscevano il nome e cognome perché era apposto vicino al campanello del cancello: Francesco Sordelli. Conclusero dicendo che il giorno prima al mattino  la domestica l’aveva trovato morto nel suo letto, poi era arrivato il medico per constatare il decesso, e subito dopo quella persona dell’automobile.


Il buon samaritano

Il Parroco dopo queste notizie era più desolato di prima, non sapeva che dire, avrebbe fatto una cerimonia la più semplice possibile, anche se gli era stato detto di farne una completa, e per questo era stato ben remunerato. Si premurò di raccomandare alle parrocchiane di essere presenti in modo che non ci fosse solo la bara e null’altro, e loro avevano risposto che sarebbero venute, e  concordarono di leggere il passo di Isaia 50-51 “Ascoltate il servo del Signore” mentre il Parroco scelse  dei leggere la parabola del Vangelo secondo Giovanni “ Gesù è la vera vita”.
Vennero gli addobbatori e misero i paramenti esterni con il nome del defunto.
Il Parroco mise i suoi paramenti violetti e alle 15 del  pomeriggio venne portata la bara a spalla da quattro persone sconosciute, una bara semplice senza alcun fiore, e subito dopo vide una processione di persone che portavano  in mano ognuno un giglio bianco, e con meraviglia delle parrocchiane e del Parroco entrarono in Chiesa e si sedettero compostamente nei banchi. Il Parroco  sempre più stupito guardò quella moltitudine di persone, tra le più stravaganti, vi erano tanti bambini, dei giovani, delle donne molto commosse, e pure degli zingari, qualche barbone, alcune persone erano  di una  età molto simile a quella del defunto che aveva 75 anni.



Il buon samaritano


Ma com’era possibile che una persona quasi sconosciuta ai più potesse avere tante persone che gli tributavano un ultimo saluto? Si sentiva molto turbato per non conoscere nulla di quest’uomo, per non essere andato mai a trovarlo, per non aver cercato un colloquio, un inizio per instaurare un rapporto. Sentiva dentro di sé come una colpa.
Iniziò la Messa funebre, le parrocchiane lessero il passo di Isaia, ma prima di leggere il Vangelo, qualcuno chiese di poter parlare di quest’uomo. Si alzò un giovane uomo.
Caro signor Francesco, oggi il Cielo sarà ben felice di avere un nuovo Angelo, io ero un disperato, e lei un giorno mi vide con gli occhi persi nel vuoto e capì subito qual era il mio dramma, mi prese per mano e mi portò a casa sua, non mi chiese nulla, semplicemente si mise ai fornelli e mi preparò una cena fatta con tanto amore paterno e mi disse: -Ora riposa, c’è tempo per parlare, quando vorrai  farlo io ti ascolterò e insieme troveremo la via d’uscita, questa casa è il rifugio di coloro che soffrono, possa essere un balsamo per te, io ci sono  e ci sarò, questa notte dormi tranquillo e che Dio ti protegga-. Queste parole le ho stampate nel mio cuore e nella mia anima, se ora sono diverso, riabilitato con me stesso e la comunità, lo debbo a lei, mia guida, mio protettore, mio padre. Dio è con lei, e per Suo tramite noi le chiediamo di vegliare su questa comunità che lei ha così ardentemente voluto e assistito”. Poi scendendo mise il suo giglio sulla bara.
Subito dopo si alzò una donna: “Non dimenticherò mai il giorno in cui ero al colmo della disperazione perché non avevo più un lavoro e il mio bambino era ricoverato all’ospedale, per caso lui passò nei pressi dove io piangevo, mi si avvicinò e con delicatezza mi chiese qual era il motivo; gli dissi di essere una ragazza madre e che il mio bambino era molto sofferente per una brutta polmonite, perché dove abitavo era un locale molto umido e freddo e non avevo i soldi per riscaldarlo in quanto avevo perso il lavoro. Mi disse che Dio era misericordioso e che non dovevo perdermi d’animo, che lui sarebbe stato felice di potermi aiutare, mi disse che era solo anch’egli con un grande dolore: sua moglie e suo figlio erano morti in un grave incidente, e da quel momento non aveva altra ragione nella vita se non aiutare chi aveva bisogno. E come mi aiutò? Mi comperò due locali, pagò le cure del mio bambino e mi trovò un lavoro dignitoso, ora il mio bambino è qui, va a scuola, è bravo e gentile. Sono qui per benedirla caro signor Francesco, non potrò mai più dimenticarla, le voglio bene, tutti qui le vogliamo bene perché si è occupato di tutti noi, grazie, grazie ancora e sempre per quanto ha fatto, per la sua nobiltà d’animo, noi la riteniamo un sant’uomo”. Scese anch’essa con gli occhi pieni di lacrime e posò il suo giglio sulla bara.




Il buon samaritano

Ognuno portò il suo giglio e la bara si rivestì come un giardino di maggio; ognuno l’accarezzò.
Il Parroco era scioccato, era in presenza di un grande cristiano che aveva fatto nell’ombra
una carità non manifesta se non a chi stava nel  bisogno. Quelli che si ritenevano grandi cristiani e  ostentavano ogni atto, non valevano un’unghia di questo Francesco. Anche le parrocchiane erano allibite. Il Parroco decide di cambiare la parabola, era più consona per questo signor Francesco quella dal Vangelo secondo Giovanni “Il Comandamento nuovo”.
Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Amatevi come io vi ho amato! Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri”.  
Alla fine della cerimonia i bambini presenti iniziarono un canto lieve e gioioso, proprio come avrebbe voluto il loro benefattore Francesco Sordelli; le letterine che avevano scritto e che tenevano nelle loro piccole mani le avrebbero poi poste nella tomba.
Wilma Minotti Cerini


Wilma Minotti Cerini ha pubblicato i seguenti libri:
Poesia: La Luce del Domani- La Ricerca di Shanti (1a-2a ediz. ampliata) Prometheus Editore Milano; “La Strada del ritorno” Guido Miano editore Milano;
Saggistica:Caro Gozzano”  Ed. Nuove Sscritture,  Abbiategrasso;
Rajana” racconto indiano. Ed. Nuove Ssritture, Abbiategrasso;
Teatro: “Una questione di dosaggio”  Ed. Nuove Scritture, Abbiategrasso;
Racconti collettivi:Se una notte d’inverno un narratore…” Ed. Nuove Scritture;
Ti parlerò di me” Ed. Nuove Scritture;
Romanzo-Filosofico: “I figli dell’Illusione” Blu di Prussia editore Piacenza;
Romanzo Ci vediamo al Jamaica” Albatros Ed. Il Filo, Roma;
È presente online sul sistema: www. Literary.it
È presente in varie antologie: Storia della Letteratura Italiana -La poesia contemporanea-
Guido Miano Editore Milano; “Cantano Le Muse Florilegio del Concorso Letterario G.S.P.  Raiteri” e in  riviste letterarie con recensioni, racconti e poesie sparse.




                                            

L’ISOLA DELLE ZIE       
Il nuovo atteso romanzo di Lubrano

Intanto comincerei con alcune contestualizzazioni necessarie, cominciando dal topos: siamo a Procida, isola del Golfo di Napoli, meno di 4 kmq, isola famosa per i suoi marinai e perché ha posseduto un penitenziario. Di marinai parla questo libro, ma lo vedremo in dettaglio. Se Procida è il luogo dove la materia di questo romanzo si dipana, il contenitore; il tempo, l’arco storico, abbraccia gli anni  Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Le due lettere che i giovani fidanzati si scambiano (Carluccio e Flavia), portano infatti la data del febbraio 1960; Carluccio scrive da Napoli dove si è trasferito per lavorare come giornalista in un noto quotidiano; Flavia da Bordeaux, ora che è diventata capitano di lungo corso e naviga, primo caso nella storia della marineria di Procida, da sempre rigorosamente appannaggio degli uomini.

    E ora veniamo ai personaggi. Il personaggio principale è il capitano Matteo Cardale, morto “misteriosamente” all’età di 53 anni (era nato nel luglio del 1879, precisamente il 4, ed era morto sul Risorgimento II a Mogadiscio il 4 ottobre del 1932. Notate che il 4 è un giorno fatale: nasce il 4 e muore il 4. Su questa morte aleggia un fitto mistero e la famiglia mantiene un rigoroso riserbo, che finirà per alimentare le più ardite congetture. Perché ho detto che Matteo Cardale è il personaggio principale? In fondo non è che un morto. È vero: è un morto, ma riempie di sé tutto il romanzo. La sua è una presenza debordante, invasiva, che domina con la sua leggenda da Casanova (o sciupafemmine), per la sua morte oscura, per il mito che gli è stato costruito intorno. Nessun personaggio è così vivo quanto questo morto così ingombrante. Oscura ogni altro personaggio ed è divenuto una ossessione, e “Ossessione Matteo” si intitola il 1° capitolo che apre il libro. Ossessione che si riscontra nella vedova Cecilia Cardale (Cilla, come viene chiamata in famiglia) e che si è chiusa in una volontaria reclusione. Ossessione nel nipote sedicenne Carluccio Mazzella (’o figlio d’a rossa) come viene popolarmente identificato, che sedotto dalla personalità dello zio (la pecora nera della famiglia, quella che Carluccio definisce “la Stirpe”), dalla sua leggendaria morte, ha deciso di scriverci su un libro, di iniziare un’indagine segreta a cui dà il titolo di “Mogadiscio.       Ossessione, infine, nell’altrettanto misteriosa e fascinosa “frastiera”; una francese che affronta un lungo viaggio ogni primo venerdì del mese di ottobre, per portare sulla tomba di Matteo tre rose rosse, come devozione e pegno del suo antico amore.
    Se questi sono i personaggi principali, molti altri ve ne sono che agiscono attivamente o rimangono sullo sfondo. Descriverveli tutti sarebbe troppo lungo e forse anche noioso. Alcuni non hanno, com’è giusto che sia, un grande spessore psicologico; altri sono solo dei bozzetti o delle figure piuttosto evanescenti. Ma quelli che contano hanno invece personalità e carattere, e ci restano in mente vividi e concreti. Di alcuni, poche pennellate, come in un quadro impressionista, ne definiscono l’essenza. Un esempio per tutti: la romagnola zia Tosca (a proposito, L’isola delle zie è affollato di donne, di zie. Queste vedove bianche i cui mariti solcano mari e stanno lontano molti mesi all’anno) magistralmente battezzata dal resto del parentado come “zia rondine”, per aver risposto al telegramma del marito che la invitava a raggiungerla in uno degli approdi italiani, con un altro telegramma di tre parole: “Volo. Tua rondine”. Trovo questo dettaglio, narrativamente magistrale. Voi lettori siete giustamente attratti dall’ordito, dalla trama e dalle vicende, ma l’occhio del lettore-scrittore è molto interessato allo stile, ai singoli dettagli, al modo del condurre il racconto. Trovo letterariamente efficacissimo l’attacco del capitolo 6° intitolato “La straniera” che così esordisce: “E chesta chi è?”. Solo uno scrittore disinvolto e smaliziato può iniziare un capitolo con un attacco così fulminante e sintetico; solo un narratore nutrito della teatralità napoletana (della sua oralità popolana) può immaginare un attacco del genere.
Vi dicevo delle donne. Una mezza dozzina sono le zie di questo romanzo, alcune non hanno un grande peso ma altre sono presenze femminili importanti all’interno della “Stirpe”, a cominciare dalla vedova inconsolabile zia Cecilia, la reclusa, la stanca, la affaticata, “il monumento”, quella che “non sta di genio”, che risponde alla figlia a tocchi di bastone. È un personaggio riuscitissimo e che Lubrano ci descrive magnificamente. C’è zia Filomena detta Memè; zia Immacolata detta Tetè (“la monaca di casa che ha sposato Gesù”); zia Tosca, “la Rondine” già citata; zia Gabriella, la seducente moglie di zio Riccardo: quest’ultimo si suiciderà in mare per il dolore dei tradimenti della moglie e della richiesta di separazione. Infine, non posso non citare Costanza, o meglio, donna Costanza detta Tina, la soave, la rossa, mamma di Carluccio. Sono queste donne a difendere il clima di omertà sulla “scandalosa” morte di quello che il prete del paese don Anselmo definisce “peccatore reo confesso”.
Ma in che consiste l’oscurità della morte del capitano Cardale, il suo mistero? In realtà non c’è alcun mistero, e l’ipotesi di un avvelenamento da parte di una donna innamorata abbandonata che si vendica, è una pura leggenda. Carluccio lo scoprirà con il suo fiuto, la sua ostinazione e la sua indagine, mettendo assieme un tassello alla volta, i singoli pezzi. La strana visita della madama francese Alisèe Larousse sulla tomba del morto; il singolare biglietto che vi lascia e che poi si rivelerà una infantile filastrocca proustiana, un gioco innocente fra i due amanti, le notizie fornitegli da marinaio in pensione Pasquale Monaci che con Matteo Cardale aveva navigato, e soprattutto dalle rivelazioni del barbiere Giovangiuseppe Jorio, confidente del capitano. Da Jorio Carluccio venne a sapere che lo zio e la francese si erano amati, che quella donna gli aveva “afferrato il cuore”. E sarà la francese stessa, madama Alisèe a rivelarglielo, e a chiarirgli il significato della filastrocca proustiana, in occasione di un secondo viaggio con relativa visita al cimitero.
    Com’erano andate realmente le cose? Beh. Questo lo scoprirete se leggerete il romanzo. Io posso dirvi soltanto che la donna si suiciderà non molto tempo dopo quella seconda visita. Sarà Flavia a darne notizia a Carluccio, in una lettera datata 10 febbraio 1960, riportando un brano del “Corriere di Bordeaux” acquistato qualche giorno prima. La donna si era tolta la vita all’età di 70 anni ingerendo una delle due pillole che teneva in un porta-pillole. Erano due le pillole: quella dell’amore e quella dell’oblio. Ah, dimenticavo: se vi metterete in ascolto sentirete tutti i profumi e gli odori dell’isola; non è poca cosa.
 Angelo Gaccione



Presentazione del libro di Lubrano 
(nella foto Lubrano e Gaccione)
Antonio Lubrano
L’isola delle zie
Ferrari Editore, 2013
Pagg. 144  € 15,00


                                              




MAURIZIO MESCHIA
Istantanee nel Metrò

Un maestro del racconto breve, anzi brevissimo, in tre brandelli metropolitani.

Scena 1
Milano, giugno, ore 18,30. A una fermata di snodo della linea verde entrano nell’ultimo vagone, affollato e senza aria condizionata, in ordine: un giovane alternativo con bicicletta e un cane malconcio a seguito, una sudamericana con un passeggino biposto (vuoto), una coppia di musicisti rom con chitarra e fisarmonica, una giovane studentessa d’arte, si presume, con un lungo tubo e un quadro imballato di circa un metro per lato. Si riparte. Attacca la musica. Relatività dello spazio…
                                                                    
Scena 2
Durante il tragitto, brandelli di conversazione al cellulare involontariamente rapiti a causa del volume di voce da angiporto:  
…No, ggiuro che lo mando aff……
...No, senti, basta, stavolta mi ha rotto il c….
...Sai che ti dico? Stasera vado al Caribbean e mi faccio il primo che capita, ti ggiuro, c….! 
E può andare a farsi f…… quel pezzo di m....
….Ok, ci becchiamo a casa. Ciao mamma.
La giovane ripone lo strumento in un’elegante borsetta griffata, da cui spunta un quotidiano economico, in tono con un tailleur avana di finissima foggia che avvolge due gambe tornite e abbronzate. Ai piedi calza costose scarpe con vertiginoso tacco a spillo. Scende  e si perde di buon passo nella folla.
                                                                               
Scena 3
 Nel vagone semivuoto, due uomini sulla quarantina siedono uno di fronte all’altro. Uno ha i tratti asiatici. Entrambi stanno telefonando.  A un certo punto squilla una suoneria molto comune, insistente. I due si guardano interrogativi e cominciano a frugare nelle tasche e nelle borse. Finalmente, l’asiatico riesce a estrarre un secondo e modernissimo cellulare, e così subito dopo fa l’altro. I telefoni suonano contemporaneamente, con volume sempre più alto. I due sospendono le precedenti chiamate e si dedicano alle nuove. Alla fermata entra una giovane con un microfono, trascinando un amplificatore in un carrello per la spesa. Inizia uno struggente quanto assordante motivo, vanificando quell’eccesso di comunicazione.   

Disegno di Filippo Gallipoli


MINIMA VOLUPTAS
Rubrichetta su cibi e spuntini semplici e semplicissimi da recuperare
di Maurizio Meschia


Maurizio Meschia (a destra) con Gaccione e Rinaldo Caddeo 
alla BibliotecaVigentina di Milano 2013 (foto: Marla Lombardo)


Pane e cipolla: sublime semplicità

Paradigma di frugalità e massima espressione proverbiale di orgoglio (…piuttosto mangio pane e cipolla!), questo cibo primordiale afflitto da luoghi comuni è invece una superba delizia oltre che un concentrato di virtù salutari. Pane e cipolla è stato sostentamento per generazioni di braccianti e gente umile e a stento –e non del tutto- si è scrollato quell’aura di povertà e di cibo “volgare” che gli imperanti costumi alimentari del dopoguerra hanno costruito, forse per rimuovere i ricordi di ristrettezze e miseria…  
Ma l’irresistibile richiamo di una focaccia con le cipolle o di un fragrante panino imbottito con cipolle sfinite in un po’ d’olio eccellente, spolverate con sale e pepe ( e un buon bicchiere di vino!) ha ristabilito la giusta posizione fra i vertici della semplicità e del gusto a questo cibo che gode di un apprezzamento trasversale per fasce di età e censo.  Come si sarà capito, siamo devoti adepti di questo prodigioso bulbo, in tutte le sue varietà: rosse ,bianche, dorate, cipolline e cipollotti; e in tutti i suoi utilizzi a tavola, fino all’assoluto trionfo di un piatto di cipolle rosse e dolci di Tropea affettate in sottilissime lamelle e macerate in olio, sale e aceto, o a una cipolla bianca bollita e consumata un po’ croccante con sale, olio e pepe. E pane del migliore, naturalmente.
Inutile ricordare le proprietà benefiche dell’amata cipolla: antiossidanti, fluidificanti, stimolatrici del cervello, antireumatiche e antiallergiche, utili a combattere patologie cardiovascolari, calmanti e - si favoleggia- afrodisiache, e molto altro. Ma basta e avanza il fatto che ci piace e che è eletta senza dubbio regina della tavola.  I tanto temuti effetti collaterali? Per questo banale “problema” c’è una soluzione perfetta: masticare un paio di chiodi di garofano. 
Per non sembrarvi esagerati in questo nostro elogio, chiamiamo a testimonianza la Poesia. Due grandi poeti, premi Nobel, hanno dedicato versi appassionati alla cipolla.

Ecco cosa scrive il cileno Pablo Neruda in Ode alla cipolla:
 ….
Ricorderò ancora come la tua influenza
feconda l’amore dell’insalata,
e sembra che il cielo contribuisca,
dandoti fine forma di grandine,
a celebrare il tuo chiarore tritato
sugli emisferi di un pomodoro.
Ma alla portata
delle mani della gente,
innaffiata d’olio,
spolverata
con un po’ di sale,
uccidi la fame
del bracciante nel duro cammino.
Stella dei poveri,
fata protettrice
avvolta
in delicata
carta, esci dalla terra,
eterna, intatta, pura
come seme d’astro,
e nel tagliarti
il coltello in cucina
spunta l’unica lacrima
non nata da pena.
Ci facesti piangere senza affliggerci.
(Da Odi al vino e altre odi elementari – Passigli  2002- traduzione di G.B. De Cesare)

Dall’altro capo del mondo, in Polonia, ecco invece l’omaggio della grande  Waslawa Szymborska 
in Cipolla:

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fino nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi, grasso, nervi, vene ,
muchi e secrezione.

E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione”.
(Da Elogio dei sogni – Adelphi 2009- traduzione di Pietro Marchesani)



                                                                                                                                              


DOMANI

Domani, poi già un altro, e ancora un altro domani
si insinua a passi impercettibili, di giorno in giorno,
fino all’ultima lettera del nome del giorno estremo previsto;
e tutti i nostri ieri hanno illuminato, follemente, la strada
alla definitiva polvere.
Spegniti, presto, candela (sempre più) corta!
La vita non è che un’ombra che cammina;
un povero attore che si esibisce compiaciuto,
consumando il tempo programmato per la sua presenza sul palco:
e poi si smette di sentirlo;
è un racconto affannato e roboante, declamato da un idiota:
e non ha significato.

William Shakespeare, Macbeth, Atto V, Scena V
[Traduzione di Gianni Bernardini]





                                                 





DON BURNESS
Poesie inedite


Don Burness e Angelo Gaccione a Milano Salotto Claudia Azzola 2012



Request

In the middle of the night
Mary-Lou awakens
turns towards me
Don-
tell me you love me
in French
Marilou, ma chère
Marilou de la belle poitrine
je t'aime vraiment je t'aime
Marilou tu es adorable
tu es belle tu es généreuse
tu es rayonnante tu es élégante
et tu es tellement courageuse
tu es fantasie
artiste de la vie
Marilou, je t'aime
That's beautiful
she says
and turns to sleep

Don Burness
Rindge
14 february 2013

Richiesta

Nel mezzo della notte
Mary-Lou si risveglia
si gira verso di me
Don-
dimmi che mi ami
in francese
Marilou, mia cara
Marilou dal bel petto
Ti amo davvero ti amo
Marilou sei adorabile
sei bella sei generosa
sei raggiante sei elegante
e sei così coraggiosa
sei fantasiosa
artista della vita
Marilou, ti amo
che bello
dice
e torna a dormire

Don Burness
Rindge
14 febbraio 2013

Traduzione di Max Luciani


Verona

Looking at Piazza Erbe
from the courtyard
of Palazzo Maffei
how beautiful is Verona
coming here surely
for the last time in my life
how beautiful is Verona
like the beautiful italian young women
singing songs with their bodies.

Don Burness
Verona
17 settembre 2012


Verona

Guardando Piazza delle Erbe
dal cortile
di Palazzo Maffei
quanto è bella Verona
venendo qui sicuramente
per l'ultima volta nella mia vita
quanto è bella Verona
come le belle e giovani donne italiane
che cantano canzoni con i loro corpi.

Don Burness
Verona
17 settembre 2012

Traduzione di Max Luciani



Lelio Scanavini-Max Luciani-Don Burness Milano 2012 Salotto Claudia Azzola



Muse

Mary-Lou
i do not take care of you
because you are old
and in need of care
Mary-Lou
i do not take care of you
because it is my duty
as your husband
Mary-Lou
i do not take care of you
because others would dump you
in an istant
in a nursing home
Mary-Lou
i take care of you
because
love is the greatest thing in the world
i take care of you
because
you always made my soul sing
i take care of you Mary-Lou
because you are the great poem
in my life.

Don Burness
Rindge
8 september 2012


Musa

Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché sei vecchia
e hai bisogno di cure
Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché è il mio dovere
di marito
Mary-Lou
mi prendo cura di te
non perché altri ti avrebbero scaricata
in un attimo
in una casa di cura
Mary-Lou
mi prendo cura di te
perché
l'amore è la cosa più bella del mondo
mi prendo cura di te
perché
hai sempre fatto cantare la mia anima
mi prendo cura di te Mary-Lou
perché tu sei il grande poema
nella mia vita.

Don Burness
Rindge
8 settembre 2012

Traduzione di Max Luciani


                                     
Claudia Azzola con Don Burness Milano 2012



Vicenza

Leaving at the station
i tell the man
selling me a ticket
i have been in Vicenza
three hours
i do not like Vicenza
the man
with no expression at all
looks at me
i have been in Vicenza
thirty years
i do not like Vicenza!

Don Burness
Vicenza
17 settembre 2012


Vicenza

In stazione per partire
dico all'uomo
che mi sta vendendo un biglietto
io sono stato a Vicenza
tre ore
non mi piace Vicenza
l'uomo
senza alcuna espressione
mi guarda
io sono stato a Vicenza
30 anni
non mi piace Vicenza!

Don Burness
Vicenza
17 settembre 2012

Traduzione di Max Luciani

                                           
Renato Seregni con Don Burness Milano 2012
Don Burness

In attesa del suo nuovo libro che uscirà in primavera 2014, Don Burness parla della sua vita con l'amata
Mary Lou attraverso il giornale americano "Monadnock Ledger":



Don Burness and his wife, Mary-Lou, have spent their life reading, traveling, and learning more about the world. Since Mary-Lou had the first of several strokes six years ago, she is often unable to recognize where she is or those around her. In addition to acting as her full time caretake, Burness continues to read his wife's books to connect with her.


GILBERTO ISELLA

LA LEGGENDA  DI  ATITLÀN*

Silenziosa e immobile era la notte
sulle acque circonfuse di calore
giunse la parola del Serpente Piumato
giunse la parola del Modellatore
e un breve giro di suoni nell’aria
creò allora il mondo
in una notte calda e oscura
tranquillamente il mondo si formò

e parlarono le piante e parlarono le stelle
e parlò la gente Quiché
e urlarono le scimmie sui lunghi rami del ceibà
e urlarono uomini di diversa tribù
venuta da occidente su caravelle
con croci, codici e anfore di sangue

e andò avanti stridendo tzolkin, la grande
ruota del tempo, e nel colore della morte
girarono i giorni, di venti in venti:
imix, ik, akbal, xan
imix, ik, akbal, xan

Il fondale del lago ribaltato  
le sue labbra enormi
aperte da una lama-lingua,
l’anguria ancestrale lacerata
con gente che da lei sporgeva
per ammirare la terra

Così cominciò la numeratio
acrobata macumba
il fosco abbaglio vittimale:
colpiti e dai templi scagliati
il sangue e le anime accolti
da comunità fraterne di termiti,
scossi su amache nell’ora di sognare
le orge colorate di Chichicastenango
rovesciati nelle bocche dei vulcani
pugnalati nel fango
ed erano vecchi e donne e bimbi
per cominciare

Giorni sospesi nell’afa nebulenta
forze sovrumane nel basso e nell’alto
coalizzate da secoli
per risvegliare il lunghissimo coltello
ma dove accanto splendevano il sole
l’uccello piumato
che talvolta abbozzava coi raggi
la danza dei Maya.

Conca di Atitlàn:
meccanismo dell’astro caduto
rocce di diavoli agli angoli
contratte falangi umane
che ancora tenevano
la pipa votiva e l’erba degli dèi

Ed ecco l’enorme icosaedro
eretto tra i gorghi del lago
con facce d’onde indurite
grido di vetro ogni spigolo
venatura d’amore impermeabile
inerte lineamento del monsone

Ed ecco punta di cometa  
colpire Rios Montt la gòrgone
che tra flutti solleva
una stanga di platino nero
con medaglie al valore scempiate
dagli artigli di Balaam
il santo giaguaro

E ora di nuovo è sovrana
sul pueblo Quiché
la ragnatela di stelle
la riflette il manto dell’ubriaco
che valica la notte col suo grumo
di respiro, materia che gonfia
le narici del tempo,
disco di gioia affiorante
su quel volto in cammino.

Il tempo: diecimila fialette di cenere
in transito sull’altipiano,
silenzio venduto nelle fiere
al ritmo di machete.
Il tempo, lo scalpo di Atitlàn.

imix, ik, akbal, xan
imix, ik, akbal, xan

*Inedito, 2013. In corsivo versi elaborati dal sacro poema Popol Vuh.
Rios Montt, presidente guatemalteco di fine Novecento, fu un tiranno sanguinario.





                                               



ANNALISA BELLERIO
RACCONTI  INEDITI





NOTE DI VIOLINO



Non so a che fermata salirono i musicisti mendicanti.

Mi accorsi all’improvviso di quel suono di violino, insieme vorticoso e struggente, abbastanza aggressivo da farsi largo nel groviglio di pensieri in cui mi ero persa totalmente durante il tragitto in metropolitana verso la meta che avrebbe dato una svolta al mio futuro.
Finalmente avevo deciso. Mi sarei iscritta al corso di marketing che prometteva di inserirmi con un profilo professionale adeguato nel mondo in cui volevo lavorare, di cui già avevo avuto qualche assaggio. Avevo fatto da hostess in fiere e congressi, collaborato a semplici indagini di mercato, curato brevi interviste sui consumi, svolto svariate mansioni pubblicitarie. Il mio aspetto mi aveva aiutato. Ma gli strumenti di cui disponevo erano insufficienti. Me l’avevano fatto discretamente notare due persone conosciute in questo ambiente, che da poco si erano messe in proprio: una piccola società di promozione e organizzazione di eventi che, mi avevano spiegato, seguiva operazioni importanti per conto di affermate agenzie. Cercavano giovani da formare in modo mirato, assicurando in tempi brevi un ruolo interessante, una solida prospettiva d’impiego e compensi soddisfacenti. I costi dell’iscrizione al corso erano piuttosto elevati. Dovevo dar fondo a tutti i risparmi, e farmi anche prestare qualcosa; ma era una forma di investimento su me stessa che sarebbe stata ripagata. Un sacrificio fruttuoso. Una competenza acquisita.
“Non fidarti, è un inganno.”
Percepii chiaramente quelle parole. Sobbalzai. Guardai sorpresa la ragazza esile dai lunghi capelli neri appena passata oltre, ma il suo sguardo d’ombra fisso in un altrove imprecisato era scivolato su di me senza cercare appoggio. Chi aveva parlato? Mi guardai intorno. Nessuno, sembrava. Eppure avevo ricevuto quel messaggio, senza alcun dubbio. E non so come ero certa che provenisse da lei.  Si muoveva muta tra i passeggeri chiedendo un’offerta per lo spettacolo improvvisato, e io avevo lasciato cadere una moneta nel bicchiere che porgeva. Non lo faccio quasi mai, ma quel giorno mi sembrò ben augurante.
Il percorso circolare dei miei ragionamenti incoraggianti era ormai stato interrotto, e non potevo negare la comparsa di una sensazione di vaga inquietudine. Quando la musica cessò vidi farsi largo tra la folla un giovane alto e bruno e un ragazzino che con i loro strumenti raggiunsero la ragazza. Li vidi venire da lontano, lungo una strada interminabile, in una corriera satura di respiri e di attesa, di tensione, di stanchezza, di paura. Li vidi scendere insieme e poi sparire alla fermata successiva.
Lasciai che la visione svaporasse, ben decisa a non lasciarmi suggestionare. Avevo fretta di arrivare. Avevo fretta di uscire da quel limbo di lavoretti a termine senza costrutto e senza futuro. Non mi sarei mai perdonata un’occasione mancata. Non la mancai.
Attesi per mesi l’inizio del corso. La data fu posticipata per sopraggiunte complicazioni organizzative. Ci rassicurarono. La sede venne spostata. Quando ci andai in cerca di indicazioni, non trovai alcuna traccia del corso e nessuno che ne sapesse qualcosa. Intanto il vecchio ufficio della società di promozione era stato chiuso. Al telefono, le spiegazioni si fecero sempre più vaghe e sommarie. Poi nessuno rispose più.
Mi ritrovai nello studio di un avvocato assieme ad altre persone nelle mie stesse condizioni. L’atmosfera era satura di respiri e di attesa. Tornai in metropolitana con alcuni dei miei avviliti compagni discutendo di tempi e di costi, di perdite e di reali possibilità di recupero. Mi sentivo un grumo di tensione, di stanchezza, di paura. Assorbita nel groviglio di pensieri in cui mi ero persa totalmente, mi accorsi all’improvviso di un suono di violino. Insieme vorticoso e struggente.








ANGELI IN TERRAZZA

Sono tornato a casa quella notte che erano più o meno le tre. Ero in moto e fortuna che non mi hanno fermato perché avevo bevuto cinque birre e anche dell’altro, stavo abbastanza da schifo ma più che altro non ne potevo più dei discorsi di Gabriele. Ero stato da lui il pomeriggio a suonare anche con gli altri. Mica potevo studiare tutto il giorno, mi avevano dato matematica a settembre, un’unica materia, proprio stronzi. Così i miei erano in vacanza e io ero lì come un coglione in agosto a studiare, con appoggio tecnico di una colf. C’erano di mezzo anche le prove per il concerto a fine settembre, dovevamo studiare bene le parti, quella era un’occasione per uscire dalla fetida cantina e proporci a un vero pubblico, insomma non potevamo presentarci da sfigati. Dovevamo anche decidere il nome del gruppo, ancora non ne avevamo uno definitivo.

È lì che Gabriele ha cominciato a sclerare sugli angeli. Lui è appassionato anche di cinema oltre che di musica, va a periodi, ha avuto la fase fantascienza, horror, western alternativi, cinema francese, cinema dell’est, cinema d’azione, cinema palloso. Ora ha scoperto Wenders, si è innamorato di “Il cielo sopra Berlino” e anche di uno del genere venuto dopo, “La città degli angeli”, con una colonna sonora dei qualcosa come Goo Goo Dolls, bella ma che ci ha fatto sentire fino alla nausea. Insomma è intrippato con questa storia degli angeli, dice che tantissimi musicisti hanno fatto canzoni sugli angeli, Vasco Rossi, Ligabue, De Gregori, Paul Simon, Bob Dylan, Madonna, Robbie Williams, Lucio Dalla, Lucio Battisti, gli Eurythmics, gli Aerosmith, gli U2 e altri che non ricordo o non ho mai sentito. Vabbè, dico, lo so anch’io certe son famose, allora facciamo anche noi una canzone sugli angeli, scrivila tu visto che hai l’ispirazione. Ma cosa c’entra il nome del gruppo? No, dice lui, gli angeli ispirano non solo lui, gli angeli attirano, e spara nomi per il gruppo a base di angeli. Io Vincenzo e Paolo parliamo d’altro, facciamo altre proposte, e lui continua a girarci attorno.
Brandelli d’angelo. Angeli in riserva. Angeli di riserva. Gli angeli scaduti. Angeli in canna. Niente, era lì impermeabile e gli avrei spaccato quella faccia che ha quando non ascolta più nessuno e va avanti per i cazzi suoi. A quel punto sono venuto via. Meglio andare a dormire. Però a casa ero troppo fibrillato e anche incazzato, ho fatto una doccia e sono uscito sul terrazzo e stavo lì a respirare e cercare di sbollire, fuori all’aria. Intanto Chiara era via coi suoi ma sapevo che non mi aveva raccontato tutto. Era stata a Parigi una settimana e c’era anche quell’altro, lo so, quella faccia di culo di prima, lei diceva che l’aveva lasciato che era finita con lui ma non era vero. Stava con me e anche con lui, io allora la mandavo affanculo e lei si disperava e giurava che voleva stare solo con me, ma appena ricominciavamo tutto andava avanti come prima. Lei ha bisogno di avere una riserva in panchina a disposizione. Non ero più sicuro di essere io il titolare. Ero incazzato con Chiara, con Gabriele, coi miei, con quella di matematica. Ero incazzato con me che subivo le decisioni altrui e non sapevo convincere nessuno. Ho preso la chitarra e mi sono messo a suonare, piano. Era tardi e ci mancava solo che qualche vicino rompicoglioni venisse a protestare. Pezzi di canzoni che Gabriele aveva citato e io conoscevo. Poi ho provato dei giri di accordi, mi è venuta un’idea musicale, un motivo, funzionava abbastanza, ci ho attaccato qualche parola che mi veniva in mente. Mi sono accorto che stavo inventando una canzone pensando a Chiara e questo era contro i miei propositi ma non potevo farci niente.
Merda, i fiori. Di colpo mi sono ricordato che mia madre mi aveva raccomandato di bagnarli e io in dieci giorni non l’avevo mai fatto. Dovevano essere già belli che rinsecchiti e lei mi avrebbe fatto un mazzo dicendo che ho quasi diciott’anni ma di me non ci si può fidare, che penso solo agli affari miei eccetera.
Ho riempito l’innaffiatoio e sono uscito a cercare di rianimarli. Tutti quei fottutissimi fiori.
È stato allora che l’ho visto. Mi è venuto un accidente e sono rimasto lì basito, allagando il pitosforo l’oleandro la forsizia o non so cosa di quei nomi che mia mamma spara credo a caso.
Nel terrazzo di fianco, subito al di là della separazione, c’era uno, al buio. Solo che stava seduto sul parapetto con le gambe verso strada. Al sesto piano. Cazzo. Non era un ladro, non vedevo una minchia ma mi sembrava lui, il vicino, alto, i capelli un po’ a spazzola. Sembrava proprio lui. Si voleva buttare? Oddio cosa dovevo fare, cosa si fa con uno che si vuole suicidare? Magari invece era sonnambulo era arrivato lì e se parlavo lui si svegliava di colpo e cadeva. No, non dormiva. Non era più di profilo, si era voltato verso di me.
Come si chiama? “F. Saccani”, visualizzo la targa sulla porta. Non ne so niente, a parte che ha una MV Agusta Brutale 675 e una Audi A5, l’ho incontrato qualche volta sul pianerottolo o nell’atrio, buongiorno buonasera. Però mi è venuto in mente che mia mamma tempo fa diceva che era tanto che non vedeva la tizia di fianco, quella che viveva con l’ingegner Saccani. E che lui era già separato, chissà cosa è successo, però come si fa a chiedere, non sono abbastanza in confidenza, insomma quella roba lì.
Forse lei l’ha mollato, sarà per questo che vuole buttarsi? Magari stava già con un altro, vorrei dirgli che anch’io ho a che fare con una troia del genere. E anche con quella di matematica. Altro genere.
Insomma non posso stare qui e aspettare che salti. Non posso aspettare che arrivi non so chi in aiuto, devo arrangiarmi da solo.
“Signor Saccani cosa fa? Ha bisogno di qualcosa?”
Che cazzo sto chiedendo. Cosa fa, cosa vuoi che faccia? Di cosa può avere bisogno, di una spinta? Non ho esperienza di gente che si suicida, non so cosa si deve dire in questi casi. Stava lì appollaiato e mi sembrava un angelo di quelli dei film di Gabriele, sopra Berlino, sopra Los Angeles eccetera, vestiti normali, che sentono i pensieri. Quelli si buttavano per diventare uomini. Lui era già un uomo non sapevo se si buttava per diventare un angelo ma dovevo impedirlo. Chissà Gabriele l’esperto come se la sarebbe cavata. Ho cominciato a parlare, parlo a ruota libera, straparlo e lui mi guarda serio ma con curiosità. Se c’è curiosità c’è speranza. Assomiglia un po’ a Nicolas Cage, forse è suggestione. Gli racconto un po’ di fatti miei, finché finalmente parla anche lui forse per farmi stare zitto e mi sento sollevato. Mi fa delle domande. Sembra triste, stanco, ma tranquillo. Sorprendente, devo dire. Quando gli ho mostrato la foto di Chiara sul cellulare mi ha detto carina ma preferisco quella di fianco. Era Irene. Tipa strana, ma in effetti intrigante. Quando mi sono sentito a corto di argomenti ho pensato di prendere la chitarra ma avevo paura ad allontanarmi, magari ne approfittava per saltare. Ma lui mi ha letto nel pensiero, da bravo angelo, e mi ha chiesto di suonare ancora. Sì però lei per favore si toglie da quella fottuta posizione e viene di qua. Lentamente si è girato con le gambe dentro il terrazzo, si è staccato con calma dal parapetto e si è seduto su una sedia. Molto meglio, ma non mi pareva ancora al sicuro. La chitarra per fortuna l’avevo lasciata lì vicino, mi sono messo a suonare io di qua lui di là del divisorio, e ascoltava assorbito nel buio.
A un certo punto ho smesso e gli ho detto che io di lui non sapevo niente. Ha cominciato a raccontare. Un racconto non proprio allegro, come si poteva immaginare. Si chiama Fabrizio, ha cinquantadue anni, è separato e vive solo. Non dice niente della tizia. La società che ha fondato è in fallimento, questioni di pagamenti, di banche. Devo ricordarmi di dire ai miei di non tenere i soldi in banca. Almeno i miei. Non mi fido. Gente che lavorava con lui e ora è a casa. Tante altre storie tristi che derivano dalla sua. Io non so bene cosa dire. Lui sta zitto un po’ poi dice che fino a vent’anni fa suonava il basso in un gruppo rock. Un Hofner originale, che ha ancora. Cazzo, dovevo assolutamente vederlo, è quello che usava Paul McCartney. Sparisce dentro casa e sento un brevissimo suono alla porta. È lui col basso, dice che me lo regala. Io non oso quasi toccarlo, ma vorrei sentire lui. Dice che è troppo che non suona. Provo io ed è uno sballo, se lo dico a Vincenzo lo faccio morire, dopo un po’ lo prende lui e comincia a sciogliere le dita. Un po’ legato, ma si capisce che ci sa fare. Vado con la chitarra e lui mi viene dietro. Niente male. Prendo da bere ma per me niente birra altrimenti sbocco e vedo che fuori comincia a far luce. Alle nove e mezzo devo andare a lezione e mi sento uno zombie, lui mi dice manda un messaggio che stai male, quando ti svegli ti do io lezione di matematica. Non sapevo se fidarmi ma avevo troppo sonno. Mi sono buttato sul letto e ho dormito fino a dopo mezzogiorno. Ho visto che lui era ancora lì seduto sulla poltrona, con gli occhi chiusi. Mi sono avvicinato per controllare e avevo una strizza ma ho sentito il respiro. Non era morto, per fortuna, dormiva proprio. Ho sperato che si svegliasse di umore un po’ migliore, se si ricordava mi sarebbe piaciuto davvero fare matematica con lui. Vabbè che con tutti i suoi casini… Però me lo aveva detto lui.


Guardavo giù nel buio spruzzato dalla luce del lampione. Le lastre di pietra davanti al portone, l’aiuola del giardino condominiale; o forse sarei finito sulla cancellata? Da quella posizione bastava un colpo di reni e avrei chiuso con gli avvocati, con le banche, con i rappresentanti sindacali, con i creditori. Con i sonniferi. Pochi secondi attraverso il buio e non avrei più sentito fisso su di me lo sguardo accusatorio di Claudia, quello insofferente di Roberta, quello ansioso dei miei collaboratori e allo specchio il mio, irriconoscibile. Mi sollevo appena sulle braccia, porto il peso in avanti, ed è fatta, pensavo. Passa un’automobile. Vorrei essere il guidatore, chiunque sia, vorrei essere chi dorme dietro quella finestra di fronte, il custode di quel portone, la commessa di quel negozio all’angolo. Vorrei trasferirmi in un’altra vita.
Di colpo è venuta luce dal terrazzo di fianco, c’era qualcuno in quella stanza. Lì sulla soglia è comparso un ragazzo, in accappatoio, una criniera di ricci biondi. Si aggirava come un leone in gabbia, parlava da solo, di angeli, di una riunione con Gabriele e altri angeli. Era Martino, così ho sentito che si chiama il figlio dei vicini, ma ora mi sembrava un angelo imbronciato, quello del Bernini con la corona di spine in mano, in Sant’Andrea delle Fratte a Roma. Dove ci davamo appuntamento io e Claudia, quando lei aveva un altro sguardo. Non aveva un linguaggio angelico questa apparizione venuta a interrompere i miei pensieri estremi, inveiva contro qualcuno che stava a Berlino, a Los Angeles, a Parigi, che era lì con qualcuno e doveva studiare matematica. Continuava a entrare e a uscire, è ricomparso senza più il panneggio ma con un paio di boxer e una chitarra.
Suonava bene quel giovane angelo che parlava di angeli, sentivo qualcosa che si scioglieva e mi sono accorto che stavo piangendo. Da quando non piangevo? Forse dai tempi del liceo.
Cantava. “Qui è logico cambiare mille volte idea ed è facile sentirsi da buttare via…” cantava Vasco Rossi, l’ho riconosciuto, e anche Lucio Dalla: “Io so che gli angeli sono milioni di milioni e che non li vedi nei cieli ma tra gli uomini”. “Passa l’angelo, passa l’angelo e ti offre da bere.” Facile, De Gregori. La musica non l’ho persa completamente, ricordavo anche molte delle canzoni che cantava in inglese e mi arrivavano a pezzi: “Se Dio mandasse i suoi angeli, se Dio mandasse un segno, se Dio mandasse i suoi angeli, andrebbe tutto bene?” Gli U2. “Deve esserci un angelo che sta giocando col mio cuore…” Eurythmics. “E io non voglio che il mondo mi veda perché non penso che la gente capirebbe; quando tutto è fatto per essere distrutto io voglio solo che tu sappia chi sono.” Di questa non sapevo l’autore ma di sicuro era in un film. “Io mi siedo e aspetto che un angelo contempli il mio destino…” questo doveva essere Robbie Williams, e poi Bob Dylan, di sicuro: “Se tu non fossi caduto non ti avrei trovato, angelo che voli troppo vicino a terra. E io riparai la tua ala rotta e stetti lì con te, cercando di tenere su il tuo spirito e di abbassare la tua febbre”.
Poi si è messo a provare gli accordi di una canzone che non sapeva bene neanche lui ma forse la stava inventando. Sì, la stava componendo. Ero immerso nella nostalgia di quello stato di grazia creativo quando lui è balzato in piedi, ha ricominciato a imprecare e si è messo a innaffiare i fiori. A questo punto ha guardato verso di me, che mi credevo ormai invisibile, e mi ha visto. Dopo una breve esitazione ha ricominciato a parlare, a me questa volta, sembrava un fiume in piena, parlava della sua ragazza, di Gabriele Vincenzo e altri che suonano con lui, dei genitori che sono via, della professoressa di matematica e dell’esame a settembre, di Parigi, di Wenders, degli angeli, dei fiori rinsecchiti, della mia automobile e della mia moto, di cui sapeva cose che io non so. Non riuscivo a seguire il filo, anche perché non c’era. Capivo che era spaventato e cercava di distrarmi, come si fa con i bambini per farli smettere di piangere. Allora gli ho parlato anch’io e gli ho chiesto di suonare ancora la chitarra perché davvero mi piaceva ascoltarlo e sono ritornato dentro la terrazza perché mi commuoveva la sua goffa preoccupazione, e quella sua curiosità sincera quando mi ha chiesto di parlargli di me, e la sua imprevista partecipazione e i suoi commenti spiazzanti e la sua ammirata sorpresa quando gli ho detto che suonavo il basso e la sua eccitazione quando gliel’ho portato e il suo sguardo d’intesa così trasparente quando ci siamo messi a suonare insieme. Uno sguardo d’intesa. Uno sguardo complice. Pieno di sonno. E quando l’ho visto dormire come un angelo ho pensato che l’unica persona che in realtà mi sarebbe piaciuto essere era suo padre. E ho pensato che avevo sonno e dovevo dormire un po’ anch’io perché mi aspettava una giornata dura di appuntamenti; ma soprattutto dovevo dare una lezione di matematica.




L’ULTIMA ORA


Mancava un’ora all’esecuzione. Un’ora appena. Il tempo di una cena, di un sigaro, di una partita a carte. Il tempo di una ballata, di un incontro d’amore. Il tempo che restava di una vita. L’uomo alzò gli occhi al cortile, alle finestre sbarrate, strette e buie come feritoie. Guardò la nera sagoma della forca che lo attendeva. Era quasi tutto pronto. Pensò ad altri cortili, ai suoi giochi di bambino, ai suoi sogni eroici di ragazzo, ai suoi miseri espedienti di uomo. Come era cominciata? L’uomo si passò una mano sulla fronte nel gesto ormai stanco di scacciare quei vecchi pensieri. Con un ultimo strappo misurò la robustezza del cappio e si avviò verso il patibolo, a finire il suo lavoro.
       




INSONNIE 
-Racconti della crisi-

Suona la sveglia.
Un braccio annaspa per spegnerla, urtando sul comodino lampada, libro, bicchiere vuoto e scatola di sonniferi. Lui si alza faticosamente dal letto, aria stravolta, apre la finestra. Di fronte, i minuscoli giardinetti. Su una panchina, un uomo. Lo stesso quasi tutte le mattine.
Teso e inquieto, si prepara ed esce. L’uomo della panchina è ancora lì. Immobile.
“Lorenzo, che ti succede? Hai bevuto? O ti è passato sopra un camion?”
“Solito, non ho dormito. Va così da mesi, da quando sono qui. E i sonniferi mi lasciano inebetito. Non capisco cosa mi succede.”
“Preoccupazioni?”
“Non direi, anzi. Cambiare città non è stata una decisione facile, ma era una promozione, ne valeva la pena. Sono passati sei mesi, mi trovo bene. E l’appartamento che la banca mi ha messo a disposizione è comodo, luminoso, allegro; eppure lì dentro mi sento sempre in ansia. E non riesco a dormire.”
“Forse hai un’allergia, o qualcosa che ti disturba. Campi magnetici, punti cardinali, colori. Dovresti consultare un esperto di Feng Shui. Magari ti basta spostare la radiosveglia, o ruotare il letto. Va be’, non ti ho convinto. Ci vediamo per pranzo.”
Il collega se ne va e lui si concentra sul video, lottando contro il mal di testa.

      Cena fuori in compagnia, ma niente cinema. È troppo sfinito e torna a casa. Appena aperta la porta, un fruscio alle spalle, un uomo dal viso coperto lo spinge dentro l’appartamento, lo segue, richiude la porta.
Sorpresa, spavento, stanchezza impediscono a Lorenzo di emettere un grido. Contro di lui è puntata una pistola.
Indietreggia con cautela fino al salotto, l’altro avanza. Finalmente l’adrenalina gli torna in circolo.
“Cosa vuoi? Non c’è niente di prezioso, qui. Ho circa 200 euro in contanti, ecco, e un orologio. E un cellulare. È tutto. Vattene via subito.”
L’uomo sembra non ascoltare. Si guarda intorno. Si siede sul divano, appoggia la pistola sul tavolino di fronte. Rimane lì, in silenzio.
Lorenzo non capisce, eppure gli sembra di essere tornato in sé.
Passa qualche istante. L’uomo si toglie la sciarpa e il berretto. “Hai messo qui il divano; forse è più logico. Arriva più luce. Io qui avevo il tavolo, d’estate aprivo i vetri del balcone, era quasi come cenare in terrazza, guardando il giardino.”
Lorenzo lo fissa, incredulo. È l’uomo che al mattino vede seduto sulla panchina di fronte. Si muove, ma subito si blocca. La pistola.
“ Non preoccuparti, è un giocattolo. Me ne vado via subito, solo qualche minuto. Volevo rivedere la mia casa anche dentro, non solo fuori. Non mi avresti mai aperto.”
“Abitavi qui?”
“Sì. Ci piaceva proprio, anche se il mutuo per noi era molto alto. Lo è diventato sempre di più, e io intanto ho perso il lavoro. Ho tentato di tutto, non ce l’ho fatta. La Creditpop se l’è tenuta, ce ne siamo dovuti andare.”
Creditpop. La banca in cui lavora Lorenzo. E che gli ha offerto l’appartamento.
“Dove state adesso?”
“Dai miei genitori. Io. Anche lei, all’inizio, poi è andata via.” Pausa. “Ora vive con un altro.”
Lentamente, l’uomo si alza. “Sono stato bene, qui. Ho passato i momenti più belli della mia vita. Scusami, volevo ricordare.”
“Senti… non so… Vuoi fermarti qui, stanotte?”
L’uomo lo guarda. “Non hai paura? Non mi conosci. Comunque devo andare, è tardi, i miei sono anziani. Si preoccupano, come quando ero ragazzo. Temono qualche mio gesto sconsiderato.” Fissa la pistola, rimasta sul tavolino. “E stasera l’ho fatto.”
“Posso fare qualcosa per te?”
“Lasciami venire, ogni tanto. Qualche minuto. Al mattino sono quasi sempre qui davanti. Non riesco a dormire e così esco molto presto.”
“Vieni domani sera, invece, a cena. Così parliamo un po’. Ti aspetto.”
L’uomo annuisce, sorpreso; poi abbassa lo sguardo, si avvia alla porta ed esce.

Lorenzo si aggira cauto per le stanze, guardandosi intorno con occhi nuovi. Cogliendo, dietro le ombre passeggere della notte, quelle, tenaci, del dolore.

Al mattino si sveglia, lucido. Ha dormito. Oltre i vetri, la panchina è vuota. Sul comodino, il bicchiere è pieno.   






20.02.2002

Mercoledì pomeriggio, per la terza volta in un mese, l'ascensore era fuori servizio. Elaborando mentalmente argomentazioni corrosive con cui investire l'amministratore, ho trascinato la spesa fino al sesto piano, acceso il computer con la furia che le forze residue mi consentono (questa volta gli scrivo!), impostato la lettera, digitato la data.
20.02.2002. Sospesi nel luminoso spazio informatico, i numeri in successione si sono messi a danzare davanti ai miei occhi, ipnotizzandomi. Come il suono di una cantilena che comincia e finisce, comincia e finisce, andavano e tornavano, si rincorrevano, si rovesciavano, si inseguivano in un moto circolare dai mistici richiami. Quale criptico messaggio nasconde questo enigma numerologico? Positivo o inquietante? Nascerà oggi un futuro Dalai Lama o un Anticristo annunciatore dell'Apocalisse? Nasceranno bambini dal nome palindromo, come Anna, Ada o Otto, chiamati a imprese eccezionali? Forse, invece, sta per avvenire qualcosa che cambierà per sempre la nostra esistenza. Chissà se Nostradamus l'aveva previsto, in un'oscura quartina. I numeri rimbalzano, si incatenano, si riflettono in uno specchio immaginario oltre il quale, come Alice, ci introdurranno in un mondo parallelo dove tutto funziona al contrario, e dove ora c'è guerra ci sarà pace, dove c'è miseria ci sarà abbondanza, dove c'è intolleranza ci sarà armonia.
Ho spento il computer. La lettera – ho pensato – la scriverò, forse, domani.

Ho gettato un'occhiata all'orologio: erano le 20.02.  


Annalisa Bellerio


Breve autopresentazione.  Lavoro da trent'anni come editor all'interno di case editrici e studi editoriali (Sperling & Kupfer, Franco Maria Ricci, Rizzoli), curando e spesso riscrivendo testi altrui. Come autrice e giornalista, ho scritto un libro di profili letterari femminili (Donne tra le righe, Sperling & Kupfer editore) e molti saggi e articoli per riviste e volumi d'arte, materia in cui mi sono laureata e specializzata ("FMR", "Po", "Alumina", Electa, Rizzoli, Fabbri ecc.). Per mia passione scrivo racconti, di cui ancora non so bene cosa fare. Ho provato a mandarne uno a un concorso letterario, "Racconti nella rete", organizzato da LuccAutori e Scuola Holden, e ho avuto la soddisfazione di vederlo premiato e pubblicato da Nottetempo. Un riconoscimento che mi ha fatto piacere trattandosi di un'organizzazione seria, a differenza di tante iniziative di scarsa qualità che proliferano su Internet. Da tre mesi vivo a Redmond, negli Stati Uniti, dove ho seguito mio marito che ora lavora qui, e continuo a fare collaborazioni giornalistiche ed editoriali a distanza con l'Italia.  






Giulio Stocchi

La voce ritroverà la sua cadenza
la sua pietà la sua allegria
riconquistato numero che splende
nella corsa precipite dell’acqua
giglio di mani rosa avventurata
golfo mio calmo bianca nave e nera
tra uno scalo e la partenza

una bella sulla riva la speranza a proravia.


Mario Bracigliano -dipinto






ARTURO SCHWARZ
Poesie inedite 2013 

maktub* 
non troppo tempo fa se passeggiavo
nei pressi d’un fornaio si alzava
il profumo di caldo pane fresco
tornavo col pensiero all’infanzia

la mia infanzia è sempre con me
la ritrovo nell’essere che amo
nel suo profumo d’aria leggera
nel suo spirito di ribellione

amiamo la saggezza dell’asino
era scritto l’asinello d’Egitto
è nato per l’asinella di Lodi

Milano, 3 marzo 2013 






Angelo Gaccione, Arturo Schwarz e Linda  Verona 2012


lo so bene 

ovunque gli innamorati
hanno da sempre mormorato
queste parole all'amata

ti adoro
sono pazzo di te
non posso vivere senza te
sei la mia unica ragione d'esistere

cosa fare per trasformare
questi che sono solo suoni

nella carne dell'esistere
nel sangue di una verità
quotidiana mai contraddetta

non è la bocca che pronuncia
queste parole di passione
è il corpo mai sazio di te

il mio essere ti canta
e il mio cuore ti parla
impazienti come mai prima
di raggiungerti  nell'unione
che ci lega ora e sempre

Milano, 12 maggio 2013
  

                 
      
Quello che Linda mi ha insegnato 

dopo il tempo dello studio e del lavoro
dopo il tempo del vivere per crescere
viene il tempo della meditazione
della contemplazione e della saggezza

ma se non avrai vissuto il tempo dell’amore
avrai perso quello che la vita ha voluto darti
non bastano crescere, meditare, contemplare
solo l’amore può darti felicità  e saggezza

nella contemplazione dell’essere amato
sta l’unica vera e reciproca iniziazione

29 settembre 2013


 

devo ancora… 
devo ancora vivere
questi miei giovani anni
non so se quelli passati
siano veri o sogni
della fine d’una notte

l’unica mia certezza
è la donna che abita
il mio cuore felice
di potere continuare
ad essere nei domani
di un viaggio senza fine

Milano, 1° dicembre 2013


                     


Arturo e Linda a Verona (2012) foto: A. Gaccione
  

lei è… 

lei è la mia trascendenza
è il reale assoluto
la mia gioia di vivere
nell’estasi della pienezza

so essere soltanto in lei
nella grazia dell’esistenza
condivisa dal quotidiano
che diventa immortalità

questo il dono che m’ha dato:
l’orizzonte di una vita
nell’unica solitudine
del due che diventa l’uno 

Milano 7 dicembre 2013


Arturo Schwarz firma un suo libro "Potente come l'acqua è il mio amore" 
alla Casa della Cultura di Milano (2011)

     
per la Torah…

per la Torah – e cioè l’Insegnamento – 
conoscere vuol dire fare l’amore

riconoscersi nell’essere amato
ci trasforma in esseri immortali
con la completezza del due in uno
con la saggezza dell’indivisibile

Milano 9 dicembre 2013



ho trovato… 

ho trovato la strada per le stelle
nei suoi occhi dove si alza perenne
l’unico mattino che mai tramonta

la loro luce è la mia vita
è la certezza del nomade che ha
scoperto un giorno sempre unico

Milano, 23 dicembre 2013  
   






FRANCO FALZARI

Furlana della Terra di Mezzo

Abito la terra di mezzo friulana da anni, tanti quanti bastano per farmi finalmente sentire a casa, dopo la vita peregrinando. Tutto andrebbe ben, madame la marquise, se non fosse che da quando TERRA DI MEZZO diventa un marchio, si scatena la lotta dei politichetti bipolari, che, mimando i fratelli maggiori, fanno a queste terre danni ancor peggiori. La danza Furlana ha origini nell’antico Friuli appunto, e diventa popolare a Venezia già nel XV secolo, per poi diffondersi nell’Europa dei due secoli successivi: facciamola diventare parte del marchio, per meriti acquisiti !


Sorgenti

tratturi a primavera
terra nera
annusata a caso
da amalgamare con le mani
divora le sementi
Parnaso
di androni e corti
famiglie a sciami
e latrar di cani

Serate colte
accanto ai tini
pieni ogni stagione
o intorno al camino
che sembra lontano dai mercanti
paladini
di un padrone
e dalla lunga onda delle rivolte
affondate nel pantano.

Qui
chi si crede un messia
con fascia tricolore
recita la stanca parodia
del ruolo
di aspirante mattatore
e di certo
ha capito molto poco
di questo suolo

La Piccola Patria freme 
al rumore del cannone
al rimbombo del magma che preme
ma qui
non si smerciano parole
questa è terra amata
senza necessità di mediatori
crede nei suoi fantasmi
sponda celebrata
nella scuola
di maestri-attori
simili a padri
con il rigore del bastone
e la ricchezza
di un’incontenibile parola.

Risorgiva delle Muse
sintesi di mille
frasi mai concluse
retorica e scintille
miscelate in gesti sublimi
lobbies da lupanare
cocktails di quadri senza autore
arresi alla freschezza
del raccontare.

Ricreazione
immersi nelle profondità di un mondo
ruvido e matto
navigando
in silenzi da meditazione
scolpiti dai pioppeti 
a cavallo di argini senza fine
annegare nell’odore
dell’erba
qualche gatto 
tra i vigneti vagabondo
improvvisi esteti
e sintesi sonore
dell’oro di giornata,
l’immenso celeste
da spartire
con gli amici della vita.

Con una sola veste
colorata
sebbene un po’ sbiadita.

              *
 Machiavelli Store

Machiavelli insegna
come allearsi col leone
ed il serpente
e rovesciare il mondo
sottosopra
che sembri Marte
ma sempre dalla parte
del potente
Così l’italico facondo
appena può s’ingegna
a fare:
fotter la gente
e contemporaneamente
baciare il didietro a Paperone
facendo di tutto questo
un’arte

Machiavelli cresce
e in fretta
fino a fare del mezzo un fine
- Principi e non princìpi -
giostrando in sintonia
con qualche letta
semina mine
compra oro
dalle disgrazie altrui
oppure azioni
di chi controlla moody
piazza trote o pippo
o un principe del foro
nei pirelloni
e in parlamento
per essere presente
ad ogni scippo
e se ancora manca
avere cento occhi mille mani
e centomila ciarlatani
da digerire a stento
nel parastato dei giorni bui
o in ogni banca

Machiavelli
fa l’informazione in rete
si nasconde
con secolare abilità
nei blog traversi
risponde
con parole che sembrano
concrete
ma sono passi persi
riesumando ad ogni istante
l’eternità dei chiostri
ove tuttavia
persino si pensa sottovoce
suggerendo mostri
alla regìa
figli di terre sprofondate
in alluvioni
e nell’assurdo dell’incomunicabilità
tra generazioni malmenate
caste
e pericolosa nostalgia
dei dinosauri
circondati da cataste
di voraci carrozzoni

Machiavelli
non è mai morto
ma oggi si fa idiota
Ha il fiato corto
non si accorge
che sposando trota
restituisce forza e dignità
a un’immensa lista
spina dorsale
del consenso
anima della nostra storia
protagonista
poderosa realtà
che domina la comunicazione
- mare
  torbido e melenso -
ma infine colossale comunione

Oggi in rete
è Machiavelli store
ognuno compra
il suo pezzo di potere
la sua fetta di visibilità
toreando ore ed ore
con il verbo
quasi fosse Manolete
ma privo di buonumore
spesso
via per la tangente
lontano
- seppure onnipresente -
a dispensare massime
di seconda mano
bestemmie a volontà
saggezze da sedere

Tutto questo
Machiavelli non lo sa
sommerso com’è
dalle provocazioni
così che
oggi raccoglie solo scherno
e umiliazioni
calvari
per chi crede
di riordinar l’umanità
meglio del padreterno.


                                                  
Permetti un ballo?



ORNELLA FERRERIO

Aforismi inediti

*
Perdonare è una vittoria.

 *
Per amare sinceramente non basta la passione:
bisogna avere anche molto coraggio.

 *              
Tante volte si dice era scritto nel destino.
E, spesso sfortunatamente,
il destino ha troppa libertà di scrittura!

*
A proposito di media…
Su certi  personaggi politici sarebbe
vitale, se non la damnatio memoriae,
almeno l’urgente e deciso mutismo
di un fermo immagine.

*
È il mondo a formare le parole,
o sono le parole a formare il mondo?

*
Lo smog.
Come è triste pensare a un cielo sudicio!

 *
Una grande e vera bellezza sta in quello che dài,
non in quello che ricevi.

*         
Sono inquietanti le persone che hanno
nello sguardo - insieme - stupore e  presagio.


*  
I ricordi sono sempre al presente.

*
Gettare rifiuti in qualsivoglia
specchio d’acqua è come gettarli
anche nel cielo.
 
*
Realtà.
Sembra solo una parola, ma rappresenta
tutto ciò che veramente vive.

*       
La matita rossa e blu dei professori.
Quanta ansietà solo per due colori!

*   
A volte il cielo è così basso che si teme
di esserne assorbiti.

*
La lettura di certi libri ci può cambiare
al punto da pensare di avere subìto l’innesto
di necessarie protesi mentali.

*
È possibile che l’uomo diventi veramente
(e eternamente) se stesso solo arrivando
all’ultima stazione, quando tutto cambierà?

*
Scrivere aforismi dà la sensazione
Di poter evitare, nel proprio essere,
temibili implosioni di pensieri inquietanti.

*
È basilare che tanti aspetti della vita
vengano capiti e non solo percepiti.

*
Forse, civettando con la vita,
si può arrivare a qualcosa di
veramente creativo.

*
Dover ascoltare certa gente dà

la sensazione di sprofondare
in qualcosa di fangoso.

*
Ci sono momenti in cui il senso di
ogni cosa sembra arretrare e allontanarsi
pericolosamente da noi.

*  
Nella tragedia greca i personaggi
non sono mai colpevoli e non sono
mai innocenti. Non c’è una vera
soluzione.

*
Al mattino, il momento del risveglio
è spesso l’ora di punta dei brutti
pensieri.

*
Un augurio per l’anno nuovo?
Speriamo che un apparente canto di cigno
non si trasformi in una nuova
sciagurata aurora.







Laura Margherita Volante   
Aforismi inediti 



                                        
Nella foto: Laura Margherita Volante

*
“Dove c’è un amico il tempo scompare”

*
“La semplicità rende felici nonostante tutto”

*
“La dignità è la fermezza dei giusti”

*
“Quante scale!
Quella dei valori ha perso i pioli”

*
“L’umiltà scoraggia ogni forma di umiliazione”

*
“Tasse per il popolo:
paga e tasi!”

*
“In un mondo senza cuore, anche la resistenza
di 3000 wolt può saltare nel vuoto”

*
“La vita è un soffio,
che sia dunque di profumo di rose
e non di ortiche”
                                    *
1) Il paese degli estremi dove i moderati saltano la corda ma non il salto in alto

2) Quando uno Stato seppellisce i suoi morti non conosce il rispetto per i suoi vivi
3) Alluvioni: lo stivale è la zattera del continente
4) Crollano i ponti...quello di Messina è il ponte che non c'è in un paese inesistente fra baroni malati di assenteismo
5) La lettura interattiva è un invito al desiderio di nutrire lo spirito; infatti, la fame vien mangiando
6) Lo scardinamento dei valori rompe gli argini in ondate di fango
7) Nelle sabbie mobili nemmeno le unghie salvano...
8) Antipedagogia: adultizzazione dei fanciulli fra genitori infantili
9) La solitudine me l'ha consegnata questo mondo, per non tradire me stessa
10) Effetto deculturizzazione: dissociazione disarmonia delitto
11) Il vittimismo è il punto di forza di chi non si mette mai in discussione
12) Luogo comune: l'amore non ha età. Ce l'ha eccome! Nasce cresce muore
13) L'ipertrofia dell'ego distorce la realtà fino al suo precipizio
14) Figli "piezze e' core?" Alcuni lo fanno a pezzi il cuore!
15) Gioco d'azzardo? La rovina. Il gusto viene dal mettersi in gioco
16) La potenza creativa si esprime nella libertà. Diversamente esplode con forza titanica distruttiva
17) Antidoto all'invidia: tenere in casa un rododendro
18) Negazione dell'IO: chi si fa governare dall'ego fino a perdere di vista l'altro
19) L'abuso sessuale è un tatuaggio a fuoco del volto della morte nell'anima
20) Sulla mia lapide: finalmente libera dagli infami!
 Laura Margherita Volante





    Nella foto: Laura M. Volante


COROLLA DI LUCI

Ho ricevuto così
poco amore che
la notte fra tenere braccia
accese le stelle
in un girotondo alla luna.

Ancora oggi il ricordo
rivive di dolce abbraccio
corolla di luci
nel buio della solitudine,
ancora oggi l'anima inferma
si risveglia ad un respiro...

Laura Margherita Volante

           







                                       


 Pier Luigi Amietta

ON CAN
Eren cinqu o ses ann che se trovavom
sera e mattina sul porton de cà.
Lù strapelaa, con l’aria de spend pocch,
giacchetta lisa, cavei sbaruffaa.
El gh’aveva on amis, l’unich, domà 
on cagnin zoppignent color nagott
ch’el se tirava adree de dì e de nott.
Cont i orecc bass e i oeucc on poo tobìs,
el pareva scusass de vess al mond.
L’hoo mai sentì boià e anca la vos
del sò padron la se sentiva pocch,
o mej, per dilla proppi fin in fond,
“bondì bondì”, e tutt feniva lì.
Da on poo de temp, però, ’na quai parolla
al bondì-bonasera le giontava,
semper reguard al can: “El sta nò ben…”,
“l’è semper fiacch, el struzzia cont i gamb”.
 I gamb, e minga “i sciamp” l’aveva dii.
E allora mì hoo cominciaa a capì.
Dopo el “bondì” ghe domandavi nient,
ma on dì l’hoo vist che le ruzzava sù,
on’altra volta ghe l’aveva in brasc:
“El riess pù a fà i scal, se gh’hoo de fà?”.
On dì via l’alter l’era semper pesg,
e ‘l sò “bondì” l’era pien de magon.
“Fin tant ch’el mangia e ‘l se lamenta nò…”.
Incoeu eren tucc duu denanz a cà
dent in del noster giardinett stremii:
el can l’era pù bon de tirass sù,
el sò padron, in genoeugg ‘dòss a lù
l’era el ritratt de la disperazion.
El faseva tusscoss per trall in pé:
e massaggiagh i sciamp, scrusciass con lù,
e carezzagh i orecc… de tutt, de pù.
‘Sto poer cagnoeu el stava sù on moment
e poeu l’andava giò longh e tirent:
el guardava el missee con l’oeucc tobìs,
ghe tremaven i orecc, el coo, i barbìs;
pareva ch’el voress dì: “Lassa stà…
t’el vedet nò? L’è ‘l mè moment de andà…”
Dedree di veder mì s’eri sbasii,
gh’avevi nò el coragg de famm vedè
anben che l’era l’ora de sortì.
Sont andaa foeura, lù el m’ha saludaa
e ‘l m’ha dii, con duu oeucc de disperaa:
“L’aveva mai piangiuu in tutt ‘sto temp,
‘dess hinn duu dì ch’el piang, continoament…”
Poeu se l’è tolt in brasc ‘me on fantolin,
l’ha quattaa giò cont el sò paltò lis
e, magonent,  con  vos de fà paura:
“Adess el porti là…per la pontura”.


Opera di Nicoletta Garofalo



OMM IN GIARDIN


Vedi da la finestra del mè studi
el portinar, angiol custòd del verd
de la mia cà, di roeus e del pitòsfor.
El lavora content…e me domandi
‘se l’è ch’el ghe ved dent in ‘sto tocchell
de verd, in ‘sto girell per paisan
nostalgich de la terra. Omm senza sogn?
No, no, pensi el contrari, mì hoo capii:
per on’ora, ogni dì, lù s’en impippa
del gatt del ragionatt, de la ruera,
de la posta, de l’amministrador.
Per on’ora, ogni dì, lù el torna a cà.
E quell meter quadraa condominial
per lù (forza incredibil del penser)
l’è  quell praa grand del sò mond de bagaj,
sotta l’argin del Po, l’è la “soa” terra,
la terra di sò vecc. El rest l’è… nient.
El loeugh dove se sta l’è minga “noster”
perché l’è scritt inscì in on quai canton.
E allora quel freguj de giardinett
per lù l’è la pianura del sò fiumm,
la terra di sò vecc, quella che gh’ha
per confin domà l’erba, i pobbi e ‘l ciel.

                     *

 (Traduzione letterale)


UOMO IN GIARDINO
Vedo dalla finestra del mio studio
il portiere, angelo custode del verde
 di casa mia, delle rose e del pitosforo.

Lavora contento…e io mi chiedo
cosa ci trova in questo pezzettino
di verde, in questo girello per contadini
nostalgici della terra. Uomo senza sogni?
No, no, penso il contrario, l’ho capito:
per un’ora, ogni giorno, lui se ne infischia
del gatto del ragioniere, della spazzatura,
della posta, dell’amministratore.
Per un’ora ogni giorno, lui torna a casa.
E quel metro quadrato condominiale
per lui (forza incredibile del pensiero)
è quel gran prato del suo mondo di bambino,
sotto l’argine del Po, è la “sua” terra,
la terra dei suoi vecchi. Il resto è…niente.
Il posto dove stiamo non è “nostro”
perché così sta scritto da qualche parte.
E allora quella briciola di giardinetto
per lui è la pianura del suo fiume,
la terra dei suoi vecchi, quella che ha
per confine soltanto l’erba, i pioppi e il cielo.
(Testo e traduzione di Pier Luigi Amietta)




GLI ORSI VOLANTI
Una fiaba di Filippo Senatore


Tanti e tanti anni fa c’erano una volta gli orsi volanti che vivevano in pace sulla Terra. Questi animali erano molto laboriosi e facevano il mestiere degli apicoltori. Volando da un emisfero all’altro raccoglievano le api e le sistemavano nelle loro cellette. Quando gli uomini vennero sulla terra gli orsi volanti   insegnarono  loro il segreto per allevare le api e per ottenere il miele dalle loro casette di cera. Presto gli uomini non sopportarono la presenza degli orsi accusandoli di mangiare troppo miele. Così un bel giorno vennero scacciati. Alcuni feriti volarono sulla Luna e i sopravvissuti con le ali ferite si allontanarono sulle Montagne alcuni e altri si trascinarono fino al Polo Nord. Questi ultimi per evitare brutti incontri con gli uomini si tinsero di bianco la loro pelliccia così si mimetizzarono con il colore del ghiaccio perenne.  Quelli di montagna si tinsero la pelliccia di marrone per mimetizzarsi con la terra e la foresta. Tutti persero le ali per mancanza di miele Intanto sulla Luna un’orsa per allattare tre cuccioli mentre volava nello spazio perse alcune gocce di latte. Così nacque la scia luminosa delle galassie detta Via Lattea. L'orsa e la sua sorella minore che l'aiutava a raccogliere il latte perduto e i piccoli si trasformarono in stelle segnando a nord  il cammino dei marinai. Essi furono riconoscenti e giurarono di non fare più del male agli orsi di terra. Ma presto tutti bene e le orse per vendicarsi crearono le aurore boreali, fasci di luce violente che accecavano la navigazione. Ma per non essere crudeli le aurore comparvero per brevi periodi solo sulle calotte polari. 




TIZIANO ROVELLI
LA STORIA DI SERENO E CLOE

 C'era una volta… questo è il classico inizio delle favole, ciò che io or ora mi accingo a raccontare è una favola anomala; la distingue dalle altre il finale. In questa storia non vi è un lieto fine.

Inizio di nuovo: c'era una volta, non molto tempo è trascorso, in un villaggio, un giovane uomo, il cui nome suonava Sereno. Sereno di nome non di fatto. Pareva triste, a tratti cupo, il suo sguardo metteva inquietudine alle donne. In paese la gente sapeva che quell'uomo non era normale. Diremmo noi oggi: soggetto con ritardo psichico. Lavorava come muratore e alla domenica si consolava spesso bevendo un bicchiere di troppo. Penso che non fosse soddisfatto della sua vita in fondo al cuor suo, uguale e monotona nel piccolo grigio villaggio senza svaghi dove era nato e cresciuto. Lo si vedeva spesso nei giorni di festa per le strade, solo e ubriaco, guardando nel vuoto, gli occhi fissi. Amava però la vita e avrebbe voluto avere una compagna. Le ragazze del posto certo non lo guardavano. I suoi genitori allora gli trovarono una moglie: Cloe. Lui fu felice e da quel momento la sua vita parve ritrovare un po' di gioia e avere una maggiore pienezza. Cloe stessa fu contenta quando lo vide. I genitori raccomandarono ai due giovani di non avere figli, perché anche Cloe soffriva di un ritardo mentale. Pensavano che potevano nascere figli con problemi. 
     Sereno e Cloe invece erano spensierati e felici. Erano giunti ad amarsi. La loro vita trascorreva raggiante e quieta. Il giusto coronamento del loro amore fu la nascita di una bambina. Erano oltremodo contenti. Sereno trovava in quella bambina e in Cloe tutto il senso della sua vita.        Presto si accorsero che la loro figlia non camminava. Passò il tempo ed ella giaceva sempre in un letto. Fu uno strazio ma Sereno e Cloe amavano molto la loro creatura. La bimba cresceva ma il suo corpicino era assai debole. L'uomo si avvicinava al letto e le baciava la fronte teneramente. A volte avvertiva uno strazio al cuore per quella sua figliola e nulla diceva a Cloe. Guardandola negli occhi gli pareva di vedere riflessa la sua angoscia; solo qualche volta.
A quindici anni la bambina moriva. Il suo debole corpo e la sua mente parevano inadeguati ad affrontare la vita. Cloe si chiuse in un mutismo, si ripiegò sempre più in sé stessa, il dolore la stava distruggendo. Sereno non sapeva cosa fare e d'altro canto assisteva alla penosa afflizione della moglie senza poter far nulla.
     Un giorno, in preda alla più cupa disperazione, Cloe fece un gesto estremo. Sola, bevve una bottiglia colma di candeggina e affrontò una morte tremenda e dolorosissima. In agonia morì tra gli spasmi.
Poco tempo dopo Sereno pensò che gli era stato tolto tutto dalla vita, non vi era più alcun senso di continuare a vivere e si uccise. Più precisamente la gente narra che volle imitare la moglie e trangugiò soda caustica. 
Tiziano Rovelli

 
 Opera di Giuseppe Denti



RACCONTO

LA SERENITÀ DEL “CONTE” CONTADINO

Foto di Dario Pericolosi
Eravamo alla fine degli anni ’60, principiavano i ’70, in quei luoghi dell’alta Lombardia dove è cosi facile ritrovare il provincialismo borghesuccio e un po’ introverso di un popolo originario celtico, sulla via del “benestantesimo”, ancora legato a stereotipi chiesastici e “moralisterici” anti-innovativi e fondamentalmente destrorsi. In una parola, la filosofia del bicchiere di vino rosso fenomenologia autarchica.  La suprema esperienza conoscitiva del volgo nella morchia di una vita bigotta confinata al paese che sa di vinaccia e di perbenismo da comari di villaggio prealpino. Il sito dove si dispiega la nostra narrazione ha nome S. Romedio, piccola frazione comunale, immersa nel bosco e nella boscaglia, non lontano dall’abitato, di per sé in isolamento.          
Si raggiungeva detta località percorrendo una stradina dissestata in salita che si dipartiva da una via più grande sterrata che collegava due paesi; in quel punto si trasformava in una discesa serpeggiante nella foresta. Erano quattro case e due cascine su di una collinetta il cui bordo volto ad est sud-est digradava in una piccola valle boschiva in fondo alla quale vi era l’alveo di un torrente dal nome altisonante di Tenore. Era stato denominato in tale modo, credo, dalla musica derivante dallo scrosciare dell’acqua sui ciottoli. Nome azzeccato pensando alla lirica naturalistica prodotta da tal suono nelle estati immerse nel silenzio della circostante boscaglia. Vi è però da connotare una situazione non del tutto bucolica nella descrizione di tale paesaggio. In quel torrente vi venivano sversate le immondizie che non solo lo colmavano, ma invadevano parte della ripa nella valle che saliva verso le cascine di S. Romedio.
Erano gli anni, in quei luoghi, di trasformazioni industriali. I contadini abbandonavano il lavoro dei campi per impiegarsi nelle industrie locali. Veniva così a cessare la vocazione agricola di quella terra: non più stalle, non più piccolo allevamento di tre o quattro vacche per famiglia, ci si stava in qualche modo avvicinando ad una situazione sempre più urbanizzata. I contadini, divenuti operai, si costruivano la domenica la propria villetta. Si ponevano le fondamenta di ciò che è la Lombardia attuale, nel bene e nel male; anche per il problema dei rifiuti e della raccolta differenziata.
Tomiamo al piccolo agglomerato di case e cascine, a S. Romedio (in dialetto del posto San Rumé; Romedio il santo eremita che andò a Trento a cavallo dell’orso).
Io che conoscevo quel luogo vi fui attratto vieppiù dall’amicizia con un mio coetaneo
che ivi abitava. Era figlio di quell’uomo che nel titolo ho nominato “conte” contadino. I miei mi mandavano a comperare le uova fresche e così conobbi quel ragazzino.
Ora vi descriverò il padre. Uomo anziano. Scarponi malandati inzaccherati di fango
e di sterco. Portava pantaloni di fustagno, sporchi e sdruciti, decolorati, di una tinta
indecifrabile, tendente ad incorporare le diverse colorazioni delle materie indecenti
con cui venivano a contatto, una giacchetta anch’essa vecchia e sdrucita, una camicia di flanella dal collo diremmo oggi alla coreana, più verosimilmente contadina. La barba bianca non fatta ed un cappello di paglia grossolano tipico agricolo. Non ricordo il nome, forse Emilio o Emiliano. In quel posto si parlava dialetto varesotto, lui parlava italiano forbito, scandendo le parole e parlando piano. Ciò lo rendeva inviso agli altri, un estraneo, una specie di extraterrestre. Diceva di venire dall’Emilia, ma non aveva nessun accento. Allevava maiali a cui forniva nella mangiatoia abbondanti razioni di minestrone fatto in casa con aggiunta di molte patate.
“Vedi” diceva, “ho fatto costruire quell’impiantito di legno nella stalla, sollevato da
terra, perché i miei maiali soffrono di artrite e reumatismi”. C’era un maiale a cui più
era affezionato e lo chiamava e si faceva dare delle leccate in faccia, come baci.
“Voglio bene al mio maiale e qualche volta vengo qui a dormire con lui. Non voglio
assistere quando l’ammazzano”. Sì perché lui produceva in proprio salumi e cotechini.
Foto di Dario Pericolosi
Un giorno vidi il maiale ingarbugliarsi con la  catena intorno ad un albero, più girava
attorno all’albero, più si avvolgeva la catena. “Ma così si fa male” dissi io; 
“No, è così che deve essere, l’adrenalina fa la carne più buona”.
Amava I suoi porci al punto di dividere con loro la lettiera, alcune notti. La sua casa molto rustica ancorché rusticana, era composta da una grande cucina e una camera da letto anch’essa grande; ospitava normalmente galline, anatre e conigli che razzolavano liberi e ovviamente sporcavano. Del resto la pulizia non si annoverava tra le sue virtù; i miei lo chiamavano in dialetto “el vunciun”, colui che è sporco e vive nello sporco. Giravano in casa anche dei gatti, ciechi, sciancati e un cagnolino, un canino, un meticcio piccolo che una volta andò in punto di morte, salvato dal veterinario, perché aveva mangiato una pantegana, un ratto proveniente dalla vicina discarica, come ho accennato. Una piccola alta pentola sul fuoco da cui fuoriuscivano due zampe di gallina; “Sto bollendo un pollo; sai, un po’ di brodo”.
Ad una mia richiesta prese una gallina e senza che me ne accorgessi, con gesti
precisi e quasi invisibili, le tirò il collo senza che questa avesse il tempo di dire beh.
Un artista. Mi fece vedere una fotografia alquanto ingiallita e stropicciata, ed era
commosso: “Questo è mio fratello morto nella prima guerra mondiale”.
Suo figlio, a cui avevano regalato un microscopio giocattolo, si divertiva con me ad
osservare le formiche. Occhio alla luce e alla messa a fuoco. Tipo straordinario e inconsueto da quelle parti, un piccolo scienziato, intellettuale.
La moglie parlava anch’essa un italiano pulito. Diceva di essere malata e se ne stava
tutto il giorno a letto con le galline che zampettavano sopra le coperte. Anche d’estate. 
È strano come la gente di quei posti sia diversa, certamente non mi considerava, essendo io un ragazzino, lui invece mi chiamava per nome e mi parlava come ad un par suo, nonostante la differenza d’età. È passato molto tempo, ma io continuo a ricordarlo con simpatia.

Tiziano Rovelli



DIALOGO TRA UN DOCENTE ED UN ALLIEVO

La vicenda si svolge in esterno, lontano dall'abitato, sotto un cielo plumbeo, un'atmosfera ferma che ricorda certi film in bianco e nero del regista svedese Ingmar Bergman. Si trovano singolarmente a discorrere uno studente ed il suo maestro. Come? Così vuole il caso.

Che cos'è la morte? Io penso proprio di esserne immune”.
“Pensi bene alla tua età. Quando ti accorgerai, una mattina alzandoti, che tutto è mutato intorno a te e con angoscia non riconoscerai più i luoghi noti e vedrai i visi familiari deturpati dagli anni, rifletterai con rammarico che la tua vita è a tempo determinato, ha una scadenza, un termine. (Come il lavoro che oggi al più trovano le agenzie interinali). Anche il ricordo di te scemerà dalla faccia della terra quando non ci sarai più. Gioisci, adesso qualcuno ti ama ma forse un giorno te ne sarai dimenticato”.
“Tu questo lo hai sperimentato?”
“Sì, certo”.
“Perché hai un pappagallo sulla spalla?”
“Si era perduto e l'ho trovato in un bosco sopra un albero. Da allora non mi ha più lasciato”.
“E gli vuoi bene?”
“L'altro giorno l'ho portato dal veterinario per una visita, si è messo a strillare molto forte stretto nella presa del medico, con il suo tipico verso gracchiante. Mi si è stretto il cuore. Piccolo uccello dalla fervida intelligenza”.
“Dunque lo ami”.
“L'amore. Cos'è l'amore? A volte osservo mio figlio e mi domando quale strana alchimia genetica ha fatto nascere un essere che ha qualificato e sostanziato il rapporto genitore e generato. Io certo non ho realizzato alcun profondo pensiero né un titanico sforzo. Semplicemente senza che me ne accorgessi è nato. Mi somiglia? Di volto o di carattere? Sento che comunque è un'altra persona, altro da me. L'evoluzione ha dato inizio a tutto, io, mio figlio, il pappagallo. È tale un cerchio, una circonferenza, la cui linea non ha inizio né fine, è chiusa e racchiude ogni cosa: la vita, la morte, l'amore, il tempo che passa, l'evoluzione biologica, l'essere unicellulare, il grande mammifero, i volatili, l'uomo e la sua prole. Tutto giustifica e ne conferisce un senso, una logica. Non esiste altro. Ciò non toglie che io ami mio figlio”.
“Non capisco bene, credevo che si trovasse non illogico scopo in un intervento metafisico, in un essere superiore, nella divinità. O anche questo rientra nel cerchio?”
Tiziano Rovelli




                                          Da sinistra: Gaccione- Vergati- Rovelli
                                          (foto: Fabiano Braccini - Milano 2013)                


                                                        


Giù quell'arma, sei circondato!

Ho sempre pensato che l’intelligenza
fosse un’arma, ma non immaginavo
di essere circondato da così tanti pacifisti

Giovanni Bonomo




Due poesie di Ferruccio Brugnaro      


INCONTRO CON LOU REED A CONEGLIANO


Era una sera d’autunno fredda e buia
                                          come non mai.
Il teatro era strapieno di ragazze  ragazzi
                                                 elettrizzati
                                            tutti in piedi
                                    con le mani protese.
Tu eri al centro della scena
                     seduto su un minuscolo
                                             sgabello
                            con la testa tra le mani
                                e chissà quali pensieri….
Sembrava tu non avessi voglia
                          né di suonare né di cantare
                                 sembravi irremovibile
                          e la Pivano ti supplicava.
Quando imbracciasti la chitarra
                                    si sentì subito
                            un amore profondo straziante
                               nel cuore della tua musica
                                                del tuo canto.
Quando toccò a me proseguire
                                  ero fortemente intimidito.
A un certo punto chiedesti a Fernanda
                                      cosa dicevano
                                        le mie grida di dolore.
Alla fine ti avvicinasti, mi guardasti
                                              con intensità.
Mi sembra ieri anche se è passato
                                         molto tempo
                      e in questi giorni te ne sei andato
                                da questo mondo
                                                 torbido e violento.
Non dimenticherò mai più
                                   il tuo abbraccio vibrante.


Ferruccio Brugnaro (Ottobre 2013) 







FRAMMENTI DI UN SOGNO


                        Il giorno è grande
                                come
  in nessun’altra
         estate.
                        Il tempo
                           arde
                           selvaggio.
                        Non c’è memoria di orizzonti
                                          così larghi
                              di un fuoco
                                          così immenso.
                               Il sole a un tratto
                                            si stacca
                                       dal centro del cielo
come una palla di granito nero
                    precipita sulla terra
tracciando un largo solco
                         di sangue.
                                  Il giorno
                                 diventa notte profonda
                              le stelle si scontrano
                                                    fragorose
                                                    assordanti
                                                schianti duri
                                                         scontri
                                                   sibili
                                          schegge taglienti
missili e missili
bombe e bombe miste
a grida tremende, forti grida
                         poi silenzio
                            buio intenso
                                silenzio
          poi un alito leggero
da oscuri lontani fondali
s’alza con un cerchio verde
                            fiammeggiante
                     intorno al mondo.
                       
                                      Ferruccio Brugnaro


                                          



 





Dario Pericolosi

In occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne che si terrà il 25 novembre prossimo, Dario Pericolosi dedica a tutte le lettrici e ai lettori di “Odissea” questi versi scritti per loro.








DALLA TUA PARTE

Ho la pelle fredda come la vendetta
una ciocca di vergogna copre il viso
adesso il mio corpo è carne senza sensi
sono un angelo con due ali di follia

mi portano via dal luogo fatale
ma la mente resta sulla scena dello scempio
voglio rivivere l'ultimo brandello di vita
quando la violenza senza senso mi è caduta addosso

il letto di erba è ancora caldo di te
o idiota di buona famiglia cosa hai fatto
mi hai strangolata con il vile destino
dopo avermi strappato di dosso la dignità

ora sarò la tua eterna ombra
ti seguirò fino all'inferno dove sarà
un gioco trovarti o infame futuro
e finirti con una dose letale di amore

Dario Pericolosi

















Un racconto di Adamo Calabrese

NELLA GIUDEA
Marco XIII,16. Vangelo apocrifo

Quando vedrete avvicinarsi l’idolo della devastazione tappatevi le orecchie, chiudete gli occhi, nascondetevi sotto le coperte.

Tutti coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti se ci sarà ancora un treno che passa. Chi spia l’orizzonte non perda tempo, non torni nella casa per salvare la stilografica del padre e gli aghi della madre: non è più tempo per scrivere poesie, né tempo per abiti nuziali. Chi si trova nella Giudea bruci i dizionari e le enciclopedie. È tardi per sapere come si formano le maree e dove galleggiano gli iceberg. Tardi per conoscere dove vivono l’armadillo e l’ornitorinco. Guai a chi frugherà i cassetti cercando le lettere di chi se ne è andata. Quei fogli sono stati rosicchiati dai topi e non c’è più traccia né di baci né di carezze. E ancora vi dico: chi è nel campo non torni indietro a prendere il mantello, lasci che il vento agiti gli stracci come fossero abitati da anime in pena. Soprattutto pregate perché ciò non accada d’inverno, le ombre sono furbe delatrici:

“Io so dove è fuggita…”
“Dove? Parla!”
“Non posso, mi ha pagato per tacere”
“Ti do l’anello di mia madre. Parla!”
“Troppo poco.”
“L’orologio di mio padre. Parla.”
“Troppo poco.”
“Cosa vuoi?”
“Vederti piangere.”

Via, via! È arrivato l’inverno, la neve ha chiuso i passi. Chi abita nella Giudea non perda l’ultimo treno.  


       



AFORISMI
Graziella Poluzzi

Le multinazionali marciano sui colossali ricavi del petrolio, mentre i popoli marciscono nel degrado ambientale del cambiamento climatico.
*
La morale dell’uomo sulla pelle delle donne, si chiama misoginia.
*
Parità uomo-donna? Il diritto c'è o c'è soltanto il (mal)rovescio?
*
Il burqa è un involucro che nasconde un essere femminile deambulante, oggetto impacchettato di proprietà dei maschi di casa. Difficile che sia una scelta, senz'altro è una prova evidente dell’oppressione maschile.
*
Il sangue mestruale è il più grande simbolo di vita e di morte, di potenza femminile. Eppure ce ne vergogniamo, lo nascondiamo: è vissuto come un tabù. Chi ha deformato in tal modo il nostro pensare nei millenni lontani? Le paure dei maschi? Non possiamo essere state noi stesse a buttarci la zappa sui piedi.
*
Nei maschi circolano dei virus preoccupanti, come la violenza, lo stupro, istinti non controllati, le perversioni sessuali e psichiche, la pedofilia, il desiderio di voler ridurre la donna a essere inferiore avvalendosi della forza fisica e delle deformazioni mentali singole e di gruppo.
*

C'è un solo processo in cui a essere indagata è la vittima: il processo per stupro.





MARIA CARLA BARONI

Un piccolo, tenero, toccante, canzoniere amoroso,
che sa custodire il bene prezioso della memoria.  


POESIE PER ALESSANDRO  MUSSI
Di Maria Carla Baroni

QUANDO SI AMA
Quando si ama
pare
di poter vincere qualunque muro
e possedere il mondo.

UNIONE
Navigo nei tuoi sguardi
nei tuoi sorrisi
sulle onde del tuo corpo
nella sacra unione di donna e uomo
ritorno ricorrente
all’unità primigenia.

TU E IO
Il mio amore per te
è l’acqua
che ha fatto rinverdire
e fruttare
la tua terra
compressa di semi inariditi.
Tu sei
l’illuminazione
e lo scintillio della mia vita
le fondamenta
su cui innalzo
la cattedrale della mia speranza.

SE QUESTO AMORE DOVESSE FINIRE
Se questo amore
tenero fiore d’aprile
abisso profondo di luce
dovesse finire
proverei sgomento
come per una cattedrale
sbriciolata sulle sue fondamenta.

AMO TE
Amo il profumo
dolcemente aspro
dei tuoi genitali
amo il tuo corpo
ora statuario
ora arrotondato
dalla vita sedentaria
amo il tuo viso
segnato dagli anni
e da un’amara filosofia
amo i tuoi lunghi capelli d’argento.
Amo te.

LECCATE DI SOLE
Un’infinita languida dolcezza
nei tuoi gesti d’amore
leccate di sole
i tuoi baci
al mio corpo
alla mia mente
al mio olistico tutto.

DECENNALE
Lo stormire della vita al tramonto
mi ha donato il tuo amore
chiarore cangiante di raggi dorati
e la tua arte
che trasforma luce e sogni
in emozioni di colore.
Ignoro
quanto questo dono
potrà durare
ancora.
Rassegnata all’eterno divenire.

IL CASO FEROCE
Il caso feroce
che dona e toglie
e quando toglie
pare che sia
in modo da fare più male
mi ha tolto il tuo amore
che
stoltamente
pensavo sarebbe stato per sempre.

EREDITÀ
Arrovellìo di mente
continuo
mancamento di respiro
e visceri attorti
a tratti
mi ha lasciato
la morte del tuo amore.

DOPO L’ABBANDONO
Molti anni d’amore
mi paiono ora
solo un cumulo di poveri giorni
io straniera alla mia stessa vita
amputata di metà della mia vita.
Ma continuano a scorrere
le acque del tempo
lungo le ore e i giorni
rintocchi di campane a morto
e la passione
faticosa
di continuo rinascente
per il mondo da cambiare.

LUCE E PROFUMO
La splendente luce della luna
che dilaga dall’alto nella notte
e il profumo dei tigli
ascendente alla mia terrazza
avrei voluto donarti
insieme alla mia casa e alla mia vita.

ERA UN SOGNO D’AMORE
Era
un sogno d’amore lungo una vita
la porzione di vita
che avremmo ancora avuto in questa forma
per poi continuare
due scintille di Energia
vaganti insieme nell’infinito eterno.

ACQUA E LUCE
Io
per te
acqua di vita.
Tu
per me
splendore di luce.

MORTE
L’evento più naturale che ci sia
il più terribile
inconoscibile
finché t’avvolge ti stringe e ti consuma.







AD ALESSANDRO MUSSI POST MORTEM

                                I

Per una manciata d’anni noi
due lembi di un’unica fiamma.
Sotto la cenere dei giorni andati
amore mio perduto
il rimpianto
su sabbie mobili di morte.
Anni sono colati goccia a goccia
sperando una speranza che non c’era.
Tu – lontano – pure eri vivo.
Ora anche tu sei cenere
avvolta di silente suolo oscuro.

                               II

Impossibile a me pare il tuo morire
delitto di  natura matrigna
il morire del tuo genio.
Mai più nulla potrai
piantare narrare sognare.
Impossibile a me pare dirti addio
senza sapere
se la tua arte e il tuo nome rimarranno
cippi di luce
nell’infinito tempo divoratore.

                                III

Tu
solo
nei tuoi quadri                 
nei tuoi libri
nella mia mente
impotente
angoscia ricorrente.
Accetto la morte: la mia
quando verrà.
Non posso accettare
la tua.

PAROLE NEL VUOTO
Nelle notti di luna oscura
nelle notti di plenilunio
parlo con il mio morto amore
cenere in un vaso sepolto.
Parole a spirale nel vuoto oscuro.

CENERE
Amore mio
inerte morta cenere sepolta
mio tutto ridotto al nulla
solo punta di freccia improvvisa

lacerante nella mia mente accesa.





                          


Mistero al lago di Staz
L'Engadina nel giallo di Ettore Comi

Ettore Comi è un'artista polivalente: fotografo, regista e scrittore; ed è uomo cosmopolita che ha vissuto a Milano, Roma, Londra e ora per motivi familiari e affettivi è tornato nella sua terra natia, la Valmalenco e la Valtellina. In questo ultimo periodo si sta dedicando intensamente alla stesura di romanzi, di cui uno, Mistero al lago di Staz. L'ultima regina dell'Engadina è già stato pubblicato e oggi si trova nelle librerie in una nuova versione grafica. La Pro Grigioni Italiano della Valposchiavo, interessata da vicino ai luoghi del romanzo, ha sentito l'autore. 
Conosciamo il suo romanzo nella prima edizione. Oggi ha una veste grafica differente e una nuova casa editrice. Come mai questo cambiamento?
Un motivo semplicissimo. La totale inefficacia del precedente. Una scarsa qualità nella stampa e, soprattutto, nella distribuzione e produzione. Onesto, certamente ma non all'altezza per rappresentare un romanzo "meritevole" come Mistero al lago di Staz.  Il precedente l'avevo scelto perché lo pensavo più professionale ed efficace e, nonostante non avessi visto alcunché di loro produzione, mi sono fidato lo stesso. Inoltre non avevo molto tempo e ho dovuto decidermi per questo, come fatto e in buona fede.
Ci spieghi di cosa tratta questo libro?
È un romanzo che definirei un noir a tinta rosa. Non è un vero e proprio giallo che comporta un’indagine approfondita da parte della polizia o del commissario, e in cui il colpo di scena iniziale solitamente è un omicidio. Qui c’è invece la figura di un docente universitario di criminologia, Luigi Delle Valli, che proverà a sciogliere il mistero della sparizione di Rossana, una sua studentessa, che lo ha invitato in Engadina. All’inizio, non incontrandola, l’uomo pensa a uno scherzo, a un dispetto, a una propria illusione. Ma che significa tutto ciò? Si chiede, infatti, e non pago si “impunta” in maniera esagerata per sbrogliare questa situazione critica. Credo che sia una storia originale che non usa gli espedienti più banali del libro giallo.
Penso che Luigi Delle Valli sia un personaggio costruito molto bene a livello psicologico e ciò rende ancora più intrigante lo svolgimento della storia e lo scioglimento del mistero. Il lettore continua a chiedersi se è una persona lucida oppure se vive in uno stato di follia. Ci sveli fin da ora chi è Luigi?
Luigi è un uomo concreto, tutto d’un pezzo, fermo nelle proprie convinzioni. È un grande testardo che deve arrivare alla meta a costo di rischiare la propria pelle. È una persona coerente che non si arrende di fronte a nulla, però è anche un gran sognatore. Quando va in slitta in Val Roseg, attorniato dalla corona di cime rosa, si sente in un sogno come il Dottor Zivago, ma la realtà cruda talvolta lo risveglia, prende una bastonata sul collo e subito dopo si rialza più forte. A un certo punto del romanzo, preso dallo sconforto, vuole andarsene da quel mondo di “cupole sfavillanti” e tornare nella mediocrità della sua vita abituale, ma basta un’occhiata e osservare una finestra illuminata nella Villa del mistero, che improvvisamente ritorna la forza per proseguire la sua ricerca indagando con maggior determinazione nei fatti di cronaca, nelle tradizioni, fra i segreti e i pregiudizi delle famiglie locali e nell’arte di Segantini.
Come è nata l’idea di ambientare un romanzo in Engadina?
È un posto che ho sempre amato, ci venivo fin dall’infanzia con i miei genitori. Allora del paesaggio tutto mi sembrava ingigantito e meraviglioso: il treno mi sembrava un’astronave e la tratta del Bernina fino a Sankt Moritz sembrava un percorso infinito. Due anni fa a febbraio, in occasione del Centenario della Ferrovia Retica, io e mio padre abbiamo fatto la stessa gita, purtroppo senza la presenza di mia madre, morta da poco. Naturalmente dopo 40 anni la mia visione del mondo è cambiata completamente, ma mi resi conto che la bellezza di alcuni luoghi mi avevano accompagnato per tutta la vita. Proprio alla stazione di Tirano, alle 7.30 di mattina, in un ambiente straordinario da set cinematografico, ho pensato: “un giorno o l’altro devo scrivere qualcosa di bello su questo luogo”. Poi in quel viaggio ho scattato delle foto e mi sono divertito. Pochi giorni dopo ho rivisto le fotografie scattate e in particolar modo ho notato un corteo di carrozze trainate da cavalli…
Appunto, ha incentrato la storia attorno alla “Schlitteda”, tradizionale manifestazione engadinese di costume che si tiene ogni anno nel mese di gennaio!
Sì, infatti, pochi giorni dopo mi capita di leggere in un giornale – pensa che combinazione – la descrizione della “Schlitteda” che significa slittata. Ho letto avidamente l’articolo e mi è venuta in mente l’idea di prendere questo corteo come riferimento per un invito nei territori engadinesi. Un invito che si rivela un’esca per attirare e coinvolgere una persona con una scusa banale e allo stesso tempo questa esca è il perno attorno al quale ruota tutta la storia.
Molti sono i film e i romanzi che abbinano il mistero all’ambiente boschivo. Anche il suo romanzo fonde questi due aspetti. C’è effettivamente una relazione?
Sì, il chiaro e scuro, la luce e l’ombra del bosco danno il senso del mistero. Infatti ignoro molte volte la neve per concentrarmi sul bosco. Gli alberi escono prepotenti perché racchiudono in sé questa equivocità sensitiva: vedi e non vedi, ti nascondono, ti proteggono ma possono ostacolarti o farti male mentre corri. Nel mio romanzo, in effetti, ci sono inseguimenti e aggressioni nel bosco, quindi posso ben dire che è lo spazio ideale per tenere alta la tensione.
Quali sono brevemente le immagini più rappresentative del Mistero al lago di Staz?
Ho già accennato a “La schlitteda” e sicuramente molto importante è la figura del pittore Segantini. Ho visitato il museo di Sankt Moritz dedicato all’artista e lì mi sono appassionato alle sue pitture. Per la riuscita dell’enigma romanzesco ho preso spunto da un suo quadro inesistente, ossia inventato dalla mia fantasia. Mi rendo conto che ho utilizzato, magari con un po’ di presunzione, il nome di questo grande artista e spero che non mi mandi una maledizione dall’Aldilà, ma non ho fatto altro che rendergli onore. Poi rilevante è l’Ultima Regina d’Engadina, epiteto che doveva comparire come sottotitolo al romanzo, ma l’editore ha deciso di tralasciare. Ironicamente mi sono immaginato una regina di cuori in Engadina, una sorta di principessa che non è mai esistita a livello storico e legislativo, ma che la tradizione locale ha tramandato nei secoli come una bellissima figura nobile che merita di dominare su tutti e insegnare al popolo. Forte è anche l’immagine della ferrovia retica…
Esattamente, nel primo capitolo Lei descrive il paesaggio che percorre il trenino rosso del Bernina. Quali impressioni vuole suscitare nel lettore?
Nell’intero lavoro credo di esser riuscito a dare risonanza a certi aspetti paesaggistici. Il trenino rosso è un marchio di bellezza del paesaggio svizzero a differenza di molte ferrovie italiane e questo scarto l’ho voluto suggerire nella scena dello scambio dei treni alla stazione di Tirano. Inoltre mi interessava dare l’impressione d’elevazione usando la scrittura, come nel caso del passaggio al Viadotto di Brusio: «Improvvisamente vidi, davanti a me, la testa del treno che ci affiancava (…) Sembrava che il locomotore si fosse voltato verso di noi per avvolgerci in un impetuoso abbraccio (…) » e così guadagnare quota attraverso questo monumento a spirale. E poi volevo far risaltare l’aspetto vertiginoso del panorama mozzafiato, passando – metaforicamente parlando – dal girone dantesco all’esplosione di luce del paradiso, lassù dove finiscono i boschi. Luigi Delle Valli è talmente catturato e affascinato dalla bellezza del paesaggio che lungo il viaggio non pensa più a Rossana. Tutta la sua attenzione si focalizza sulla novità di questo splendore e ogni scorcio è uno spettacolo meraviglioso ai suoi occhi. Diciamo che questo percorso, che ho cercato di descrivere senza dilungarmi troppo, è la via che innalza il protagonista dalla stantia mediocrità urbana alla bellezza dell’Engadina e nel contempo all’azione di una vita vissuta al massimo.
Cosa Le piace della Svizzera, in particolare della realtà valposchiavina e engadinese?
Possiedo moltissimi ricordi di famiglia; infatti venivamo spesso a Poschiavo per prendere i gerani e ricordo che mio padre diceva a mia madre che durante l’anzianità gli sarebbe piaciuto essere accolto in Casa Anziani. Io ci verrei a vivere subito. Tante volte la bellezza si coglie da un giardino fiorito, da un bell’orto, dalla pulizia, si capisce dal rispetto verso il proprio territorio, verso la propria cultura e le proprie radici. In Valposchiavo, infatti, c’è tutto questo e si respira pace e armonia. Qui non c’è l’impressione della deflagrazione del territorio stesso come è successo in molte zone italiane, purtroppo devastate. In Valposchiavo la bellezza è esibita con discrezione. Di Sankt Moritz direi la stessa cosa ma portata a livelli superiori – anche se personalmente preferisco Pontresina – nel senso che è racchiusa in una bolla di straordinarietà come, per esempio, Venezia o Firenze, e tutto è talmente bello che, pur essendo esasperato, non cade nel cattivo gusto.
Lei è uno scrittore prolifico. Sappiamo che sta già lavorando a diversi romanzi. Ci può dare delle indicazioni sulla sua prossima opera che sarà pubblicata?
È una storia d'amore, di vendetta e di terrorismo ambientata in una Milano moderna. Un romanzo molto profondo e ricco di suspence. Una lotta di nervi tra il protagonista e se stesso, il suo credo e molti altri aspetti psicologici. Un eroe che prenderà il protagonista per mano e lo porterà ad essere felice, ma nello stesso tempo lo renderà un oggetto devastante, per poi pentirsi di ciò in un finale a sorpresa. Un astuto e caparbio commissario che, intuito il dramma, fa ogni cosa per evitarlo, ma il destino arriverà prima di lui. E una donna aggredita e ridotta in coma che sarà il motivo scatenante di odio e vendetta e un Dio che sorveglia tutti loro senza purtroppo farsi mancare una vittima designata. Un romanzo importante, lo definirei così. Un tema importante: la religione, purtroppo adoperata nei suoi effetti più radicali, fanatici ed estremistici. Ma anche e tanto la bontà dei personaggi che sanno dare tutto loro stessi per il proprio credo. Questo è il titolo: "Alba a Milano". Per la pubblicazione se ne sta occupando il mio agente Enzo D'Elia, un vero agente, conosciuto e definito uno dei migliori sulla piazza. Nelle sue mani, sono certo, Alba a Milano troverà la giusta collocazione sul mercato.

(Intervista a cura di Giovanni Ruatti)









RACCONTI  PENDOLARI   


 NERO MILANO

Si alzò, facendo scricchiolare di sollievo le molle dell’ottomana. Da quando sua moglie, la Cesarina, era morta, si era come un po’ ransignito, ma pesava sempre i suoi bei centodieci e passa chili. E dire che lei era uno scricciolo di donna. Ridendo diceva sempre che si sarebbe potuta sdraiare su una delle sue manone. Eppure, con quelle manone li, vederlo lavorare alla fresa o al tornio di precisione, eeh...
Cupo in volto pensò che l’aveva già fatto una volta. Anche se quasi settant’anni fa. Sessantotto, per la precisione. Aveva ucciso tre persone. Tre fazzoletti. Appena prima della fine della guerra. Che aveva appena tredici anni. Uno sgarzolino di si e no quaranta chili. Pesava più il fucile di lui. I compagni del gruppo erano indecisi. In fuga da un rastrellamento congiunto di tedeschi e repubblichini, erano finiti in un vallone e avevano sorpreso quelle tre camicie nere. Lasciarli andare non si poteva, avrebbero messo gli altri sulle loro tracce. Portarseli dietro meno che meno. Nessuno dei suoi sembrava propenso a farlo, così, a freddo. Si fece avanti serio e disse lo faccio io. Finora aveva fatto solo la staffetta, era dovuto restare su in montagna che gli avevano fatto la spiata. Sparare però era capace. E di morti, compresi tre suoi zii, ne aveva visti tanti, sparati appesi con il cartello banditi appeso sopra. O peggio, nei fossi, lasciati li come i topi. Così, con il cuore duro e la sguardo cattivo, un colpo per uno e ciao. Non si era mai pentito, anche se, tornando indietro non l’avrebbe più fatto. Forse quei tre non se lo sarebbero meritato. Come peraltro tanti di quelli uccisi da fasci e toderi per rappresaglia. Ma erano tempi così. Dopo la guerra non ne aveva più parlato con nessuno. Solo alla  Cesarina.
- Ho fucilato tre uomini. Se mi vuoi sposare devi saperlo - Da allora non aveva più fatto del male a nessuno.
Questi tre invece se lo meritavano. Proprio.
Aveva scoperto la faccenda un pomeriggio tardi, verso la sera, passando in bici - usava una bici da trasporto che prima era del prestinaio, data la sua mole - per le strade verso Vaiano. Facendo una sterrata aveva sentito delle voci forti e dei gemiti di donna. Si era inoltrato un venti metri in un macchione di sambuco. Di tra il fogliame si vedeva una baracca e, sullo spiazzo davanti, due sacramenti che malmenavano una ragazza. Altre tre ragazze stavano vicine vicine impaurite un po’ più in là. La prima tentazione era stata quella di buttarsi in mezzo e di prenderne uno per picchiare l’altro. Ma a ottantun anni, anche se di forza gliene sarebbe magari  bastata... Fortuna che era riuscito a trattenersi e a stare schiscio. Dalla baracca ne era uscito un terzo, trascinando per un braccio una biondina, che venne sbattuta a terra e si prese anche lei la sua ripassata. Anche se aveva la morte nel cuore i suoi occhi rimasero asciutti. Mai aveva pianto in vita sua. Neppure al funerale della Cesarina. Lui, che non aveva mai sopportato che si facesse del male alle donne, quelle li poi erano appena poco più che bambine, stette a guardare tutta la scena fino in fondo senza fare una piega. Solo gli occhi diventavano via via più foschi. Aveva tenuto d’occhio la casupola per una settimana, botte e stupri compresi. Se voleva, anche grosso e vecchione, riusciva ancora rendersi invisibile nel fogliame folto di fine estate. E poi si era deciso. Quelle tre bestie li non andava bene lasciarli al mondo. E oggi era il giorno. Tirò fuori dal cassetto il mattarello della Cesarina, inutilizzato da quando... Fece un sorriso storto, a pensare, ironia della sorte, che avrebbe usato l’arma femminile di tante barzellette. Chi femmina ferisce, di femmina perisce... più o meno. Almeno, speriamo. Se anche avesse avuto lui la peggio, beh, avrebbero dovuto ammazzarlo. E ne sarebbe venuto fuori comunque un bel casino per i tre bigoli. O almeno per quelli sopravvissuti. Segò a malincuore il mattarello di un terzo, per renderlo più maneggevole. Legno di faggio bello duro, stagionato dagli anni e liscio dall’uso. Ehh, Cesarina... Prese dall’armuar la tuta dell’officina, bella lavata e stirata dal giorno della pensione. Gli era diventata un pelo larga, ma sopra i vestiti  sarebbe andata a pennello. Anche un cappello a maglia scuro, per nascondere i capelli bianchi. Fece tutto su in un sacchetto dell’Upim, arma e indumenti.
A mezzanotte se ne stava seduto appoggiato alla baracca,  invisibile, vestito di scuro. Di solito riportavano le ragazze verso le due, le tre, ma si sa mai. Ogni tanto si stirava, facciamo scricchiolare le vecchie ossa. Spero solo non mi si incricchi la spalla proprio sul più bello, pensava. Quando da lontano sentì la macchina arrivare si mise in piedi nascosto all’angolo vicino alla porta. Li c’era un cespuglione che faceva un’ombra buia nel chiarore della notte di mezza luna. Aveva dovuto aspettare la sera giusta, con quel tanto di luce per vederci e quel poco per non essere visto.
Arrivarono in due, a rinchiudere le ragazze nella baracca. Il terzo di solito aspettava in auto, ascoltando musica di merda. Mentre uno sprangava la porta si portò silenzioso dietro di loro. Il colpo che stese il più vicino, girato di spalle, lo sentirono magari fino a Chiaravalle. Non si era ancora afflosciato per terra che fece partire il mattarello verso il secondo. Ma con l’età era diventato lento. Agile come un serpe quello si era spostato quel tanto per prendere il colpo sulla spalla invece che in testa. Probabilmente gli ruppe la clavicola. Per non farlo gridare lo afferrò per la gola con la sinistra e strinse, mentre quello ravanava nelle tasche, riuscendo a tirar fuori un serramanico. Ma non in tempo. Quando sentì che non si muoveva più lo lasciò andare giù. Tirò anche a lui una mattarellata, sul collo. Sentì le ossa rompersi. Poi aspettò. Il terzo, non vedendo i compari arrivare, prima fischiò, poi, magari pensando che stessero facendosi una sveltina di buona notte, pensò bene di partecipare. Lui lo aspettava al buio, al limite della radura.
Fatto.
Tirò un paio di respiri. Non sentiva niente. Ne soddisfazione ne rimorso. Solo male alla spalla. Si calcò il berretto fin sugli occhi, alzò il bavero della tuta fin sopra il naso. Divelse la porta facendo leva col mattarello. Dentro le ragazze, alla luce di una pila, guardavano spaventate quella grossa figura incombente. Facendo gesti, sperava, rassicuranti, fece capire di raccogliere le loro cose e andarsene. Mentre le accompagnava sulla strada asfaltata illuminò con la torcia i tre corpi distesi. Voleva fossero sicure che, almeno da quei tre, non avrebbero più subìto del male. Le vide avviarsi verso il Vigentino, alla luce fioca dei lampioni distanziati. Prima indecise poi sempre più svelte. Una volta sparite recuperò la bicicletta dal folto e si avviò anche lui, senza accendere la dinamo. Arrivato a casa mise la tuta da lavare.
Poi si sedette, facendo scricchiolare di fatica le molle dell’ottomana.
Giancarlo Bonizzoni

                                                                                                                                                               

UNA STREGA MILANESE[1]

Per aver fatto tre ad un filo nodi[2]
fu condannata al rogo la fantesca.
Il confessore traditore innesca
l’orrenda fine dai gentili modi. 

Si è ammalato il suo nuovo padrone[3],
ma certo è stata lei, la fattucchiera.
Un precedente aveva la megera,
l’antico amante[4] come testimone. 

Già subito confessa, convincenti
son per chiunque le tenaglie ardenti.
Non hanno scampo gli animi innocenti,
la chiesa vuole sangue… Complimenti! 

Pietosamente prima impiccata[5],
solo da morta salirà sul rogo.
Alla sete di sangue dare sfogo
una cultura deve, alienata. 

Chi meglio di una donna incarna il Male,
lei che la mela accettò dal serpente?
La bibbia fonte sacra che non mente,
facciamo un bel falò per carnevale.
Lorenza Franco
Milano, 3 novembre 2013

 

[1] Caterina de Medici, uccisa il 4 marzo 1617
[2] Consigliata da una maga per avvincere a sé l’amato. Ma poi andò a confessarsi…
[3] Il senatore Luigi Melzi d’Eril
[4] Il capitano Vacallo
[5] Trasportata al patibolo su un carro mentre il carnefice la torturava con tenaglie roventi.


Biblioteca Vigentina, foto di gruppo con scrittori, in occasione della presentazione del libro di Angelo Gaccione La signorina "volentieri", 28 ottobre 2013
                                                                                             Foto di Marla Lombardo






IL PANE E LE ROSE



POESIE

di Franco Toscani 
      

(a Gianni Zambianchi)

novello dioniso
traboccante
un satiro danzante
sei
amico caro
grande fortuna
serbare in sé
il dio della vita
dell’amore
la bella potenza
l’ebbrezza sana
la felicità ai mortali
accessibile
la feconda parola
dei creatori




tra il faggeto
e il crinale del monte
si staglia la luna
sussurra
all’inquieto cuore
parole di miele...
rischiara nella notte
la bianca sfera
sonnecchia il Ragola
un freddo silenzio
sovrasta...




il suono delle foglie

dove vuole
soffia
libero e forte
il signor vento
d’ogni umana cosa
dei sordi filosofi
incurante

Wallace Stevens
il suono
ascolta
delle foglie
del vento
il segreto 
carpisce
la musica
le alate parole
l’addio




il paesaggio
della valle
a lungo
osservo

il verde colma
il cuore appaga
ma sopravviene
il pianto

pace non danno
negletta bellezza
ciechi viandanti
aspri addii




la bianca farfalla

(a Franco Argenti)

nel lutto     
e nel sole
la bianca farfalla
il cuore conforta
la pena allevia
è il volo dell’amico
l’amico nell’aria
l’amore tenace
per il gioco del mondo



nelle notti
di luna piena
dell’alta valle
a sé stessi
accendono
i mortali
un lume
i cuori
alla speranza
inclinano

nel chiaroscuro
notturno
amabile pare
il mondo
nell’attesa
e nel ricordo
dimoriamo

tarda il sonno




esserci

lucciole
nelle notti
di monte Armano
grazia
e magia
di natura
tremiti del bosco
dal vivo mistero
e quand’appare
Aurora
dalle dita di rosa
gaio
avvia il giorno
un canto d’uccelli




giochi  

quando
la boccuccia
di geisha
inizia
la danza
con far di gattina
giochi
m’avviluppi
e mordicchi
il bischero
grato
al piacer
m’abbandono




notte quieta                          

(a Monique)

distese boschive
chiarisce la luna
nell’alta valle
alla finestra
della casa silvana
col cuore ricolmo
scrive l’amante
alla sua cara
mésso di baci
e abbracci
il monte
si staglia
nella notte serena
e la luna
muta presenza
contempla



mentre il gioco
medito
del mondo
e le parole
del cuore
sondo
con mille domande
sulla dolce follia
della vita mia
m’interrogo
sull’amore tenace
del pensiero
d'esistenza
passione



*Franco Toscani (1955), saggista e docente di Filosofia a Piacenza, fa parte del consiglio di redazione della rivista “Testimonianze” ed è redattore della rivista “Filosofia e Teologia”. Nel 2003 ha pubblicato, presso l’editrice Blu di Prussia di Piacenza, una plaquette di poesie, dal titolo La benedizione del semplice (“Prefazione” di C. Sini). Ha collaborato a riviste e a giornali come “aut aut”, “Alfabeta”, “Nuova Corrente”, “Studi Piacentini”, “Città in controluce”, ”dalla parte del torto”, “Testimonianze”, “Filosofia e Teologia”, “Dharma”, ”Odissea”, “Koiné”, “La Stella del Mattino”.  Ha pubblicato testi filosofici presso le case editrici Jaca Book, Odissea e Bompiani di Milano, Petite Plaisance di Pistoia, Cleup di Padova, CFR di Piateda (Sondrio). Fra le sue ultime pubblicazioni, il volume (co-autore S.Piazza) Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Cleup, Padova 2010; per le edizioni Odissea di Milano (2011), i saggi Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica e Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg ; il libretto ‘L’azzurro della scuola degli occhi’. Terra e cielo di Hölderlin e di Heidegger, CFR, Piateda (So), 2012.







Condivisioni e indifferenze

di Adam Vaccaro

Notazioni in avvio della II Maratona del 28 settembre 2013 allo Spazio ScopriCoop di Milano, manifestazione collegata con 100 Thousand Poets for Change.

Queste notazioni si ricollegano a quelle che feci in avvio della Maratona dello scorso anno, nello stesso intento di sottolineare qualche tratto del viaggio di sensi, di pensiero e di eros, che si svolge tra Poesia e Esistenza, “in direzione dell’esistenza”, come diceva Antonio Porta.
Tale tensione è, in altri termini, tensione alla totalità, lievito del bisogno di relazioni gioiose (Spinoza) tra parte e totalità della vita. Che non possono esserci senza comunicazione, col senso di condivisione e capacità di mettere in comune. Operazione intesa perciò della massima complessità (“non è un piroscafo di linea”, dice ancora Porta), che nulla ha a che fare con i “messaggi arresi al senso comune del comunicare piatto” (Niva Lorenzini) della prassi quotidiana. Che spesso genera più scie di travisamenti e miraggi che non quel senso cercato di comprensione profonda e presenza, dentro noi stessi e nel mondo. Parafrasando Platone (che nel Timeo definisce il tempo “immagine mobile dell’eternità”) è nella fortuna di tali momenti che sentiamo di vivere attimi di infinito, che ci cambiano e (r)esistono in quanto generati da relazioni amorose nel senso più alto e ampio, che coinvolgono parte affettiva e razionale e fanno sentire adiacenza e non distanza alienata tra i soggetti.
La tensione a esserci qui e ora è la scommessa più difficile nella realtà attuale, inondata com’è da un mare di messaggi apparentemente chiari ma falsi provenienti dal sistema dei poteri e da gran parte dei media. Il prodotto è una distruzione di senso (umano), che chiede con ciò all’Arte e alla Poesia reinvenzioni inattuali, che tendano a re-istituire il senso negato, nel paradosso di un progetto ignoto. Tale peraltro per qualunque ricerca – filosofica, politica, economica ecc. – che voglia esercitare azione critica verso i dettami ideologici dell’esistente, se è vero che “L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico” (Romano Luperini).
Questa serie di osservazioni (ricorrenti nei miei scritti critici) spingono a rilevare che non solo la classe dirigente nazionale (politica e no), spesso così distante e indegna, ma anche gran parte di coloro che operano nei vari ambiti della Cultura, non riescano a testimoniare una risposta adeguata alla crescente deriva decadente dell’Occidente in genere, e in particolare dell’Italia.
Rispetto a tale deriva cerchiamo scritture coinvolgenti, estranee sia a una autoreferenziale illeggibilità, sia all’illusione della semplicità (le due rive prevalenti delle scritture contemporanee). Per questo, da parte mia ho parlato di Terza riva, capace di coniugare complessità e transitività.
Beninteso, ciò non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), vedi le statue di cera di molti politici; e non vuol dire nemmeno riproporre le inutili dispute nominalistiche dei poeti su poesia pura o poesia tout-court (le forme poetiche sono sempre state tante, come del resto quelle della musica e di ogni arte) e poesia civile o impegnata. Ciò che sto dicendo credo indichi chiaramente altro. C’è un vuoto di “progettazione alternativa” (Francesco Leonetti) e in tale vuoto possono agire tutti i linguaggi, compresi quelli creativi, con la libertà e i caratteri che gli sono propri, purché i soggetti che li utilizzano incarnino profondamente quel bisogno. Il problema sta qui: chi incarna una necessità è liberamente incatenato ad essa e alla ricerca dei modi di darle forme e altra vita.
Ora, non c’è dubbio che tutti stiamo al mondo, ma c’è modo e modo. C’è chi è concentrato sul proprio ombelico e chi pensa di andare oltre la propria casa-identità, tendendo a inglobare in essa il Resto. Per chi fa arte, poesia, questo vuol dire fare dei propri segni materia di tale tensione che è di conoscenza, impossibile senza eros e amore, nemici di indifferenza e separatezze. Il che implica per me che, al di là del sogno utopico di (contribuire a) cambiare il mondo, è vitale per i propri segni il (bi)sogno di una polis che non smetta di volersi elevare all’umano.
È il senso delle tematiche poste da questa iniziativa internazionale, che abbiamo condiviso, partendo da un atteggiamento di umiltà quale quello dell’insegnamento socratico: io so di non sapere – opposto alle dominanti arroganze o hybris secolari contro la natura e altri esseri umani.
È un atteggiamento conscio delle difficoltà e della necessità dura di imparare da ciò che succede. Tutti i sogni e le resistenze del senso umano devono ripartire sempre di ciò che accade, che oggi vede una distruzione crescente degli equilibri auspicabili, nell’utilizzo delle risorse naturali, nei diritti dei più, e nella distribuzione ignobile della ricchezza, per cui il 10% della popolazione ne possiede il 70%, legittimato da un sistema socio-economico che si dice democratico.
È una realtà sociale che sta producendo violenze economiche contro aree, paesi e settori sociali, rispetto alle quali la sinistra storica è stata corresponsabile negli ultimi decenni della gestione di scelte coperte da una ideologia di libertà, che distrugge relazioni, discrimina, disgrega e aliena, territori e persone e, non da ultimo come già accennato, il senso umano del lavoro per un arricchimento non solo materiale di tutti.
Ora, la distruzione del senso umano passa dalla distruzione del senso di tante parole, in particolare di quelle che sono nodi fondanti le categorie mentali costituenti la nostra identità, come individuato da Kant e poi approfondito nel ‘900 dalla Metodologia Operativa e dalle scienze cognitive in genere. Nodi che sono al centro del poièin, della poesia nel senso più ampio, del fare di ogni azione creativa.
Vale forse la pena, in proposito e in chiusura di queste notazioni, ricordare alcune delle parole che nell’arco degli ultimi anni sono state completamente stravolte o dimenticate o perdute nei loro sensi originari, profondi e quotidiani.
Anche con qualche sorriso, ricordiamo che solo alcuni decenni fa parole come “cellulare” o “escort”, riguardavano, la prima, le camionette della polizia, la seconda, un modello di auto della Ford. Solo qualche decennio fa, sintagmi come “giustizia sociale” avevano un senso che oggi è pressoché cancellato.
Oggi campeggia la parola libertà, declinata dall’ideologia dominante del neoliberismo e rivendicata dai potenti di turno, come copertura e diritto di farsi gli affari propri. Così anche, a seguire, parole come verità, equità, responsabilità, stabilità, tutte declamate per renderci supini, immobili, quasi morti, mentre viene detto il contrario e chi non ha potere impari!
E potremmo proseguire con tante altre parole che scorrono spesso sulle bocche aperte negli schermi televisivi o scritte su giornali al servizio di questo o quello. Come ad esempio rivendicare innocenza, anche se condannati e per la legge si è delinquenti ma…fa niente! Non insistiamo, altrimenti è una persecuzione!
Pensiamo piuttosto alla coesione (nazionale), alla Costituzione! Pensiamo alla ripresa, perché vediamo la luce in fondo al tunnel! Crescita, ci vuole crescita, che richiede una grande intesa, per cui ci vuole un tavolo, dentro il Palazzo, circondato da un codazzo e perenne mucchio selvaggio di microfoni …
Ma occorre rispetto, e non facili ironie, per Saggi e paggi e Tv che dicono, non dicono, ci dica ci dica ma non mi dica?! Certo! Liberismo! Certo! Che altro? Non c’è altro pensiero, pardon, altra ideologia!






                                  Fabiano Braccini

Fabiano Braccini


VINEIDE

Canto del vino (rosso, sia ben chiaro,
ché il bianco a me poco s’addice!)
le grandi doti e il bene che può fare
a chi ne sa dosare la misura
senza varcare il limite di guardia
tra puro godimento e perdizione.

Con dedizione quasi maniacale,
affido al sole, all’aria al temporale
quei grappoli gonfi e pesi che pare
debbano scoppiare tanto son tesi
e resto nell’attesa fiduciosa
che scocchi l’ora della libagione.

Allora sarà festa in me e nel mondo
e danzeranno i chicchi l’euforia
di giungere alla culla dei bicchieri,
alle papille di chi assaggia e gusta,
con spirito devoto e immenso amore,
il sapore di-vino della poesia.



VINO e POESIA

Al mio Amico,
che con passione amatoriale
coltiva una vigna in Toscana
e produce tre qualità di ottimo vino,
ho proposto
il brindisi enologico/culturale seguente:

“I tuoi vini diversi
per i miei versi divini“





“IL VINO ALL’OPERA”
In occasione dell’incontro sul libro di Federico La Sala “Della terra il brillante colore” (Edizioni Nuove Scritture) tenutosi alla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano, la serata è proseguita con un simposio filosofico-poetico e gli autori ed i lettori presenti, sono stati invitati
a leggere testi poetici sul vino, racconti, raccontare aneddoti e così via. Il tutto mentre si beveva del buon vino e si conversava in gioiosa amicizia. Giorgio Aleardo Zentilomo, da appassionato e cultore dell’opera lirica, ha affrontato, in una efficace sintesi, la presenza dell’elemento vino all’interno di alcune delle più celebri Opere del repertorio musicale italiano. Ma ci ha deliziato anche con veri e propri accenni canorici, che il numeroso pubblico presente ha mostrato di apprezzare. Proponiamo ai lettori uno stralcio del suo intervento.
(A.G.)
                                                          
L’indicazione è scaturita durante la presentazione di un libro dove si faceva cenno alla presenza di tralci di vite in Valsesia fin dal settecento A.C. avendo ritrovato acini d’uva rinsecchiti in anfore dell’epoca.
Si è manifestato così l’interesse ad approfondire l’argomento “vino”, attingendo a quanto testimoniato in poesie e prose di vari autori e non solo opere dedicate alla cultura dell’enologia con trattati tecnici e didascalici per addetti ai lavori.
Per parte mia, grazie alla passione nei confronti del buon vino e della musica, è scaturito il significativo titolo per una serata “diversa” ad essi dedicata: “IL VINO ALL’OPERA”.
Dando fondo alle esperienze canore vissute, ho cercato di individuare in quali opere liriche viene citato il vino e in quale fraseggio musicale. Qui appresso segue un elenco, suggerendo se possibile, un accompagnamento di testimonianza sonora cantata con le motivazioni storiche della trama, come poi attuato dal sottoscritto per una più incisiva memorizzazione dell’uditorio. Si pensi, ad esempio, alla subdola iniziativa da parte di Jago di far ubriacare Cassio e così metterlo in cattiva luce agli occhi di Otello che di conseguenza lo defenestrerà dal ruolo di Capitano; oppure alla melliflua proposta da parte di Scarpia per riarmonizzarsi con Tosca o all’ingenuo entusiasmo di Nemorino per l’Elisir (semplice bottiglia di vino).

A parte FALSTAFF di Verdi che nell’opera impersona di per sé il ruolo di un cantiniere impenitente “beone”, in molte opere liriche si accenna al vino con convincenti motivazioni.
La prima per eccellenza e certo che tutti l’abbiate cantata almeno una volta, va citata:
TRAVIATA (Verdi) I atto Alfredo-Valerie-Coro “libiamo, libiamo ne’ lieti calici”
OTELLO (Verdi) I atto Jago a Cassio “ragazzi del vino: beva, beva”
ERNANI (Verdi) I atto Coro “beviam, beviam del vino beviam”
RIGOLETTO (Verdi) III atto Duca a Sparafucile “una stanza e del vino”
BOHEME (Puccini) I atto Rodolfo a Mimì “aspetti, un po’ di vino; poco, poco così”
TOSCA (Puccini) II atto Scarpia a Tosca “è vin di Spagna, un sorso per rincuorarvi”
ELISIR D’AMORE (Donizetti) I atto Nemorino a Dulcamara “bevanda amorosa della Regina Isotta”
BARBIERE  DI SIVIGLIA  (Rossini) II atto Figaro a Conte d’Almaviva “e dal vino casca già”
CAVALLERIA RUSTICANA (Mascagni)II atto Turiddu “viva il vino spumeggiante” (max elogio).
E per chiudere, ma qui siamo già più vicino ai nostri tempi:
MADAMA BATTERFLAY  (Puccini) II atto Pinkerton al Console “Whisky? Un altro bicchier”.

Giorgio Aleardo Zentilomo




 

 
Ostaggi della realtà nel teatro di Gaccione
di Alessandra Paganardi

Alessandra Paganardi
Che cos’hanno in comune un setting psicoanalitico, una feroce persecuzione antieretica, una crocifissione, una gara d’inganni e tradimenti, un attentato simulato, la scena di uno stupro, il racconto di un abbandono, monologhi di frustrazione o di follia? Hanno in comune la Realtà. Non nel senso di una descrizione, neppure se estrema. Nel senso della verità che vi si nasconde: delle molte verità barbare e meschine, da scriversi con lettera minuscola, ma anche della Verità che l’autore non smette di cercare con inquietudine e acutezza. Questa operazione è rabdomantica e necessita di uno strumento unico per ogni scrittore. In Angelo Gaccione è certamente uno strumento narrativo, ma in un senso tutto particolare. Provo a dirlo con un’immagine. Se la funzione narrativa fosse un coltello, lo strumento d’arte Gaccione sarebbe un punteruolo. Il suo mondo è la narrazione brevissima, lo squarcio di vita colto dietro una tenda, come nell’indimenticabile raccolta La striscia di cuoio. E, in modo del tutto naturale, la tenda si fa sipario, lo spazio della mente creatrice diventa tridimensionale e la narrazione subisce una sorta di trasformazione stereofonica: nasce così il dialogo teatrale, che in Gaccione è un vero e proprio effetto speciale del racconto.
Guiducci ha scritto, nella prefazione a La porta del sangue, a proposito del genocidio valdese, che la rappresentazione di Gaccione assurge a simbolo di tutti i genocidi effettuati dai Poteri. Questo giudizio è in qualche modo vero per tutte le rappresentazioni di questo libro, di cui ho tracciato un abbozzo di indice. La rappresentazione di Gaccione è simbolica non nel senso di una tipicità, di un’astrazione, ma proprio all’opposto: per eccesso di concretezza, per la passione di calarsi così profondamente nelle situazioni da mimetizzarsi in esse, scomparire come voce narrante e renderle universali. Lo sguardo dell’autore è così affilato da sconfinare a volte nel voyeurismo, come in certe atmosfere di Magritte, che queste scene spesso ricordano. E la sua capacità mimetica, già messa alla prova sul versante della sensibilità femminile in opere come Lettere ad Azzurra, raggiunge l’apice nel medesimo senso con il monologo Hermana.   
La mimesi, tuttavia, non si ferma a un soggetto singolo. Tocca la società e la storia. Gaccione è un polemista del nostro tempo, per quanto spuntato sia costretto ad essere quel suo punteruolo un po’ alla Karl Kraus, che ha fatto uscire dalla sua penna anche aforismi memorabili. Non può smettere di esserlo, perché ciò che suscita la sua indignazione è in primo luogo il Potere in tutte le sue declinazioni. Una volta che questa indignazione è suscitata, essa non può più spegnersi e la si ritrova nei luoghi più impensati, in apparenza inutili: è la protesta sotterranea di Exodus, che il mondo indifferente calpesta; è il grido della donna stuprata, che al processo-farsa è costretta a rivivere il trauma, con in più la beffa di essere giudicata colpevole di provocazione; è la voce collettiva della Porta del sangue, vero e proprio coro tragico oltre che doxa tòn pollòn e, naturalmente, voce dell’autore.
Gaccione con Russo, Azzola e Paganardi
Il teatro di Gaccione è figlio di Ionesco e Beckett, ma anche dei grandi maestri ellenici – Eschilo più che Sofocle, direi, perché la sensibilità nel Nostro non si esprime tanto come scavo psicologico, quanto come situazione tragica già performata. Non dice, mostra; come nel monologo di Hermana o nella follia di Brenda, generata dall’assolutizzazione dell’arte a scapito della vita. Ma alla fine, anche nei casi estremi, non è mai l’arte ad avere l’ultimo scacco: è la realtà in senso banale, quella scritta con la minuscola. Perché è proprio su questa realtà degradata che il Potere fa leva per corromperla ulteriormente, per mantenerla senza vita come i manichini di La finzione. L’arte, come distillatrice di Realtà, si salva e salva. Può tener testa al Potere, ridare vita agli automi. Perché, come si dice in chiusura ne La finzione, “la vita è qui”.



Angelo Gaccione, Ostaggi a teatro 1985-2007, Ferrari Editore 2013, Pagg. 208, € 15,00.
Per richieste: info@ferrarieditore.it, Tel. 0983-512347, Cell. 393-3329564

“Il massacro del popolo valdese nella Calabria cosentina del Cinquecento (La Porta del Sangue); la bieca violenza del ‘branco’ su una donna indifesa e l’altrettanto agghiacciante epilogo dell’evirazione e dell’esecuzione di uno degli stupratori di Temmy Werth (Stupro); l’enigmatica e dolorosa condizione esistenziale di Exodus (Dal fondo); l’abolizione della memoria per tenere a bada la sofferenza da parte dello scienziato, del matematico protagonista de La sedia vuota; il cinismo di Jenny, sigle metropolitana bella, colta e sicura di sé dell’omonimo testo; la malinconica disperazione di Hermana per un abbandono senza spiegazioni; il perfido esito di Ostaggi a teatro che ha incredibilmente anticipato un drammatico fatto di cronaca internazionale, e poi ancora Lo sbaglio, La seduta, L’uomo che ha perso la voce, fino allo scintillio spumeggiante e raffinatissimo di una commedia brillante come Tradimenti, con la sua fatale ammaliatrice, la contessa O’Brian… Sono solo alcuni spunti di un teatro esigente, ricchissimo, denso, pregnante, di uno dei più lucidi e interessanti drammaturghi contemporanei. Per la prima volta raccolto in un unico volume nella Collana Hybris dell’Editore Ferrari, il lettore può godere ora, la lettura integrale di tutto il teatro di Gaccione”.





Torre Velasca  Marina Previtali
Olio su tela 2013


















 


JENNIFER  FABRIS

Visioni infrante
grondano sofferenza.

Sanguinano i ricordi
imbrattati di dolore.

Perdona ancora una volta
la mia ostinazione.

Perdona gli errori,
sangue cremisi sgorga copioso e denso.

Cura il petto e l’anima straziate
con lacrime rosso sangue.

Esangue la pelle, svuotate le vene.

Resta inerme.

Resta fermo.

Non ti muovere.

Dormi,

un sonno senza sogni
aspettando il dissolversi della notte.

19/09/13








L’immagine di un giorno normale,
resta impressa nella mia mente come una fotografia.

Una mattina come tante,
la luce chiara del mattino
illuminata dal sole di gennaio.

L’affaccendarsi della quotidianità
resta nel mio pensiero come un tesoro prezioso.

La luce gialla, tenue,
scalda l’aria gelida delle giornate invernali,
resto sospesa nel malinconico eco di un sorriso.

Il lento scorrere dei giorni,
risuona tra i nebbiosi pomeriggi.

Giorni trasparenti come un velo
si perdono tra le ombre del tempo
ed attendo al di là del vetro.

Jennifer Fabris
19/09/13


                                        

 

 



Raffaella Bonetti









LIBRI

LA TERRA di RANIA, REGINA di GIORDANIA”

La Giordania, meglio il Regno hascemita  di Giordania, non ha né  petrolio né materie preziose:e credo che questo sia  anche la sua fortuna in quanto la pone al riparo dalla cupidigia delle Grandi  Potenze. Dipende il suo nome dal fiume Giordano, da noi conosciuto per il battesimo di Gesù.
L’autore  nota  come non sia  alcunché di contraddittorio: primo perché il fiume,cui  dà il nome,  fa parte  di un altro Stato ,secondo  perché la sua popolazione in schiacciante maggioranza proviene dalla Palestina e dall'Higiaz, terra d'origine della famiglia regnante.
Caratterizzano questo popolo la calda accoglienza verso il turista e al tempo stesso la riservatezza.  Del Giudice è particolarmente efficace nel sintetizzare le informazioni:“Culla di una sola civiltà, quella araba. Due religioni, l'islamica e la cristiana, due etnie: beduini e palestinesi; quattro minoranze: circassi, ceceni, armeni e curdi.”
La Giordania ospita nei suoi 90mila Km quadrati, compresa la fascia desertica, 6 milioni di abitanti  di cui la sola capitale Amman ha  un  numero di abitanti che si aggira intorno ai 3 milioni.
Interessante il contrasto tra le due dimensioni temporali, passato e futuro, che convivono nella città  colmandola  di fascino con la coesistenza nel centro storico di moderni quartieri accanto ai vecchi mentre è già in atto un nuovo centro di moderni grattacieli.
Una città pulita, non caotica grazie anche a una rete stradale scorrevole e funzionale che non ha nulla da invidiare alle grandi metropoli.  Per il turista distratto, solo il canto del muezzin lo riconduce alla realtà della cultura araba.
Il Paese è in continua evoluzione. Accanto ai mussulmani (in stragrande maggioranza) convivono in tranquillità anche i Cristiani. Riferendosi ai Palestinesi, Del Giudice evidenzia una curiosità.  La loro presenza incrementa la popolazione sino ad arrivare al80%.  Questo si spiega in quanto chi nasce in Giordania è considerato ipso-facto cittadino giordano anche se da genitori palestinesi. Al contrario chi è palestinese può cambiare cittadinanza ma resta comunque palestinese. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare pur essendo un paese mussulmano, in Giordania non esiste la sharia ovvero la giusta via, la legge coranica che vuole la donna sottomessa all'uomo. I diritti della donna sono considerati. Tant'è vero che nel biennio 2007-2009 con il Governo di Nader Dahali, importanti dicasteri come la Cultura, il Turismo nonché lo Sviluppo Sociale e Cooperazione Internazionale sono stati affidati a quattro donne.
In seguito il numero delle donne è salito a sette nel Parlamento. Come una ragnatela, l'elemento femminile si estende progressivamente ad occupare posti dirigenziali sia in aziende pubbliche che in quelle private. Di forma istituzionale monarchica,la Giordania ha in Abdallah II al Thani Hashem  figlio di Hussein e Rania,la sua coppia reale. Un re moderno,sportivo, di educazione e cultura  anglosassone e una bellissima  regina estroversa,ben acculturata che sa usare egregiamente gli strumenti dell’informatica. E ora qualche cenno di Rania, la Regina. Figura carismatica ammalia  anche oltre i confini del suo Paese.  Notevole l’abilità dell’autore nel tratteggiane il ritratto,  facendola  scendere dal piedistallo, senza per questo comprometterne  l’innata  regalità e il comportamento. La dipinge come l'amica della porta accanto che non dimentica nonostante i molteplici impegni l’ essere madre  di quattro figli che lei stessa amorevolmente segue. Non trascura i suoi hobby come  gli  sport acquatici, la musica e il cinema  condividendoli con il regio consorte.. Curiosamente  appassionata di basket e di scacchi, non le manca il vezzo femminile della golosità per la cioccolata fondente. Nata a Kuwait City il 31 agosto1970 da una famiglia borghese originaria della Palestina, Rania, ha compiuto gli studi universitari al Cairo laureandosi in gestione d'Impresa e Informatica presso una prestigiosa Università Statunitense. Trasferitasi ad Amman trova lavoro prima alla City Bank e poi presso  una multinazionale. Come una qualsiasi telenovela che si rispetti, tra la ragazza borghese e il principe Abdallah II il classico colpo di fulmine scocca tramite l'acquisto di un Computer. A questo punto è d'obbligo una divagazione. Anche un computer pur nella sua fredda tecnologia può rivelarsi romanticamente “galeotto”, al pari del libro di Paolo e Francesca di dantesca memoria. Rania e Abdallah si sposano il 10 giugno 1993, lei 23enne e Lui di anni 31. Trascorrono 6 anni negli Stati Uniti per il perfezionamento militare di Abdallah. Dall'intimità di coppia traspare una concezione moderna, democratica, al passo con i tempi. Come una qualsiasi famiglia borghese, prendono in affitto una casa e il principe non disdegna  di aiutare la giovane moglie nelle quotidiane necessità. Dopo la morte del re Hussein, Abdallah e Rania nel 9 giugno 1999 diventano ufficialmente Re e Regina di Giordania. Amata dal popolo per  la sua  umana   personalità  avvolgente, per nulla supponente, quando opera nel sociale la Regina fa breccia anche per il suo dinamismo. Presidente dell’ “Associazione  Giordana per i Diritti Umani” con un particolare riguardo alla situazione carceraria,come  rappresentante dell'U.N.I.C.E.F  ha compiuto qualcosa di incredibile: è riuscita a strappare al Presidente Barak Obama, la promessa di investire 2 miliardi di dollari nel “Fondo Internazionale per l'Istruzione” per realizzare l’ ambizioso progetto di dare entro il 2015 una valida istruzione a tutti i bambini del mondo.  Verrebbe così a crearsi a livello mondiale la prima generazione senza analfabeti.
Rifacendosi ai diritti delle donne, e alla  discriminazione nei loro confronti, Rania ha denunciato più volte i delitti d'onore definendoli “assassinii senza processo e contrari all'Islam”. Si è prodigata, anche coadiuvata dal Re Abdallah, per far varare una legge al fine di infliggere una condanna più severa agli autori di tali reati. Del Giudice sottolinea come “Rania essendo professionalmente una manager,una economista e una esperta informatica, sia la più adatta collaboratrice del Re nel processo di modernizzazione del paese”.
Nel giugno del 2006 la Regina ha lanciato il primo numero verde per denunciare gli abusi familiari. Caratteristiche della sua personalità emergono dalle sue stesse frasi: “ non voglio essere considerata per la mia immagine ,ma per quello che faccio.” e  “ogni donna può fare la differenza” Rivolgendosi a un migliaio di studentesse universitarie dice:” le pagine della vita appartengono a voi. Servite una storia che vi renda felici e orgogliose” e ancora “la flessibilità è l'arma  per combattere le frustrazioni e risollevarsi dai fallimenti”.
Sono  pillole  di saggezza che catturano la nostra stima. Per superare gli stereotipi riguardo allo “scontro di civiltà” che è dettato dalla paura delle varie culture e irresponsabilmente porta a una ideologia di odio,  Rania ha aperto nel 2008 una pagina web  su you tube.
Un'altra iniziativa originale è un progetto che risale al 2008: “Madrasati” cioè la “Miascuola” che coinvolge il pubblico e il privato perché,dice Rania, “l'educazione è una responsabilità nazionale e non può essere affidata a una sola entità”. Oltre  essere Presidente del Consiglio Nazionale per le Problematiche della Famiglia, la Regina ha creato e presiede la”Jordan River Foundation” cui fanno capo tutte le iniziative relative ai diritti alle donne, alla protezione dei minori, agli aiuti ai bisognosi.  Nonostante ami  viaggiare in diversi paesi , nutre particolare simpatia per l'Italia.
“Il mio sogno è di ritornare in Italia per contribuire a plasmare un futuro di pace” disse il 3 settembre 2005 a Milano ricevendo la cittadinanza onoraria. In quell'occasione ebbe anche dall'Università di Pavia la Laurea honoris causa in Scienze Politiche. E aggiunse parlando del suo Paese : “Nell'ultimo decennio abbiamo cercato di costruire una società civile rispettosa dei valori e amante della pace, sapendo che l'Italia era al nostro fianco. Anche onorando il passato, i nostri paesi sono aperti al futuro. Nel suo impegnarsi poi per la modernizzazione del regno,Rania si scaglia più volte contro la cosiddetta palla al piede:l’inquietante fenomeno del “delitto d'onore”. Del Giudice nel suo sondaggio- inchiesta ne elenca a iosa  questi episodi raccapriccianti nei quali la giustizia si mostra tollerante applicando  pene risibili giustificandole con il ripristino della onorabilità  familiare. Ma anche l'Italia purtroppo non è esente. Talmente vero che il delitto passionale  è stato privato delle sue attenuanti solo in tempi recenti. Ritorniamo alla Giordania. Mi si perdoni se preferisco fare un cenno al  pensiero perverso che anima questi reati pur senza descrivere  nei particolari l'efferatezza di questi crimini. Comunque ritengo opportuno non fare lo struzzo di fronte alla realtà rinviando il lettore ad una attenta lettura delle testimonianze  precise di Del  Giudice.
In Giordania pesano come macigni gli articoli 340 e 98 del Codice Penale, mantenuti caparbiamente inamovibili dal parlamento nonostante le pressioni a getto continuo della coppia reale. Per l'articolo 98 è il comportamento disonorevole della donna che dà, a chi uccide,diritto a una riduzione della pena. Per l'articolo 340, in caso di adulterio, l'uccisore beneficia dell'esonero dalla condanna. Se inizialmente si pretendeva la flagranza dei fatti, poi si è platealmente degenerato.
Basta semplicemente un sospetto, una disobbedienza come ad esempio uscire di casa  senza il permesso dei genitori per incorrere nella terribile punizione. Immediatamente l'assassino si consegna alla Polizia e usando come “passepartout” per la riduzione della pena, la frase :“Ho ammazzato perché ero furioso” spesso provocando ad arte un litigio con la vittima per evidenziare l’eccesso di furia. Crea sconcerto il fatto che il reo-confesso usufruisca di una pena che va da 2 mesi a 2 anni di carcere a fronte di 20 anni per furto e sino alla pena capitale per impiccagione in caso di omicidio premeditato. Una pseudo giustizia parallela, il cui giudizio è insindacabile, viene poi praticata  dal “Consiglio di famiglia”, il quale emette  sentenze  in nome della necessità  di purificare l’ onore della famiglia  attraverso il sangue della  “colpevole”. In molti casi viene rivelata dalla casistica, l'innocenza delle vittime. Aberrante è l'uso del filo del telefono o del cavo della televisione, per effettuare l’omicidio. E’ uno stridente contrasto tra la tecnologia che dovrebbe essere il frutto di scoperte di un' evoluzione dell'uomo sapiens e il degrado  infimo di un pensare indegno dell'essere umano. E' sorprendente come  Mimmo del Giudice, con un lavoro arduo e coraggioso, oserei dire pignolo, ma nel senso elogiativo del termine,  descriva quantitativamente questi  episodi a raffica, senza sosta, non dando  respiro al lettore scosso nell’intimo già dalle prime battute. Considerandosi “eroe”l’assassino con arroganza immediatamente si autodenuncia.  Non è raro che addirittura festeggi con amici  e con spari   distribuendo dolci, quasi fosse capodanno, l’accaduto. Solitamente la vittima è ignara di tutto e le è preclusa ogni  autodifesa. Ma quando la donna come un cane braccato intuisce “il pollice verso” del Consiglio di Famiglia,e lo fugge costituendosi, la protezione che riceve è l'alloggio (gentile eufemismo) in un braccio del carcere. Qui sperimenterà la morte civile nell’anonimato. Per associazione di idee, l'accostamento di manzoniana memoria è inevitabile. La donna è un ingombro nelle famiglie nobili. Meglio il Convento. Basti pensare alla storia della Monaca di Monza, crudele nella sottrazione di libertà. Se fa rabbrividire questo concetto ai giorni nostri tanto più intollerabile è il “diktat” della legge di matrice beduina, essendo un autentico assassinio premeditato. Una spada di Damocle penderà per tutta la vita sul capo di queste donne sventurate in quanto i parenti non si rassegnano e sono  in  spasmodica attesa di una  loro eventuale uscita dal carcere per procedere all’  efferato progetto di morte. A parte lo spessore del contenuto,in questo libro lo stile di Mimmo Del Giudice è brillante, scorrevole e come i best-seller di tutto rispetto invoglia a leggerlo tutto di un fiato.
Raffaella Bonetti

                                        

                                      



RACCONTI ANORMALI
Due racconti inediti di Rinaldo Caddeo

**

O.K.

   Eravamo in macchina io, mio figlio Davide di sei anni e mia madre: dovevo portarla in ospedale ma ogni scusa era buona per fare delle soste e fermarsi a fare qualcosaltro. Fare la spesa. Andare in posta e al bar. Ecco, quella sosta, la sosta al bar, non finiva mai. Mia madre attacca bottone con tutti, spiegava la sua malattia, raccontava che doveva andare in ospedale e che, forse, l’avrebbero ricoverata. E tutti: «ma no, che cosa dice, vedrà che torna a casa, non c’è di cui preoccuparsi e anche se la ricoverano, vedrà che non è nulla, che è solo per fare degli accertamenti e poi, dopo una settimana ritorna a casa. La prenda come una vacanza. E poi… e poi… e poi…»
   Mia madre dava importanza a quelle parole. Si rivolgeva a me: «spiégalo tu. Spiégalo che non è una cosa da poco, che io non mi sento più bene, che sono allergica a quasi tutti i medicinali che mi danno, che io non posso… non posso»
   «Mamma sbrìgati, dobbiamo andare, siamo in ritardo, l’orario di visita sta per scadere!» rispondevo. Ma lei parlava, parlava, s’intratteneva con gli sconosciuti che le davano retta perché offriva loro brioches e cappuccino. Davide l’assecondava, spiegando anche lui a chi gli capitava a tiro che cosa dovevamo fare: «la nonna deve andare in ospedale, mia nonna fa la visita».
   A un certo punto s’era perso. «Dov’è Davide? Davide Davide!». Non lo trovavo. Ero disperato. Mi ero messo le mani nei capelli: la macchina era in mezzo al bar e gli avventori c’entravano e uscivano.
   Una donna-botte s’era piazzata al posto di guida e non se ne voleva levare. La pregavo: «ci aspettano all’ospedale. Abbiamo un appuntamento e siamo in ritardo. Mia madre è malata, è molto malata. Non sembra ma è molto più malata di quello che sembra. Deve essere visitata. La prego è urgente. È malata… è malata molto».
   Ma la donna-botte non ne voleva sapere. Non mi ascoltava. Si era attaccata al volante e lo girava, lo girava, a destra e a mancina, gridando: «che bello, ma che bello. Io non ho mai avuto una macchina. Io non ho mai guidato. Me lo insegna lei come si fa? Che bella macchina, ma che bello guidare, come si accende il motore? Come si accendono le luci? Come si suona il clacson?»
   Altri tizi e tizie entravano nella macchina, si portava via dei pezzi, tutto quello che gli capitava a tiro: penne, cuscini, specchietti, dischi, dischi-orario. Era un saccheggio.
   Intanto mia madre, in mezzo al bar, spiegava, rispondeva, interrogava. Davide era riapparso e scomparso di nuovo, giocando con una bambina. E mia madre parlava, parlava. Ma perché, perché non vuole farsi visitare, mi chiedevo.
   La donna-botte gridava sempre più forte, tirava dei fili, staccava dei pezzi, troncava delle leve.
   Basta!
   Avevo aperto la portiera della macchina e cercavo di tirare giù la donna-botte, ma le dita delle mie mani scivolavano nelle ascelle piene di resina della donna-botte. La donna-botte aveva delle braccia sottili come grissini ma il corpo era massiccio e rotondo. Una rotondità uniforme, come quella di una botte, appunto. Tiravo, tiravo, ma non la smuovevo di un millimetro. Era rigida e pesante. Un corpo rotondo, levigato, senza appigli.

   S’era messa a urlare, a urlare sempre più forte: «mi lasci, mi fa il solletico! Ah ah ah». A un certo punto s’era messa anche a ridere con un singhiozzo sfrenato con cui saltellava e urlava: «AHH! AAHHHH! AAAH!»
   Cercavo di sfruttare qualcuno di quei saltelli che la distaccavano per qualche centesimo di secondo dal sedile per infilare una mano sotto il culo e per spingerla fuori, ma io avevo le mani piene di resina appiccicaticcia e le mie dita slittavano come se dovessi maneggiare del ghiaccio.

   Qualcosa di molto robusto mi era saltato alle spalle infine. Mi tirava il collo e mi sussurrava in un orecchio: «lascia stare babbuino. Lascia stare dov’è. Non è cosa. Non è cosa. Non è cosa»
   Mi sentivo svenire ma potevo ancora dire, con l’ultimo respiro che mi era rimasto in gola: «o.k.»




LA FOLLA

   Avevano messo la fermata del bus davanti alla mia camera da letto. Tra la camera da letto e la strada, c’era un terrazzino, elevato di un metro e mezzo sopra il marciapiede. L’altezza di un ammezzato.
   Le attese dell’autobus erano lunghe e alcuni avevano preso l’abitudine di appoggiarsi al mio terrazzino con un gomito o con la schiena e poi, con il passare dei giorni e delle settimane, sempre più spesso, i più agili, si tiravano su e si sedevano sul margine di 25 cm tra la ringhiera e l’orlo dell’ultima fila di piastrelle che sporgeva dal terrazzo, causandone la graduale rovina.
   Stavano lì per qualche minuto o per delle mezzore. Stavano zitti o chiacchieravano o cantavano. Qualche volta c’era uno che fischiava o bestemmiava.
   Ma io non intendevo dare importanza al fenomeno. Era un periodo che problemi più gravi e urgenti molestavano assai di più la mia esistenza: il negozio, il mio negozio, era fallito. Mio figlio aveva perso il lavoro e non riusciva a trovarne un altro. Mia moglie mi aveva lasciato per un altro. Non erano cose da poco, cose di poco conto, quelle che rendevano difficile la mia vita, il mio sonno.
   Una notte, però, mi svegliai per gli schiamazzi. Mi alzai e vidi che un gruppo di fantasmi aveva scavalcato la ringhiera, non alta, del terrazzo e si era stravaccato sulle piastrelle lucide del mio terrazzo, chi bevendo, chi mangiando, chi facendo tutte e due le cose, chi completamente sdraiato, chi in ginocchio o seduto con la schiena pericolosamente appoggiata al vetro della finestra.
   Ero uscito in pigiama dalla camera e avevo gentilmente pregato quella folla che occupava il mio terrazzo di andarsene ma nessuno si allontanava.
   Anzi qualcuno aveva assunto un’aria aggressiva e aveva dichiarato: «che non gliene fregava un cazzo della proprietà privata, che lui stava aspettando l’autobus da un sacco di tempo senza dare fastidio a nessuno e che quando l’autobus arrivava, lui se ne andava con l’autobus senza rompere il cazzo a nessuno». Molti dei presenti fecero cenni di assenso, altri dei fischi, dei risolini, guardandomi le dita delle mani che si stringevano a pugno e si allargavano di nuovo.
   Rimasi ammutolito.
  «Piuttosto, signor proprietà privata, perché non rifornisci il tuo terrazzo di merda con una macchinetta del caffè?» aggiunse un altro tizio, buttando per terra la cicca di una sigaretta ancora accesa e scagliando una bottiglia di vino che andò in frantumi.
   «Chi siete? Che cosa volete?»
   «E un cesso, anche un cesso ci vorrebbe» fece un altro, pisciando sul muro. L’orina si spandeva intorno, adagiandosi a grumi giallastri e collosi.
   Tutti ridevano. Qualcuno mi spingeva. Le dita delle sue mani erano inconsistenti, ma gli anelli affilati e le borchie puntute, di cui erano coperte, facevano male e mi avevano tagliato, facendomi sanguinare in diversi punti del mio corpo di carne, rivestito di pelle. Pelle soggetta a lacerazione.
   Guardavo scendere i liquidi del mio sangue e delle loro pisciate, mescolarsi sulle piastrelle del terrazzo, formare una minestra verdastra, striata di vene rosse.
   Avrei dovuto disinfettarmi subito se volevo evitare qualche grave infezione. Invece le ferite si allargavano. C’erano brecce in fondo a cui vedevo il bianco dell’osso. Non lo sapevi? Che cosa speravi?
   C’era anche una bestiaccia tra loro che ringhiava. Più che cane sembrava una iena. Non aveva dei contorni, era come una nuvola fluttuante di pelo ispido. Però, facendo attenzione, vidi delle zanne e quelle erano zanne vere, gialle, infilate in gengive rosse, macchiate di bava candida, spumosa e gocciolante. 
   E vedevo il naso nero e vibrante, enorme. La forma dello scheletro sotto la pelliccia maculata, le costole, la spina dorsale, il bacino basso e nervoso, tipico della iena, le cosce grosse e scattanti. Quelle non fluttuavano, sembravano di muscolo quelle.
   «Ma è già un cesso, non vedi? Il mio cane ci sta cagando».
   «Ma quello non è un cane, è una iena, è un animale selvatico, non si può portare un animale così senza guinzaglio e… senza museruola». Chissà perché dissi una cosa, una cosa così stupida, in quella situazione, mentre la iena stava cagando, sul mio terrazzino, uno stronzo marron: lo guardavo uscire lentamente dal buco del culo della iena e arrotolarsi, mentre la iena mugolava, con larghe spire, sulle piastrelle come una gigantesca ciambella puzzolente di fiera.
   Che cosa ti aspettavi da quella vita? Qualunque cosa, purché finisse.
   Tutti si sganasciavano dal ridere, chi sputando, chi rovesciando la propria lattina di birra, chi pulendo le mani unte di patatine fritte sul vetro della mia finestra, chi sfasciando la maniglia e lo zoccolino a pugni e calci. Chi rotolandosi e dando manate che schizzavano birra e piscio secco come calcina umida dappertutto.
  «Qualcosa in contrario? Non ti piace la mia belva?»                         
   «No no, anzi…»
   «Testa di mongho, non ti piace come tratto la tua proprietà privata?» e dando calci con gli anfibi stava sbriciolando i battenti e spaccando il vetro. La belva si stava intrufolando in camera. Altri la seguivano. Altri mi avevano circondato.
   Mi resi conto che non c’era più niente da fare. Scappare, forse dovevo scappare. Ero circondato dalla folla. L’unica era scappare, tagliare la corda al più presto. Già ma come? Forse non c’era nemmeno più tempo per scappare. Mi sentivo prendere per la collottola. E poi… come avrei fatto a ritornare e che cosa avrei ritrovato?
   Ero circondato e loro non sembravano molto intenzionati a lasciarmi passare attraverso… mi sentivo stringere alla gola… accesi la luce: mi ero svegliato da un sogno, era solo un sogno, un brutto sogno, ma davanti alla finestra, sul terrazzino, c’erano delle ombre…
   Sento una voce: «per adesso basta. Ritorneremo in forze, la notte dei meteoriti.





LA TERRA E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
di Michele Zarrella *

Federico La Sala,  DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00

Un libro di eccezionale rarità che tenta a grandi linee, di mettere in evidenza una inedita prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: un’ontologia non più zoppa e segnata dalla cieca cupidigia del sapere-potere, ma chiasmatica e illuminata dal sapere-amore.
Il luogo di inizio del ’viaggio’ è dalla chiesetta di S. Maria del Carmine (monastero carmelitano dal 1561 al 1652) di Contursi Terme (SA), e dall’antica Elea (Velia, Ascea), ma subito ci si trasferisce a Firenze, a Rimini, a Siena, a Roma, e, infine, fuori dal pianeta Terra, da dove, finalmente, è possibile vedere "il brillante colore"! Il pianeta in cui viviamo non è una caverna e, con lo sbarco sulla Luna, ora tutti lo sappiamo - anche fisicamente! Siamo tutti nella stessa barca e che siamo tutti fratelli, ... è ora di cambiare strada, di riorganizzare e riformulare tutto il nostro sapere - a partire da questa nostra nuova consapevolezza acquisita”: il pianeta è un granello nell’Universo ed è necessario un cambiamento radicale di prospettiva altrimenti non riusciremo mai a capire chi siamo.
La società moderna non può più accontentarsi di una filosofia e di una scienza ancora legate alla catena della dea Giustizia-Necessità di Parmenide e ancor più non deve contare sul sapere che il Platone o il politico di turno porta a noi prigionieri nella «caverna». Abbiamo preso coscienza di dove siamo nell’Universo e non possiamo più far finta di nulla. Sarà compito nostro mostrare come è la nostra casa: non era e non è né una caverna, né un’arena per gladiatori.
Sulla base di questa coscienza l’autore ci spinge a lavorare a una nuova cultura e a una nuova scienza che siano all’altezza del nostro orizzonte. “Non è più concepibile né possibile (il rischio è altissimo - la fine della nostra avventura, quella dell’intero genere umano) seguire le tracce di Parmenide, né di Platone.”
Il nostro orizzonte si è elevato e non è più possibile pensare che: «Per lo scienziato esiste solo l’essere, non il desiderio, il valore, il bene, il male, l’aspirazione» (Einstein, 1950). La posizione einsteiniana è parziale, unilaterale, e soprattutto pericolosa, perché ci fa vedere e agire - rispetto a noi stessi e rispetto agli altri e rispetto alla natura che ci circonda e sostiene - ancora con gli occhi e la mente di chi vede il pianeta Terra ridotto a un campo di guerra ove i mortali che nulla sanno giocano le loro battaglie. La Terra è di un colore brillante: è azzurra. «La Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile», esclamò Jurij Alekseevič Gagarin quando, il 12 aprile 1961, la vide, primo fra tutti gli uomini, dallo spazio.
Se vogliamo migliorare non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete, il quale sapeva che l’azzurro circondava la Terra. E Federico La Sala, al pari di Gagarin, ci invita ad uscire fuori a guardare dalla reale prospettiva la questione della nascita nostra, del nostro pianeta, del nostro sistema solare e del nostro Universo. La Sala si pone, al pari di Talete, la domanda delle domande: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi così nasce la filosofia, così nasce il suo bellissimo libro DELLA TERRA IL BRILANTE COLORE.
Come Talete, La Sala riporta a galla dalle profondità oceaniche dell’essere i due problemi fondamentali del sapere (tutte le cose e il principio) e soprattutto sollecita a pensarli insieme. Spesso l’uomo moderno dimentica il secondo: il principio. L’autore, sulla base delle nuove conoscenze acquisite, invita a partire, anzi, a nascere nuova-mente - da capo, guardando al nostro ombelico e a ri-pensare l’Uno a partire dal Due. Noi (ognuno e ognuna) siamo uno ma siamo nati da due: nati da un uomo e una donna, e di entrambi siamo portatori non tanto e non solo dei loro geni, quanto e soprattutto lo spirito delle loro Unità.
E allora, conclude l’autore, il problema dei problemi non è più né quello metafisico («che cosa posso sapere?») né quello morale («che cosa devo fare?») né quello religioso («che cosa posso sperare?»), ma quello antropologico («che cos’è l’uomo?»).
Il problema dei problemi è rispondere alla domanda «chi siamo noi in realtà?» (Nietzsche). A questa domanda l’autore risponde in termini di speranza e di salvezza e ci invita a guardare al nostro ombelico, a qual è la nostra origine? Riconosciamoci, come siamo, figli di un uomo e una donna, di una maternità e di una paternità alla pari e che la Terra sia il luogo del nostro fiorire e non il luogo delle nostre dualistiche contrapposizioni e scissioni.
A tale permeante domanda non può rispondere solo un genere che domina sull’altro, ma insieme con le Due metà del genere umano. Solo così, con la parità, autonomia e dignità fra uomo e donna, potremo dar vita a una nuova antropologia (e, con essa, a una nuova scienza e, ovviamente, a una nuova politica) - oltre l’edipo e oltre il capitalismo - finalmente degna del nostro pianeta dal brillante colore.
Buona lettura.
Michele Zarrella
Gesualdo, 30-09-2013
* Il dialogo, Lunedì 30 Settembre, 2013




LE CITTÀ DEL SILENZIO E IL FLORILEGIO 
Di Gianni Bernardini

Marina di Grosseto. L’evento che ha motivato il libro oggetto di questa presentazione, è uno di quelli che non vorremmo accadessero mai: la perdita imprevista di una persona ancora giovane; un’amica la cui presenza poliedrica colmava vari spazi di iniziative felici.
Avremmo voluto Luciana tra noi, non un libro. Avremmo voluto Luciana e il libro: non un libro “in memoria”, ma un libro “in onore”.
Credo infatti che vadano onorati i vivi, non i morti. Con i “grandi” accade anche questo - p. es., tipicamente, in università -. Invece, tra la “gente”, è diffusa la strana attitudine a onorare i morti, piuttosto che i vivi: anche solo andando a trovarli al cimitero; come se ce ne fosse bisogno, per ricordarli, e non... (clicca qui per continuare a leggere)



LIBER

I LIBRI DI ADAMO CALABRESE
Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore di libri.
Autoritratto

  • Ha pubblicato il romanzo “Il libro del Re” (Einaudi), i racconti “L’anniversario della neve” e “La cenere dei fulmini” (Albatros editore), i racconti “Paese remoto” (Joker editore).
  • Ha illustrato “Il profeta” di Gibran (Joker editore), le poesie di Romano Pascutto e i Proverbi milanesi (Graphot editore).
  • I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e, dalla Bibbia, il Salmo 136.
  • La sua elaborazione teatrale di Iacopone da Todi è stata trasmessa nel 2012 dal Terzo Programma della RAI.
  • Nello stesso anno è stato finalista del premio internazionale di disegno satirico “Novello”.

Adamo Calabrese scrive e disegna per il quotidiano “Il Cittadino” di Lodi, per le riviste “Vorrei” di Monza e “Odissea” di Milano.




AL MOTEL DELL’AEROPORTO

Illustrazione di Adamo Calabrese
Il professor Liebig si rigira nel letto. E’ notte fonda e si tormenta da quando si è coricato, gli pare che un chiodo lo punga sotto la spalla. Dove è alloggiato, nel motel dell’aeroporto, non riesce a dormire. Non è il solo ad essere sveglio. Voci gli giungono da altre stanze. Singhiozzi di donne, comandi di uomini. Le voci parlano idiomi a lui ignoti. Qualcuno grida nel sogno, o sono gatti che miagolano? Il professore si leva a sedere sul letto, avvolto nella camicia da notte che ha trovato nell’armadio. Chissà chi altri ha dormito in quella camicia? No, non è un solo gatto che miagola, ma diverse bestie si azzuffano sui tetti. Davanti al professore, appeso alla parete, c’è uno specchio. L’uomo si guarda, ma invece della sua figura gli appare l’amico di suo padre, l’anarchico scomparso ad Auschwitz. Bruscamente il professore si distoglie dallo specchio. Bisbigli e soffi di gatti si rinnovano nel buio del motel. Il professore si corica di nuovo e si tira le coperte sopra la testa: vorrebbe sprofondare nel sonno: Inutile. Da qualche parte hanno acceso la radio: lo speaker annuncia tempeste sull’Atlantico. Il professore si strappa dalle coltri e scende dal letto. Posa i piedi nudi sul pavimento gelato. Rabbrividisce. Dallo specchio continua a fissarlo l’ amico di suo padre. L’uomo si ritrae, va alla finestra e cautamente la schiude. Le luci dell’aeroporto baluginano in un remoto lucore, là dove apparirà il sole. IL professore apre del tutto la finestra e si sporge verso l’albeggiare. Anna è laggiù, Anna ha acceso il gas e vi posa sopra la caffettiera. Fra poco il caffè borbotterà colmando l’aria del suo aroma di luoghi africani: nel deserto del Sahra il vento porta odore di mare, dalla città di Marrakech salgono nuvole di incenso, la regina di Saba si bagna nell’acqua di aloe. Il professor Liebig leva la mano e saluta il giorno che nasce. Il serpente, che ha messo in scena il teatro della notte, silenziosamente sparisce sotto l’armadio dove resterà in letargo per tutta l’eternità.

Adamo Calabrese




FRANCO MANZONI CONVERSA CON IL MAESTRO
ALDO BERNARDI

di Franco Manzoni

Milano. Un uomo vulcanico, estremamente creativo, idealista ma concreto. Raffinato direttore d’orchestra, apprezzato violoncellista, musicoterapeuta e insegnante al Liceo musicale Carlo Tenca di Milano, Aldo Bernardi, 46enne milanese doc, ha ideato il Comitato Nazionale per la riproposizione dell’educazione musicale di base in ogni ordine e grado di scuola (r). L’idea è nata all’interno della prestigiosa sede dell’AMI (Associazione Mozart Italia) di Milano, che Bernardi presiede, filiazione del Mozarteum di Salisburgo. Negli ambienti culturali, musicali e politici italiani si sta parlando molto in questi giorni del progetto di Aldo Bernardi.
Aldo Bernardi
· Maestro, quali i progetti dell’AMI per la prossima Stagione?
“ Nostro compito primario è portare la musica di Mozart a tutti. A settembre, presso la casa di riposo Verdi, proporremo il Quartetto in la maggiore KV298 (per flauto violino , viola e violoncello), mentre nella basilica di San marco, il 5 dicembre, giorno anniversario della morte del divino salisburghese, l’Orchestra dell’AMI-Milano eseguirà il Requiem in re minore KV 626 per quattro solisti, coro, orchestra e organo nella forma tradizionale completata da Franz Xavier Suessmayr. Altri nove concerti sono in locandina per il 2014, ma il mio sogno è di portare in aprile all’Arena civica, dirigendole, dieci tra le migliori giovani orchestre italiane in una maratona-omaggio a Mozart.”
· E il comitato per l’educazione musicale nelle scuole?
“Lo sto formando, con le personalità più sensibili al problema. Più di 500 intellettuali ed artisti a Milano hanno aderito, quasi tremila in Italia. Lo scopo? Arrivare a costruire una coscienza civica nazionale che riesca a far approvare in Parlamento una legge, norme certe che introducano l’educazione musicale di base nella scuola di ogni ordine e grado.”
· Ma con l’attuale crisi economica, del lavoro e della politica, caro maestro, quale bisogno ed urgenza c’erano di dar vita a questo Comitato?
“Comincerò a risponderle citando il secondo comma dell’Articolo 4 della Costituzione italiana che dice: ”Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una  attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ecco, proprio il progresso spirituale della società trovo sia quasi totalmente dimenticato dai nostri, politici, dai nostri governanti e spesso anche da tanti, troppi intellettuali e artisti, assai preoccupati del loro narcisistico e egoistico progresso di carriera e del personale conto in banca, più che dell’evoluzione spirituale del mondo in cui vivono e operano! Il progresso di un Paese si rileva non solo dalla misurazione dell’avanzamento del benessere materiale delle persone, ma anche da quello spirituale! Sono fortemente convinto che le due cose siano inscindibilmente unite e, quindi, che non possa esistere nessun vero e duraturo progresso materiale senza quello spirituale e viceversa. A questo punto bisogna intendersi su cosa sia il progresso spirituale e soprattutto su come lo si costruisca. Vedo il progresso spirituale non come un’astratta entità, simile ad esempio allo Spirito Santo nella teologia cristiana, certo indispensabile al Padre e al Figlio per portare la Fede e il Bene all’umanità, ma assai poco definibile, tangibile e misurabile, bensì come un ingrediente concreto al pari della farina per fare il pane attraverso cui costruire la Strada maestra verso la felicità degli individui. Come si costruisce prima e nutre poi lo Spirito? Semplice. Prima di tutto attraverso la Conoscenza e quindi l’Istruzione che nella modernità significa attraverso la Scuola. Nel nostro strano Paese, culla del sapere occidentale (basti pensare ad Eraclito, Pitagora, Socrate, Platone e Aristotele, ma anche ad Omero, Saffo, Virgilio, Catullo fino al sommo Dante senza dimenticarsi di Galileo, Volta, Giotto e Monteverdi… ), è sempre esistito un errato ma persistente dualismo tra Cultura scientifica e Cultura umanistica. Divisione assai errata ma all’origine di una forma mentis, di una mentalità comune responsabile di tante scelte fatte dai politici del passato e del presente, anche quando operate in buona fede. Quando poi entra in gioco la cenerentola delle Arti, cioè la Musica, il dualismo diventa addirittura triadico trasformandosi così in un “trialismo insanabile”, sempre riferendomi all’anormale e paradigmatica realtà del nostro bel Paese. E sì, perché la Musica prima e l’Educazione musicale a seguire, prescindendo dal genere - sia chiaro che hanno pari valore e dignità artistica democraticamente tutti i generi musicali, dal pop al jazz, al rock, dalla canzone d’autore all’opera lirica, dalla musica popolare ed etnica a quella classica e d’avanguardia, purché costruita con onestà, sapienza e genuina ispirazione -, è sempre stata considerata una realtà a sé stante, quasi fosse un’entità autonoma, che può servire a produrre spettacolo ed intrattenimento e non come dovrebbe essere a pieno diritto una tra le diverse branche del sapere e della cultura. Ma non dimentichiamoci che il più grande umanista di tutti i tempi è stato proprio Leonardo da Vinci, che definirei la summa teologica incarnata tra i saperi, uno dei più grandi geni dell'umanità, si occupò di architettura e scultura, fu disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, musicista e, in generale, progettista e inventore. Infatti all’epoca non c’erano affatto distinzioni tra i saperi, non esistevano una cultura scientifica ed una letteraria divise e quasi in antitesi tra loro come oggi. Sicuramente organizzeremo tramite il Comitato e l’Associazione Mozart Italia di Milano un Convegno di Studi ad hoc che faccia luce sul problema. Per l’utilità di questa intervista il lettore riconosca come un dato di fatto e assuma su di sé l’assioma che oggi la musica in Italia, nella mentalità corrente e storicamente di quella almeno degli ultimi 150° anni, è assolutamente divisa dalla cultura umanistica così come la cultura umanistico-letteraria lo è da quella scientifica. Naturalmente questo “trialismo insanabile” è un errore storico e di metodo e se si vuole correggerlo bisogna riconoscerlo; così come bisogna sapere e credere che lo sviluppo del pensiero letterario, filosofico, musicale e artistico, cioè che il progresso spirituale, concorre a pieno titolo al miglioramento della società e all’evoluzione degli individui che la compongono, almeno al pari di quello scientifico-tecnologico. Ribaltando una celebre frase di un altrettanto illustre esponente del mondo politico ed economico che qualche anno fa stava per dimezzare i fondi nostrani del FUS (Fondo unico dello spettacolo), dicendo che “Con la Cultura non si mangia”, potrei affermare che la poesia e la musica sono indispensabili al nutrimento spirituale del cittadino tanto quanto lo sono il pane e l’acqua che gli garantiscono la vita materiale!”

· Come mai ha fondato il Comitato Nazionale all’interno dell’Associazione Mozart Italia di Milano, in pratica la sede milanese della prestigiosa ed autorevole Fondazione del Mozarteum di Salisburgo? E che c’entra Mozart con la mancanza di Educazione musicale nel nostro paese?
“Per due importanti ragioni: una ideale e l’altra più formale e gestionale. La prima è che per tutto quello che ha rappresentato nella sua epoca e per quello che rappresenta oggi e in futuro il genio del “divin salisburghese”, col suo immenso portato culturale, ci auguriamo che Wolfgang Amadeus Mozart, il più prolifico e divino tra i grandi compositori della storia della musica colta occidentale, sia di buon auspicio per il raggiungimento dello scopo del Comitato, vale a dire che, nonostante le enormi difficoltà di ogni genere, si arrivi davvero tra uno, dieci o cento anni, a costruire una coscienza civica nazionale che riesca a portare in Parlamento un disegno di legge prima e la sua conseguente approvazione poi, a prescindere dal colore o dai colori politici che amministreranno l’Italia in quel momento, di norme certe che introducano lo studio dell’Educazione musicale di base nella scuola di ogni ordine e grado. Ovviamente siamo ben consapevoli che tutto ciò richiederà una considerevole copertura finanziaria. Basterà cambiare qualche priorità di spesa. Oggi, per esempio, basterebbe rinunciare non dico a tutti ma solamente alla metà degli acquisti per l’ammodernamento degli armamenti militari, che si coprirebbe per più di un decennio il costo del progetto educativo auspicato. Il secondo è di carattere pratico gestionale. Infatti il Consiglio Direttivo dell’Associazione Mozart Italia di Milano amministra anche il Comitato in quanto lo Statuto lo prevede; inoltre tutte le autorevoli, competenti e prestigiose personalità, che fanno parte già oggi dell’Associazione Mozart Italia di Milano e dei suoi Comitati scientifici declinati in Dipartimenti di studio, sono co-fondatori e co-gestori assieme al Consiglio Direttivo, del Comitato stesso”.
· In questa fase iniziale quali consensi è riuscito a registrare? Quali le principali resistenze?
“In questa fase d’esordio i consensi sono stati pressoché unanimi. Ai molti che me lo hanno domandato spesso ho risposto che il consenso al progetto è stato finora più che bipartisan. Cioè non vi è una connotazione partitica nel senso etimologico del termine “di parte” del Comitato. Infatti i consensi sono stati e provengono da tutti gli schieramenti politici in quanto è apparso immediatamente chiaro ai più che il Comitato Nazionale sia stato creato appositamente per il miglioramento delle generazioni future. Da parte di alcuni la resistenza è stata un vizio tipicamente italiano: quello di credere che il Comitato, e la mia persona in particolare, sia strumentalizzato o strumentalizzabile da qualche forza politica e partitica specifica e soprattutto che, dietro al progetto politico dell’istituzione della legge nazionale sull’Educazione musicale di base, si voglia nascondere un progetto politico globale. Nulla di tutto ciò! E’ mai possibile che in Italia il clima sia così viziato e corrotto da far sì che nella mente delle persone che si occupano di politica, di amministrazione e di informazione non passi neppure per l’anticamera del cervello che delle persone fanno tutto questo semplicemente per migliorare la società in cui viviamo e soprattutto per dare una chance di miglioramento alla società futura, quella di esclusiva “proprietà”, per ovvie ragioni anagrafiche dei nostri nipoti e dei figli dei loro figli?”
· Perché i partiti politici dovrebbero cambiare la loro agenda mettendo come tema prioritario ed urgente l’istituzione di una legge che introduca l’Educazione musicale in ogni ordine e grado di scuola, quando sembra proprio che, aldilà del colore politico dei governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, l’istruzione intera sia l’ultima delle preoccupazioni dei governanti, tranne quando serve per fare rapida cassa, tagliando ore d’insegnamento, materie e docenti ? Come è stata accolta finora l’iniziativa? Può farci qualche nome di illustre personaggio o Istituzione che ha aderito al Comitato?
“La musica è, tra le arti, la più effimera, la più evanescente, quella meno afferrabile. Per essere percepita ha bisogno del tempo in cui propagarsi e ripetersi in modo che l’ascoltatore ne possa intuire la sua forma nascosta e quindi il suo spazio intrinseco. Ma, a differenza di molti altri linguaggi, non ha bisogno di mediazioni razionali perché raggiunge direttamente la sfera delle emozioni umane permettendo così l’espressione profonda. Costruita da un lato secondo un sistema di segni rigorosamente aritmetico-matematici dall’altro intrattiene rapporti con la sfera delle emozioni ma anche con quella dei linguaggi e della creatività. Perciò, secondo le moderne neuroscienze, essa contribuisce armonicamente ad intessere legami profondi sia con l’emisfero sinistro che con quello destro del nostro sistema nervoso centrale. In pratica stimola i processi nervosi e sinaptici attivando l’intero encefalo dell’individuo, quando ad esempio lo studio della matematica stimola quasi esclusivamente l’emisfero sinistro del cervello e lo studio dell’italiano quasi solo quello destro.


Anche solo per questa importantissima ragione meramente neurofisiologica non si capisce perché in Italia lo studio della musica di base non debba essere considerato formativo almeno al pari delle citate discipline presenti da sempre nel curricolo scolastico di tutti gli ordini e gradi di scuola e cioè dalla scuola materna all’università. Ecco perché i governanti dovrebbero rivoluzionare la propria agenda politica e mettere tra i primissimi posti, assieme al lavoro e alla sanità, l’istruzione e nella fattispecie l’introduzione dove non c’era (scuole materne, elementari licei e tutte le scuole superiori ad esclusione degli ex Istituti magistrali e turistici) e riproposizione dove c’era ed ora è stata cancellata (ex Istituti magistrali e turistici) dell’educazione musicale di base, cioè quell’uso ed insegnamento della musica non per gli specialisti (per quelli che faranno della musica la propria professione, il che richiede peraltro una forte predisposizione e talento iniziale) ma di quella che tutti possono avvicinare ed apprendere senza possedere particolari doti. Ricordo solamente che l’insegnamento della musica nelle scuole in Italia, paese di Monteverdi, Vivaldi, Rossini Verdi e Puccini, è tra le ultimissime posizioni al mondo, dietro anche all’America Latina! Per quanto riguarda gli aderenti al Comitato, nomi singoli non ne faccio per non dimenticarne qualcuno che senz’altro si offenderebbe. Per il resto, segnalo l’adesione di: quasi tutto il mondo musicale ed artistico italiano, compresi i mensili musicali di settore attraverso i loro direttori responsabili, la SIAE, importanti Uffici Scolastici provinciali, alcuni Sindacati della scuola, diversi Enti territoriali provinciali e comunali, oltre alla Curia Arcivescovile di Milano, che ha dimostrato grande interesse e sensibilità verso la proposta”.
· Quali sono le prossime iniziative che il Comitato intende compiere per avvicinarsi a questo ambizioso, arduo ma necessario traguardo legislativo?
“A questo punto del discorso mi sembra chiaro che la musica possa realmente cambiare il futuro dei giovani nel nostro Paese. Il Comitato Nazionale investirà tutte le energie, i mezzi, le risorse, ma soprattutto le menti e i cuori di chi già ne fa parte e di tutti i cittadini che si vorranno unire in questa battaglia di civiltà, organizzando convegni di studi, Concerti-Lezione per la scuole sul modello di quello fatto al Liceo Classico “Parini“ di Milano nel marzo scorso, in cui erano gli stessi giovani esecutori che spiegavano il brano e l’autore al pubblico di liceali e dei rispettivi genitori appena prima di interpretarlo. Si effettueranno anche Concerti-Lezione per adulti (tutta la Stagione 2014 dell’Associazione Mozart Italia di Milano è costruita con taglio rigorosamente didascalico-pedagogico) e altri eventi come l’esecuzione in importanti città italiane del Requiem di W. A. Mozart, assunto come evento simbolico perché capace di richiamare sia moltitudini di cittadini dai più eterogenei gusti musicali sia per esorcizzare, prima che sia troppo tardi, la paura dell’imminente morte totale dello studio dell’Educazione musicale di base nelle scuole italiane”.


  
SUL REALISMO IRONICO DI GRAZIA NIDASIO

Al “Corriere dei Piccoli” degli anni Cinquanta e Sessanta collabora assiduamente (sino a diventarne una sorta di tratto distintivo, un elemento caratterizzante, come capitò anche a Rubino e a Sto) Grazia Nidasio. Di gran bravura verrà giudicata, e molti encomi di lei si scriveranno (un’eterna ragazza, elegante come sono eleganti i suoi disegni, eccetera). Ma noi non staremo ora a ripetere queste lodi, che pur rispondono ad assoluta e certa verità, e cercheremo invece di fermare Grazia Nidasio in alcuni punti del suo percorso e definire così, in qualche modo, il suo operare. Il disegno nidasiano ha una cifra inconfondibile, comunque, pur attraversando, nel tempo, vari modi, varie declinazioni: sia quando l’autrice lavora su proprie invenzioni sia quando disegna su testi altrui.

Quante cose ha disegnato Grazia Nidasio. Ecco le tavole piene di gente (ma nessuno è gente, tutti sono caratterizzati e riconoscibili) al mare o in città. I presepi. I grandi riquadri che rendono visivi i racconti di Piero Selva alias Mino Milani. Ecco i giochi, le strip in forma di mini-film, i disegni didattici. E le illustrazioni per il libro di Antonio Faeti, Antonia e le bottiglie di Morandi, del 1993…

Sfogliamo qualche sua pagina. Questo nostro piccolo viaggio inizia quando sul “Corrierino” le storie a fumetti sono ancora rare, e sono invece assai diffuse le pagine composte (di norma) da otto riquadri accompagnati da testi narrativi rimati, avendo ogni vignetta (di norma) due versi posti come didascalia.. E così, cioè debitamente filastroccati, si presentano tanti personaggi nidasiani negli anni Cinquanta: oltre ad Alibella (su testi di Franco Bianchi) compaiono, in quel decennio, Gelsomino, Nonno Ruby, Fortunino, Curiosetto, Pierino Novecento e persino (“Corriere dei Piccoli” n. 45 del 7 novembre 1954), per festeggiare Trieste italiana, Italino e Redentina.

Allora, cominciamo. “Corriere dei Piccoli” n. 17 del 26 aprile 1953: una coppia in attesa di un figlio riceve da una cicogna una cesta di fiori. Fra i fiori compare una bimba alata, “un caso troppo strano”, per cui la donna è già pronta a recidere quelle ali con un colpo di forbici. Ma basta un risolino e un leggero volteggiare della bimba per far desistere la mamma e anzi suggerirle il nome per la piccola creatura. Da allora i genitori (una coppia borghese, garbata, con un papà in giacca e cravatta) vedranno Alibella come una bimba normalissima, senza mai un moto di sorpresa o di disagio per la sua conformazione. Alibella, piuttosto, come sua aggravante, spesso fugge in mondi fiabeschi, in dimensioni parallele. E con un filo di gioioso anarchismo: nel n. 21 del 22 maggio 1955 una nobile signora raccoglie la bimba per strada – Alibella ama giocare fra le pozzanghere – e la porta a casa sua, vestendola come una bambola ma impedendole di volare. Naturalmente Alibella fugge, con la complicità di una lucciola.
Fra i compagni di avventura della bimba ci saranno un aeroplanino rosso, un orsacchiotto di pezza, il Poeta (che vola su un aquilone e distribuisce doni). Alibella incontra Rosadeiventi e il “gatto stivalato”, visita il mondo dei Balocchi abbandonati e la Città dell’Alfabeto. Nel Paese delle Nuvole (n. 26 del 28 giugno 1953) sperimenta la parvenza multiforme delle nubi, la loro capacità di tramutarsi da una figura in un’altra. In altre tavole viaggia con un elettrotreno fra le costellazioni, la storia si scioglie in un volo giocoso della fantasia.
Poi Alibella scende sulla terra e trova la tenera amicizia di Bimbo, un elefantino azzurro. Chissà se la Nidasio all’epoca sapeva che Bimbo era il nome di un gatto di Paul Klee. La realtà è oramai quella quotidiana ma l’inventiva folle e lunare dell’autrice è scatenata. Nel n. 7 del 14 febbraio 1960 Bimbo lascia l’esercito e, col foglio di congedo, fa un cappello per una sirena vezzosa che, riconoscente, lo copre di gioielli. Il disegno ha raggiunto un segno maturo, perfetto: è stilizzato, arguto, corsivo. Nel n. 18 del 1° maggio 1960 Alibella “ha il gusto fine / nel tagliare figurine” e Bimbo disegna un castello che “diventa, tale e quale, / grande proprio al naturale”. Ma, tagliando a pezzi il disegno dell’orco subito apparso, lo si sbaraglia. È una sorta di ars poetica: Nidasio ci dice che l’artista può creare e disfare mondi fantastici, a suo piacimento. E nel n. 31 del 31 luglio 1960 Bimbo crea un omino di fumo: forme tondeggianti si mischiano a spigolosità geometriche, a visioni e allucinazioni, a segni astratti, in una fantasmagoria che può avere una sua fonte – ma in Nidasio c’è una leggerezza tutta sua – nella sequenza dell’elefante rosa in Dumbo.

Gelsomino è un ladro. Seguiamo alcune sue imprese dell’annata 1954. Nel n. 14 del 4 aprile ruba una nuvola per fare il giaciglio a un bambino vagabondo, nel n. 26 del 27 giugno cattura una saetta per illuminare il faro e portare in salvo due marinai, nel n. 28 dell’11 luglio ritaglia una striscia candida da un ghiacciaio, un pezzo di verde smeraldino da una collina, un poco di rosso da un cielo al tramonto, e così fa la bandiera italiana per una scuola di campagna. Il brigadiere Gianlucerna, che gli dà perennemente la caccia, rimane sempre sconfitto: “Eh, l’autore non si arresta / d’un’impresa come questa!”. Nel n. 34 del 22 agosto Gelsomino, per aiutare un poeta a trovare l’ispirazione (“chè l’immagine potente / non gli brilla ancora in mente”), ruba “idea molto opportuna, / un pochin di chiar di luna” e poi “coglie a volo / la canzon d’un usignolo” – e anche questa volta ovviamente Gianlucerna non riesce ad arrestarlo, non sa chi arrestare, non sa perché arrestare.

Billi detto il Patata è un ragazzino nero, perennemente rifiutato dai ragazzi bianchi, che si esprimono con frasi dichiaratamente razziste. Nel n. 27 del 3 luglio 1960 Billi vuol recarsi al Grande Cine: “Ma una frotta di ragazzi / con gran gesti e sciocchi lazzi, / lo respingon: «Per piacere, / via di qui le facce nere!»”. Nidasio dà alle vignette un taglio cinematografico, come se stesse lavorando a uno story-board: sceglie gli angoli di ripresa, crea il montaggio delle scene. Billi viene inquadrato da un punto di vista all’altezza del marciapiede sul quale è seduto, lo sfondo si unisce mirabilmente alle figure umane tagliate dall’inquadratura, le silhouettes dei protagonisti si stagliano sulle immagini proiettate sul grande schermo.

Poi arriva Violante, su testi di Guglielmo Zucconi. Nidasio adotta le vignette con il balloon, disegna vicende in cui sono immessi i fenomeni e le inquietudini del mondo moderno. Con pochi tratti riesce a dar vita a quello che con Roland Barthes definiremo l’“effetto di realtà”. I protagonisti sono scelti fra gli adolescenti di una Milano contemporanea (sono gli anni del boom economico, della musica beat). Il disegno è ironico, bidimensionale, asimmetrico: possiamo trovarne forse una qualche parentela con Ward Kimball e con una certa grafica pubblicitaria ma tutto ha la sua origine da quel Picasso post-cubista che lavora sulla Costa Azzurra, fra Cannes, Antibes, Vallauris e Juan-les-Pins: coloratissimo, deformato, appiattito.
Con il personaggio di Violante comincia un’epopea borghese, con al centro la famiglia e i suoi valori. E con una sottile capacità d’introspezione, un’osservazione attenta della psiche adolescenziale. Le puntate sono brevi, in genere di una pagina. Si procede a piccoli bocconi. Nel n. 40 del 6 ottobre 1963, per fare un esempio, una puntata di Violante e il gemon di Dolabella consta solo di cinque vignette. Con la narrazione costretta in sì rigida misura (la costrizione diventa stimolo creativo) tutto diventa ancor più intenso, e la brevità fa scaturire nuovi ritmi narrativi, scanditi da parti raccontate dalle didascalie e parti illustrate dalle vignette.

Valentina Mela Verde, cioè Valentina Morandini e la sua famiglia, è un nuovo capitolo della saga borghese con effetto di realtà. E il rapporto con il sociale è ormai così forte da prospettare persino un’inchiesta (nn. 20 e 21 del 16 maggio e 23 maggio 1971) su questioni ecologiche. I personaggi sono caratteri compiuti, ben definiti, e fuoriescono dalla pagina, evidenti, nitidi. Sono singole esistenze individuali che diventano elementi tipici. E Nidasio si può permettere tutto: anche la mimesi del disegno infantile (cioè un citazionismo di stile) nella storia del Mauri (“Corriere dei Ragazzi” n. 6 del 6 febbraio 1972), con il precedente del Romano Scarpa di Topolino e la collana Chirikawa e con anni di anticipo sullo Stephan Pastis di Pearls Before Swine.

Ci sono tante cose che si possono rilevare. Ad esempio, i neo-vocabolari: Dolabella, cugina di Violante, parla con un suo gergo: zerbolò significa un mucchio di tempo; ramugani sono le storie, le noie, che è meglio evitare; spanganare significa mettere sotto i piedi, soggiogare; bruvetta è la bicicletta, bolò è il telefono, gemon è un segreto. Del linguaggio di Violante – che fa suo quello di Dolabella – redigerà un repertorio lessicografico lo stesso direttore del “Corrierino”, Carlo Triberti, rispondendo alla lettrice Maria Denis Dall’Olio, nel n. 23 del 5 giugno 1966. Invece il linguaggio di Stefi, sorella minore di Valentina, è semplicemente impacciato per l’ancor scarsa conoscenza della lingua. Eppure ha esiti fantasiosi, come capita con i bambini. Nel n. 17 del 25 aprile 1971: il vestito da “damigilla”, “lei sa tutti i racconti di fantasmi, di sposalizi e di mazzamenti”, “non sono bambita” sino alla fusione con parole dotte: “Ma cosa c’è da ridere? Non vi piace il mio discorso sintomatico?”. Con i balloon che talvolta si dilatano a riempire mezza vignetta (che a loro volta rendono fluidi i loro contorni o li perdono), parole fluttuanti, parole che debordano e fuoriescono dalla nuvoletta: vari stilemi del littering nidasiano. Che nel “Corriere della Sera” arriverà poi ad accorpare più balloon, ad accumularli, a farli scomparire.

Stefi vivrà in molte dimensioni: la posta sceneggiata, i disegni animati in tv, l’informazione ecologica (nel 1990 Mondadori pubblica Parliamo di ecologia con Stefi, con il patrocinio della Regione Lombardia, anche in una versione con caratteri braille), la satira politica. Sul “Corriere della Sera” del 23 luglio 2013: “Il royal baby sta per nascere – Il papa è partito con l’aereo – E gli altri due re magi, quando arriveranno?”. Caustica, feroce, anarchica, la Stefi “commentatrice” è il punto d’arrivo, estremo, del candore contestatario della piccola Morandini. Le vignette sono firmate con l’indirizzo e-mail di Nidasio: proprio perché l’autrice – persona usualmente riservata, aliena da ogni protagonismo – si aspetta risposte, vuole conoscere il pensiero altrui, sentire le reazioni.

Nidasio disegna sul “Corriere dei Piccoli”, fra le suo mille pagine illustrate, una tavola spiritosa ma edulcorata sulla naia, il famigerato servizio militare. E anni prima (sul n. 51 del 18 dicembre 1960) illustra “Il natale del bravo bambino”, un elogio dei buoni sentimenti così smaccato da far quasi sorgere il dubbio di una parodia. E ci si chiede: da che parte sta Grazia Nidasio? Tesse l’elogio di una piccola borghesia ben pensante e per bene o è una giocosa, trasgressiva contestatrice del mondo contemporaneo?
È certo che quello che lei ritrae è un mondo borghese, seppur ricco di componenti di diversità: per restare alle tavole di Valentina Mela Verde ecco (tutto sul “Corriere dei Ragazzi” n. 1 del 2 gennaio 1972) l’hippie Donald, il Mauri che proviene da una classe differenziale, il prof Capanno (chiaramente di estrema sinistra, anche se cita Dumas e non Mao), i cartelloni contro il consumismo inalberati dal fratello Cesare e dai suoi amici. Ma non sono, questi, veri elementi di disturbo sociale e ideologico: semplicemente dimostrano la curiosità e l’apertura di Nidasio, che esercita una satira bonaria (non scevra talvolta da simpatia) verso fenomeni delle moderne lotte sociali.
Quello che è davvero innovativo è quella sorta di registro adolescenziale o infantile, adottato come un punto di vista da cui osservare e decrittare il mondo, con moduli in sospeso fra cronaca e diario. Ne deriva il tratteggio delle varie figure: il padre tradizionalista e autoritario (che era quasi una caricatura in Violante, ed ora non è molto più moderno), la Stefi con i suoi valori non compresi dagli adulti e neppure dagli adolescenti, i comprimari, mai superflui e sempre ben incisi. E poi l’autoriflessione dei personaggi, che raccontano e si raccontano. Sempre resi in pochi tratti, come sa fare la Nidasio, con una grande capacità di sintesi psicologica e grafica. È questo il suo realismo borghese: cattivo e asciutto.
Marco Innocenti



IL PANE E LE ROSE
di Giovanni Bianchi



Giovanni Bianchi

“Lo smog non tramonta”

Edizioni Nuove Scritture
Pagg. 96 € 5,00

“L’intelligenza e la memoria sono ostinatamente narrative e verità è quella elaborata da una mente brada, capace di autoplagio e di astute dimenticanze. Ognuno - prima di essere novellista, teologo, storico - è anzitutto narratore inconsapevole di se stesso. Eppure non basta. Non basta ancora. Il raccontare è un dono dell’Altissimo elargito ai suoi. Si accompagna ai tuoi giorni, inatteso, cammin facendo. E come ogni dono è gratuito e dovrebbe essere offerto gratuitamente: altrimenti degrada in prostituzione. E invece corrono il mondo e trionfano i bestseller!”

Giovanni Bianchi, nato a Sesto San Giovanni (Milano), laureato in scienze politiche presso l’Università Cattolica, insegnante di filosofia e storia nei licei. Democratico d’ispirazione cristiana, da sempre è impegnato in politica e nel sociale. Per molti anni presidente, prima lombardo e poi nazionale, delle ACLI, è stato tra i fondatori del P.P.I. ricoprendo la carica di presidente nel 95 e 96. Eletto Deputato alla Camera dal 94 al 2006, ha fatto parte della Commissione Esteri ed è stato relatore della legge per la remissione del debito estero. Nel 2008 ha coordinato il Partito Democratico milanese. È attualmente presidente del Circolo Dossetti di Milano promotore di corsi di formazione alla politica e del Centro Studi Problemi Internazionali con sede in Sesto San Giovanni. Collabora da molti anni al giornale “Odissea” di Milano.




Consumismo e povertà


                                                             Milano 2013 (foto liviaci)



Aninu, la forza del destino
di Giovanni Bianchi

Non volano soltanto cigni neri nei cieli della letteratura. Anzi, per quel che riguarda il romanzo, la crisi, conclamata da tempo, non cessa di stupire, nel senso che moltiplica le sorprese con inesauribile fantasia, quasi intendesse danzare tra un salutismo incredibilmente ritrovato e la pandemia del genere bestseller da intrattenimento. In effetti il romanzo s’è ulteriormente dilatato nei generi e nelle prove, chiamando in campo esperimenti supercommerciali ma anche il candore professionale e creativo di un artigianato dalle antiche radici e dai mille mestieri. Per cui se sugli scaffali degli empori e perfino degli autogrill impazza il genere di consumo (snack al volo più libro al volo), in insospettati ateliers rinasce la vita del romanzo attingendo a linfe  nascoste, non tutte recenti, al riparo dal chiasso e dalla pubblicità, in un'umile e accorata attesa di un lettore attento, non schiavo cioè della dittatura del tempo breve e tanto meno di quella del mostro mite.
È in uno di questi orti del pensare e dello scrivere che deve essere stato coltivato "Aninu", che è la storia di una prostituta sacra dell'isola vulcanica di Santorini, prima della grande eruzione del XVII secolo avanti Cristo che ha cancellato la civiltà minoica nello spazio di un giorno e di una notte tremenda. E la quarta di copertina si serve nientemeno del Timeo di Platone, con un riferimento alla mitica Atlantide. La protagonista è in fuga dal tempio e da una religione che, sostituendo gli arcana imperii al mistero quotidiano, domina l'isola con pugno di ferro e sacrifici di bambini. Aninu è una sorta di anticipazione del ribellarsi è giusto, per cui fonda una comunità ideale di vita chiamata Thera, identificandosi con la tragica fine dell'isola.
Stiamo cioè facendo i conti, nel senso che li fa Oliviero Arzuffi, l'autore, con gli eventi fondativi della cultura occidentale (perché tutto quel che viene dalla Grecia ha carattere universale), ripercorsi con un’acribica competenza che poggia su una meticolosa ricerca archeologica. In essa la descrizione dei luoghi e la rappresentazione dei costumi va di pari passo con la rievocazione delle credenze e dei miti del misterioso popolo cretese che vanta, come antenati, gli abitanti della più antica città del mondo situata nell'odierna Turchia e dichiarata oggi patrimonio dell'umanità.
I discendenti, delle cui origini si occupa l'Arzuffi, sono le popolazioni della Grecia classica, all'interno di un combattuto Mediterraneo cui si sono affacciate le civiltà al punto da farlo assurgere a culla della civiltà medesime. Una terra fertile ma anche avara nella quale, secondo la stupenda espressione di Braudel, il mare s’inoltra come pianure liquide tra i monti.
L'isola di Santorini viene così sottratta al turismo mordi e fuggi e ricostruita come doveva essere prima dell'eruzione vulcanica, datata appunto agli ultimi decenni del XVII secolo avanti Cristo, che ha determinato la scomparsa della civiltà minoica e sconvolto l'intero bacino del Mediterraneo. Qui si collocava il più importante centro religioso delle isole Cicladi, dal quale la ex prostituta sacra Aninu prende drammaticamente le distanze e la fuga, spinta da un daimon interiore che la rende appassionata innovatrice sia sul piano religioso come su quello civile.
L’incipit del romanzo di Arzuffi racchiude, senz'altro volutamente, il senso arcano della vicenda, così come la ghianda contiene lo sviluppo dalla quercia:
"Aninu se ne stava accovacciata per ore sulla riva del piccolo lago, con il corpo asciutto e snello che si rifletteva nello specchio d'acqua. Gli occhi attenti a scrutare la vita che pullulava dentro il grande stagno acuivano il dolore per un figlio mai avuto, per una vita tutta sua inesorabilmente negata. Allora si accarezzava il ventre lasciandosi invadere dal rimpianto nella solitudine di quell'altipiano e scrutava la scura montagna davanti a sé come aspettando da lei una risposta". Arzuffi ha il genio di evocare insieme il sentimento personale e quello che può essere attribuito alla natura circostante: una fusione che i moderni (troppo disposti al tramonto) tentano invano di recuperare, che l'ecologismo e la cultura verde si affannano a ricostruire, e che la Grecia classica ci riconsegna nei suoi reperti con  il canone di una bellezza che proprio per questo riesce ad essere, in tutte le espressioni, anche quelle scultoree, insieme umana e allusione a una misura divina.
Il romanzo di Arzuffi ha il coraggio di scavare nella fase precedente a quella che abbiamo imparato a leggere nei canoni della classicità, dalla quale l'Europa detronizzata si sta separando con un disprezzo pari alla superficialità. Dove il mistero è più diffuso e drammatico e, usando una categoria nietzschiana, il dionisiaco prevale decisamente sull'apollineo. Un mix che non può non attraversare insieme il foro interno, lo spazio personale e quello pubblico, peraltro intrecciati e confusi in maniera pressoché inestricabile da una frequentazione del mistero che i protagonisti hanno tutti in comune.
Come per un giallo, non ha senso e sarebbe addirittura disdicevole narrare la trama. Quel che mi pare più appropriato a una lettura spericolatamente anarchica è individuare il senso  dell'opera e della costruzione, quasi a fornire al lettore se non la ratio, almeno una chiave inglese che consenta di entrare nei meccanismi del libro.
Vi leggiamo: "Ad ogni gradino per accedere ai ripostigli dell'anima, sentiva il dolore crescere quanto più si affacciavano alla memoria le vicende che si allontanavano nel tempo, e percepiva la mente vacillare, quando considerava le sue azioni recenti (p. 90) ... Comprendeva ormai chiaramente come le parvenze fossero in grado di confondere il retto discernimento del bene e del male (p. 91) ... Se le leggi e le consuetudini della sua gente potessero essere comprese nella pietra e lasciate in eredità per sempre, Ciatal potrebbe sopravvivere al tempo e rimanere immune dalle mutazioni (p. 93) … E il sacrificio dei bambini? – domandò Batto. Aninu, puntando l'indice su una delle tavole di arenaria, lesse ad alta voce: "Non verserai il sangue in nome di nessun dio, perché il sangue dei viventi è sacro al Cielo e la vita è la linfa della Terra. Non sopprimerai perciò la vita, se non vuoi che essa ti abbandoni. Così sta scritto! "Quindi... – continuò incuriosito Batto – "E’ stata un'invenzione, il sacrificio dei bambini"... "Nessuno sa quando è cominciata questa follia, - rispose Aninu con tono dolente - né chi l'abbia inventata né come né perché" (pp. 98-99).
Comparare aiuta a capire. E i temi e l'atmosfera di questo romanzo mi hanno rimandato a Le città invisibili di Italo Calvino. Vuoi per l'assenza di paura ad affrontare questioni eterne, con la consapevolezza che la letteratura è insieme ripetizione, variazione e approfondimento. Con la disponibilità a ricominciare daccapo e dagli inizi. È un modo peraltro per costringere il lettore a confrontarsi direttamente con i dubbi e gli interrogativi che costellano la ricerca dell'autore.
Anche la scientificità degli strumenti e talvolta perfino l'aridità dell'approccio finiscono per fornire materiali e creare l'atmosfera. Il mito così è di casa e si fa elemento quotidiano. Pertanto l'adozione di un punto di vista lontano, straniante in massimo grado, e lontanissimo da ogni normalità quotidiana, sciolgono lo scrittore dalle remore psicologiche del presente e lo sospingono quasi inavvertitamente a creare una quotidianità altra e altrettanto credibile. Dove i sentimenti riemergono mantenendo tutta la loro distanza nel tempo, eppure finiscono per risultarci credibili e quotidiani.
È così che la voce dell'autore giunge a noi sommessa, come alterata dagli echi delle grotte sul mare amico e infido dei Greci, ma presente e capace di colloquio.
Potrebbe forse anche funzionare l’allusione a pezzi di opere famose dell'antichità, volta a determinare un effetto di acronia, e a farci partecipi di quella sensazione di disorientamento, di vuoto e di saturazione a un tempo, su cui veniamo sollecitati a meditare dal ritmo insieme lento e drammatico degli avvenimenti. E’ così che il racconto di un'avventura si trasforma pagina dopo pagina nell'avventura di un racconto.
Aninu non richiede tuttavia al lettore una competenza culturale specifica: pretende piuttosto la disponibilità a una lettura meditativa, quasi a suggerire che è la lettura stessa che viene a noi, pur nel dedalo, quasi un corto circuito, di spunti ruminativi chiamati ad entrare in relazione con quanto è sedimentato nella nostra memoria, e magari perfino in qualche affrettato ricordo turistico.
L’Arzuffi insomma non consente nessuna lettura veloce. Vale anche nel suo caso il celebre sarcasmo di Woody Allen: "Ho fatto un corso di lettura veloce. Ho letto Guerra e pace. Parla della Russia"...
Un altro paragone e un altro confronto mi paiono consentiti, e sempre con Italo Calvino.
Non si tratta di affinità di argomento questa volta, ma dell'andamento generale della scrittura e dell'intenzione delle pagine. Sto pensando infatti a La giornata d’uno scrutatore.
Faccio riferimento cioè a una confessione autobiografica ma anche da "intellettuale organico" del grande scrittore ligure e cosmopolita, laddove confida di aver voluto realizzare con La giornata non un romanzo d'azione, ma di riflessione sui comportamenti e sul senso di una stagione della nostra storia. Lo sconsolato, elegiaco e dolente (come si usa oramai per le consultazioni elettorali viste da sinistra) Amerigo Ormea di Calvino e la drammaticamente dolente, forse più faustiana che elegiaca, Aninu di Oliviero Arzuffi.
Qui infatti anche la natura, la cui inimitabile bellezza è tale da condurci fuori di noi stessi, finisce per essere sconvolta, alla maniera dei protagonisti, da uno spirito che sembra disordinare il mondo per riconsegnarlo ad uomini che vogliano provare a riordinarlo. Emblematica e certamente non casuale la circostanza, tutta moderna in tanto scialo d'antichità, che l'eroina sia una donna.
Un dramma con radici antichissime e che non cessa di riproporsi. Forse anche per questo il tentativo qui condotto di ricostruire una memoria alle radici dell'Occidente è un modo per inseguire semi di futuro che non abbiano la non commestibilità della plastica.
Davvero bisogna voltarsi indietro per spingersi sensatamente avanti. È la figura, ma anche la lezione dell'Angelo della storia di Walter Benjamin. Per questo leggere un romanzo scritto in questo modo dà riposo mentre riattiva nella mente e nell'inconscio una ineliminabile e sana inquietudine.

Oliviero Arzuffi
Aninu –Romanzo storico-
Oltre Edizioni
Pagg. 274 € 19
Richieste a:
tel:0185-459133