QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo
A PROPOSITO DELLA PITTURA ITALIANA
DELL’OTTOCENTO
Per incontrare uno dei maggiori esperti di pittura italiana dell’Ottocento, occorre recarsi nella brumosa bassa padana, precisamente a Correggio, cittadina già famosa per aver dato i natali al grande pittore Antonio Allegri detto appunto “Il Correggio”. Qui il nostro esperto, Andrea Baboni, è nato nel 1943, qui ha studiato e qui tuttora vive. Dopo la maturità al liceo classico “Rinaldo Corso” della cittadina, si è iscritto all’Università di Firenze, dove si è laureato in Architettura. Firenze è rimasta la sua città d’elezione. Lì ha acquisito le competenze necessarie per il suo lavoro, svoltosi poi in vari ambiti. La sua autentica passione è tuttavia sempre stata la pittura, la sua storia, le sue tecniche. La sua conoscenza della pittura è estesa a tutte le scuole regionali italiane (in particolare l’emiliana, la toscana e la veneta), per il periodo compreso tra le prime esperienze sul vero (Macchiaioli in particolare) e l'inizio delle avanguardie storiche del XIX secolo, quale responsabile, sin dallo scorcio degli anni Ottanta, della casa d’Aste Christie’s per l’Italia, con consulenze anche per tutte le altre sedi, comprese New York e Londra.
In anni ormai lontani si è dedicato egli stesso alla pittura, anche con esposizioni personali dai primi anni Sessanta, a Reggio Emilia, Firenze e Milano, dapprima su temi tradizionali quali il paesaggio o le figure; in seguito (e sono le cose che particolarmente ricordiamo di lui), con forte originalità, su forme quasi astratte di foglie autunnali accartocciate
Questo suo primo impegno fattivo resta comunque un momento formativo essenziale per la sua sensibilità e per le successive acquisizioni conoscitive, dato che gli ha permesso di approfondire pennellate e tecniche pittoriche degli artisti e di distinguere quindi ancor meglio gli originali dalle copie o dai falsi. In seguito ha tralasciato (e provvisoriamente si spera) la sua attività pittorica, per dedicarsi agli studi della pittura dell’Ottocento da cui è rimasto affascinato frequentando in giovane età gallerie e mercanti d’arte, studiosi e collezionisti.
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PAUL GAUGIN QUI E ALTROVE
“Il pittore orientale dice ai sui discepoli: “Non rifinite
mai troppo; così facendo raffreddate la lava di un sangue ribollente, ne fate
una pietra. Fosse anche un rubino, gettatela lontano da voi” - ‘Raccontars de rapin’ P. Gaugin 1902
MONET
di Giorgio Colombo
A PROPOSITO DELLA PITTURA ITALIANA
DELL’OTTOCENTO
Andrea Baboni nel suo studio di Correggio |
Per incontrare uno dei maggiori esperti di pittura italiana dell’Ottocento, occorre recarsi nella brumosa bassa padana, precisamente a Correggio, cittadina già famosa per aver dato i natali al grande pittore Antonio Allegri detto appunto “Il Correggio”. Qui il nostro esperto, Andrea Baboni, è nato nel 1943, qui ha studiato e qui tuttora vive. Dopo la maturità al liceo classico “Rinaldo Corso” della cittadina, si è iscritto all’Università di Firenze, dove si è laureato in Architettura. Firenze è rimasta la sua città d’elezione. Lì ha acquisito le competenze necessarie per il suo lavoro, svoltosi poi in vari ambiti. La sua autentica passione è tuttavia sempre stata la pittura, la sua storia, le sue tecniche. La sua conoscenza della pittura è estesa a tutte le scuole regionali italiane (in particolare l’emiliana, la toscana e la veneta), per il periodo compreso tra le prime esperienze sul vero (Macchiaioli in particolare) e l'inizio delle avanguardie storiche del XIX secolo, quale responsabile, sin dallo scorcio degli anni Ottanta, della casa d’Aste Christie’s per l’Italia, con consulenze anche per tutte le altre sedi, comprese New York e Londra.
In anni ormai lontani si è dedicato egli stesso alla pittura, anche con esposizioni personali dai primi anni Sessanta, a Reggio Emilia, Firenze e Milano, dapprima su temi tradizionali quali il paesaggio o le figure; in seguito (e sono le cose che particolarmente ricordiamo di lui), con forte originalità, su forme quasi astratte di foglie autunnali accartocciate
Questo suo primo impegno fattivo resta comunque un momento formativo essenziale per la sua sensibilità e per le successive acquisizioni conoscitive, dato che gli ha permesso di approfondire pennellate e tecniche pittoriche degli artisti e di distinguere quindi ancor meglio gli originali dalle copie o dai falsi. In seguito ha tralasciato (e provvisoriamente si spera) la sua attività pittorica, per dedicarsi agli studi della pittura dell’Ottocento da cui è rimasto affascinato frequentando in giovane età gallerie e mercanti d’arte, studiosi e collezionisti.
G. Fattori -Barrocci Romani
Evidentemente si è riconosciuto in questo mondo, la sua
sensibilità lo ha condotto ad esso. Ma certo è anche animato dal desiderio di
riscattare questo periodo, troppo spesso sottovalutato, o a cui comunque si è
dedicata un’attenzione svagata, non sufficientemente approfondita, benché lì
siano riconducibili le nostre radici storiche e culturali. Ora ha lasciato il
lavoro presso Christie’s, ma per le conoscenze acquisite
ed approfondite con uno studio costante, è spesso chiamato a fare perizie, ad
autenticare opere appartenenti al suo spazio di competenza, sia da parte di
privati che da case d’asta nazionali e internazionali ed anche dalla Direzione
del Museo “Fattori “di Livorno. La sua casa a Correggio resta un centro di
documentazione invidiabile in questo ambito.
Il pittore macchiaiolo verso cui ha una vera predilezione è
Giovanni Fattori, di cui ha curato preziosi cataloghi e mostre studiandone a fondo la produzione sia pittorica che
grafica in ogni dettaglio. Ricordo qui, fra le altre, alcune pubblicazioni: Giovanni Fattori. L’opera Incisa (1983); La
pittura italiana dopo la macchia, con la presentazione di Rossana
Bossaglia (De Agostini 1994); L’Ottocento: le incisioni di Giovanni Fattori
(Livorno 2001); L’Ottocento: i disegni di Giovanni Fattori (Livorno
2002).
Ha curato, fa le altre, con Giorgio Cortenova, allora
direttore della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti a Verona, la mostra Giovanni Fattori
(1998-1999) nelle due prestigiose sedi di Verona e Livorno, quindi la grande
antologica presso il Museo Fattori di Livorno, nel 2008, in occasione del
Centenario della morte dell’Artista, Giovanni
Fattori tra epopea e vero.
Sta ora lavorando al catalogo generale dell’opera di
Fattori, mentre sta ormai ultimando il catalogo dell’opera del “pittore
lagunare” Pietro Fragiacomo, (Trieste, 1856
- Venezia, 1922
) delle cui opere è profondo conoscitore ed estimatore.
Daniela Prati e
Gabriele Scaramuzza
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CRISTO E L’IMPRONTA
DELL’ARTE di Demetrio Paparoni, è una pubblicazione di
Skira ricca di molte e accurate
riproduzioni, dal sottotitolo “Il divino
e la sua rappresentazione nell’arte di ieri e di oggi”. Aggiungo che il
lavoro di Paparoni introduce una varietà di proposte sulle quali vorrei tentare
delle distinzioni. Il divino, ciò che si riferisce a Dio, non è necessariamente
una immagine. Nelle tre religioni monoteiste abramitiche dell’occidente, Ebraismo,
Cristianesimo, Islam, solo il Cristianesimo, per l’influenza della cultura
ellenistica, ha permesso e poi promosso, dopo vari movimenti
iconoclastici, la definizione della ‘immagine’ di Dio che però, all’inizio, nella
sua spiritualità, escludeva una fattura umana. L’immagine divina era ‘acheropita’, una immagine
miracolosa, non fatta da mano umana. Dallo sviluppo tardo romano l’immagine
religiosa riconosce la sua umana
fattualità, ma per incontrare nomi
di pittori che firmano le loro immagini come marchi di fabbrica, passano
alcuni secoli. Ho riassunto in poche righe quello che Demetrio Paparoni conosce
molto bene, cioè il fatto che il divino
non si coniuga automaticamente con il Cristianesimo, nel quale pure l’immagine,
anche quando riconosciuta, è stata prodotta poco per volta, in tempi diversi,
con usi e significati differenti, dai mosaici alle miniature ai rilievi e pareti dei grandi monasteri e delle
cattedrali. Soltanto intorno al 1000 compaiono i nomi di Wiligelmo, Lanfranco,
Antelami e via via si individuano e moltiplicano autori e scuole e insieme si
stabilizzano i racconti, canonici o apocrifi, sulla vita di Gesù (Yeshua, Salvatore) Cristo (Khristos, Mashiuac/Messia, Unto).
Con l’occupazione mussulmana dei luoghi santi cristiani, il cristianesimo si sposta
e si stabilizza in Europa e le sue raffigurazioni diventano patrimonio comune
di società più o meno omogenee prodotte da ‘individui’ specifici, riconosciuti e ricercati solo dopo il 1000.
E’ quindi comprensibile che le immagini scelte da Paparoni datano dal 1300 in
poi ed è pure inerente alla storia della cultura che la personalità del Cristo ripercorra più o meno i tratti canonici
stabiliti dai Vangeli, pur con le cancellazioni dovute alla Riforma
Protestante, specialmente Calvinista, ma che poco per volta si indebolisca o si
mescoli con la diffusione di una cultura
laica, laïkós ovvero "del popolo", quindi che vive tra
il popolo secolare non ecclesiastico, a volte anche antireligiosa. Ciò non significa che nella modernità sia
esclusa qualsiasi sacralità dell’immagine, anche quando non coincida con la
figura del Cristo, come accade nelle impronte di Yves Klein o nei ‘riti’ di Joseph Beuys. Oppure quando
l’immagine del Cristo è volutamente privata di ogni afflato sacro, come nella
piatta ripetizione pubblicitaria di Andy
Warhol o nello sberleffo grottesco di Yue Minjnjun. Spesso la smorfia della
sofferenza o l’impronta sindonica sono state nella contemporaneità un modo
indiretto per ripensare la persona di Gesù.
Insomma la
ricca scelta delle riproduzioni e i commenti di Demetrio Paparoni sulla immagine laica, l’immagine sacra,l’immagine
del Cristo sono un ottimo stimolo per ulteriori riflessioni sull’uso e
significato molteplice che assume di volta in volta la produzione dell’immagine
e le sue capacità comunicative.
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CASORATI GIOVANE
I primi 35 anni di
Felice Casorati , che nasce a Novara nel 1883. La sua produzione giovanile oggi
esposta nella bella mostra ai Musei Civici
agli Eremitani di Padova sino al 10 gennaio 1916, accompagnata dall’interessante catalogo SKIRA,
a
cura di Virginia Baradel e Davide Banzato, è l’occasione di alcune
riflessioni sulla
complessa figura del pittore: un artista elegante, in giacca e cravatta
anche
coi pennelli e la tavolozza in mano, riservato, colto, rispettato, una
famiglia
affettuosa, una carriera invidiabile, insegnante e poi Direttore
dell'Accademia di Belle Arti i Torino. I suoi quadri? Una mestizia
contenuta, un
carattere, uno stile facilmente riconoscibile, una eleganza e sicurezza
di
mestiere che incontra presto l’interesse dei collezionisti e dei musei,
un
gruppo di affezionati allievi. E allora le sue crisi e angosce
ricorrenti,
attenuatesi col passare degli anni, ma mai scomparse del tutto, e, in
qualche
modo, uno dei segni interessanti della
sua personalità e del suo lavoro, come esplicitarle senza cadere
nell’aneddotica? Tralascio la partecipazione alla guerra, che lui stesso
abbandona "disgustato" al silenzio. Ma almeno due fatti vorrei
ricordare, una
grave forma di astenia nel periodo liceale che gli impedisce di
continuare
l’applicazione assidua al pianoforte, che rimarrà comunque una abitudine
giornaliera e il suicidio del padre nel 1917, che spingerà il gruppo
famigliare, la madre e due sorelle, ad abbandonare Verona e a
trasferirsi a
Torino, una città congeniale di cui Casorati tesserà le lodi, che ho già
ricordato in questa rubrica, scrivendo di lui e di Carol Rama. Il
periodo più problematico, quello
pre-torinese, la cui svalutazione successiva lascia molto perplessi (…I
miei
sforzi d’oggi sono intesi a liberarmi da
tutte le teoriche, le ipotesi, gli schemi, i gusti, le rivelazioni e le
restaurazioni dei quali con generosa avidità si è avvelenata la mia
giovinezza-
Introduzione alla Quadriennale romana
del 1931) è invece ricco di rimandi, sottintesi, interrogativi che ci aiuteranno ad entrare in
quell’altrove , in quella forza della debolezza che avvolgerà con
più o meno evidenza, ben al di là della sua giovinezza, tutta la sua carriera. Introduco
subito il tono ‘alto’ del suo lavoro, il
ricordo dell’antico, riferimenti indiretti, sottaciuti, ma a valere per una
propria rassicurazione, una buona armatura di protezione. E inoltre la figura femminile, di gran lunga
‘soggetto’ prevalente, forse compagna di quelle semplici uova, sparpagliate o
in tazza, anch’esse ripetute dall’inizio alla fine, un sottile erotismo che
mormora anche nei periodi più austeri.
Comincio con ‘Le
signorine’ 1912
Su di un piano rialzato,di fronte ai rami di un grande abete, quattro figure di giovani, senza guardarsi, senza comunicare fra loro, esprimono coi visi, le braccia e le mani, i vestiti, ben studiati nella loro diversità, sentimenti differenti. I loro nomi, come quello dell’autore, sono scritti su cartigli posati in terra (una citazione dall’antico) insieme ad oggetti femminili qualsiasi, un ventaglio, boccette, collane, fiori, scatolette, un libro chiuso e un altro illustrato, aperto. Accanto alla figura di sinistra un grosso tacchino, non un nobile volatile, ma con una bella livrea piumata, il suo vestito. L’adolescente nuda, apre le braccia e rivolge gli occhi al cielo, una invocazione o una timorosa accoglienza. Al suo fianco, in basso, uno specchio tondo ben regolato riprende l’attacco delle gambe in un punto delicato del corpo, una sessualità invece attenuata nella figura frontale, una curiosità inaspettata che il pittore ridurrà quando l’opera sarà acquistata da Ca’ Pesaro, la Galleria d’Arte Moderna di Venezia. Più chiaro nelle opere come "L'abbraccio" e "Adamo ed Eva" del 1914 l'erotismo, solitamente, alluso e diretto, qui, con rimandi alle "Secessioni" viennesi, è palese, secondo quel gioco a rimpiattino che dicevo proprio del pittore.
L'abbraccio 1914
Adamo ed E va 1914
Le figure femminili che Casorati dipinge nel periodo di trasferimento da Verona a Torino negli anni 1918-19 vengono sottoposte ad una semplificazione e ad una cura ambientale rinnovata: spazi chiusi, claustrofobici, fughe di corridoi deserti, luci e ombre nette, maschere piuttosto che visi. E’ l’avvio a quella produzione ‘in studio’, nel silenzio e nell'artificialità dello ‘studio’ e l'accompagnamento del pianoforte, "operazione magica" dirà Carlo Levi, che costituirà la zona di protezione da interferenze disturbanti sia interne, le sue inquietudini, che esterne, la dispersione spaziale. Una interiorità espansa e controllabile, l’interno della propria stanza, che si ripeterà per tutta la sua vita.
Ritratto di Maria Anna De Lisi 1918
L'attesa 1918
Già
il titolo de “Il ritratto” è ambiguo. Non si capisce se il viso della scultura sia il ritratto della persona seduta, oppure se entrambi le figure siano due modi di
ritrattare. Forse la prima versione sarebbe più plausibile, ma la durezza, il taglio delle ombre, il vuoto
delle orbite parrebbe condurre alla seconda versione. Il vuoto, l’immobilità, la solitudine, lo
sfinimento pare un carattere di tutte e due le scene. Lo spazio di fuga,
condotto dalle piastrelle e dall’assito legnoso è tagliato da interruzioni che
accentuano la solitudine delle due figure sospinte sul proscenio. Il pasto
preparato sul tavolo è privato di cibo e di commensali. L’eleganza della De
Lisi è quasi un sudario. Ecco, in queste pitture di passaggio, da Verona a
Torino, la descrittività delle prime opere è cancellata. Quella deriva, quell’altrove prima indovinato nelle fessure,
nei dettagli si è impadronito del tutto.
Lo stupore di questa riduzione inanimata sta nel senso della mancanza, di una
attesa di significato, che non verrà. Il vuoto ha cancellato ogni presenza
viva, ogni via d’uscita. Il seguito nel lavoro di Casorati sarà di attrezzare
questo vuoto con i paramenti dello studio del pittore e le varie pose della
modella svestita come ogni brava modella deve essere, il nudo. Una parsimoniosa
variazione dei soggetti insieme ad una parsimoniosa ambientazione riconoscibile e
pacificata: tenuità di colori, melanconie delle pose, suono del pianoforte. Ma quel dubbio, quella
mancanza, quel sibilo sotterraneo di una irreparabile solitudine, anche se più
intermittente, anche se più sfuggente, per fortuna, lo sentiamo sempre ancora. Non un veleno di
giovinezza, come Casorati aveva scritto, ma il drammatico e glorioso
presentimento della morte.
novembre 2015
***
I BRUEGHEL MARCHIO DI FABBRICA
|
Pieter Brueghel, Danza di contadini (1568 circa)
Il
nome di Brueghel ci porta subito, senza incertezze, a
feste, danze contadine, vestimenti nordici, particolari minuti, paesaggi
enigmatici. Una pittura tersa, limpida, tagliente. Nel nostro caso è il nome di
una famiglia fiamminga nella quale
il mestiere della pittura è un fatto ereditario, la storia di un mestiere ereditario. Il nome del suo fondatore si
ritrova nei registri della gilda di San Luca ad Anversa nel 1551 come Pietre
Brueghels, che poi si firmerà come Brueghel o Bruegel. I suoi disegni tradotti
in incisioni risentono dell’influenza di Hieronymus Bosch. Il suo viaggio in
Italia, che lo porta a Roma, Napoli, Messina non modifica la sua attitudine ad
una descrizione minuta e impietosa di una popolazione medio-bassa, che mangia,
beve, gioca, balla, soffre; una popolazione che pattina sul ghiaccio, ara il
campo, riposa durante la mietitura, mentre le scene mitologiche, come la caduta
di Icaro, sono ridotte ad un particolare trascurabile; una pittura ben lontana
dai piumaggi e pose eroiche ed erotiche dei futuri Rubens e Van Dyck. I soldi sono nelle tasche
di mercanti che tagliano e scambiano pietre preziose, ceramiche e stoffe
orientali, bulbi di tulipani. Nn solo l’abbassamento di tono, dove il paesaggio
(quello in cui si vive è piatto e basso come porta il nome di Paesi Bassi) è ricco di montagne viste
o raccontate dai viaggi al sud, in Italia, le Alpi, gli Appennini, popolato da
un mondo indaffarato in piccole cose, la pesca, il cibo, le nozze, e in un
angolo appena un accenno alla natività di Gesù o al censimento di Betlemme, ma
anche l’organizzazione di un nuovo
mercato: una produzione di immagini, di incisioni stampate con ampia diffusione, di pitture e pittori uniti in ‘gilde’ - quella di San Luca, la più
nota- molto attente all’apprendistato e alla garanzia di prodotti ‘certificati’ in vista di un acquirente non sempre
raffinato conoscitore. Tra questi lo ‘stile Brueghel’. Prendo dal catalogo SKIRA uscito in concomitanza
della Mostra ‘BRUEGHEL Capolavori dell’arte fiamminga’, al Palazzo Albergati
di Bologna sino al 28 febbraio 2016,
una citazione da Andrea Wandschneider: “Pieter il Vecchio fu l’iniziatore di
quello “stile Brueghel” che le tre
generazioni successive faranno proprio, personalizzandolo, trasformandolo e
rendendolo popolare attraverso la reiterazione
di particolari soluzioni iconografiche, al punto da fare del nome
Brueghel quasi un “marchio di fabbrica”. Non solo una scuola, ma una offerta di
mercato che insieme stimola e risponde a delle esigenze di una nuova
committenza. Il mondo delle Fiandre tra cinque e seicento sta cambiando
radicalmente. Il Calvinismo vieta la riproduzione di immagini religiose e
contemporaneamente si sviluppa quel ceto di intraprendenti mercanti di cui accennavo prima. Un buon prodotto non è tesoro di qualche
ricco aristocratico, ma può essere replicato anche attraverso diverse
generazioni. Si tratta di un cambiamento tra la soggettività dell’artista e il
suo lavoro che riflette l’attitudine del buon artigiano nel seguire le lezioni
e i successi dei suoi predecessori e nel garantire comunque un buon prodotto.
Le misure dei quadri tendono a ridursi per abbellire pareti più modeste e
disadorne.
|
Pieter Brueghel il Giovane, La trappola per gli uccelli (1601) |
Si tratta di una delle quarantacinque o centoventisette repliche, secondo i diversi
studiosi, e che indica la fortuna prolungata del soggetto invernale. Ai paesaggi quotidiani di pattinatori,
contadini, marinai e soldati, si aggiungono quei mazzi di fiori di una ‘vita
silente’ che si spande e si consuma non solo in una sottile, rimembranza del memento mori, ma anche come eco al
fallimento della grande, breve fortuna (dei bulbi) dei tulipani.
Cristoffel van den Berghe, Mazzo di fiori (1620, circa) dai modelli dei Brughel |
Ma i balli e le feste nuziali con suonatori e convitati
più o meno avvinazzati continuano ad essere molto richiesti. Naturalmente
tecniche e risultati sono piuttosto lontani da quelli raggiunti dal primo
grande Vecchio. Mancano la secchezze e sicurezza del tratto, la sorpresa in un
tessuto unitario, la messa in angolo delle figure religiose, quasi nascoste.
l’inserimento spiazzante di presenze anomale, un teschio, un animale, un
nano… E invece, nei successori, la
indulgenza nei riguardi di figure mitologiche e allegoriche, nudi e positure
accademiche, oggetti incongrui, frutti e fiori, quasi ritagliati e incollati
sopra, in una mescolanza sorprendente, surreale, specialmente in Jan Brueghel il Giovane. La
scena incuriosisce, diverte ma non inquieta perché ogni elemento sta per conto
suo, recita, isolato, la sua parte su di un palcoscenico. La “Allegoria dell’udito”
ne è un buon esempio. Un netto distacco rispetto ai modelli di partenza.
L’inquietudine di Bosch è scomparsa. Ma vorrei terminare con una più evidente
ripresa delle opere del primo Brueghel, la danza di nozze, una allegra festa
della comunità popolare, in una delle varie repliche dipinte da Pieter Brueghel
il Giovane. Certo la tecnica è più soft,
le simmetrie più evidenti, ma il marchio di fabbrica rimane ben evidente. Non
una copia, in senso stretto, ma una
variazione all’interno di artisti sempre uniti nelle gilde, abituati alle
collaborazioni (spesso le opere portano le firme di più persone), omogenei alle
società, ai gruppi che li seguono e vi si riconoscono. Occorre aggiungere altri
autori, tutti estranei ai soggetti religiosi di cui si è persa la committenza,
come si conferma nelle chiese spoglie di Senredam, pittori della vita
quotidiana, Vermeer con i suoi interni cristallini insieme a Metsu, de Hook,
van Mieris, e i ritrattisti Hals e Rembrandt. Insomma un mondo nuovo, vario che
scrive, legge, traffica, si diverte, un mondo di piccole cose, di angoli, di
sguardi, di banchetti che ha esiliato i drammi religiosi e i trionfi delle armi
in zone invisibili o, al massimo, secondarie, in mezzo a foreste, a paesaggi
ariosi e sereni. Di questo nuovo mondo almeno tre e più generazioni dei
Brueghel hanno tracciato il cammino.
Pier Brueghel il Giovane Danza nuziale (1610 circa) |
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GLI ARTISTI CHE HO INCONTRATO
GLI ARTISTI CHE HO INCONTRATO
Gillo Dorfles |
Quando il 24 ottobre scorso, alla presentazione di
un volumone Skira di ben 857 pagine,
“Gli artisti che ho incontrato”, alla presenza attiva dell’autore Gillo
Dorfles, mi ripromettevo di riparlarne più diffusamente in seguito, non pensavo
che la promessa incontrasse le difficoltà nelle quali invece mi sono ritrovato:
una antologia di scritti sugli artisti che copre più di ottant’anni di storia.
Tutti scritti in punta di penna, alcuni in lingua straniera, ben circoscritti
al momento e al personaggio, ma naturalmente in una girandola continua di
accenti, riflessioni, descrizioni di qualcosa che manca: la riproduzione dell’opera, pittura,
scultura, architettura che sia, una assenza che darebbe carne e vita a quelle
parole. Tralascio la vicenda personale dell’Autore, ricca di attività culturali
e artistiche ben note, che hanno lasciato una traccia importante non solo in
Italia (la sua bibliografia lo dimostra), ma vorrei fermarmi soltanto su due
punti.
Il primo è la necessità che l’opera dell’artista non si
limiti ad una sintassi geometrica di forme, come poteva risultare in alcuni
esiti del MAC, quel Movimento per l’arte concreta che lo stesso Dorfles aveva
fondato, insieme a Soldati, Munari e Monnet, nel 1948. Ma che occorresse
arricchirla, quella sintassi, con una dimensione completamente diversa, un
segno, un gesto “nella trasmissione pressoché onirica delle proprie visioni
fantastiche”, come scrive riferendosi ai lavori di Paola Levi Montalcini.
“Alcuni motivi ricorrenti… di labirinti magici, di trecce e spirali, di cifrari
astrali, di alfabeti occulti…, debbono essere accettati soltanto per quello che
la loro veste metaforica lascia intendere (appunto come una metafora non può
venire analizzata e sezionata oltre un certo limite a rischio di venire tosto a
morire): intendere, cioè, non già
concettualmente, non già in maniera razionale e logica, ma solo come
suggerimento e spunto per una più vasta rete di associazioni visive e intuitive
che non spetta al critico -e neppure all’artista- di maggiormente chiarire, ma
che costituiscono il sancta sanctorum d’ogni vera e autentica creazione” (p.
192). E anche nel caso delle ‘impronte’ ripetute di Toti Scialoja aveva
individuato la volontà di “dar forma a codesti fantasmi del proprio “io
profondo”. Ecco dunque che la inesausta polemica contro le tecniche illusorie
della rappresentazione, l’alternativa non è l’arido razionalismo geometrico ma
la ‘estroflessione di se stessi’, l’apparizione misteriosa delle profondità
dell’io. E vorrei terminare questa dimensione che Dorfles sottilmente insegue
con la sua apertura relativa all’uovo e all’ovale di Fontana: “L’ovo: il germe,
l’embrione di un nuovo essere; ma anche la matrice spirituale, il microcosmo,
la forma che in sé comprende ogni futura esistenza; e anche l’uovo di Pasqua,
simbolo tradizionale della Resurrezione, simbolo di una doppia nascita…
Quest’ovo -che appare misteriosamente nell’opera di Hieronymus Bosch come in
quella di Piero della Francesca- può ben costituire il simbolo di una divinità
sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata; e anche il simbolo che si
viene a sostituire all’iconologia d’una antica figuralità ormai usurata e
consumata”(p. 209-10). Quella forma/informe che alcuni vorrebbero conservare anche
per “una antica figuralità”.
Arturo Nathan, Il ghiaccio del mare -1928 |
E ora arriverei al secondo punto, a partire proprio dal
titolo della raccolta, “Gli artisti che ho incontrato”, il fatto dell’incontro,
della visita agli studi, di una esperienza di prima mano, non solo come
aggiunta informativa, ma come esperienza ‘formativa’ di quell’aura originaria e
sfuggente che accompagna il farsi e il fatto. Un esempio che è insieme un bel
pezzo di letteratura è la “Vita arcana di Arturo Nathan”, "in memoria d’un
lungo periodo di amicizia", scritto alla notizia della morte di Nathan nel
campo di sterminio di Belsen Biberach.
“Via del Lazzaretto
Vecchio, a Trieste, è una delle poche strade dagli ottocenteschi, severi
palazzi padronali, dove una atmosfera di agiata noia ristagna, ricordo di
un’età absburgica e opulenta, lontana dalle guerre e dalle catastrofi. In
questa via appartata visse per parecchi anni Arturo Nathan, trascorrendo lunghe
ore pazienti nella creazione (sarebbe più esatto dire, nella distillazione) di
un’opera pittorica che non dobbiamo lasciar dimenticata” (p. 478). La “segreta
alchimia” di quell’arte, creata “nelle profondità dell’essere… fuori dal tempo…
dove la fantasia non può errare libera ma spumeggia tra i rottami d’una civiltà
che si spegne”, trasuda nella affettuosa scrittura dell’amico, quasi a
restituirgli quella vita spezzata. Non vorrei esagerare, ma questa intimità con
il fare dell’arte che si incrocia con il fare e disfarsi della vita, è una
qualità preziosa di Gillo Dorfles, appena celata nel suo apparente, elegante
distacco.
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PAUL GAUGIN QUI E ALTROVE
Autoritratto |
Questa espressione tarda di Gaugin, un anno prima della sua
morte, l’oriente, il gelo della pietra e il fuoco, può aiutarci ancora una volta in occasione
della mostra ‘GAUGIN racconti del
paradiso’ che s’ è aperta a Milano il 28.10.15, parte delle offerte
relative all’apertura del MUDEC, il Museo delle Culture nei bei
locali di via Tortona, catalogo 24 ORE CULTURA. Naturalmente riparlare di una figura così impegnativa,
ben conosciuta, sia a livello
specialistico che popolare, quasi uno stereotipo dell’artista ribelle, eroico,
inquieto, incompreso, sfortunato,
significa, almeno per me, toccare solo un aspetto tra le tante, tantissime
facce che la sua opera ci presenta: l’aspetto
dell’alterità, dell’altrove. L’occasione potrebbe essere L’Esposizione Universale di Parigi del
febbraio 1889, in ricorrenza della gloriosa Rivoluzione. Il Governo stesso
se ne occupa. Oltre alla Tour Eiffel, molte strutture racchiudono diversi
soggetti, come il Palazzo delle Colonie inteso ad esaltare i vari possedimenti
francesi d’oltremare: villaggi ‘indigeni’, mercati del Senegal e del Gabon,
danze giavanesi,Tahiti, ricostruzioni di templi -quello di Angkor verrà
smontato e replicato in varie altre città -, una via del Cairo, escursioni in
cammello... Accanto a questo variopinto esotismo, in una sala del Cafè
des Artes allestito da M.
Volpini, che ha ottenuto la licenza di aprire una birreria all’interno
dell’Esposizione delle Belle Arti, espongono dei pittori, il gruppo ‘impressionista sintetista’ di Pont-Aven,
guidato da Paul Gaugin, un quarantenne combattivo, presente con 17 opere.
L’esposizione non ha successo. Il pubblico non ama gli innovatori che si fregiano ‘Impressionisti’ coi quali Gaugin aveva esposto nella loro 4°
mostra dell’81. Un “Etude de nu”, un
quadro raffinato nella tecnica, nella posizione e nella scelta del soggetto:
Etude de nu. Suzanne cousant -1880- |
Ora riprendo le
parole iniziali, oriente, gelo della
pietra, fuoco. L’oriente è un luogo, l’altrove
rispetto al qui. Il fuoco del sangue è la forza delle passioni, il gelo della
pietra è il mondo congelato nel conformismo e nella ripetizione. L’altrove per
Gaugin non è un lontano qualsiasi. E’ il mondo prima che l’ingordigia, le
macchine, la stampa, il denaro
corrompessero l’animo dell’uomo. Il pittore non è uno sprovveduto. Ha
sperimentato di persona ingordigia, macchine, stampa e denaro e li ha respinti. Il qui, l’ambiente che lo circonda, è
invece la negatività, l’applicazione di
quei parametri. Il mondo si è allargato. L’altrove, in generale, è una
diversità, non necessariamente un positivo; può essere una lontananza
facilmente raggiungibile con le nuove macchine, popoli prima sconosciuti, soggetti tecnicamente deboli e facilmente manipolabili, come i selvaggi
ridotti in animalità curiosa, e infine in servitù. Gaugin inaugura uno sguardo diverso, che avrà una
particolare fortuna nella pittura del ‘900. Uno sguardo che cerca una
alternativa ai disastri della modernizzazione e ne trova tracce nei mondi
lontani della vita contadina e in quelli, ancora più lontani, dell’Oriente e
dell’Africa. Si aggira nel Palazzo delle Colonie e schizza profili, oggetti,
decori come frammenti di una società
diversa, di una innocenza perduta. Un altrove esattamente opposto alla superbia
dell’uomo bianco, il contrario di quanto
si propongono gli organizzatori e di ciò
che la folla del grande pubblico plaude con soddisfazione, per esaltare la
propria superiorità ed eccellenza -la ricchezza, la pittura accademica e la scienza lo conferma,- il compatimento
di chi è rimasto indietro biologicamente e psicologicamente, un particolar
stadio della evoluzione animale, un utile e conveniente mezzo di sfruttamento
oppure, se ingombrante, di
annientamento. Gaugin si sente dall’altra parte, estraneo a quella superbia,
estraneo a questo tipo di società. L’altrove è un altro mondo. Prima di
cercarlo a ‘oriente’ lo trova nelle campagne della Bretagna, quel paesino di Pont-Aven che ho già ricordato, e
lì vicino, più sperduto, Le Pouldu, dove
aveva radunato intorno a sé giovani pittori come Emile Bernard, Emile
Schuffenecker e Paul Sérusier, e dove
aveva dipinto quel capolavoro che è ‘La
vision après le Sermon. La Lutte de Jacob avec l’Ange’. Ma il costo è alto. Mancano i quattrini e il
consenso. Un
altro episodio è indicativo di questa contraddizione, il rapporto con i due
fratelli Van Gogh, Theo e Vincent. Siamo nel maggio del 1888. Nel rispondere
positivamente, dopo molti dubbi, alla richiesta di Vincent di raggiungerlo ad
Arles dove avrebbero dipinto insieme e fondato una associazione di giovani pittori, l’”Atelier
du Midi”. Gaugin la interpreta come un’organizzazione commerciale con Théo nel
ruolo di mercante, il quale in effetti gli offre uno stipendio di 150 franchi
in cambio di un quadro al mese. Com’è noto il rapporto tra i due pittori si
deteriora rapidamente. A dicembre Paul Gaugin si allontana spaventato e avvisa
Theo di venire ad assistere il fratello che in una scenata di rabbia lo aveva
minacciato con un rasoio con il quale si era tagliato il lobo di un orecchio.
Conclusione drammatica, non soltanto uno scontro tra un esaltato, Vincent Van
Gogh e un calcolatore, Paul Gaugin. Entrambi autodidatti erano passati
attraverso gli stimoli dell’Impressionismo e del giapponesismo, entrambi erano
radicalmente polemici con la società e
la cultura dominante, entrambi erano stati in grado di esprimere nella propria
pittura la spinta visionaria, “il fuoco ribollente” che li rodeva e li
gratificava. Ma la forza di queste spinte, connesse ad un forte senso della
propria individualità, centro e origine della loro furia, non poteva giungere
ad un pacifico accordo. L’altrove, prima che un luogo, è una condizione, essere
sempre fuori da ogni compromesso; ed è
anche un tempo, il sogno di raggiungere un
essere prima delle catastrofi. Se per l’uno si propone la cura
psichiatrica, per l’altro nasce il progetto di Tahiti.
Arlésiennes au jardin public (Le zitelle) -1889- |
Aprile 1891 Gaugin sbarca a Papeete, il porto più importante
di Tahiti, con un incarico governativo per “fissare il carattere e la luce
della regione”. Il tentativo di inserirsi nella comunità europea, anche come
ritrattista, fallisce, e allora, piuttosto malandato di salute si trasferisce
alla meridionale Mataiea dove inizia la sua immersione nel mondo locale, spunto
per il sogno del paradiso primordiale.
Donna col fiore -1891- |
Ma non abbandona, anche per indispensabili guadagni, il
mondo della pittura e dei mercanti. E’ la contraddizione che lo accompagna.
Ritorna a Parigi dove il suo studio è un teatrino di attrazioni esotiche,
scritte in lingua maori, armi e maschere guerresche, stoffe, pareti gialle, paesaggi tahitiani: riceve gli amici
in abiti fantasiosi in compagnia di una scimmietta, un pappagallo sul trespolo
e una giovane mulatta giavanese, sua amante, Anna. Le numerose amiche, amanti e
spose polinesiane, sempre giovanissime, dai 13 ai 14 anni, testimoniano una
certa ambiguità rispetto alla sua simpatia per i nativi. Un altro aspetto della
contraddizione. Mi sembra che si possa svolgere in questo modo: la ricerca del
paradiso primordiale è strettamente connessa con lo sguardo che lo possa
esprimere, con il fuoco che dia la luce, con i colori e le forme della pittura.
Paradiso ed espressione sono inseparabili. L’artista perciò ne è lo strumento
indispensabile: “il mio centro artistico è nel mio cervello… faccio quello che
è in me”. L’artista si rende conto che l’altrove, la scoperta dell’ambiente
felice è sempre, anche, parte della
propria soggettività. Le soddisfazioni insieme alle delusioni e i limiti della
scoperta sono parte dei limiti della propria individualità. Così mi pare si
possa intendere un desiderio mai appagato, il sogno di un paradiso originario,
dove le emozioni, gli impulsi, gli scambi sentimentali, l’aggressività
dell’eros vivono liberi. Il peccato, il ricatto, la violenza e il tradimento
sono banditi. Un sogno che il suo pennello ci ha raccontato. Scrive nel 1894:
“Tutte queste disgrazie, la difficoltà a guadagnarmi regolarmente da vivere,
nonostante la mia fama, nonché il gusto per l’esotico, mi hanno indotto a
prendere una decisione irrevocabile: in dicembre torno e mi occupo subito di
vendere tutto ciò che possiedo, in blocco o al dettaglio. Una volta intascato
il capitale, riparto per l’Oceania. Nulla potrà impedirmi di partire, e sarà
per sempre”.
Il divertimento dello spirito maligno -1894- |
Ma Tahiti, dove
ritorna, non è l’ultima tappa, che sarà invece a millequattrocento chilometri
nord-est, le isole Marchesi. Qui il suo ultimo rifugio si chiamerà “Maison de Jouir”, Casa del Piacere. L’ultimo sogno, il luogo dove finirà il suo
percorso stremato dalle malattie a cinquantacinque anni.
Il
1° ottobre 2015 si celebra nel salone della Galleria d’arte moderna di Torino
una grande festa. Sono presenti il sindaco della città, il direttore del Musée
d’Orsay, il Patron della Casa editrice Skira e una folla di giornalisti e
critici d’arte. Il festeggiato è morto da un pezzo, ma il suo nome, la sua fama
si è consolidata nel tempo in compagnia di un movimento altrettanto amato: MONET e l’IMPRESSIONISMO. La mostra, ben documentata nel catalogo,
anche con un interessante contributo di Virginia Bertone, ‘Monet nell’Italia del Novecento’,
proseguirà sino al 31 gennaio 2016. Così la Galleria torinese prosegue
un percorso insieme al Musée d’Orsay iniziato con Degas, proseguito con Renoir,
in attesa ora di un promesso Manet.
Monet "Autoritratto" 1917 |
Non intendo seguire una carriera intensa, anzi
straordinaria, quella di Claude Monet, una creatività fermamente accolta e
consapevolmente guidata, un grande
vecchio che muore a ottantasei anni nel 1926 al culmine di una fama
internazionale; vorrei fermarmi soltanto su alcuni punti, ben presenti in
questa mostra, che mi paiono significativi della sua produzione e di ciò che ha
rappresentato nello sviluppo artistico nel ‘900. Parto dal ‘Déjeuner sur l’herbe’1865-66, una enorme tela, m 6 x 5 ca.,
un omaggio al quadro di Manet che aveva fatto scandalo due anni prima e per il
quale il giovane Monet si adopererà perché venga acquistato dallo Stato.
Le Dèjeuner sur l'herbe 1865-66 |
I personaggi
sono amici, Frédéric Bazille, Camille Doncieux, che diventerà sua moglie, e una
figura maschile seduta che viene individuata come Courbet, autorevole
consigliere. Colpi di luci tra il fitto fogliame. Forti bianchi variati tra
tovaglia e grandi gonne. Sulla corteccia dell’albero, nel bozzetto del Museo
Puskin, il segno di un cuore trafitto. Un senso di tranquilla soddisfazione. Il
dipinto, varie volte ripreso ma non finito, verrà abbandonato presso un
creditore, dal quale, più di dieci anni dopo, in pessime condizioni, Monet lo
ricompra, elimina le parti troppo deteriorate, lo ritocca, lo divide in due e
conserva nel suo studio la parte migliore, quella che vediamo oggi in mostra.
Familiarità, luminosità, riflessi, morbidezze naturali, e poi cieli, acque,
nebbie…
Ora vengo alla prima (1874) e all’ultima (i886) mostra
degli ‘Impressionisti’. Monet nel ‘70, allo scoppio della guerra
franco-prussiana, si era rifugiato con Pissarro e altri artisti, a Londra, dove
aveva ammirato Turner e gli ambienti nebbiosi intorno al Tamigi. Nel 1874, alla
prima mostra di un gruppo di giovani artisti (Société Anonyme) nello studio del fotografo Nadar, Monet espone “Impression. Soleil levant”, dipinto due
anni prima nel porto di Le Havre. E’ noto che Louis Leroy, critico del giornale
‘Le Charivari’ adottò il termine ‘impressionismo’ in senso negativo, una impressione
imprecisa, confusa. Al contrario di altri, come Jules Castagnary, che scrive di
“puro idealismo” in una “sensazione evocata”. I destinatari accettarono il
termine che diventerà il loro pubblico riconoscimento.
Un salto, una diversa forma di affermazione si
sviluppa in relazione all’ultima mostra degli Impressionisti del 1886, alla
quale Monet non partecipa, quando la più
vivace discussione si sviluppa intorno all’opera ‘Une dimanche après-midi à l’ile de la Grande Jatte’ di Seurat con
la disposizione geometrica dei personaggi e l’uso sistematico dei pigmenti
colorati. Nasce il Neo-impressionismo.
Monet non ci sta. Le drammatiche 38 opere dedicate agli scogli di Belle-Ile è
la risposta alla immobile serenità di ‘Le
Bec du Hoc’ di Seurat: “Ho capito che per dipingere realmente il mare, si
deve guardarlo ogni giorno, in ogni momento del giorno e nello stesso posto per
riuscire a conoscere la sua vita in questo posto particolare; così rifaccio lo
stesso motivo quattro o anche sei volte”
(riferito da Alice Hoschedé). Così nasce il concetto di ‘serie’. Non è
l’oggetto che conta, ma le sue variazioni luminose col passare del tempo. Così
l’oggetto scelto è semplice, legato al lavoro dei campi, al cambiamento delle
stagioni, alle differenze di luce. Non una persona, non un animale, non uno
strumento. Le piccole case dello sfondo segnano l’inizio della barriera scura
che separa il covone dal chiarore del cielo. Gli amici scrittori come Mirbeau e
Mallarmé parlano di inesprimibile, di intangibile silenzio, di preziose
irrealtà, di suggestione, insomma i temi del simbolismo. E allora i commentatori ricordano che Monet non era un
lettore di Bergson e di testi difficili; che non rinnegò mai l’Impressionismo e
il suo attaccamento alla natura, comunque s’intenda questo termine (per es. la natura del giardino giapponese ricostruito); che spesso
la ripetizione dei suoi temi era anche legata al successo commerciale. Ma anche
che Monet frequentava volentieri circoli di intellettuali, che si era proposto
come interprete della francesità (la forza, la capacità della terra e del suo
rinnovarsi), che la ricchezza della luce era un regalo all’umanità. Seurat, il
pittore dell’immobile perfezione, garantita dalla scienza, moriva a trent’un
anni nel1891, tre settimane prima che la serie dei covoni venisse messa in
mostra.
Ora, prima di concludere, vorrei aggiungere qualche
osservazione su questo rincorrere il cambiamento luminoso, passo dopo passo,
attimo dopo attimo, sull’attenzione alla nebbia londinese, al riflesso
nell’acqua, che, come uno specchio mobile, toglie peso, realtà all’oggetto. E’
un timore che l’oggetto sfugga, mi scappi di mano. E affretto la mano con
piccole, veloci pennellate, e altre ancora perché la scena sta cambiando, si
fluidifica. Ecco allora il gran finale delle ninfee e il doppio trionfo, della luce e dell’acqua. Così
l’oggetto, inseguito dal desiderio,
scompare (o si trasforma) nella imprendibilità dell’atmosfera e nei
gorghi e negli specchi dell’acqua.
In mostra anche due
facciate della cattedrale di Rouen (foto in alto), un’altra serie, due di una trentina,
dipinte tra il 1892 e il ’94, più o meno dallo stesso punto di vista. Si
trattava di esaltare un altro aspetto della gloria francese, le sue grandi
costruzioni gotiche, esaltate, esplose, bruciate, svanite nella frenesia del
pennello. Amate e perse. Vorrei terminare con un’altra opera di Monet, ‘Londra,
il Parlamento, effetto di sole nella nebbia’, 1904. (foto in basso).
Là, nella campagna, il sole bruciava i covoni, qui è la nebbia
vincitrice. Ma il risultato è lo stesso: l’oggetto di un desiderio inappagato
lascia la meravigliosa traccia della sua sparizione. La via della pittura del
900 era tracciata. Nel 1913 Kandinskij alla vista d queste opere scriveva:
“…Sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto”. Avrebbe in seguito capito anche lui; quel
mancamento era un trionfo. L’inseguimento del tempo si era trasformato nello
sfinimento di ogni peso, si era trasformato in meravigliosa leggerezza.
***
ODDIO GLI SPIRITI!
FOTOGRAFIA FUTURISTA
s’intitola la bella mostra fotografica alla Galleria Carla Sozzani sino al 1
novembre 2015 a cura di Giovanni Lista. Vorrei cominciare con un accenno
all’inizio del processo fotografico e alla consuetudine di riconoscerlo come un
raddoppiamento della realtà. Un modo di dire affrettato: lì c’è un oggetto,
qui, c’è una immagine manipolabile, moltiplicabile e duratura a cui si aggiunge
il senso del ‘c’è stato’, ‘il était sùr que cela avait été’di Roland Bartes. Un
oggetto esterno è stato acquisito dalla mia soggettività. Anche la foto
‘spiritica’ è dello stesso tipo: vuole assicurarmi che lo spirito che mi è
apparso gode di una sua propria esternità, di una sua specifica autonomia. La
scoperta dei trucchi fotografici riduce ma non sopprime la credenza negli
spiriti, comunque intesi, fantasmi, ossessioni, ricordi, nella loro capacità
comunicativa. Ora, com’è noto, lo sviluppo della pittura ‘moderna’ trascura via
via l’autonomia, il primato dell’oggetto esterno (che gli spiritisti, col positivismo,
intendevano privilegiare), per sviluppare il ruolo della mia soggettività
(sogni, emozioni, capacità percettiva ecc.) e renderlo con una manifattura
sapiente, stabile, riconoscibile, fruibile: dal soggetto all’oggetto,
dall’artista all’opera. Con la fotografia fotografica si credeva di aver
catturato il mondo. Con la fotografia antifotografica si credeva di aver
catturato lo spirito. Due illusioni, entrambi produttive. Il mondo però era, è
fatto di entrambi.
Mi scuso di questa
rozza semplificazione, ma credo ci serva ad accompagnare gli esempi che la
mostra ci presenta, con al centro il variegato svolgersi del Futurismo. Fine
della fotografia? No, naturalmente. Fine della fotografia artistica? Sì e no.
Sì, se s’intende quella fotografia che voleva gareggiare con la pittura
figurativa. Rimane ovviamente, anzi si moltiplica il freddo foto-documento. No,
se s’intende l’insieme dei mezzi fotografici di cui l’artista dispone. In
questo caso due artisti, il giovane Boccioni e un fotografo romano -siamo
nel1905/1907- in una ‘camera a specchi’: “io/noi” scrive Boccioni, uno e
plurale, con l’ambiguità: l’uno è plurale? Oppure l’uno è contro il plurale?
I fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia s’interessano
all’immagine in movimento, già studiata da Muybridge e Marey, i quali
individuano e fotografano dei punti successivi dello spazio corrispondenti ai
momenti successivi di tempo, ma saltando la continuità del movimento, che
invece i Bragaglia registrano in una fascia “intermomentale” tenendo aperto
l’obbiettivo quando il movimento si compie: questa è la Fotodinamica futurista
che i due fratelli perfezionano con mostre e pubblicazioni tra il 1911 e il
1913, senza interpellare Boccioni -da loro pure dinamicamente fotografato- che
offeso la condanna senza appello: non “abbiamo bisogno della grafomania di un
fotografo positivista del dinamismo…” (Lettera a P. Sprovieri del ’13). Un
equivoco?
G. Bonaventura "Ritratto di A. G. Bragaglia con il fratello", sdoppiamento incosciente, foto spiritica truccata |
Con la guerra (a cui partecipano come volontari molti
futuristi) e la morte di Boccioni e Sant’Elia le attività artistiche in Italia
naturalmente si riducono, ma non si spengono. Nel ’15 esce, a firma di Balla e
del giovane Depero ‘Ricostruzione futurista dell’universo’.
L’attività inesausta di Fortunato Depero, in chiave
fabulistica-fantastica, oltre alla pittura, è varia e sorprendente: canzoni
rumoriste,‘BALLIPLASTICI’- Teatro dei Piccoli, oggetti d’arredo (Casa d’Arte a
Rovereto), arredamenti, gilets d’autore (magliette stampate in mostra),
giocattoli, mobili, libri imbullonati, collages di marionette colorate su
paesaggi in bianco/nero fotografati da Pedrotti (in mostra), pubblicità, tanta
pubblicità, in particolare per la Ditta Campari, importanti edifici per
esposizioni (Il Padiglione del Libro di Monza)
ecc. ecc.
Un altro autoritratto, questa volta femminile, si aggiunge
alla galleria futurista, l’io+gatto della fotografa triestina Wanda Wulz, che
alla violenza solitamente maschile aggiunge una sottile minaccia animalesca,
una vitalità sotterranea non sai se umoristica o preoccupata.
I movimenti artistici del ‘900, si sa, non si restringono ai
‘confini’. L’uso libero della fotografia come mezzo di riflessione e
provocazione artistica è proprio di quegli anni che vedono l’origine del
Futurismo e l’attività del movimento Dada da Zurigo a Berlino (il
‘fotomontaggio’), l’attività singola di Man Ray con le sue rayografie, di Shad
con le shadografie, di Duchamp, dei Surrealisti, dell’Avanguardia russa, del
Bauhaus ecc. Negli anni ’30 i futuristi sono affascinati dal volo. Tutto
diventa aereo, aeropoesia, aeroplastica, aeromusica e, naturalmente,
Areopittura. La pesantezza materiale svanisce, l’energia immateriale trionfa.
Tato (Guglielmo Sansoni) compone un fotomontaggio dell’amico Mino Somenzi con
l’elica dell’aeroplano e gli occhi sgranati, lo sguardo preoccupato (minaccioso?) fisso sullo
spettatore. Lo vorrebbe includere nella sua tensione. Nel vortice dell’elica
Tato include anche Tommaso Marinetti.
|
Tato "Fotomontaggio con elica" |
Tato "Fotomontaggio con elica e Marinetti" |
Così Piero Boccardi ritorna alla foto-grafia, disegno della
luce (e dell’ombra) e sembra introdurre al teatrino personale di Munari,
camuffato ridicolmente da pistolero e cow boy. Le audacie sperimentali tornano
alle origini, luce e ombra, figura in posa. Gli spiriti luminosi hanno
terminato il loro percorso. Così, credo inavvertitamente, termina questa
intelligente mostra, un palcoscenico di suggerimenti.
settembre 2015
settembre 2015
***
LA GRANDE MADRE UNA MOSTRA GRANDE
“Io
sono la tua bellissima madre”. “Suck my
breasts I am your beautiful mother” scrive sul corpo della
sua immagine femminile Doroty Iannone
In anticipo, rispetto alla stagione delle grandi
mostre, per rientrare nei tempo dell’EXPO, si è aperta il 25 di agosto a
Palazzo Reale di Milano in collaborazione con la Fondazione Trussardi “La Grande Madre” e rimarrà aperta sino
al 15 novembre. Curatore Massimiliano Gioni, già responsabile della Biennale
del 2013, della quale avevo scritto a suo tempo. La personalità del curatore,
delle sue scelte, si dimostra anche questa volta. Introduzione con documenti
poco conosciuti e molto personali, allora, nel 2013, il libro Rosso di C. G.
Jung, ora i disegni di meditazione di
Olga Foebe-Kapteyn e l’uso di una varietà sconcertante di materiali, incisioni,
disegni, pitture, sculture, proiezioni, manifesti, libri, a cui si aggiunge la
teatralità, l’uso accorto degli ambienti del Palazzo, quelli restaurati di
fresco, con la cupola dedicata a Louise Bourgeois, amorini, fiori e decorazioni
a profusione, e le ultime sale ancora da restaurare, con muri scrostati o mezzi
intonacati a cui si aggiunge una presentazione non prevista ma perfetta dato il
soggetto della mostra: Massimo Gioni parla via skype da New York da dove non ha
potuto spostarsi data la nascita di un figlio, anche lui, appena nato,
fuggevolmente presentato nella emozionata video-conferenza . La varietà e il
gran numero, 400, delle opere esposte in 29 sale, richiede al visitatore una
particolare capacità di attenzione, di ripensamento, di resistenza, di ritorno,
inusuale rispetto al rapido ‘consumo’ a cui siamo solitamente abituati. Una nuova Enciclopedia, per riprendere
un termine usato nella Biennale del ’13, dove le opere esposte sono spunto per
altre opere, per altri pensieri e sorprese. Quindi si può iniziare il discorso
con una certa libertà, anche se la cronologia aiuta. La Grande Madre è termine antico che incute,
di per sé, rispetto. Siamo nel ’900
e due nomi ne introducono l’apertura, quelli di Freud e Jung, con le loro le
riflessioni sull’affettività, l’inconscio, la sessualità, la repressione, i
simboli. Quello che sembrerebbe un potere femminile unico e totale, creare un
essere umano, riconosciuto nelle divinità di un lungo periodo nebuloso che
chiamiamo pre-istoria, viene sottoposto anche nella nostra vantata modernità a
controlli, restrizioni, comandi, conflitti, rivolte, un rapporto insomma
difficile tra donne e potere (maschile), pur con una progressiva affermazione dei
ruoli femminili. Scrivo tra parentesi potere (maschile) perché questo conflitto
tra ‘figure’, quella della madre e quella del padre, s’instaura già nella
stessa vita prenatale ci accompagna
dentro la nostra stessa individuale soggettività. Ma Cioni, pur riconoscendo
una “maternità immersa in una atmosfera straniante, in cui si mescolano
sentimenti opposti, affetti profondi e rifiuti spietati”, predilige l’incontro
allo scontro, sfogliando “una sorta di grande album di famiglia …Tanti
individui raccontano le loro storie…La storia del ‘900 non solo come scontro di
generazioni, ma come storia di sorellanza, di simpatie che si rincorrono
attraverso gli anni… Una storia dell’arte in cui si possa essere al contempo
madri e sorelle e non solo padri e padroni”. E la produzione artistica è un
terreno privilegiato, relativamente
neutro, dove la riflessione, la critica, la rivolta si esercitano attraverso un
filtro, uno spostamento che attenua la contrapposizione (anche se a volte la
prepara e la provoca). Tesi non sempre accettata dagli autori (il rapporto
vita-opera), di cui rimane comunque il mormorio duraturo delle opere di cui
possiamo apprezzare senza rischi le raffinatezze, gli ingegnosi sberleffi, le
condanne radicali, i progetti audaci. Provo a citare alcuni luoghi in mostra di
questa vicenda maternale. Il ‘macchinismo’, ‘le macchine celibi’. L’essere meccanico è la promessa di una
tecnica erotica, attrattiva e sfuggente, il potere della indefinita
trasformabilità. Duchamp veste i panni della “donna nuova” e si firma Rrose Sélavy (eros c’est la vie). ‘Il
Grande vetro’ si presta ad interpretazioni diverse: forme meccaniche
desideranti e improduttive. Ciò che sarà più tardi l’isteria per i surrealisti:
“Il regno della sessualità non riproduttiva”. La macchina in esposizione,
l’Erpice descritto da Kafka ‘Nella
colonia penale’ non produce, ma incide sul corpo del condannato a morte i
crimini che ha commesso. Una dichiarazione, un rapporto tra macchina, scrittura
e corpo. Né manca il contrasto ironico tra immagine e commento scritto in cui
si diverte Francis Picabia, per es. in un motore a vapore con il titolo: Fille née sans mère.
Non
nella crudeltà ma nella soddisfazione vitale mi sembra si muovano i gesti di
Lucio Fontana ben rappresentato con le sue sessuali, esuberanti escavazioni.
L’Enciclopedia è fatta di tanti pezzi diversi, dove spesso la diversità è maggiore della parentela. Mi pare ne siano buoni esempi queste tre immagini, tutte con date significative: 1) Der Vater 1920 della dadaista Hanna Hoech, ‘il Padre’, una figura androgina con un bambino in braccio colpito da un pugno, mentre intorno ballerine danzano spensierate; 2) 1936, Dorotea Lange fotografa per la Farm Security Administration, miseria in California, “Una donna di 32 anni, madre di 7 figli; 3) Oscar Bony, La familia obrera 1968, una famiglia nucleare, padre operaio, madre, figlio, seduti su di un piedistallo in mostra per otto ore al giorno, accompagnati da una registrazione della loro vita, pagati dall’artista il doppio del salario di fabbrica, parte di una esposizione collettiva chiusa dalle autorità.
Alla libera rotazione della prima immagine si contrappone la falsità immobile della terza, la falsa sacra famiglia e la disperazione severa della seconda.
Un umorismo, divertito o sarcastico, accompagna le prove di molte artiste, quasi a volersi allontanare da una seriosità che sembra troppo connessa alla non amata autorità dei soggetti (la supponenza delle opere e degli autori). Per esempio la Mumum (‘Mamma’) dell’inglese Sara Lucas, una poltroncia sospesa di forme mammellifere fittamente moltiplicate, fatte di collant imbottiti.
Oppure l’autoritratto trasformato da un accurato montaggio appena volutamente visibile di Cindy Sherman, già ben nota per il molteplice uso del proprio corpo come supporto agli stereotipi kitsch dell’arte, della moda e della pornografia, con una gran varietà di parrucche, trucchi, protesi, costumi e oggetti di scena, tutti intelligentemente esagerati.
Oppure
l’animazione di Nathalie Djurberg, la casa dentro la casa, l’attaccamento
filiale e grottesco all’utero di ‘It’s
the Mother.
Da una
Enciclopedia che si rispetti non ci sono luoghi più rappresentativi di altri.
Il ‘taglio’ è largo ma ben segnato: l’emergere autonomo, per quanto faticoso e
contradditorio, della figura femminile nelle arti e nel costume del XX° secolo.
Gli esempi che ho adoperato potrebbero moltiplicarsi o restringersi a
piacimento, senza sbagliare.
Prima di chiudere vorrei riprendere il suggerimento di Cioni, andare a
rileggere La camera chiara (La chambre
claire) di Roland Barthes insieme alla sua fotografia di lui bambino in
braccio alla madre dal titolo ‘La
richiesta d’amore’ (da Roland Barthes
par Roland Barthes). Alla morte della madre nel 1977 il figlio va a frugare
tra le vecchie fotografie. Riflette sul doppio senso che ne risulta, “la Morte
in persona” e la certezza che qualcosa è stata. Ma per la madre si tratta d’altro, un ritrovamento emotivo della sua animula individuale, un grido, fine di
ogni linguaggio: “C’est ça!”.E ora giungo veramente al termine di questa
carrellata con due immagini femminili parallele, quella di Virginia Woolf in
posa per Vogue” vestita con gli abiti della madre e quest’altra, il ‘Self Prortrait as My Mother J. G.’. (Autoritratto
come mia madre) di Gillian Wearing, simbolo della mostra, la figura materna
incorporata, parte di sé, in una immagine ovvia, con eleganza stereotipata, controllata, senza
dramma. Non c'è sforzo, non c'è sorpresa. Io sono lei.
Marc Chagall, la grafica
Dopo la bella mostra
retrospettiva a Palazzo Reale di Milano 2014-2015, di cui ho scritto a suo
tempo in questa rubrica, i racconti si moltiplicano con l’opera grafica, ora a
Monza.
“Qualcosa mi sarebbe mancato se, a parte il colore, non mi fossi
impegnato, ad un certo momento della mia vita, anche con l’incisione”. Un asciugamento che
pare ancora più concentrato nella vicenda.
I Musei Civici e l'Arengario di Monza ospitano dal 4 settembre 2015 oltre trecento incisioni dei tre cicli grafici più importanti dell’artista russo: le Anime morte di Gogol’, le Favole di La Fontaine e la Bibbia.
I Musei Civici e l'Arengario di Monza ospitano dal 4 settembre 2015 oltre trecento incisioni dei tre cicli grafici più importanti dell’artista russo: le Anime morte di Gogol’, le Favole di La Fontaine e la Bibbia.
***
ROUSSEAU BURATTINAIO DEI SOGNI
di Giorgio Colombo
Je ne sais pas si vous êtes comme
moi, mais quand je pénètre dans ces serres et que je vois ces plantes étranges des pays exotiques, il me
semble que j’entre dans un rêve.
16 Henri Rousseau, in Arsène Alexandre, La vie et l’oeuvre d’Henri Rousseau,
peintre et ancien
employé
d’octroi, in “Comoedia”, 19 marzo 1910.
Ho scelto di riprendere il caso
Rousseau (la mostra al Palazzo Ducale di Venezia sarà prorogata sino al 6 di
settembre) ripensando a una delle sue immagini più misteriose. Gli animali
nella foresta sono commedianti (farceurs);
fissano lo spettatore coi loro occhi rotondi in uno spazio teatrale, dove è ben
segnato il primo piano col fitto fogliame allungato, il secondo con le quattro
figure principali, e poi i terzi, i quarti ecc. con la vegetazione sempre più
rimpicciolita sino al cielo piatto del fondo. Una scena dichiaratamente
artificiale, non facile da decifrare. L’artista aveva già scritto alcuni drammi
teatrali, sempre rifiutati dai teatri. L’originale manoscritto di “La Vengeance d’une orpheline russe”
1899, viene acquistato da T. Tzara. Ora passo ad
alcune caratteristiche del ‘personaggio’ Rousseau: una continua ricerca di
riconoscimenti, medaglie, attestati, compratori; una estraneità alle più
innovative prove dell’arte sua contemporanea, che, pur in gruppi ristretti,
invece l’ammira (Kandinskij, Pissarro, Jarry, Apollinaire, Delaunay, Picasso…);
un interesse per i maestri dell’arte ‘classica’, visitata assiduamente nei
musei, sganciata però da ogni contesto storico-critico. Questi aspetti, propri anche
di un artista medio parigino, magari un po’ incolto e stravagante - genere egizio definisce la pittura di Picasso
- (di cui però riceve l’appoggio insieme a quel gruppo emergente di artisti che
ho già nominato), lo allontanano però dalla cultura circostante in movimento,
dall’affanno di un riposizionamento continuo, di un definirsi nel tempo, prima
di.., dopo di… E allora, ecco, si apre senza sforzo il mondo dei sogni, quello
che in psicologia si chiama l’inconscio.
Tiene accanto al letto matite e fogli, per annotare quanto gli suggerisca
l’ultimo sonno, non diversamente di quanto faceva nello stesso periodo, in modo
certo più sistematico, Carl Gustav Jung. Ma la spinta inconscia non è un fiume tranquillo ma deve superare filtri
e sbarramenti, col risultato di immagini contrastanti: quelle del perbenismo
professionale: la posa dell’artista, il cappello floscio, barba e baffi, la
pubblicità delle sue offerte (premi, medaglie, lezioni ecc.), l’esecuzione
meticolosa, già un passo verso un mondo incantato, un sogno accuratamente
coltivato. Una felice incongruenza che incontrerà subito l’interesse di un
ristretto gruppo di pittori e più avanti, dopo la sua morte, le simpatie del ‘Surrealismo’. Provo a
indicare alcuni aspetti di questa singolare combinazione: la foresta, presente
simile in numerosi quadri, dipinta con
la solita cura e ripetizione. I modelli? I rami raccolti nei giardini vicini e
pubblicazioni popolari correnti. Non smentisce la sua conoscenza del Messico, la
partecipazione all’infelice spedizione di Massimiliano d’Asburgo, e Apollinaire
la conferma durante il festeggiamento promosso da Picasso nel 1908, per riderne
allegramente o confermare l’aura mitologica in cui si muove il pittore: “Tu te
souviens, Rousseau, du paysage astèque,/
Des forets où poussaient la mangue et l’ananas,/ Des signes répandant
tout le sang des pastèques, / et du blond empereur qu’on fusilla là-bas. / Les
tableaux que tu peins, tu les vis au Mexique…”.
La foresta è
un archetipo che si ritrova spesso nelle sue opere. La foresta nasconde,
ripara, protegge, spinge l’occhio a scoprire soggetti improbabili, quasi un indovinello.
Quei due farceurs che si abbracciano
teneramente, illuminati dal basso sono scimmie? Una manina rossa, artificiale,
forse li accarezza. Chi la tiene? Gli animali sono umanizzati. Uomo-scimmia,
l’uomo nella sua innocua animalità. La bestia nera, grossa, la chiostra dei
denti in evidenza, che si para davanti ai due ha un tocco più inquietante, una
punta appena più minacciosa. Più indietro, più piccolo, seminascosto, un
animaletto birichino, non ci guarda, sembra fermato a un palo. Immobile sta l’uccello
sul ramo. Si mostra completo, non si nasconde. È comparso in altre pitture, è ripreso
dal ‘Magasin pittoresque’: minaccia?
Controlla? E ora la più enigmatica presenza: una bottiglia di latte, spinta da
una lunga foglia maneggiata dall’animale di destra, versa il suo latte tra lo
sbarramento vegetale del primo piano. È l’immagine della madre? Della
mancanza, della lontananza di quella immagine? La bottiglia versa il suo latte,
un nutrimento sprecato. La madre vera, Eléonore, muore ad Angers nel 1890, con
scarse tracce di vicinanza al figlio. Rousseau
ha 46 anni. La ricerca della figura femminile, madre, mogli, amori desiderati,
sognati, non l’abbandonerà mai sino all’ultima sua opera:
Vorrei terminare
non col gran finale, quello
sopracitato, Yadwigha, il nudo sul sofà, assediato da foglie forti, una per una, e grandi fiori fiammanti, l'indice puntato forse verso il suonatore nero (Rousseau suonava il violino), un’apparizione scura segnata da colori brillanti (la tromba, il gonnellino), il fallo incantatore, quasi sorto dalle belve mansuete dagli occhi attoniti, sgranati, ma in altre opere precedenti con il ricordo di una infanzia incerta, il bambino/bambina adulti, il rapporto tra crescita e infanzia, il
fanciullo che l’adulto conserva in sé, la capacità di sorpresa, di
rinnovamento, e, insieme, quello che l’adulto sarà nello sguardo preoccupato della crescita,
il peso, l'incomprensibilità del corpo, e viceversa la mancanza di
peso nell'altrove, la sospensione e la caduta, il perdersi e Il ritrovarsi.
Sono seduta o volo sui fiori?
Sono una bambola, un burattino, oppure un fiore, un fiorire? Una ragazzina che
sogna o guarda ansiosa l’ignoto? Gli occhi, sbarrati, si somigliano: lei, donna di fiori e lui, il
bambino/uomo delle rocce? Il viso adulto, il vestito improbabile, quelle righe
sul bianco! il paesaggio lunare, le proporzioni stravolte. Dove mi trovo? Ecco
la sorpresa Rousseau, il sogno, le sue speranze e paure, le nostre speranze e
paure.
[Agosto 2015]
***
ARTE IN COPIA
di Giorgio Colombo
Nelle
belle sedi della Fondazione Prada, a Milano -gli spazi progettati da Rem
Koolhaas- e a Venezia, nei saloni di Cà Corner della Regina, dove si ospitano
due mostre curate da Salvatore Settis (sino al 13 settembre), si pone un
problema che accompagna tutti i manufatti d’arte, la loro unicità o/e la loro
produzione seriale. Nel primo caso è segno della conseguente unicità, per
prestigio e ricchezza, del loro possessore, nel secondo caso della diffusione
ed uso collettivo. ‘Serial Classic’ a Milano e ‘Portable Classic’ a
Venezia, trattano di una produzione artistica seriale, rivolta ad una pluralità
di individui in un’ampia estensione temporale. Se ci si riferisce ad un periodo
dal VI, V sec. a.C. sino ai primi tempi della nostra era, nella sola Olimpia
(come del resto ad Atene, a Delfi, a Rodi) c’erano circa 3000 statue di bronzo,
la materia più pregiata -e anche di più semplice riproducibilità - accanto al
marmo e alla terracotta. Quindi oltre alla serialità si parla di ‘Classico’, un termine che, anche con il
neo davanti, ‘Neo-classico’ ci
accompagna sino ai nostri giorni, con il senso di austero, autorevole,
ritrovabile in ogni tempo. Il termine deriva da ‘cittadino di prima classe’
della repubblica romana. Due sono i fatti che mi sembra utile ricordare. Primo,
la ripresa del classico si caratterizza per una voluta semplificazione tra cui
la eliminazione dei colori e quindi la
prevalenza del bianco, anche perché i modelli rimasti, quei colori che pure
avevano, erano spariti col tempo, gli infossamenti, le intemperie. Secondo, la
sparizione dei più antichi esemplari e le numerose copie tarde, ellenistiche e
romane. Il testo di Settis va citato per intero: “Nel 1875 si aprì la missione
di scavo tedesca a Olimpia, attiva ancora oggi. Ma gli scavi, per quanto
accurati, hanno recuperato poche decine di frammenti, spesso minuti: occhi,
dita, piedi, mani, genitali, ciglia, orecchie... Nella lunga eclisse che
chiamiamo “la fine del mondo antico”, e che milleduecento anni dopo travolse
anche la celebrazione quadriennale delle Olimpiadi, perfino le statue dei più celebri maestri furono
fatte a pezzi: il nudo metallo valeva ormai più di qualsiasi ‘opera d’arte.
L’umile testimonianza di questi frammenti da Olimpia simboleggia bene quel che
accadde in tutto il mondo antico: i grandi bronzi greci più o meno interi oggi
non sono che un centinaio in tutto il
mondo, e quasi tutti sono tornati alla luce negli ultimi centoventi anni, spesso emergendo dal mare, millenni
dopo il naufragio della nave che li trasportava altrove”, come i ben noti
‘Bronzi di Riace’. Le non numerose opere rimaste, che furono gli stessi Papi
romani a raccogliere e a collezionare, sono copie di copie. Siamo nel primo
‘Rinascimento’, quando la letteratura e l’arte ‘classica’ ritorna ad essere un
modello da ammirare e da imitare, una sua nuova nascita, una ri-nascita.
Sto
parlando di copie in bronzo, risultato di un procedimento complesso che parte
da matrici fisse, stampi parziali, busto, braccia, testa ecc., che vengono poi
saldati, ripuliti e verniciati. Nel 1400-500, riscoperte, le parti mancanti
venivano rifatte e i soggetti liberamente interpretati. L’archeologia
8-9centesca ha cercato di rimettere ordine e di isolare l’antico dagli
aggiustamenti successivi. Ma qui vorrei
fermarmi sul concetto di ‘copia’. Possedere una scultura singola, magari
firmata dall’autore famoso, è un privilegio che solo i ricchi, i potenti
possono permettersi. Ma l’uso collettivo nei templi, nelle piazze, nelle
festività, nelle gare sportive, nelle tombe è altrettanto richiesto. Non si
tratta del passaggio dal manoscritto alla stampa. L’immagine vale nella sua
totalità, non nella sua letteraria descrizione. Eppure il sociale richiede la
molteplicità, magari garantita da una mano ‘superba’, dove la parola ‘copia’
sembra svilire. Così anche le copie preziose godono di particolari individuali
e preziosi (gli occhi, i bracciali, l’elmo, la collana, i colori). Passano gli
anni “di mezzo”, ri-nasce la passione dell’antico. Altri sono i poteri, altre
le collocazioni. La misura può cambiare, dal gigantesco al ‘portatile’.
Quest’ultimo, più casalingo, adatto ai diversi spazi dei nuovi proprietari.
Ho
parlato della copia di bronzo, la più prestigiosa, a cui si aggiunge quella in marmo che non
possiede una forma fissa nella quale riprodursi. La copia in marmo non può
essere che manuale. Una bottega ben organizzata può sfornare molte copie, mai
del tutto uguali tra di loro. Passa il tempo, anzi i secoli. Le città spopolate
si ripopolano, ritornano centri di commerci e di cultura, il nuovo titolare
dell’impresa manovra simboli, il denaro, più che ‘cose’, e tra i simboli di
prestigio rientra l’arte in generale e l’arte classica in particolare. Anche i
pittori dei nuovi palazzi guardano con venerazione agli esempi dei classici.
Gli spazi abitativi e di lavoro si restringono, si ‘privatizzano’. Le sculture
devono potersi collocare anche in luoghi domestici, sui tavoli, nei salottini,
negli studi. Ecco il trionfo della manifattura portatile e della varietà dei
materiali, dal marmo prezioso, al vetro, alla ceramica. Nelle sue otto repliche
dal 1500 al 1700 L’Ercole Farnese
passa da un’altezza di 317 cm. a 15 cm.
L’uso
della carta stampata introduce un'altra moltiplicazione di immagini, quelle
delle cosiddette ‘incisioni’, lastre
di legno o di metallo incise dall’artista e stampate su carta in più esemplari.
Sigle, timbri, firme ne garantiscono l’autenticità e il valore.
Dunque
il termine ‘copia’ mantiene un doppio
significato: la esistenza di un
originale, unico e prezioso, e le successive copie, in genere di altra mano
e di altro valore. Divinità, Madonne, Santi, Gesù bambini ricavati da originali
illustri, si sono sparpagliati per ogni dove nelle misure, asimmetrie e
modalità più svariate. Le più recenti e raffinate tecniche di stampa hanno
introdotto il termine ‘ri-produzione’, a
volte, con l’informatizzazione, rispettando non solo le misure dell’originale,
ma anche la grana del supporto, gli spessori delle paste colorate e gli andamenti
delle pennellate. Un esempio impressionante è la riproduzione della grande tela
di Paolo Veronese, ‘Le Nozze di Cana’ (sottratta
dai francesi) nel Palladiano
refettorio all’isola di S. Giorgio di Venezia.
Oppure la inesistenza dell’originale, una matrice diversa dal risultato compiuto, per cui le copie che se ne ricavano sono, a loro modo, tutte originali, per la materia, la misura, il colore, l’inserzione di dettagli diversi ecc. Insomma la sacralità del pezzo unico, l’aura spirituale e materiale, la mano e l’ispirazione, il significato meta-fisico e il costo inestimabile, poco per volte si attenua. Dico apposta ‘attenua’ e non ‘sparisce’, perché ne rimane una debole traccia che ne fa pur sempre un oggetto d’affezione, una scintilla di stupore: il mistero di un’apparizione, o forse l’ombra di quel mistero.
Oppure la inesistenza dell’originale, una matrice diversa dal risultato compiuto, per cui le copie che se ne ricavano sono, a loro modo, tutte originali, per la materia, la misura, il colore, l’inserzione di dettagli diversi ecc. Insomma la sacralità del pezzo unico, l’aura spirituale e materiale, la mano e l’ispirazione, il significato meta-fisico e il costo inestimabile, poco per volte si attenua. Dico apposta ‘attenua’ e non ‘sparisce’, perché ne rimane una debole traccia che ne fa pur sempre un oggetto d’affezione, una scintilla di stupore: il mistero di un’apparizione, o forse l’ombra di quel mistero.
***
Un solo colore. Il soffio sottile della
riduzione
di Giorgio Colombo
Questa elegante, finissima mostra di pittura monocroma (Dansaekhwa) coreana
(evento collaterale della Biennale di Venezia nello storico Palazzo
Contarini-Polignac, maggio-agosto 2015) mi suggerisce di arretrare nel tempo
per introdurre una distinzione che ha percorso un po’ tutta la vicenda della
pittura, un gesto che accompagna l’uomo dalle sue origini: di-segnare figure,
figure-parole, parole. Le figure si sono via via avvicinate all’oggetto
figurato, le parole all’uomo che le pronunciava. Le figure, quella dell’uomo in
particolare, vennero ritenute una emanazione (a Sua immagine) del Sommo Creatore e subirono un opposto destino:
o isolate e venerate negli altari (le divinità dipinte o scolpite in forma
umana) o rifiutate del tutto dagli iconoclasti, e tra questi gli ebrei, i
mussulmani e alcune comunità cristiane. Il
rifiuto della raffigurazione umana-divina non escluse tutti gli interventi di abbellimento di oggetti
e ambienti che hanno sempre accompagnato e accompagnano tuttora i luoghi della
vita umana. Le stesse lettere degli alfabeti hanno danzato sui bambù, sulle
pergamene, sulle pareti dei luoghi di culto. Due modalità, figure esaltate o vietate;
decoro, eleganza, ritmo. Mi scuso di
questa digressione e salto su quel nodo tra ‘800 e ‘900 nel quale si elabora
freneticamente la nostra modernità. Alle chiese che anno perduto la loro
funzione trainante si sono sostituite le macchine, le folle, la velocità, le nuove energie e, insieme, le
tecniche di produzione e riproduzione
in serie, la fotografia, il cinema.
A sua volta l’Io si moltiplica nella sua interiorità e nella sua esteriorità.
Chi se ne accorge con più urgenza ruba un termine militare, “Avanguardia”. Le
precedenti separazioni tra figura umana e decorazione, tra figura-racconto e
segno, colore, spazio, gesto, perdono il loro valore, e con loro la separazione rigida tra arte figurativa e arte astratta, così che l’astrazione
è un modo di figurare e la figurazione un modo di astrarre. Ci muoviamo
sempre dentro i linguaggi. La figura
umana-divina non è il frutto di un miracolo (l’icona acheiropita, creata senza mani) ma il risultato di
certe tecniche pittoriche manuali, la stesura col pennello, i mosaici parietali,
i colori in tubetto e le tele da cavalletto ecc., così come il progetto mentale
che può aspirare alla nozione di creatività, tentare qualcosa di nuovo, o a
quella di ripetizione, rifare sempre lo stesso (la sacralità non cambia). Il
peso o la ricchezza della tradizione culturale pesa diversamente sulle spalle
degli artisti che abbracciano la novità come una bandiera, esplicitamente
polemici con il loro passato, da cui comunque non possono prescindere. Mi scuso
di questo precipitoso riassunto, ma è qui che volevo arrivare: i sette pittori
coreani del gruppo ‘Dansaekhwa’, 1970-1980, autori della riduzione ‘monocroma’, e con loro l’artista dell’ombra Lee Ufan,
non raccontano storie, non sono ‘figurativi’ ma abili danzatori le cui mosse
‘figurano’ i nostri movimenti percettivi, con la eleganza che partecipa
chiaramente, per noi occidentali, della tradizione orientale. Nella loro
presentazione si parla di taoismo e
buddismo. Svuotare, liberarsi da ogni alterità, incontrare il proprio sé e
allora, solo allora sentire il proprio soffio unito al respiro universale. La
pittura è un modo di essere. E a loro si unisce Lee Ufan che trasforma ogni
peso in una sfumatura, ogni oggetto nella sua propria ombra. Così riprendo la
gouache di Kwon Young-Woo, che ho già citato in ”Trasferimenti”; un’opera del
1985, 224x170 cm. Vorrei aggiungere che le riproduzioni difficilmente riescono
a trasmettere la finezza delle tecniche usate dai coreani. L’autore incolla
sulla tela una carta trasparente appena colorate sui bordi irregolari, tagliata
in strisce parallele e vi graffia piccole aperture, soffi, uscite silenziose,
che il taglio delle sue unghie hanno prodotto. Ferite? sguardi? libertà?
Fig.2
Quest’altra
opera, dello stesso autore e dello stesso anno con la stessa fattura riprende,
scurite, le liste di carta incollate, le sovrappone in parte e ne scolla le
punte: di nuovo prigione o libertà?
Kwon Young-Woo , Untitled 1984 |
Fig.
3 e 4
Il
più giovane Lee Ufan, il poeta dell’ombra, qui diventa il poeta della
progressiva sparizione. Anche il piccolo punto svanisce. Una diversa versione
dell’oggetto e della sua strada di alleggerimento.
Queste
grandi opere (tutte sono circa metri 2 x 1) sono la proiezione di una danza dai
movimenti lenti, lentissimi, nel silenzio, la musica appena udibile di un
sospiro.
Lee Ufan From Poin 1974
Altre opere:
Kim Whanki -1971 |
Ha Chong-Hyun, Conjuction -1974 |
Park Seo-Bo, Ecriture - 1982 |
***
TRASFERIMENTI
di Giorgio Colombo
“Son testa son paese case gente”- Mitelli in. fece 1702 |
Chi mi legge sa che ho già accennato
in passato all’argomento dei trasferimenti. Lo riprendo, sempre in termini
molto semplificati. Ogni operazione comunicativa richiede dei trasferimenti da
un insieme ad un altro insieme, un trasporto, una traduzione, si perde
qualcosa, si aggiunge qualcosa d’altro. Una cosiddetta traduzione ‘letterale’
non esiste: sarebbe una ripetizione. Ci sono traduzioni evitabili, imparare una
lingua sconosciuta, e ci sono traduzioni inevitabili: se parlo o scrivo di
un’opera dipinta, passo da un sistema ad un altro. E, continuando con l’elenco,
ci sono sistemi analoghi, per esempio due linguaggi scritti, oppure sistemi
simili, un linguaggio scritto e uno parlato, e anche sistemi disaloghi, un
linguaggio letterale e un insieme figurativo. I simili contengono varie
sfumature: la parola parlata, la parola cantata, la pura aria cantata. Lo
stesso strumento, le corde vocali, si presta ad usi diversi: uno starnuto, un
urlo, una canzone. E qui interviene il linguaggio musicale, una specie di lingua per le sensazioni, l’udito educato. Ma anche la parola scritta sfuma
dalla ‘forma’ della parola/frase ai linguaggi ideografici. Gli ideogrammi possono assumere forme particolarmente
eleganti, trasmettendo un significato e insieme un piacere estetico. Di nuovo
le sensazioni.
Una ulteriore precisazione: non tutte le comunicazioni
appartengano a sistemi linguistici ben definiti e catalogati. Esistono segnali
cosiddetti interiori, tra me e me, spesso già trasformati da un fondo
indefinibile, ben noto alla psicologia; esistono forme di ansia e di gioia di
cui non sempre riesco a capire l’origine e il tragitto; le chiamiamo emozioni, e, se durature, sentimenti. E i sogni? Quanta parte delle ‘posizioni’ e ‘trasposizioni’ sono
mobili, sfumate, ribelli a ogni definizione soddisfacente, a ogni griglia
stabile! Metto tra parentesi questa parte importante del trasferimento, e
ritorna al mio fare spicciolo, qui ed ora: scrivo di pitture e di pittori, un
sistema molto usato di trasferimento dalle immagini alle parole e viceversa, un
commento a delle immagini dipinte,
in parte riprodotte in parte indicate come solitamente note al lettore. I due
linguaggi sono separati. Un commento.
Ho un ricordo lontano, di una maestra, forse di prima elementare, intenta a
farci ricordare delle parole, forse di una poesia. Iniziava muovendo le braccia
come fossero ali, pronunciando co.co.co.
(come una gallina) e successivamente indicando il suo ‘mento’: co-mmento. E continuava con senti-mento, raccogli-mento
ecc. Gesti, suoni, una trasposizione-indovinello da accostare alla
testa-paesaggio di Mitelli e Müller.
Il commento parla dell’artista, del suo ambiente, della sua fortuna o
sfortuna, dei caratteri generale dei suoi soggetti e delle tecniche ecc. È una modalità che si applica ai più
diversi oggetti.
Ma c’è anche
un modo di parlare del quadro, di entrare
nel dipinto. Riprendo una frase che avevo adoperato per una riflessione su
Joan
Mirò, il suo sguardo: “Mirò si guarda intorno
con lo stupore del ‘fanciullo’… Il
gioco, la burla, la meraviglia. I profili, gli occhi, le bocche si disegnano
quasi per caso. È’ la forza nascente, “la
scintilla” che stupisce lo sguardo del fanciullo
prodigioso, che scarta il troppo, ama il vuoto, la mancanza, il “senza” che
apre lo spazio all’infinito della immaginazione, all’infanzia di sé e del
mondo, a quel sorriso d’intesa che aleggia anche sul viso di Chagall”. Ecco un
tentativo di sviluppare una analogia, di trasportare in parole delle sensazioni
complesse relative all’operazione stessa del pittore. Così la scrittura
s’impadronisce dell’immagine e la propone al lettore che legge, guarda, pensa.
Ci troviamo insieme ad una rete di trasferimenti mobili, dalla figura alle
parole e dalle parole alla figura, trasferimenti elastici che mettono in causa
non solo la comunicazione ma la stessa, più importante, comprensione, una totalità, una momentanea soddisfatta fermata. Può
riuscire o fallire o essere rimandata. Un processo che tutti noi affrontiamo di
continuo. Così anch’io qui mi fermo, dopo aver sparpagliato sul tavolo alcuni
strumenti del nostro rapporto.
***
Crisha Bruskin e la sue escavazioni
di Giorgio Colombo
Crisha Bruskin |
Venezia, ex chiesa di Santa Caterina. Il buio fitto impedisce la
comprensione. Piccole luci individuano appena pezzi di figure che escono dalla terra; ai lati le
colonne richiamano lo spazio di una chiesa. Sul fondo si proietta una stella il
cui cerchio interno parla di un emblema sovietico. Sono scavi? Tombe? Scoperte archeologiche? A
quale tempo si riferiscono? Poco per volta lo sguardo intravede una passatoia
che percorro incerto. Intravedo volumi, profili che escono dal buio, sfiorati
da luci radenti. Ciò che resta dopo
uno o più cataclismi, un ritorno frantumato ma riconoscibile, un essere
dis-umano, un soldato, un pioniere, un aeroplanino. Figure ‘sovietiche’ rotte
ma riconoscibili. La prospettiva deforme dei residui sembra essere un
sentimento comune ad alcuni artisti. Accanto a Bruskin, qui a Venezia,
all’isola di S. Giorgio, la polacca Magdalena Abakanowicz, le sue statue,
presenze residuali, un folto gruppo in penombra, gusci vuoti, in piedi, con o
senza testa, con o senza braccia. Forse anche un ricordo stravolto di quei muti
guerrieri cinesi di terracotta sepolti eternamente e felicemente, loro sì,
insieme all’imperatore. Sono due artisti esposti negli spazi del Fuori Biennale, (56 Biennale, “All the World’s Futures”, Venezia 9
maggio-22 novembre 2015) una meravigliosa
proliferazione in contenitori imprevisti, ex-chiese, dimore patrizie,
istituzioni universitarie, giardini. Ma ora mi fermo su Grisha Bruskin e mi
riferisco principalmente al bel libro a lui dedicato, “An Archeologist’s Collection”, Terra Ferma Edizioni 2015 (Centro Studi
Arti della Russia a cura di S. Burini e G. Barbieri) e ai due luoghi in cui
espone, la ex chiesa con cui ho iniziato, con il titolo dello stesso volume, e
la Fondazione Querini Stampalia, “Alefbet:
Alfabeto della memoria”. Le mie osservazioni fonderanno i due discorsi,
entrambi racchiusi nella Archeologia
fantastica dell’artista.
Bruskin
nasce a Mosca nel 1945 e cresce nel periodo del cosiddetto “disgelo”. Figlio di
genitori ebrei non credenti, negli anni ’60 riscopre i valori del giudaismo che
prenderanno forma nelle tavole ed arazzi ora esposti alla Fondazione Querini
Stampalia. Il periodo tra il ’70 e l’80, con la “perestroika”, partecipa
all’atmosfera del ‘concettualismo’ propria di artisti e poeti attivi a Mosca.
Ritorna il termine ‘avanguardia’. Le loro esposizioni si aprono prevalentemente
in circoli privati. Nel 1988 Miloš Forman, invitato da Gorbachev, compera uno
dei suoi quadri. Di conseguenza alcune sue opere, compreso il ‘Foundamental Lexicon’ sono vendute a
prezzi record in un’asta di Sotheby’s, la prima apertasi a Mosca. Subito dopo,
per uno scambio culturale, Bruskin vola negli USA e da quel momento inizia la
sua fortuna internazionale.
Arazzo |
L’artista
riflette sulla ‘Torah’, il Libro le cui lettere sono state tracciate dallo
stesso Creatore. “Il Libro è il mondo e il mondo è il Libro”. Numero, lettere,
parola, immagine, tutto si corrisponde. Il 4 è il nome di JHWH, le 4 chiavi del
Paradiso terrestre, i 4 elementi (fuoco,
acqua, terra, aria) ecc. Ecco le quattro parti in cui si dividono gli arazzi
che l’artista intreccia -con l’ausilio di aiutanti- mescolando i segni di un
alfabeto inventato e le figure, isolate, ciascuno per conto suo, divenute loro
stesse alfabeto, Alefbet di un discorso, un specie di vocabolario
dedicato all’ebraismo. Le immagini in rosso e giallo sono i mostri ultraterreni
della mistica biblica.
Arazzo |
Arazzo (particolare) |
Ma la
riflessione sulle figure-lessico era cominciata molto prima.
Il mondo non
è più quello amico del Rav o Rabbi ebraico ma quello della prigione sovietica, il mondo
che riduce le persone a manichini inespressivi, dis-tinte solo da un
distintivo, un emblema: persone- emblema. Così riferisce Bruskin: ”A 30 anni
“ho scritto un ‘Lessico Fondamentale’,
un epistolario dipinto per un distante nessun
luogo… in cui ciascun carattere è un archetipo del mito ideologico sovietico”,
il Pioniere (coi candelotti di esplosivo), il lavoratore, il dottore col veleno,
il prigioniero, il soldato (uno conosciuto con la maschera antigas),
l’ufficiale coi gradi ecc.
Guardare al
passato e al futuro è pericoloso. La moglie di Lot guardando al passato si
trasforma in una mucchio di sale, i miei eroi sovietici, dice Bruskin,
guardando nel loro proibito futuro si trasformano in oggetti innocui, l’album
del collezionista. E’ l’accessorio colorato, l’emblema che dà loro un nome,
che, così af-fermati, dà loro l’esistenza. Una lista, come quella dei peccati
elencati nella Torah. Ma l’autore vuole cancellare ogni nobiltà tragica. Ama la
precisione, magari pure il divertimento del collezionista di farfalle.
E ora,
stabilito l’alfabeto e la lingua, passa alla Archeologia fantastica. Il passaggio non è semplice. L’artista
abbandona la sottigliezza della pagina (carta o arazzo) per il peso di un
ambiente fisico e di un tempo inventato. Ecco la sua descrizione:
L’Impero
Sovietico sembrava dovesse durare per millenni, come il Regno dei Faraoni. Poi
le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. La crisi dei missili a Cuba… La storia
andava verso la sua fine, le nostre vite sbriciolate, svanite, le crudeltà seppellite.
Passano gli anni, i millenni. Gli umani futuri ameranno le rovine, la maestà,
la freschezza delle tombe, i misteri delle civiltà sepolte. Lo sguardo è quello
che si volta indietro da un futuro ipotetico, di là da venire, rivolto ad una
realtà, ad un residuo di realtà, per
noi (e per l’artista), invece, oggi, appena trascorsa. Questo è il salto,
l’invenzione della sfasatura.
E’ una
macchina, una macchinazione del tempo. Bruskin, futuro archeologo, si
ritrova scopritore stupito di ciò che è
stato, una umanità fossile sconvolta, spezzata. Vuole giocare come un vero
ricercatore, capace di trasformare i fantasmi inquieti del passato in spiriti
inoffensivi, consegnandoli disarmati allo sguardo museale di un ipotetico
presente.
Per
trasformare l’elenco del collezionista in scavo archeologico, in una grottesca,
monca ricostruzione, l’artista scolpisce 33 figure più o meno a grandezza
naturale (33 sono le lettere dell’alfabeto russo, ‘lettere’ come ‘principi’
della creazione), le rompe, le ricompone assemblando i pezzi e così, rotte, le
fonde in bronzo. Non i resti storici del monumentalismo sovietico ma le rovine di una ideologia. Ora si
tratta di trovare il luogo appropriato
per seppellire questi frammenti ‘concettuali’
di un Impero distrutto. Sì, di un Impero. Questa è la pretesa imperiale da cui parte
l’artista per connetterla ad altre consolidate pretese della storia
occidentale: l’Imperium di Roma, il
primo; quello di Bisanzio, il
secondo, e il terzo quello di Mosca (Czar Caesar) con il finale falsetto
sovietico.
Visione |
Scavo |
Studio
I resti del Terzo
Imperium verranno sepolti nel terreno del Primo, l’Italia. Bruskin organizza il seppellimento in Toscana nel
novembre del 2009 e vi ritorna per lo scavo di ricupero circa tre anni dopo.
|
La creta si
è indurita, la pala della scavatrice e gli scalpelli degli operai hanno
faticato a ricuperare le figure-residuo interrate e corrose. Gli archeologi
fiorentini hanno studiato la loro composizione molecolare e atomica fornendo un
certificato di autenticità. Una rappresentazione grottesca della verifica scientifica. Il passo
successivo della Archeologia fantastica è l’ambiente
veneziano dell’ex chiesa di Santa Caterina, da cui ho iniziato la mia
descrizione. Un silenzio, un’attesa. I
visitatori tacciono. Nel buio poco per volta animato dalle luci radenti e
dall’occhio che si sta abituando, si respira un senso di religiosità che le
antiche arcate gotiche ancora trasmettono.
Dalla terra scura i profili incerti, mezzi
affossati e mezzi rotti, una materia liscia e grigiastra, prendono forma.
Bracci, visi, gambe, divise e decorazioni militari… Sulle pareti vengono proiettati tre racconti: 1) gli scavi di ricupero,
2)le stesse figure ora affossate, disposte nel filmato erette e variamente
mescolate , 3) le immagini di Marx, la
copertina de ‘Il Capitale’ e l’inizio
in molte lingue del famoso manifesto del 1848 “Uno spettro si aggira per
l’Europa: lo spettro del comunismo”. Anche questo un residuo spettrale, invano
cacciato da “tutte le potenze della vecchia Europa”, anch’esso divenuto parte
innocua, fuori mercato, del museo
postumo.
Strano ritorno marxista pure nei padiglioni
della Biennale, ai ‘Giardini’, sia all’ingresso che nel teatro interno,
diventando perfino “Das Kapital Oratorio”.
Siamo alla ironia postuma o al confuso desiderio di una rinascita? Preferisco
rimanere alla sottile ironia di Bruskin.
Gli scherzi
del tempo. Lo sguardo del poeta è quello
che guarda indietro da un futuro ipotetico, di là da venire, rivolto ad una
realtà, ad un residuo di realtà, per
noi, per tutti noi, oggi, appena trascorsa. La fantasia di domani ci fa
intravedere la realtà dell’oggi.
Bruskin un
artista dalle molte maschere, un fine teorico, un talmudista.
IL
DISEGNO E IL SUO DOPPIO
di Giorgio Colombo
G. A. Boltraffio: Ritratto di G. Casio, olio su tavola
1495-1500
Milano Pinacoteca di Brera
|
Il mondo delle
immagini è sempre stato abitato dal desiderio della moltiplicazione. Per la
scultura penso alla mostra di Prada. Per la figura sul piano il segno, il
contorno ne ha costituito l’avvio, l’abbozzo, l’impressione. Il di-segno è una
specificazione, un segno di qualcosa. Anche le lettere degli alfabeti
(alfa-beta) sono sempre segni di immagini. Quello che chiamiamo ‘disegno’ è un
risultato del fermo-immagine. Nel settore artigianato-arte il disegno è insieme
progetto e risultato. Qui sta la sua ricca ambiguità. E’ una figura sta per
conto suo o invece ha bisogno di una diversa conclusione? E’ una fragilità che
richiede qualcosa d’altro che lo realizzi, la premessa di un doppio, oppure può
valere anche in sé, all’incrocio di un doppio, verso l’originale in carne ed
ossa e verso un trasferimento in un’altra opera, quella dipinta? In mezzo a
questa doppiezza sta la sua possibilità di pretendere una fermata, una propria
autonomia.
Al
di là dell’alfabeto-immagine i modi della figurazione complessa sono molti e
diversi: la grande pittura sui muri dei palazzi e delle chiese, la pittura di
cavalletto per gli interni borghesi, l’incisione singola o in molte copie e
infine il trasferimento diretto, la fotografia e il cinema. Il destino del
disegno oscilla tra una ricetta di cucina, un mezzo al cibo cucinato per poi
essere gettato, oppure (anche) un essere proprio con una duratura
identità.
Viene
incontro a questi dubbi una esposizione che dichiara subito ‘Il primato
del disegno’, alla Pinacoteca di Brera, Milano, dal 9 maggio al 19
luglio, con un bel catalogo Skira che ci aiuterà a rispondere ad alcuni
interrogativi.
G. A. Boltraffio: 1) Ritratto 1498-1502, punta metallica, pietra nera, carboncino, pastelli, acquerello, Milano Bibl. Ambrosiana |
Il
disegno come progetto fa parte del bagaglio del pittore. Prima di impegnarsi
sulla parete definitiva l’autore prova e riflette su diverse soluzioni, così
come prova preparando i colori, i diluenti, i pennelli ecc. Non è solo, ma
lavora in una bottega insieme a collaboratori e maestri. I disegni possono
essere schizzi, appunti, oppure la scena grande, nel suo formato definitivo da
trasferirsi sulla parete o sulla grande tavola. L’interesse per il tracciato
disegnato si consolida nel 1500 insieme alla crescita della figura del pittore,
sempre più vicino allo scienziato umanista, senza perdere la sua pratica ‘artigianale’.
Utile in tale contesto il saggio (del catalogo)
di C. C. Bambach che prende come inizio di questa promozione le ‘Vite’
vasariane e i due cartoni, oggi perduti, de “La battaglia di Anghiari” di Leonardo e “La battaglia di Cascina” di Michelangelo. I collezionisti
cominciano a guardare ai cartoni delle grandi firme come ad oggetti autonomi
coi loro valori di mercato. “Il cartone raggiunse il picco della sua fama
storiografica poco dopo, nei De’ veri
precetti della pittura di Giovanni Battista Armenini (Ravenna 1587), autore
che coniò il termine “ben finito cartone”. La tecnica più diffusa e longeva è
quello dello “spolvero”, la pratica di forare i contorni del disegno con una
punta metallica e di picchiettare i fori con polvere di carbone, così da trasferire
l’immagine grafica sulla superfice da dipingere.
“Spolverizzo, Spolvero, Spolverizzare entrarono
ufficialmente nella lingua italiana a partire dalla prima edizione del
Vocabolario della Crusca del 1624”. Vari tipi di ‘carte carbone’ sono state
successivamente adoperate per mantenere inalterate quelle copie non bucate che
potevano valere di per sé ed entrare più facilmente in commercio. Alcuni
artisti elaborano i disegni anche dopo l’esecuzione del dipinto, riconoscendoli
di uguale valore.
Lorenzo Costa il Vecchio: S. Giovanni
Battista con l’agnello 1506-08, contorni incisi per spolvero, Milano Pin. Di Brera |
Accanto
al cartone d’autore, il disegno viene pure usato nelle Accademie come mezzo
didattico, come sintesi manuale e intellettuale, utile alla formazione degli
apprendisti pittori (v. S. Bandera). Una rinnovata funzione strumentale. la Pinacoteca di Brera, grazie al
suo legame con l’Accademia di Belle Arti, istituzione che in epoca neoclassica
ha sostenuto la grande tradizione del disegno, conserva un ricco ma poco noto
Gabinetto di Disegni. Ora la mostra, valendosi anche di prestiti importanti,
espone rari esempi pisanelliani e di Stefano da Verona, importanti opere della
pittura veneta del Rinascimento, come quelle di Mantegna, Giovanni e Gentile
Bellini, a cui segue una sezione dedicata a Leonardo e i Leonardeschi,
fondatori in Lombardia di una vera e propria scuola del disegno e dello
‘sfumato’. E Leonardo, lo sappiamo magari con l’aiuto della esposizione tuttora
aperta a Palazzo Reale, era un sublime autore di sorprendenti schizzi, fogli e
foglietti affollati, vergati nervosamente con la mano sinistra. Il disegno, anche moltiplicato con
le varie tecniche della carta carbone e dell’incisione, raggiunge poco per
volta la sua autonomia rinchiudendo in sé la sua doppiezza. Ma i molti nomi
degli autori si scopriranno meglio nella visita alla mostra.
Amedeo Modigliani: Ritratto del pittore M. Kisling
1915
olio su tela, Milano Pinacoteca di Brera
Abbreviando,
vorrei arrivare al Novecento dove la separazione dei generi e delle funzioni
s’indebolisce sino a scomparire in una ricca mescolanza. Le pitture esibiscono
parti disegnate, le opere monocrome, graficamente semplificate, penso a Matisse
o a Rouault o a Modigliani o a Morandi, vengono considerate alla pari di quelle
colorate e spesso ne sono la trama che le sorregge. Il segno è come un filo
elettrico, segna volutamente anche le zone colorate che diventano subordinate a
quella trama. Le parti si sono capovolte. Il di-segno è prima e dopo. Non è più
l’ombra sfuggente ma la struttura del discorso. Il segno, matita, inchiostro o
pennello guida lo sguardo.
Giorgio Morandi: Natura morta metafisica 1919 olio su tela Milano, Pinacoteca di Brera |
Modigliani e Morandi, grandi pittori, sono prima di
tutto grandi disegnatori. Il segno può rimanere da solo o guidare il gruppo
(dei colori) senza timidezza o arretramenti. Da parente povero è diventato
capofamiglia.
***
QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo
George Grosz 'Scena di strada' 1925 M. Thyssen-Bornemisza - Mdrid |
NUOVA OGGETTIVITA’. Arte
in Germania al tempo della Repubblica di Weimar 1919-1933.
Inizio dal
titolo della mostra aperta il 1° maggio e visitabile sino al 30 agosto al Museo
Correr di Venezia, lungamente desiderata e preparata da Gabriella Belli,
direttrice dei Musei civici veneziani, e da Stephanie Barron, capo curatrice di
arte moderna del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), dove si conservano
buona parte delle 140 opere esposte. Il titolo riprende quello tedesco, Neue
Sachlickeit, una esposizione organizzata da Gustav Hartlaub nel 1925 alla Kunsthalle di Mannheim. A
quale ‘oggettività’ si riferiscono questi pittori della Repubblica di Weimar
(1919-1933), Otto Dix, George Grosz, August Sender, Chrisatian Schad, Georg
Schrimpf? Personaggi ben noti ma raramente visti in Italia sugli originali. Una
oggettività amata-odiata, una realtà di una guerra perduta, frontiere spezzate,
popoli allo sbando, milioni di morti e di invalidi. Dice Grosz, arruolatosi nel
’14 come volontario (intervista con H. Kinkel 1961): “Tutti questi fatti era
necessario che io li vivessi. Io dovevo vedere qualcuno cadere all’improvviso
accanto a me, senza più rialzarsi, colpito in pieno petto. Questo era
precisamente ciò che io dovevo vivere. Io lo volevo. Non si può dire dunque che
io sia stato un pacifista… Avevo bisogno di vedere tuttociò di persona”. Non solo lo
scoraggiamento dei vinti, i tedeschi, sottoposti a pesanti risarcimenti e in
balia di una incontenibile
inflazione. “Un uovo, ricorda Stephanie Barron, arrivò a costare cento milioni
di marchi”. Vincitori e vinti sono parti di una comune decadenza inarrestabile nella quale i contrasti
materiali, intellettuali e morali sembrano insanabili.
Anche l’Italia si sente vittima di una
‘vittoria mutilata’. L’avanguardia futurista aveva appoggiato il Fascismo e pur
con la morte di alcuni protagonisti e la fortuna del ‘ritorno all’ordine’, con
due diverse generazioni, quella di Balla e di Sironi, ne segue le fortune e le
trasformazioni postbelliche. Margherita Sarfatti a Milano e la rivista “Valori
Plastici” a Roma rilanciano ‘il mestiere’ e la lezione dei maestri antichi. In
Germania la prima avanguardia della ‘Brücke’
era stata sostituita da gruppi aggressivi e polemici: dalla Svizzera il Dada, dai reduci le formazioni di
estrema sinistra, il Novembergruppe e
gli Spartachisti e al contrario lo zoccolo duro di
un’estrema destra militare e affaristica tutt’altro che sconfitta. La trasformazione di vizi e delitti
(il massacro, lo scontro, il dileggio) in virtù, la medaglia, la promozione. Lo
scontento dei reduci disoccupati, la difesa dei gruppi deboli, storpi, affamati,
prostitute e la rapida e dubbia formazione di spropositate ricchezze dei
“pescecani” si accompagna allo sviluppo della stampa, fogli, riviste, manifesti
di rapida diffusione e di violento impatto. Così il segno dei disegnatori
diventa il graffio, la critica spietata e grottesca.
George Grosz 'Il capo' Fotolitografia cm 57,6x42,6 Lo Angeles County Mus. of Art LACMA |
G. Grosz 'Far in the South beautiful Spain' 1919 |
G. Grosz 'Nieder mit Liebnecht' 1918 |
Otto Dix 'Giocatori di carte' 1920 Puntasecca cm 51,1x42,6 LACMA |
Dichiara
Grosz: “Presi a copiare nelle latrine i disegni folkloristici che mi parevano
l’espressione diretta e la traduzione più concisa di forti sensazioni. Anche i
disegni infantili mi stimolavano per la loro univocità. Pervenni così
gradualmente a questo stile tagliente che mi serviva per tradurre le mie
osservazioni, dettata allora da un’assoluta misantropia” (Entwicklung 1924, da ‘Il disegno nel nostro secolo’, Mazzotta 1994).Otto Dix stampa e diffonde le incisioni sulla guerra, l'incubo di un mondo scomposto e mostruoso. Lo stile della fredda inquietudine 'oggettiva' seguirà poco dopo.Pur in
contesti europei diversi la formazione di nuove organizzazioni politiche e la
diffusione di giornali e riviste facilita l’arma, lo sberleffo della caricatura. Nuovi lettori, nuove
provocazioni. In Italia indimenticabile il nome di Scalarini .
In Germania gli anni venti non vedono soltanto il trionfo del graffio caricaturale, ma anche l’affermazione di due altre linee espressive, Il Bauhaus di Gropius, con Kandinsky, Albers e Moholy-Nagy, la progettazione della città nuova e un ritorno al realismo nella fortunata definizione di una “Nuova oggettività”. Tre percorsi diversi ma non contrapposti. Critica sfacciata, plebea la caricatura, sforzo costruttivo, nuove tecnologie (casa, fabbrica, danza, teatro, fotografia, cinema) il Bauhaus, critica pacata, gelida, mestiere impeccabile, uno sguardo ai ‘maestri antichi’ la Nuova oggettività. Non un gruppo compatto, ma un clima che unisce figure diverse. Ciò che era stato lo scoppio di una nuova soggettività, lo slancio, la fiducia utopica nel cambiamento, la rottura drastica con il passato, gli elementi tipici delle varie ‘Avanguardie’ del primo novecento si erano spenti nella melma puzzolente delle trincee, nei massacri indiscriminati, mezzi distruttivi sempre più efficaci . Addio passione, addio giovanile emozione! Ora lo sguardo deve essere impassibile, la freddezza, la precisione del chirurgo. La ferita non si nasconde, ma si accetta, forse con una sottile speranza di cura. Qui sta, a mio parere, la differenza con “Valori Plastici”, ben conosciuti dai critici tedeschi, consolati. Gli italiani, pur attraverso sanguinosi contrasti tra socialismo e fascismo trionfante, si avviano ad una sognante rivisitazione del passato sbirciato tra le quinte teatrali di De Chirico, i bamboleggiamenti di Carrà e le durezze romaneggianti, un po’ mortuarie, di Sironi. L’oggettività ambigua di Dix o di Schad o di Davringhausen, il mestiere squisito, la rappresentazione meticolosa, ossessionata dal particolare paradossalmente non esalta la realtà, ma al contrario ingenera silenziosamente un senso diffuso di inquietudine. La partenza da un noto evidente, volutamente insistito nei dettagli minimi, spinge verso un altrove, verso un ignoto incombente, minaccioso, tanto più inquietante quanto più familiare. Scorre sottotraccia un’aura surreale, i bisbigli di Freud e di Schiele. La caricatura è un fragore che ti scuote, l’ultrarealismo erotico di Dix e di Schad non è un sospiro liberatorio ma un allarme, un sussurro costante, un magma appiccicoso, che nessuna ragione può allontanare. Questa mi pare la eccezionalità di questa esperienza. E ora vengo alle immagini: |
Otto Dix 'Ritratto dell'avvocato H. Simons' 1925 Montreal Mus. of Fiene Arts |
OttoDix 'Ritratto dei genitori' 1921 Kunstmuseum Basel
|
L’esagerato,
grottesco riferimento al ritratto familiare tradizionale rende
ancora più
stridente questo pensiero rivolto ai propri ‘genitori’.
Christian Schad ‘Autoritratto’ 1927 cm. 76x61,5 |
I comignoli fumanti nella notte, il vezzoso fiore bianco che spunta dietro il nudo provocante della donna, il nastro intorno al suo polso, la maglia trasparente di lui, il suo sguardo preoccupato, tutto suggerisce una inquietudine soffusa, indistinta e perciò più minacciosa.
Christian Schad ‘Agosta l’uomo alato e Rasha la colomba nera’ 1929 |
Agosta e Rasha sono due figuranti che si esibiscono ad una fiera di Berlino. L’uomo, Agosta, ha una malformazione, la cassa toracica invertita, la donna, Rasha, è una ballerina del Madagascar che danza con un boa. Entrambi, fuori dal palcoscenico, gettano sullo spettatore uni sguardo sicuro, quasi di sfida, sono così, una umanità imprevista, certo non maschere teatrali.
Heinrich Maria Davringhausen ‘Il Sognatore’ 1919 Hessisches Landesmuseum Darmstadt |
Un breve periodo, poco più di dieci anni. 1933, Bauhaus, critica giornalistica, Nuova Oggettività, tutto finisce. Col suo ministro della cultura Adolf Hitler nuovo Cancelliere del Terzo Reich dichiara i nostri artisti “degenerati”. Un bel falò di quadri e carta stampata. Molte opere vengono distrutte, vendute, disperse. Molti riparano negli USA. La nuvola nera della morte non è più l’incubo di pochi ma il destino di molti.
San Girolamo 1485-90 ca. non finito Musei Vaticani
LEONARDO 1452-1519 - I disegni del mondo
La mostra inaugurata a Milano, al Palazzo Reale il 15 aprile, anniversario della nascita di Leonardo, nato a Vinci il 15 aprile del 1452, che si chiuderà Il 19 luglio, ideata e prodotta da Palazzo Reale e SKIRA, è una delle più importanti rassegne leonardesche organizzate in Italia. Quasi una prosecuzione di quella dedicata al periodo Visconti-Sforza. Il catalogo, a cura di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, è un’opera a sé di 614 pagine e XII sezioni, riproduzioni accurate e ricca bibliografia intorno ad un personaggio tanto grande quanto evanescente. E per stare nel mito del mito, inizio necessariamente con la Gioconda, il “miroir profonde et sombre” (Baudelaire) – come scrive Roberto Paolo Ciardi - arruolato di forza nelle squaLa mostra inaugurata a Milano, al Palazzo Reale il 15 aprile, anniversario della nascita di Leonardo, nato a Vinci il 15 aprile del 1452, che si chiuderà Il 19 luglio, ideata e prodotta da Palazzo Reale e SKIRA, è una delle più importanti rassegne leonardesche organizzate in Italia. Quasi una prosecuzione di quella dedicata al periodo Visconti-Sforza. Il catalogo, a cura di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, è un’opera a sé di 614 pagine e XII sezioni, riproduzioni accurate e ricca bibliografia intorno ad un personaggio tanto grande quanto evanescente. E per stare nel mito del mito, inizio necessariamente con la Gioconda, il “miroir dre condotte e ispirate da Ermes e da Prometeo (D’Annunzio) – miti di indefettibile fortuna nella cultura, non solo alta, dal Cinquecento al Novecento” (p. 491). Leonardo, il mito anche, ed è giusto che se ne sia già parlato e scritto molto. Vorrei partire da qui, dall’armatura mitologica, cresciuta già lui vivente, non sempre di aiuto. Provo a iniziare dal Bandello che scrive di un Leonardo sui quarantacinque anni, impensierito dal lavoro mai concluso della statua equestre di Francesco Sforza, impegnato a dipingere l’Ultima Cena nel refettorio del convento milanese di Santa Maria delle Grazie dove il Bramante ha da poco ultimato la tribuna che avrebbe dovuto contenere le future spoglie di Ludovico Sforza e della giovane moglie Beatrice d’Este.Così il Bandello nella novella LVIII (1497): Soleva Leonardo “dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto secondo che il crapiccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove”. Dunque genio ghiribizzoso, meditativo, imprevedibile. Delle sue lentezze i monaci lo rimproverano. Le nuove tecniche che sperimenta, la preparazione del fondo, i colori di tempera grassa, uniti alla umidità dell’ambiente, metteranno a repentaglio la futura conservazione del lavoro. Continui interventi successivi di ridipintura altrui aggraveranno le condizioni iniziali della scena, la cui notorietà comunque crescerà producendo un gran numero di commentari, ammirazioni, copie sparse ovunque in chiese, corti e libri. Salto all’ultima guerra. La parete del Cenacolo è protetta da un tettuccio a da sacchetti di sabbia. Il 15 agosto del 1943 un bombardamento di aerei anglo-americani distrugge il refettorio. I due muri dei dipinti, quello di Leonardo e quello a fronte del Montorfano, pur indeboliti, si salvano. Inizierà nel 1977 l’eroico restauro di Pinin Brambilla Barcilon e durerà 22 anni. Dal 1999 il refettorio completamente e mirabilmente restaurato, anche nelle sue quattro lunette, è uno dei monumenti più frequentati al mondo. Se ne impadronisce anche l’arte contemporanea da Andy Warhol al regista Peter Greenaway sino al “The Last Supper. Contemporary sharings” , un tavolo di acciaio brunito con la forma dell’anello di Möbius e 12 sedute, di V. Bifulco Troubetzkoy e G. Pelloso alla Fondazione Stelline di Milano. Ma la massima fortuna è sempre quella della “Gioconda”, che accompagna l’autore sino alla sua morte in Francia, forse per il suo non finito, forse non finibile. La lista degli innumerevoli artisti che se ne sono occupati si trova nel saggio già citato di R. P. Ciardi. Io mi limito alla sfottitura di Duchamp, un ready-made rettificato, in mostra nella versione ‘rasée, cioè senza baffi e barbetta, con la scritta “L.H.O.O.Q.” ‘Elle a chaud au cul’ (’Lei è eccitata’). Vorrei concludere queste indicazioni con una espressione del giovane Giovanni Papini sulle pagine del suo ‘Diario 1900’: Leonardo “è veramente l’Uomo, l’Uomo universale, perfetto: l’Eroe. Egli riunisce in sé il bello e forte animale – l’artista impeccabile – il pensatore audace e profondo, dalle austere e misteriose parole. Egli è in fondo un dilettante – (e perciò forse piace ai moderni) ma non un infecondo e bizantino dilettante contemporaneo – ma un dilettante del Rinascimento – che ama e possiede la Forza, la Bellezza, il Pensiero – che vorrebbe far tutto, veder tutto, crear tutto ma che fa pur molto. A noi fiacchi ed abulici e pur avidi di tutto egli appare come Energia sempre viva e pronta, come l’Universalità vasta e possente. Noi l’amiamo perché voVorrei concludere queste indicazioni con una espressione del giovane Giovanni Papini sulle pagine del suo ‘Diario 1900’: Leonardo “è veramente l’Uomo, l’Uomo universale, perfetto: l’Eroe. Egli riunisce in sé il bello e forte animale – l’artista impeccabile – il pensatore audace e profondo, dalle austere e misteriose parole. Egli è in fondo un dilettante – (e perciò forse piace ai moderni) ma non un infecondo e bizantino dilettante contemporaneo – ma un dilettante del Rinascimento – che ama e possiede la Forza, la Bellezza, il Pensiero – che vorrebbe far tutto, veder tutto, crear tutto ma che fa pur molto. A noi fiacchi ed abulici e pur avidi di tutto egli appare come Energia sempre viva e pronta, come l’Universalità vasta e possente. Noi l’amiamo perché rremmo esser lui e non sappiamo e possiamo esserlo”.
- Ecco dunque il mito dell’Uomo del Rinascimento, Universale, artista
sommo, inventore e scienziato anticipatore, architetto, musico, pittore, fortunato
uomo di mondo, corteggiato da duchi e monarchi. Un mito che non andrebbe cancellato, così, con un bel gesto, ma
renderlo meno intrusivo, messo cautamente
da parte per individuarne pregi più vicini alla inquietudine sottile che
rende la figura di Leonardo meno costruita e trionfante, più sfuggente,
interrogativa, misteriosa. Il saggio di apertura del catalogo, a firma dei due
curatori, Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, sembra metterci su questa
strada. Il confronto tra il paesaggio in data 5 agosto 1473 – il pittore ha 21
anni – “impostato sulla visione prospettica fiorentina e su una concezione
dello spazio misurato e misurabile…
- Ecco dunque il mito dell’Uomo del Rinascimento, Universale, artista sommo, inventore e scienziato anticipatore, architetto, musico, pittore, fortunato uomo di mondo, corteggiato da duchi e monarchi. Un mito che non andrebbe cancellato, così, con un bel gesto, ma renderlo meno intrusivo, messo cautamente da parte per individuarne pregi più vicini alla inquietudine sottile che rende la figura di Leonardo meno costruita e trionfante, più sfuggente, interrogativa, misteriosa. Il saggio di apertura del catalogo, a firma dei due curatori, Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, sembra metterci su questa strada. Il confronto tra il paesaggio in data 5 agosto 1473 – il pittore ha 21 anni – “impostato sulla visione prospettica fiorentina e su una concezione dello spazio misurato e misurabile…
Paesaggio, Firenze Uffizi
… e un tardo disegno dei “diluvi” (1517-18 ca.), dove un cataclisma
provoca la caduta di montagne con vortici di polvere, fumo e acqua, mostra un
radicale cambiamento di concezione… Partendo dalla fiducia nella natura e dalla
consapevolezza di possedere gli strumenti idonei per la sua rappresentazione,
si conclude, a quasi cinquant’anni di distanza, in una visione catastrofica e
pessimistica in cui l’uomo non ha più il controllo degli elementi naturali ed è
costretto a soggiacervi rinunciando, quasi, a porvi riparo” (p. 29).
Diluvio 16 The Royal Collection
E torno
all’Uomo universale e perfetto, che ha stupito contemporanei e posteri con le sue
strabilianti scoperte e anticipazioni. Anche qui una esagerazione mitologica. Molti
schizzi di prospettive e macchine riprendono esempi già illustrati dai suoi
contemporanei, Francesco di Giorgio Martini, il Filarete, Leon Battista
Alberti. Sua personale polemica è invece il vanto di “essere omo sanza lettere”. Specialmente nel
mondo fiorentino s’intendevano ‘letterati’
i cultori delle arti liberali del Trivio, grammatica, retorica,
dialettica, e del Quadrivio,
aritmetica, geometria, astronomia, musica. Arti
meccaniche, quelle di secondo grado, erano invece proprie di chi lavorava
con le mani e la materia in una bottega come quella del Verrocchio dove il
padre aveva indirizzato il figlio Leonardo. Sì mani e materia, ma pure
cervello. I due gradi dei letterati e degli ingegneri meccanici si stavano
mescolando anche sull’esempio del Brunelleschi. La risposta di Leonardo è
chiara, esclude il compromesso. “…Alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente
potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere… Diranno che, per
non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non
sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza che
d’altrui parola” (Proemio 6 Cod. At. f.
387). ‘Sperienza’ è vedere, toccare, ap-prendere la ‘natura’, decifrarne i
misteri. La pittura è quest’arte e nella pittura il disegno è quel movimento,
quella frenesia che meglio rivive le nervature naturali, le afferra e le
comunica. Pittura e scienza, ciascuna con mezzi propri, spesso molto vicini,
hanno nella natura lo stesso oggetto. Una scienza e una pittura s-naturata perdono
ogni valore. Così la circolazione del sangue è come il flusso dei fiumi, la
struttura dello scheletro come la durezza delle rocce, il respiro come il
soffio dei venti. Così il volo degli uccelli potrebbe diventare il volo
dell’uomo. Leonardo disegna e scrive. Tiene con sé i suoi foglietti. Quelli più
grandi sono già pensati per una pubblicazione che non verrà. Alcuni scorrono
tra le mani di collezionisti ammirati. Ma il più è parte del suo personale
viaggio inquieto, accompagnato dai suoi giovani aiutanti. Quasi inutile
aggiungere che la rivendicazione di una propria autorità riflette anche l’uscir
a testa alta da quelle difficoltà familiari, figlio naturale, le figure
invasive della madre e del padre ecc. che fanno parte di una biografia
conosciuta (v. Freud) e che meriterebbe una nota a parte. I foglietti che porta
con sé e tiene a portata di mano sono vergati da lui mancino con annotazioni
varie e sparse, sovrapposte, mescolate con note di spese, frasi fulminanti,
profili scoloriti. Difficile trovare definizioni: un fiume carsico, una brace
rovente, un inarrestabile movimento. L’unità ordinata del mondo sempre
desiderata e sempre sfuggente.
Nudi per la “Battaglia di Anghiari”, Torino Biblioteca
Reale
Il mondo allontana da sé ogni
sperata, limpida unità, che pure occhieggia e invita. Piuttosto traspare da vari, molti segni e disegni sovrapposti. Il
tutto si richiama e si frantuma. Perciò il ricercatore prolunga la sua indagine
anche se intravede il suo fallimento. L percorso non è lineare, non può
esserlo.
Cinque teste grottesche 1493 -95 ca. The Royal Collection
Ala meccanica 1494 Milano Bibl. Ambrosiana
No. L’uomo
non volerà con le ali di Leonardo, rimarrà un sogno affidato all’avvenire. Già perché il confine tra visione e sogno non è sempre chiaro. Così che i suoi palombari
subacquei, o i pinnuti camminatori sulle acque, o i paracaduti, o i congegni distruttivi improbabili mescolano
volentieri “il volo meccanico e quello della fantasia” come intitola il suo
saggio Edoardo Villata (pp. 303-311). Né mancano facezie, rebus, allegorie per
il diletto di corte: “Andranno li omini e non si moveranno, parleranno con chi
non si trova, sentiranno chi non parla”. Sembrano scherzi, ma questi nonsenses sono uno spiraglio di qualcosa
che sfugge a quell’ordine tanto rincorso, desiderato e alla fine mancato. Gli
appunti frenetici e sovrapposti, i numerosi lavori non finiti, Il sorriso
melanconico della Gioconda, assediata,
dietro lo spessa lastra trasparente, dalla curiosità inutile di troppi turisti
pigiati e frettolosi insieme al viso pensieroso del vecchio che si appoggia
alla mano sinistra, è un segno (un
senso) del non senso pazientemente accolto dal grande ricercatore, insieme
al fragore dei crolli, degli sconquassi,
dei vortici diluvianti, anch’essi parte della contraddittoria vitalità.
The Royal Collection G. C. maggio 2015
… e un tardo disegno dei “diluvi” (1517-18 ca.), dove un cataclisma
provoca la caduta di montagne con vortici di polvere, fumo e acqua, mostra un
radicale cambiamento di concezione… Partendo dalla fiducia nella natura e dalla
consapevolezza di possedere gli strumenti idonei per la sua rappresentazione,
si conclude, a quasi cinquant’anni di distanza, in una visione catastrofica e
pessimistica in cui l’uomo non ha più il controllo degli elementi naturali ed è
costretto a soggiacervi rinunciando, quasi, a porvi riparo” (p. 29).
Diluvio 16 The Royal Collection
E torno
all’Uomo universale e perfetto, che ha stupito contemporanei e posteri con le sue
strabilianti scoperte e anticipazioni. Anche qui una esagerazione mitologica. Molti
schizzi di prospettive e macchine riprendono esempi già illustrati dai suoi
contemporanei, Francesco di Giorgio Martini, il Filarete, Leon Battista
Alberti. Sua personale polemica è invece il vanto di “essere omo sanza lettere”. Specialmente nel
mondo fiorentino s’intendevano ‘letterati’
i cultori delle arti liberali del Trivio, grammatica, retorica,
dialettica, e del Quadrivio,
aritmetica, geometria, astronomia, musica. Arti
meccaniche, quelle di secondo grado, erano invece proprie di chi lavorava
con le mani e la materia in una bottega come quella del Verrocchio dove il
padre aveva indirizzato il figlio Leonardo. Sì mani e materia, ma pure
cervello. I due gradi dei letterati e degli ingegneri meccanici si stavano
mescolando anche sull’esempio del Brunelleschi. La risposta di Leonardo è
chiara, esclude il compromesso. “…Alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente
potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere… Diranno che, per
non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non
sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza che
d’altrui parola” (Proemio 6 Cod. At. f.
387). ‘Sperienza’ è vedere, toccare, ap-prendere la ‘natura’, decifrarne i
misteri. La pittura è quest’arte e nella pittura il disegno è quel movimento,
quella frenesia che meglio rivive le nervature naturali, le afferra e le
comunica. Pittura e scienza, ciascuna con mezzi propri, spesso molto vicini,
hanno nella natura lo stesso oggetto. Una scienza e una pittura s-naturata perdono
ogni valore. Così la circolazione del sangue è come il flusso dei fiumi, la
struttura dello scheletro come la durezza delle rocce, il respiro come il
soffio dei venti. Così il volo degli uccelli potrebbe diventare il volo
dell’uomo. Leonardo disegna e scrive. Tiene con sé i suoi foglietti. Quelli più
grandi sono già pensati per una pubblicazione che non verrà. Alcuni scorrono
tra le mani di collezionisti ammirati. Ma il più è parte del suo personale
viaggio inquieto, accompagnato dai suoi giovani aiutanti. Quasi inutile
aggiungere che la rivendicazione di una propria autorità riflette anche l’uscir
a testa alta da quelle difficoltà familiari, figlio naturale, le figure
invasive della madre e del padre ecc. che fanno parte di una biografia
conosciuta (v. Freud) e che meriterebbe una nota a parte. I foglietti che porta
con sé e tiene a portata di mano sono vergati da lui mancino con annotazioni
varie e sparse, sovrapposte, mescolate con note di spese, frasi fulminanti,
profili scoloriti. Difficile trovare definizioni: un fiume carsico, una brace
rovente, un inarrestabile movimento. L’unità ordinata del mondo sempre
desiderata e sempre sfuggente.
Nudi per la “Battaglia di Anghiari”, Torino Biblioteca
Reale
Il mondo allontana da sé ogni
sperata, limpida unità, che pure occhieggia e invita. Piuttosto traspare da vari, molti segni e disegni sovrapposti. Il
tutto si richiama e si frantuma. Perciò il ricercatore prolunga la sua indagine
anche se intravede il suo fallimento. L percorso non è lineare, non può
esserlo.
Cinque teste grottesche 1493 -95 ca. The Royal Collection
Ala meccanica 1494 Milano Bibl. Ambrosiana
No. L’uomo
non volerà con le ali di Leonardo, rimarrà un sogno affidato all’avvenire. Già perché il confine tra visione e sogno non è sempre chiaro. Così che i suoi palombari
subacquei, o i pinnuti camminatori sulle acque, o i paracaduti, o i congegni distruttivi improbabili mescolano
volentieri “il volo meccanico e quello della fantasia” come intitola il suo
saggio Edoardo Villata (pp. 303-311). Né mancano facezie, rebus, allegorie per
il diletto di corte: “Andranno li omini e non si moveranno, parleranno con chi
non si trova, sentiranno chi non parla”. Sembrano scherzi, ma questi nonsenses sono uno spiraglio di qualcosa
che sfugge a quell’ordine tanto rincorso, desiderato e alla fine mancato. Gli
appunti frenetici e sovrapposti, i numerosi lavori non finiti, Il sorriso
melanconico della Gioconda, assediata,
dietro lo spessa lastra trasparente, dalla curiosità inutile di troppi turisti
pigiati e frettolosi insieme al viso pensieroso del vecchio che si appoggia
alla mano sinistra, è un segno (un
senso) del non senso pazientemente accolto dal grande ricercatore, insieme
al fragore dei crolli, degli sconquassi,
dei vortici diluvianti, anch’essi parte della contraddittoria vitalità.
The Royal Collection G. C. maggio 2015
ARTE LOMBARDA DAI VISCONTI AGLI SFORZA
Il 12 marzo
si è aperta a Palazzo Reale di Milano, la mostra che nel titolo, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza,
e nei contenuti intende riferirsi, rinnovandola, a quella del 1958 curata da
Gian Alberto Dell’Acqua, diretta e concepita da Roberto Longhi, attento agli
ambienti, alle realtà locali e non
solo ai grandi nomi isolati, Amadeo, Bramante, Leonardo, da tempo largamente
studiati e proposti al grande pubblico. Duecentocinquanta opere esposte, sino
al 28 giugno, accompagnate da un nutrito catalogo
ricco di illustrazioni e materiale documentario, introdotto dai curatori
Mauro Natale e Serena Romano. Più di due secoli di storia, Trecento e Quattrocento, non solo di pittura e scultura, ma anche
di oreficeria e di pagine miniate. Un volume pubblicato da SKIRA che ha pure
coprodotto la mostra insieme al Comune di Milano.
Dico subito
una mostra indispensabile per capire e apprezzare una storia brillante, spesso
trascurata, una mostra non facile per la varietà dei prodotti e per l’intrico
delle vicende: stati piccoli e dai
confini mobili, radicate autonomie
urbane, categorie, associazioni gelose
della propria indipendenza; discendenze
aristocratiche complesse; committenze
diverse, Signori litigiosi, grandi santuari, ordini monastici; il movimento continuo di artigiani e artisti
alla ricerca di sempre nuovi committenti. Alle pagine 30 e 31 del catalogo si
leggono la discendenza delle famiglie dei Visconti
e degli Sforza e i confini del
Ducato milanese che agli inizi del ‘400 arriva nel sud a Pisa, Siena e Perugia,
e all’est sino a Padova e Belluno.
Il 12 marzo
si è aperta a Palazzo Reale di Milano, la mostra che nel titolo, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza,
e nei contenuti intende riferirsi, rinnovandola, a quella del 1958 curata da
Gian Alberto Dell’Acqua, diretta e concepita da Roberto Longhi, attento agli
ambienti, alle realtà locali e non
solo ai grandi nomi isolati, Amadeo, Bramante, Leonardo, da tempo largamente
studiati e proposti al grande pubblico. Duecentocinquanta opere esposte, sino
al 28 giugno, accompagnate da un nutrito catalogo
ricco di illustrazioni e materiale documentario, introdotto dai curatori
Mauro Natale e Serena Romano. Più di due secoli di storia, Trecento e Quattrocento, non solo di pittura e scultura, ma anche
di oreficeria e di pagine miniate. Un volume pubblicato da SKIRA che ha pure
coprodotto la mostra insieme al Comune di Milano.
Dico subito
una mostra indispensabile per capire e apprezzare una storia brillante, spesso
trascurata, una mostra non facile per la varietà dei prodotti e per l’intrico
delle vicende: stati piccoli e dai
confini mobili, radicate autonomie
urbane, categorie, associazioni gelose
della propria indipendenza; discendenze
aristocratiche complesse; committenze
diverse, Signori litigiosi, grandi santuari, ordini monastici; il movimento continuo di artigiani e artisti
alla ricerca di sempre nuovi committenti. Alle pagine 30 e 31 del catalogo si
leggono la discendenza delle famiglie dei Visconti
e degli Sforza e i confini del
Ducato milanese che agli inizi del ‘400 arriva nel sud a Pisa, Siena e Perugia,
e all’est sino a Padova e Belluno.
Bianca Maria Visconti 1460-80
Michelino da Besozzo, Madonna del roseto, 1450 ca.
Proprio per
la sua varietà di offerta questa mostra è stimolante per un pubblico che è
invece abituato ad una tranquilla, ovvia conformità: se si tratta di pittura
sono quadri, tavole, tele di una dimensione media, né troppo grande né troppo
piccola, firmate da un nome arcinoto, s’intende. Già la scultura è più rara, connessa
com’è agli edifici, dislocata, fuori luogo. Se andiamo poi alle pagine miniate
o stampate, si richiede un’attenzione, un occhio diverso: avvicinarsi,
chinarsi, occhiali… Oreficeria, oggetti d’uso? Ma non si chiamava arte applicata? Come dire non quella
vera, sola, libera, ma quella che serve
ad uno scopo ‘altro’. Uniformità, misura, nome noto. Questo è
ciò che il pubblico medio, affrettato si aspetta. Tuttalpiù una fotografia per riferire
poi il c’ero anch’io.
Ora la
mostra Arte Lombarda dai Visconti agli
Sforza esce da questi criteri, richiede al visitatore uno sforzo di
apprendimento. Imparare anche ad incontrare la molteplicità, a spingere i
confronti: vetrate e affreschi, miniature, pergamene, pale religiose, medaglie,
tavole dipinte, sculture. Imparare non è solo un piacere ma anche uno sforzo,
due atteggiamenti, piacere e sforzo, che si aiutano a vicenda. Richiedono una
disposizione attiva, curiosa di ciò che si ignora, desiderosa di un di più che difficilmente
accompagna il visitatore distratto. E le differenti misure e materie degli
oggetti giocano la loro parte. La nostra percezione è parzialmente plastica,
cioè riduce o ingrandisce sino ad un certo punto, poi ti devi muovere, se puoi.
Perciò mi serve spostarmi piuttosto sulle misure del catalogo, nel quale le
immagini si uniformano: le grandi si rimpiccioliscono, le piccole
s’ingrandiscono . Il passaggio dall’immagine alla pagina e di qui all’oggetto
in carne ed ossa, e viceversa, è un utile esercizio di apprendimento, lasciando
all’originale l’indispensabile fascino misterioso che lo caratterizza. Ma
quanti studiosi hanno scritto egregiamente fondandosi su immagini stampate
magari in bianco e nero!
Maestro del
libro d’ore 1440-50
Proprio la molteplicità degli oggetti riflette anche la molteplicità, le differenze dei committenti: la Signoria (i Visconti, gli Sforza), l’aristocrazia di second’ordine (i Borromeo, gli Arcimboldi), l’ordine religioso, la devozione popolare. La continuità degli ori gotici, della preziosità dei ricami, delle eleganze ondulate dei personaggi dipinti risponde alle richieste di una Corte esigente come quella milanese.
Orefice milanese, fine XV sec. Flagellazione e crocifissione di Cristo
E così giungo alle famiglie dei Visconti e degli Sforza e alle loro complicate parentele e discendenze tra le quali è facile perdersi, così scelgo solo alcune figure alle quali si connettono presenze artistiche di particolare rilevanza. Per esempio, tra i Visconti, Azzone, che invita Giotto a Milano e con lui una schiera di giotteschi a cui seguirà lo scultore pisano Giovanni di Balduccio e, a lui vicino, il maestro di Viboldone. Fondamentale è poi l’attività di Gian Galeazzo (1352-1402) che tra le due capitali del Ducato, Milano e Pavia, inizia a Milano il cantiere del Duomo con maestranze internazionali, senza trascurare Pavia dove si occupa dell’università e di un altro cantiere lunghissimo, quello della Certosa. Si moltiplicano le botteghe di intagliatori, orafi e miniaturisti, quella dei de Grassi o quella degli Embriachi o quella di Michelino da Besozzo, autore anche della ‘Madonna del roseto’ , scelta come emblema della mostra. Né manca una piccola Madonna, per devozione privata, di Gentile da Fabriano. Alla più tarda bottega dei Bembo si devono i tarocchi conservati a Brera e la medaglia del Pisanello. Si tratta di artisti capaci di passare dalla pagina al decoro d’intrattenimento alla tavola alla pala d’altare a figure come ‘modelli’ per scultori e architetti. Una varietà che accompagnerà anche le botteghe successive, quelle fiorentine, dalle quali crescerà il genio di Leonardo.
Come terzo nome di particolare spicco ricorderei di Duca (il titolo lo raggiungerà nel 1450) Francesco Sforza che sposa Bianca Maria, figlia dell’ultimo Visconti, Filippo Maria, di cui era stato capitano di ventura. I suoi progetti di rinnovamento interessano il Castello, che da lui si chiamerà sforzesco, e l’Ospedale Maggiore. Alla sua Corte lavorano artisti di formazione toscana a cui si aggiungono anche i fiamminghi, molto richiesti dalle varie Signorie italiane. All’epoca del suo successore, Galeazzo Maria, il pittore Zanetto Bugatto viene inviato a Bruxelles per imparare le nuove tecniche degli artisti nordici. A Francesco Sforza si deve il tentativo di pacificare le continue rivalità che dissanguano le casse dei piccoli stati, con l’accordo di Lodi 1454 firmato dai nuovi Signori di Firenze, i Medici, dalla repubblica di Venezia e dagli Aragonesi di Napoli.
Madonna col Bambino, Zanetto Bugatto 1470-75 ca.
Ma i tempi stanno rapidamente cambiando. Con le nuove turbolenze cresce la figura di Ludovico Maria Sforza detto Ludovico il Moro, nominato Duca dall’Imperatore Massimiliano d’Asburgo. Siamo nella seconda metà del ‘400.E’ tempo di ritornare ai grandi nomi degli artisti di area lombarda partecipi del nuovo clima rinascimentale: la lunga vita di Vincenzo Foppa, la nuova semplificazione di Giovanni Antonio Amadeo, con la cappella Colleoni di Bergamo e il tiburio del Duomo di Milano, le sculture di Cristoforo e Antonio Mantegazza, la instancabile produzione di Ambrogio da Fossano detto il Bergognone. Comincia a spandersi anche il nome nel nuovo ospite fiorentino, Leonardo da Vinci, alla corte di Milano dal 1482.
Bonifacio Bembo Adorazione dei Magi, seconda metà del ‘400
Ma un altro illustre straniero, forse di Urbino, dopo una tappa a Bergamo, arriva a Milano nel 1478 Donato Bramante , subito coinvolto nel cantiere di Santa Maria presso san Satiro, dove esegue uno spettacolare effetto ottico di falsa prospettiva. Nell’81, stampato dall’orafo Prevedari, incontra un immediato successo lo spaccato di un tempio, quasi un programma del suo lavoro successivo. Le sue vicende lombarde, il circolo aristocratico che frequenta –dipinge Uomini d’arme e filosofi -, la sua partecipazione alla Fabbrica del Duomo sono state già oggetto di una recente mostra a Brera. Ludovico il Moro gli affida nel ‘92 la costruzione della tribuna di santa Maria delle Grazie, che avrebbe dovuto essere il luogo della sua magnifica sepoltura. Lascerà Milano per Roma, per diventare il celebre architetto di Giulio II. Con lui la semplificata e forte struttura prospettica rinascimentale sostituisce l’amore assoluto per il dettaglio, le puntature, il traforo prezioso e le sinuose ondulazione del gotico. L’altro prim’attore che, installatosi direttamente a corte, modifica con una sua particolare dolce e pervasiva sfumatura luminosa le asperità del gotico e a suo modo anche il contorno deciso del Bramante, è la figura di Leonardo, che abbandona Milano dopo la tragica sconfitta nel 1500 di Ludovico il Moro da parte dei francesi. Così si chiude il secolo e la mostra. In attesa di quella su di lui, il personaggio per eccellenza, Leonardo.
HENRY ROUSSEAU IL CANDIDO
Nous sommes réunis pour célébrer ta
gloire.
Ces vins qu’en ton honneur nous verse Picasso
Buvons-les donc, puisque c’est l’heure de les boire,
En criant tous en choeur: “Vive, vive Rousseau!”
(Apollinaire Poèmes retrouvés)
Ces vins qu’en ton honneur nous verse Picasso
Buvons-les donc, puisque c’est l’heure de les boire,
En criant tous en choeur: “Vive, vive Rousseau!”
(Apollinaire Poèmes retrouvés)
Il
festeggiato, la sedia su di una vecchia cassa, mentre Apollinaire alza il
bicchiere del brindisi, è mezzo
addormentato, aiutato dalle abbondanti libagioni. Ha già passato la sessantina.
Siamo nel baraccone del Bateau-Lavoir a Montmartre, dicembre del 1908. Picasso
gli aveva comperato per 5 franchi da un rigattiere ’Ritratto di donna‘. Intorno sono gli amici
Delaunay, Braque, Utrillo, Marie Laurencin e, naturalmente Apollinaire che
insieme a Jarry e al giornalista e scrittore Remy de Gourmont avevano da tempo introdotto la figura di Rousseau
nelle cronache parigine. Leo e Gertrude Stein lo
accompagnano a casa in carrozza.
Ora l’opera
di Henry Rousseau detto il doganiere,
ma in realtà il daziere, impiegato
del dazio, è in mostra al Palazzo Ducale di Venezia dal 6 marzo al 5 luglio
2015, una grande esposizione dal sottotitolo “Il candore dell’arcaico”,
con centinaia di lavori e riferimenti al prima, spunti, e al dopo, influenze.
Un uomo tutt’altro privo di cultura. Qui, nella sua particolare preparazione
culturale e vocazione artistica, sta l’accento della mostra veneziana, nello
specificare anche di ‘quale’ cultura ‘candida’
si tratti.
Vorrei
fermarmi al significato dell’incontro non infrequente tra cultura ‘alta’ e cultura
‘altra’, sia ripescata dal passato, greca, egizia, cino-giapponese ecc. sia da mondi estranei, cultura
contadina, rivierasca, montanara,
africana ecc. Incontro, prestito,
citazione che segna una crisi nella cultura ufficiale e una inserzione di elementi
di trasformazione e disturbo. La morte della regina Vittoria nel 1901
rappresenta quasi il simbolo del cambiamento. Antropologi, psichiatri, storici
avevano cercato di fornire grandi disegni di orientamento sociale: una umanità
in cammino, oppure in retromarcia, tra primitivi
e civilizzati, decadenti ed emergenti,
inconscio e coscienza. Il
percorso positivista si stava frantumando. Persino il lombrosismo aveva
riconosciuto che la spinta al cambiamento in società bloccate dalla paura del
nuovo, il misoneismo, poteva giungere
da certe forme caratteriali degenerative
utili, “Genio e Degenerazione”
2° ed. 1907. E ‘Decadenti’ si
chiamarono, e si vantarono di essere chiamati, artisti da Baudelaire in avanti.
L’alterità poteva essere trovata in culture contemporanee distanti, il
cino-giapponesismo, le maschere rituali dell’Africa e dell’Oceania, oppure
nelle pratiche ‘artigianali’ sopravvissute nelle aree lontane dalla moderna
città, i pittori di ex –voto o di icone, i mobili, le decorazioni e le
costruzioni contadine. 1907 Picasso
dipinge Les demoiselles d’Avignon e
Kandinskij soggetti tratti dalle saghe russe. Tralascio il caso di Gauguin, già
morto nel 1903 nell’isola di Hiva Oa. Artisti molto diversi, ma tutti uniti
nella ricerca di stimoli lontani, utili a quel trasferimento fuori dalle
Accademie ripetitive, scavalcando quei
moduli fissi, magniloquenti, sempre più vuoti e retorici. Dunque “il primitivo” è opportuno perché lontano
fisicamente, cronologicamente, linguisticamente, anche quando continuasse
vivere a Pont-Aven, dove si reca a
dipingere Gauguin, o dietro il cimitero di Montparnasse, dove abita Rousseau.
La conoscenza diretta, folclorica, attraverso le Esposizioni universali e i
giochi circensi, è solo occasionale, breve.
La
condizione, pur quando si verificassero contatti prolungati tra il pittore e il
‘primitivo’, non deve cancellare quella estraneità che costituisce per
l’artista innovatore uno stimolo fondamentale.
Ora la
situazione di Henry Rousseau è, si direbbe, mista. E’ avvicinato dagli artisti
innovatori, Picasso in testa, e Soffici che lo introduce in Italia con un lungo
articolo su “La Voce” del 1910, letto con interesse da Carrà e Morandi. Lui
stesso ama questa vicinanza, a suo modo. Nella cena cantata da Apollinaire dice
a Picasso: ”Noi siamo i due più grandi pittori del tempo: tu nel genere egizio,
io in quello moderno”. La stranezza di quel genere egizio non è una fantasia del ‘Candido’, ma il modo con il quale
alcuni critici avevano accolto le provocazioni de Les demoiselles d’Avignon e le opere picassiane di quell’anno.
Rousseau dipinge e dorme in una stessa stanza. Sulla porta una targhetta:
“Cours de diction, musique, peinture et solfège”. Sul muro un violino. Dall’ 1886 espone al Salon des Indépendants e nel 1905 al Salon d’Automne, quello che fa rumore intorno agli
artisti battezzati Fauves, Belve. Lui
non c’entra. All’unica sua mostra personale a Parigi presso un venditore di
mobili mancano i visitatori. L’amico Uhde non aveva scritto l’indirizzo
sull’invito. Ma la sua notorietà si
espanderà rapidamente in Germania e negli USA dopo la sua morte per
cancrena alla gamba il 2 settembre 1910. Quasi un destino. Quattro persone
seguono il feretro, sepolto nella fossa comune del cimitero di Bagneux. Un anno
dopo Delaunay e l’amico, il formatore in gesso Queval, trasferiscono le spoglie
in una sepoltura trentennale, poi trasformata in perpetua. Apollinaire scrive
l’epitaffio, scolpito da Brancusi e Ortiz de Zarate: ‘Gentil Rousseau tu
nous entends / Nous te saluons /…. / Laisse passer nos bagages en franchise à
la porte du ciel / Nous t’apporterons des pinceaux des couleurs des toiles /
Afin que tes loisirs sacrés dans la lumière réelle / Tu le consacres à peindre
comme tu tiras mon portrait / La face des étoiles’. Il poeta si riferisce ad un
ritratto che precede le due versioni di ‘La musa ispirante il poeta’, le figure
di Apollinaire e Marie Laurencin, 1909, con le piante fiorite in primo piano e
gli alberi grandifoglie dello sfondo.
Molte leggende crescono intorno al personaggio sino a raggiungere uno stabile riconoscimento postumo. Ma la faccenda mi sembra un’altra. Se indiscutibilmente critici e artisti del rinnovamento modernista lo includono nel loro Pantheon non direi che succeda il contrario. Lui, il Candido, inizia a dipingere intorno ai quarant’anni, nell’84, sotto i consigli di un pittore accademico vicino di casa, F.A. Clément, che lo aiuta pure a liberarsi dalle ore di lavoro al dazio, da cui si dimetterà nel ’93, quando potrà scrivere sul biglietto da visita “Artiste peintre et décorateur”. Jarry, compaesano, rientra tra i suoi protettori; è lui che lo presenta ad Apollinaire. Ho già ricordato la partecipazione al Salon des Indépendants e al Salon d’Automne. Ambroise Vollard lo aiuta con un piccolo stipendio giornaliero di venti franchi e qualche acquisto. Le lezioni di solfeggio non gli risolvono i debiti contratti. La triste fine all’ospedale Necker dimostra la sua prolungata indigenza.
Rousseau ama la sua arte, ama alcuni pittori da Museo e il pluripremiato pittore accademico William Bouguereau. Rimane estraneo alle novità moderniste. Lo accompagna una tranquilla fantasia. Tiene pennelli , matite e colori accanto al letto, così da adoperarli subito, al risveglio, per utilizzare i suggerimenti del sonno appena terminato. Dipinge delle foreste magnifiche e dichiara di averle conosciute nel suo viaggio in Messico con lo sfortunato imperatore Massimiliano d’Asburgo. Ancora Apollinaire:
“Tu te souviens, Rousseau, du paysage aštèque, / Des forêts où poussaient la mangue et l’ananas, / Des singes répandant tout le sang de paštèques / Et du blond empereur qu’on fusila là-bas.
Les tableaux que tu peins, tu les vis au Mexique, / Un soleil rouge ornait le front des bananiers, / Et valereux soldat, tu troquas ta tunique, / Contre le dolman bleu des braves douaniers…. “. (ibd. p. 661).
Ma erano sogni. “Per lavorare le foglie s’era costruito un metodo. Andava a cercarne in giro, per boschi e giardini, quante più potesse, di forme e varietà diverse. Ne portava rami interi nello studio, li denudava, ponendosene le fronde dinanzi. Poi le sovrapponeva, con pazienza infinita, una per una, sulla tela, copiandole minutamente” (G. Artieri, “Rousseau il Doganiere, Rizzoli 1978). Le sue foreste contengono anche araucarie, liane giganti, piante preistoriche tratte da ogni sorta di illustrazioni, da ogni sorta di epoche geologiche. Voleva essere riconosciuto come un vero pittore. Nel bel mezzo della festa organizzata in suo onore da Picasso, tre colpi discreti alla porta interrompono il chiasso, ricorda Raynal (H. Rousseau cit. p. 86). “Era il Doganiere coperto dal solito feltro floscio, la canna nella sinistra e il violino nella destra… una specie di strumento per bambini”, con l’accompagnamento del quale canterà il suo repertorio, “mentre da una lampada la cera gli colava sul capo, sino a formare un’enorme cuffia”. Così gli amici ‘colti’ accoglievano il loro nuovo giocattolo. Nel momento del suo apparente trionfo Rousseau era riconosciuto nella sua fondamentale estraneità.
Incantatrice
di serpenti 1907 cm.169 X 189,5
In questa incolmabile diversità sta il fascino di Rousseau. E’ lusingato dall’interesse che i pittori colti dimostrano verso di lui, ma non ne accoglie il loro modo di intendere l’arte. Per loro è un suggerimento, un invito ad approfondire la loro differenza, la distanza sia dalla pittura ‘pompier’ che dallo sfaldamento ‘impressionista’. Henry (Henri?), che non desidera la novità, è convinto che il pittore deve esporre nelle grandi mostre, deve vendere, deve essere premiato. Meglio se è anche scrittore (scrive un vaudeville e un dramma) e musicista (compone alcuni valzer). Sforzi non tutti andati a buon fine. La derisione di molti - adamismo definiscono il suo stile - lo sfiora appena. La sua pittura cambia nel senso che si arricchisce di quanto ha stabilito fin dall’inizio. Qualche insegnamento lo accetta, per esempio la difficile connessione della figura, dei piedi, con l’ambiente, la distanza dei secondi e terzi piani. Ma senza preoccuparsene troppo. La sua pittura è metodica, accurata. Il Grande Maestro raffigura i propri sogni, le proprie visioni, il proprio mondo: Clémence, la prima moglie, il biroccino di papà Juniet, l’amico poeta, le macchine volanti, La giungla, le bestie feroci, il Messico dell’Imperatore.
Non
smentisce la leggenda che le sue foreste vengono da una sua visita laggiù. E vi
aggiunge una esplicita compiacenza. In mezzo al fitto fogliame Il gruppo delle
leonesse guarda divertito verso lo spettatore, come in posa davanti al
fotografo. Una luce fa uscire i loro musi dalla massa vegetale che li avvolge. Un
amorevole teatrino di cui il pittore sa di essere il regista e sorride lui
stesso di quei sorrisi che dipinge. Una consapevolezza che non mi aspettavo.
Non c’è stacco tra visione e mondo. Vedere, fantasticare, ricopiare, trasferire sul foglio (quando si sveglia) o sulla tela sono un unico problema. Un montaggio non facile, una specie di guerra, a fin di bene. La visione del Maestro è al di sopra di ogni bassezza. La cultura di Rousseau, ben solida nel suo stretto perimetro, ha poco da spartire con i grandi affanni della cultura colta, che pure guarda a lui come uno dei tanti esempi dell’altrove.
La Guerra; la cavalcata della discordia, 1894 cm 114 X 195
Il bironcino di Papa Junier (da una fotografia); a sinistra lo stesso Rousseau, 1908 cm 97 X 129
________________________________ ____________________________________________________________________________________________________________________
TORINO CASORATI CAROLRAMA
Torino, vado indietro: anni ’50. In zona Po le
strade sono ancora acciottolate con le guide centrali in lastre di pietra per i
carri, da tempo scomparsi. Via della Rocca, via Mazzini. Il cortile è
silenzioso. Al suono del campanello ‘Casorati’ il bassotto abbaia. Viene ad
aprire la sorella Elvira. Dietro s’intravede l’altra sorella. Nell’ambiente
degli allievi, ordinato e silenzioso, la luce filtra dal giardino interno,
insieme al suono del pianoforte che discretamente suona il Maestro, Felice
Casorati, nel suo studio, sempre in giacca a cravatta, anche quando dipinge con
i pennelli e la grande tavolozza. Numero,
mensura, , pondus il suo motto. Da Verona, dopo la parentesi della guerra
(e del suicidio del padre), arriva a Torino nel 1918: “la città…mi apparve
calma, regolare, tranquilla e silenziosa… Sentii che soltanto in questa città…
dalle mansuete colline, dal fiume che sembra rallentare il suo corso per non
turbare la calma di tutte le cose, in questa città ordinata, geometrica e
misurata come un teorema, enigmatica ed inquietante come una cabala, astratta
come una scacchiera, avrei potuto…riprendere la mia vita di pittore “ (F.
Casorati, Electa 1990, p. 176). E’ la Torino che molto dopo Nico Orengo, citato
nell’attuale ‘Magazzino’ di Carol
Rama, ricorda: “in unaTorino grigia…di fabbrica, che poteva essere l’Einaudi
come la Fiat tutto era rigoroso…”.
Nella casa spaziosa del pittore, accolti dal morbido
sorriso della moglie inglese Daphne, si raduna un gruppo di giovani, Francesco,
il figlio, Tabusso, Mauro Chessa, Noventa, intorno ad una rivistina “Orsa
Minore”, forse in ricordo della paterna “Via Lattea”, quadro e pubblicazione
del 1914. Al Liceo insegna filosofia un pittore e
critico d'arte, suo allievo, Albino Galvano. All’Università si distingue un più
giovane assistente di italiano, già allievo liceale di Galvano e poeta, Edoardo
Sanguineti. Ne avevo firmato la richiesta della sua prima pubblicazione ‘Laborintus’, quasi laborem habens intus proprio
in quel Cineclub dove Carol Rama
(anche Carolrama, tutto attaccato) racconta di averlo incontrato.
Alla Torino del melanconico e rigoroso incanto casoratiano si contrapponeva una sotterranea sregolatezza luciferina, antica storia, circoli segretissimi, la coppa del Santo Graal, fughe, omicidi incomprensibili, magnetizzattori e sonnambule isteriche, la proibizione, firmata da Lombroso, pur interessato allo spiritismo, degli spettacoli ipnotici, lo smemorato di Collegno, smemoratezze e rimembranze. Forse erede di questa estraneità, sofferta e felice, si trova anche, oggi, un’artista con quasi un secolo sulle spalle; vive da sempre all’ultimo piano senza ascensore di un appartamento di via Napione. In quei lontani anni ’50 si parlava di lei con ammiccamenti, sorrisini, cenni a sessualità stravaganti, ammirazione sussurrata, anche.
Sembrerebbero due realtà separate, quella borghesamente affermata del pittore Felice Casorati, protetto dalla pubblica ammirazione e dagli affetti famigliari, stato sociale riconosciuto, pluriinvitato alle Biennali di Venezia, direttore del’Accademia di Belle Arti, amicizie e collezionisti solidi e quella invece di Carol Rama, discendente di una famiglia benestante poi caduta in miseria, il padre suicida, la madre in ospedale psichiatrico e lei pittrice quasi in segreto. “Ho sempre avuto un pezzo di carta per fare un disegno”. Le sue opere dal ’36 , a diciott’anni, al ’41 arriveranno al pubblico solo negli anni ’70. “Ho dipinto in quel tempo immagini di una autobiografia panica, oggetti-feticci quali dentiere o pennelli da barba, pissoirs maschili o scopini sfasciati, visti, “guardati” letteralmente da un testimone-ragazza, un volto desiderante, esibito con l’oscena evidenza delle sue molte lingue. Ho dipinto scarpe femminili, modelli accurati di scarpette femminili, abitate, non assurdamente abitate, da penifiore, da sessi invadenti e sicuri” (Lea Vergine, “L’altra metà dell’avanguardia”, 1980). Inutile sottolineare quanto la (auto)biografia dell’artista sia importante per cogliere il significato (almeno una parte del significato) della sua opera. La macchina da scrivere del padre in bella mostra nell’appartamento e la fotografia della madre accanto al letto, le forme da scarpe del nonno calzolaio e dello zio ortopedico sono soltanto alcuni segni di questi affetti ed effetti duraturi.
L’Olivetti del padre. Sul muro un disegno dell’amico musicologo Massimo Mila con un animale, con dei denti veri sulla schiena, che gli stringe la testa, e una fotografia di Carol giovane.
Ritorno, con Massimo Mila, alla Torino doppia: “E’ noto che Torino, la più regolare, la più pignola, la più svizzera città d’Italia, produce ogni tanto dei matti che più matti non ne esistono in tutto il mondo…In questa razza di matti subalpini un posto d’onore spetta alla pittrice Carol Rama” (citato ne “ Il magazzino dell’anima” da Lea Vergine, Carol Rama, Mazzotta 1985)
La separazione delle due realtà è una forzatura. Casorati seguirà sempre con interesse e partecipazione l’attività di Carol. Leggo ancora da “Il magazzino…”: “La famiglia Casorati, nelle due generazioni di Felice con la moglie Daphne e Francesco con la moglie Paola, ha accompagnato la vita di Carol Rama dagli anni quaranta ad oggi: con stima, affetto, sostegno”. Un ritratto di Carol dipinto da Daphne è appeso al muro dell’appartamento. No solo. Albino Galvano ed Edoardo Sanguineti (“L’ho conosciuto nel ’46 e da allora non ci siamo più persi di vista” dice Carol) sono tra i più attenti accompagnatori ed esegeti della pittrice. Lei ne subisce la sottigliezza culturale e restituisce loro una sulfurea, inesausta, drammatica spinta vitale. Insomma due realtà, e forse più di due si mescolano, si accostano, si annusano, si accompagnano, si riconoscono. Ora vengo più propriamente al prezioso volume de “Il magazzino dell’anima”, alle fotografie accostate a brevi commenti e citazioni, molto utili; anche perché tutta la sistemazione, questo bene, “già definito opera essa stessa, sia molto probabilmente destinato a scomparire” (“Il magazzino…” p. 9). Leggo dalla presentazione: “un ‘magazzino’ secondo una sua definizione, allestito con opere e oggetti di memoria, da lei stessa strutturato come rappresentazione di sé”. La casa si è via via nel tempo gremita di oggetti, fotografie, scarpe, maschere, scatole, arnesi, gomme usate, da biciclette, una scatola piena di corna, boccette, pendenti, colori, libri, riviste… “frammenti oggettuali e confidenti… segni ormai inconfondibili e attesi dell’usura e dello straniamento” (ibd. p. 173), quasi a temere un vuoto che potesse alludere ad una minaccia, un ‘altro’ non riducibile alla propria domesticità. Certo, questo accumulo voluto e concertato è pur sempre una “rappresentazione di sé”, ma parziale; per ri-conoscerlo (oltre a chi l’ha prodotto) sono necessarie altre conoscenze, altre rappresentazioni, e ci metterei almeno le tracce biografiche, il vissuto, per quanto trascritto, e i risultati artistici, le opere, fermate nelle loro conclusioni. E qui soccorrono le ri-produzioni ben isolate sulla pagina del catalogo sopra citato “L’occhio degli occhi”. Naturalmente il vissuto è sempre sfuggente, anche al soggetto che lo vive, ma ogni traccia, da quella più linguisticamente definita, l’opera, seppur riprodotta, agli scritti dei critici, ai discorsi riferiti, ai ricordi dell’autore, degli amici, dei conoscenti… è pur sempre un aiuto. Mai abbastanza.Torno alle immagini della casa-magazzino. L’artista che la abita non ama la luce esterna. Grandi tende nere e vecchi sacchi delle poste italiane allontanano la luce diurna, l’ambiente circostante, l’esterno. E’ una interiorità che riempie ogni vuoto anonimo per riconoscersi ovunque. “C’è chi si toglie le angosce facendo shopping, io col buio in casa” (p. 176). Viene in mente lo studio di Bacon, chiuso, sigillato, con le lampadine pendenti, attaccate al filo della luce, i muri sporchi di colore e impronte e un pavimento pieno di ritagli, fotografie, giornali, schizzi, appunti e…. Un lavoro improbo (e impossibile) da trasportare, dopo la sua morte, da Londra, dove si trovava, a Dublino, dove si trova ora.
Che tipi di oggetti sono quelli che riempiono il magazzino? Sono oggetti usati, scrostati, monchi, appena salvati, con (s)ragione, dalla spazzatura, vantano storie che non conosciamo, ‘oggetti d’affezione’. “Ho sempre amato gli oggetti e le situazioni che venivano rifiutati”. E oggetti sono anche parti delle sue opere, denti, occhi, gomme, superfici già trattate da altri. Sanguineti cita da Lévi Strauss, il termine ‘bricolage’: riuso di materiali e strumenti esistenti e disponibili per propri e altri scopi. “In questi ultimo anni (1992) cerco sempre di disegnare partendo da un supporto lavorato da altri, un foglio di architettura …vecchie mappe del catasto. Avere uno sfondo mi deresponsabilizza: mi fa coraggio” (ibd. p. 190). “Prendo pezzi di altri, perché ho bisogno di un suggerimento. Io, da sola, per tante cose che mi sono successe, sono troppo impaurita…Tutti gli artisti sono nevrotici, spaventati a modo loro” (in dialogo con Maria Perosino, citata da Emanuela Audisio, ‘La Repubblica’ 2010.4.17). Appesi al muro anche tante fotografie in cornice. Quasi tutte riportano la figura di Carol nelle sue diverse età e compagnie. Se ci fosse stato un dubbio sulla senso di una scultura, pendolo, arnese, scarpa, la fotografia di Carol esclude ogni dubbio, è lei che così firma tutto quanto la circonda, le sue scelte di casa. E’ lei con la sua giovanile frangetta educata, col suo scoppio forestale di chioma adulta, con la sua treccia posticcia che la incorona. Nelle fotografie, tempi e luoghi diversi, la riconosciamo senza incertezze; in altre rimane quasi una impronta leggera, un po’ scolorita, perenne, senza età. Le prime figure sì individuate, ma fissate in un distante altrove; le seconde invece ritrovate, ma in una fantasmatica attualità. Eternizzata e insieme sfuggente. Anche nelle tracce una tensione. Una mancanza di sé, come gli oggetti che la circondano, pezzi di…, residui di…; ma sicura di averli succhiati, resi parte di sé, averne interrotto la rovina. Quando è fotografata da sola tiene sempre un oggetto in mano.” Ho sempre bisogno di un prestito: è come se mi mancassero le forze, da sola” (ibid.. Compagnia e solitudine. pagg.190).
“Questa casa è sempre stata così, è una casa
premeditata dove gli oggetti, tutti poveri (quelli meno poveri sono stati
pignorati quando mio padre è fallito) posti l’uno vicino all’altro… diventano
una storia, dove una casa non è più una casa ma una scenografia, una
preparazione per girare un film, il tuo film” (M. Gregotti, L’oggetto
sublimato di Carol Rama, “Elle Decor”, I n. 3, 1990). Ecco, una
recitazione, uno spazio teatrale, una maschera non per celare ma per rivelare,
e, come tutte le rivelazioni, anche un nascondimento. Il personaggio in azione tra strazio e
felicità, sfida e dolcezza, ripulsa e attrazione; il personaggio che si spande,
si con-fonde in questi ambienti densi, eccessivi, sopraffollati, enigmatici,
interrogativi. Torino,
una città come una grande casa. La abitano gruppi diversi, parole e accenti si
mescolano. L’elegante controllo e freddezza di Casorati si accosta alla ridente,
esplosiva disperazione di Carol Rama. Reciproca ammirazione della differenza. Meno
male!
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DIVINE BOVINE
Sì, si
tratta di mucche, o meglio di belle fotografie di Toni Meneguzzo, frutto di una
sua ricerca antropologica lunga cinque anni sulla sacralità e i festeggiamenti della
mucche nella tradizione indù; immagini inusuali, dai colori forti, ritagliate
sull’immacolato biancore della pagina (Testo e immagini sono tratte dal volume
appena uscito di SilvanaEditoriale). Inusuali perché gli animali sono addobbati
e pitturati sulla loro stessa pelle, secondo antiche tradizioni religiose, oggi
in via di estinzione. “La mucca portava il dipinto su di sé ed era essa stessa
un dipinto”. Dunque un animale trasformato in quadro, oppure un quadro
trasformato in animale? Né l’uno né l’altro. Ecco dunque
la prima particolarità: il dipinto non è una trasposizione del soggetto su di
una superficie con tecniche appropriate, quelle della pittura o della
fotografia, ma una pittura diretta sul soggetto stesso, a sua volta riportato
dal fotografo, il Meneguzzo, alla bidimensionalità della foto e della
pagina-libro -la pagina bianca- con l’esclusione di ogni particolare
ambientale che potrebbe distrarre dalla concentrazione sulla particolarità del
soggetto. Nel ri-tratto il soggetto è tras-posto, nella pittura sul soggetto il dipinto è sul-posto. Soggetto e
oggetto sono la stessa cosa.
“Adornate
con ghirlande di fiori freschi e di addobbi variopinti, di paccottiglia
luccicante – scrive l’Autore – le mucche vengono altresì preparate colorandone
il manto e le corna con pigmenti organici, come il rosa…il colore della pelle
di Radharani, compagna di Krishna, pastore delle mucche; il giallo curcuma,
colore della divinità solare che illumina il mondo, e così via”. Il bovino,
maschio o femmina (meglio se femmina) è espressione del divino, come il sole,
il firmamento, le acque. La sua stessa esistenza lo di-mostra.
Nei giorni
di ‘festa’ la mano dell’uomo ne esalta la sua particolarità, lo fa essere di
più se stesso. Come le immagini della devozione cristiana si dicono
‘acheropoietiche’, non fatte da mano umana, perché la mano è guidata da Dio –
comunque una collaborazione - così le
decorazioni umane sul vivo manto bovino si applicano al divino in sé, sono una
preghiera umana sulla viva realtà divina, sempre una collaborazione. Qui però
si tratta di due realtà vive, quella dell’uomo e quella dell’animale, l’uno che
proietta la sua intenzione debole (precaria=preghiera), l’altro che l’accetta
nella sua stessa inconsapevolezza e generosità: “il suo latte nutre, la sua
urina purifica, i suoi escrementi santificano e fertilizzano la terra e servono
come combustibile” (Rosalyn D’Mello).
Ma l’azione dell’uomo è una macchinazione mentre quella della mucca è una accettazione. Cancellare l’ambiente, la preparazione, come fa il fotografo, è allontanare la ‘macchina’ dell’intervento, le puzze, i clamori, ed esaltare il miracolo dell’apparizione, la divinità in sé, isolare il risultato finale (come il quadro dipinto nella mostra), affidando al lettore la capacità di ricostruire più o meno, mentalmente, se lo desidera, le modalità dell’intervento (i materiali e i movimenti del pittore). Giusta ambiguità dell’opera, che vale di per sé, l’animale nel miracolo delle sue decorazioni, come la pittura nel miracolo dei suoi colori, e le modalità che lo hanno reso possibile. La differenza però non è poca. Nella pittura il tratto del viso o di qualsiasi altro soggetto è una esternità rispetto alla tela del pittore, nel caso della mucca divina, tela e corpo dell’animale sono tutt’uno, una messa in scena speciale giocata sul corpo dell’attore, e infine ricollocata, e in qualche modo esaltata, dall’abilità del fotografo, nel nulla ambientale, il bianco della pagina, che restituisce all’attore il mistero della sua recitazione. A volte le macchie del colore si confondono con le macchie del pelo naturale, a volte ne escono, lo contraddicono, si accomunano alla artificialità degli allungamenti delle corna, alle ghirlande, ai palloncini, ai drappi. Mai insofferenza , ma neppure orgoglio. Piuttosto l’infinita, dolce pazienza di chi sa di essere, di chi sa accettare ogni comp(l)imento, anche scherzoso.
G. C. febbraio 2015
Truffatori,
bevoni, violenti nella Roma dei Papi
Così
scrivono Francesca Cappelletti e Annick Lemoine nel catalogo della mostra: “I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio
e della miseria” (ed.
Officina Libreria) aperta a
Roma, all’Accademia di Francia, Villa Medici dal 7 ottobre 2014 al 18
gennaio 2015, e dal 24 febbraio al 24 maggio 2015 al Petit Palais, Musée des
Beaux-Arts de la Ville de Paris.
Caravaggio, Il Bacchino malato, 1593 ca.
Il Bacchino
di Caravaggio, passato dalla bottega del cavalier d’Arpino alla collezione del
Cardinale Scipione Borghese, nella sua degradata incoronazione bacchica, è un
modello per i numerosi giovani pittori stranieri, specialmente fiamminghi,
giunti a Roma alla ricerca di guadagni, avventure e fortuna. La cosiddetta Bent, La Banda, Bentvenghels, gli uccelli
della Banda, o anche i Bamboccianti seguaci di Pieter van Laer, detto il Bamboccio, una
confraternita con riti di ingresso e propositi di reciproca assistenza. La vita
sregolata, notturna, il vagabondaggio, il gioco di azzardo, il trucco, l’ubriacatura, il vino, gli stracci, la
zingara, la prostituta, l’opposto dell’opulenza esaltata dal Bellori, i
Carracci, il Bernini, Reni, Rubens, Van Dyck, Poussin…
Cosa sta succedendo? Roma è una città
dove scorrono molti denari. La nobiltà religiosa, colta e spregiudicata,
gareggia nel finanziare grandi opere e nell’aggiudicarsi le firme migliori. Il
modello classico, prevalente, non esclude la novità e la bizzarria. Per loro
parte i pittori nordici, a seguito delle varie riforme religiose, hanno
abbandonato cieli, santi e Madonne, dedicandosi ai vari gruppi ‘borghesi’ in ascesa, banchieri, amministratori, città in
crescita, dimore pulite, limpide e modeste. Ma regole, obblighi e persecuzioni
non mancano. Meglio cercare fortuna altrove, magari in un sud favoloso, ricco
di principi e briganti. Così si sviluppa questo curioso incontro nella Roma
papalina: da una parte ambiziose famiglie cardinalizie in perenne competizione,
‘soggetti alti’, i Borghese, i Ludovisi, i Barberini e, dall’altra, pittori squattrinati, abituati a scene ‘di
genere’, piccoli gruppi in luoghi chiusi, ombre e luci caravaggesche, ‘soggetti
bassi’.
Un teatro. Smorfie, colpi di luce a
staccare volti stupiti, galleggianti su voragini di buio; una oscurità
indefinita, minacciosa accompagna in controcanto i trionfi smaglianti del
potere e della bellezza. I due mondi si annusano, si richiamano. In qualche
modo si rinforzano, si completano a vicenda.
E per finire - riprendo dal catalogo - una Satira di Salvator Rosa, la Pittura (v. 235-250):
“V’è poi talun che col
pennel trascorse / a dipinger faldoni e guitterie/ e facchini e monelli e
tagliaborse, / vignate, carri, calcare, osterie, / stuolo d’imbriaconi e genti
ghiotte, / zingari, tabaccari e barberie, / niregnacche, bracon,
trentapagnotte: / chi si cerca i pidocchi e chi si gratta / e chi vende a i
baron le pere cotte, / un che piscia, un che caca, un ch’a la gatta / vende la
trippa, Gimignan che suona, / chi rattoppa un bocal, chi la ciabatta; / né
crede oggi il pittor far cosa buona / se non / dipinge un gruppo di stracciati,
/ se la pittura sua non è barona.”
[G. C. gennaio 2015]
MIRO', L’IMPULSO CREATIVO LEGGERO
La mostra di Joan Mirò,
‘L’impulso creativo’,che si è aperta in novembre 2014 a Mantova alle
Fruttiere di Palazzo Te e che rimarrà visitabile sino al 6 aprile 2014, è una
buona occasione per ritornare su di una figura dell’arte del’900, certo
‘laureata’, certo popolare, ma forse meno frequentata di altre. Gli amici mi
perdoneranno del ritardo con cui ne parlo, ma sanno che non corro sulla
notizia, ma ne parlo come occasione per alcune riflessioni sul personaggio e la
sua vicenda. La
mostra, a cura di Elvira Càmara Lòpez, è benvenuta, ricca di olii, bozzetti,
terrecotte, bronzi, documenti, fotografie, in gran parte provenienti dalla Fundaciò Pilar i Joan Mirò. Il catalogo
del 240RE
Cultura riporta interessanti saggi e interviste all’artista, che citerò
nelle mie osservazioni. Il periodo considerato pone un dubbio: le opere
riguardano il tempo dal 1966 alla morte
del pittore, avvenuta a Palma di Maiorca nel 1983. Una vita lunga di novant’anni.
Se si tiene conto che Mirò nasce nel 1893 e che i suoi primi disegni conservati
risalgono al 1906 e nel 1911 decide di dedicarsi interamente alla pittura, un
salto di sessant’anni e più per arrivare alla tarda maturità dell’artista, quel
“dal ‘66” richiede al visitatore un certo sforzo conoscitivo di fronte ad un
personaggio che ha condotto una vita tutt’altro che monotona e ritirata. La
conseguenza è perciò una illuminante insistenza su di un particolare aspetto della sua pratica artistica, cioè sulle tecniche, le modalità del dipingere,
una inesausta capacità e curiosità di sperimentazione. Certo, un lato un
po’ trascurato, e perciò ora benvnuto, quel suo confronto con le alterità
continuamente affrontate, la grafia tra Klee, lo Zen giapponese e il dripping di Pollock, il dinamismo del
gesto, la causalità dell’impronta, l’eterogeneità dei materiali poveri, la
tentazione del vuoto e il filo leggero del racconto. Così Elvira Càmara Lòpez
tratta de Il gesto, La forza del nero,
La sperimentazione con i materiali,
Il trattamento dei fondi, L’eloquenza della semplicità.
1973-78 circa |
Ma rimanendo sull’ultimo periodo dell’attività di Mirò, quando tali aspetti risaltano con particolare evidenza - ed è importante perciò insistere sulla loro rilevanza - si presuppone la conoscenza di tutto il lavoro precedente che quelle modalità ha poco per volta indagato, adoperato, modificato. Cercherò perciò di riprendere alcuni aspetti del suo carattere (anche con opere non presenti in mostra) che forse aiutano alla comprensione della sua ricca curiosità del ‘fare’.
Il suo sguardo. Mirò si guarda intorno con lo stupore del ‘fanciullo’: “per me, un oggetto è qualcosa di vivo; questa sigaretta, questa scatola di fiammiferi racchiudono una vita segreta molto più intensa di quella di certi esseri umani. Quando vedo un albero provo una forte emozione, come se fosse qualcosa che respira, che parla. Anche gli alberi hanno qualcosa di umano. L’immobilità mi colpisce. Questa bottiglia, questo bicchiere, un grosso ciottolo su una spiaggia deserta sono cose immobili, ma scatenano grandi moti dentro di me” p. 34.
Il gioco, la burla, la meraviglia. I profili, gli occhi, le bocche si disegnano quasi per caso. E’ la forza nascente, “la scintilla” che stupisce lo sguardo del fanciullo prodigioso, che scarta il troppo, ama il vuoto, la mancanza, il “senza” che apre lo spazio all’infinito della immaginazione, all’infanzia di sé e del mondo, a quel sorriso d’intesa che aleggia anche sul viso di Chagall. Ritorna nella vecchiaia a Palma di Maiorca, là dove aveva passato la giovinezza, e a Palma di Maiorca muore. Tutto ciò che non è potrà essere. “Un quadro non si finisce mai, e nemmeno si comincia; un quadro è come il vento: qualcosa che cammina sempre, senza fermarsi” p. 33. “Lo stesso procedimento mi porta a ricercare il rumore che si cela nel silenzio, il movimento nascosto nell’immobilità, la vita in ciò che è inanimato, l’infinito nel finito, le forme nel vuoto e me stesso”. Gli elementi contrari si cercano, non si escludono. L’opera, il manufatto può scomparire, ma i suoi effetti rimangono. “Non ha importanza se il quadro viene distrutto. L’arte può anche morire; quello che conta è che abbia sparso semi sulla terra. Il surrealismo mi è piaciuto perché i surrealisti non consideravano la pittura un fine in sé” p.38.
Interno olandese II 1928 |
Una mollezza delle forme, ondulazioni, figure
biomorfe, Mirò si sta interessando ai balletti russi di Diaghilev, sorride ai
sogni olandesi, agli interni-esterni di quelle linde case (come nei quadri dei
maestri del ‘600), il viaggio in Olanda e in Belgio l’ha fatto davvero. Ogni ‘titolo’ è pensato e voluto. E’ il
senso dell’opera, la guida del racconto. Come
la musica nasce dal silenzio, così la individualità è il fondamento
dell’anonimato. “Per
diventare veramente uomini, bisogna però liberarsi del proprio falso io….Perché un gesto profondamente individuale è anonimo.
In quanto anonimo, esso permette di raggiungere
l’universale. Di questo sono convinto: più una cosa è locale, più essa è
universale. Da qui deriva l’importanza dell’arte popolare” e
del Doganiere Russeau. P.38 Da qui l’interesse per il lavoro
collettivo, necessario nell’incisione, nella ceramica, nella scultura, nel
teatro.
Anche l’eterno fanciullo soffre di melanconia. Il mondo, così com’è,
funziona male. “Sono, dice Miró, di temperamento tragico e taciturno. In
gioventù ho conosciuto periodi di profonda tristezza. Ora ho raggiunto un mio
equilibrio, ma tutto mi disgusta; la vita mi sembra assurda. Non è il
ragionamento a farmela apparire tale: è così che la sento. Sono pessimista; credo che tutto, sempre, andrà a
finire malissimo. Se nella mia pittura c’è qualcosa di umoristico,
non l’ho cercato coscientemente. Forse l’umorismo deriva dalla necessità di sfuggire
al lato tragico della mia indole. È una reazione, ma involontaria". Gli opposti si richiamano. Anche
il sorridente sognatore si disgusta. Nel 1936 in
Spagna ha inizio la Guerra Civile. Mirò
dipinge ‘Pitture disperate’
come ‘Uomini
e donne davanti a un mucchio d’escrementi’. L’anno successivo Il governo spagnolo
gli commissiona un grande dipinto murale per il padiglione spagnolo all’Esposizione Universale
parigina, al quale collaborano anche Picasso con Guernica, Calder con Fonte di Mercurio e Julio González conLa Montserrat. L’opera di Miró, Il mietitore, è dispersa durante lo smontaggio
del padiglione. Realizza il manifesto Aidez l’Espagne, destinato a raccogliere fondi per la Spagna repubblicana.
Ma il volo riprende, pur tra le minacce, un altro
mondo è possibile: Sur-réalisme
Personnages dans la nuit guidés par le traces phosphorescentes des escargots 1940 |
Personaggio e uccello, 1976 Olio su carta vetrata, legno e chiodi, 175,5 x 125,5 cm |
Aria, terra, fuoco, vita. Il suo respiro, il suo gesto, il suo sorriso e ironia, ha conquistato simpatizzanti, collezionisti, Musei. Il mondo delle capitali e dei capitali, da Parigi a New York, da Londra a Venezia a Kassell, lo riconosce 'maestro'. Ma l'artista, a 63 anni, preferisce lo spazio appartato di Palma di Maiorca, e lì si fermerà.
la vicenda di Mirò, lunga e complessa, si svolge
ben al di là delle mie poche note. Ma ciò che manca è insieme l’invito a riempire il
vuoto. Così la bella mostra di Mantova, ben specifica nella sua definizione
temporale e contenutistica, l'ultima età dell'artista, è anche 'scintilla', invito a proseguire l’incontro, il prima e il
dopo: una esperienza artistica
in(de)finita.
[G.C. dicembre 2014]
BRETON - MèARINETTI
Sulla rubrica di Agorà ho parlato di Arturo Schwarz in
occasione dell’uscita di un suo importante testo “Il Surrealismo ieri e oggi”,
ed. Skira, e mi pare interessante sottolineare la contemporanea riapparizione ‘fantastica’
nella ‘performance’di Bellini al MART
di Rovereto, una riapparizione di Breton in compagnia di Marinetti, entrambi
autori di fondamentali ‘Manifesti’, a 25 anni di distanza, Manifesto del Futurismo 1909, l’uno, Manifesto
Surrealista 1924, l’altro: ‘manifestazioni’ che hanno cambiato la vicenda
artistica del ‘900.
Ecco dunque al Mart di Rovereto, mercoledì 3 dicembre, la Performance di Dario Bellini
La scultura teatrale ‘il Kouros’
Il testo, denominato Il Kouros si
basa sullo scambio dialettico immaginato tra André Breton e Filippo Tommaso Marinetti e prende le mosse dalle
loro ragioni poetiche fino a coinvolgere i relativi risvolti politici.
Marinetti e Breton si incontrano in un improbabile luogo fuori dal tempo e
discutono rinfacciandosi le proprie ragioni e i torti. Sconfitte e speranze
traspaiono dal dialogo che comincia con toni comici da commedia dell’arte e si
conclude con speculazioni accorate sull’arte e la vita. Vigile spettatore e
proiezione dei due interlocutori, l’attaccapanni veste il ruolo dell’arte,
modello di bellezza o sedimento di opere amate e odiate dai due
artisti-teorici.Breton incalza Marinetti indicandogli i molti
temi da lui ignorati, Marinetti gli rinfaccia di essere confuso e vago: Breton
rinfaccia a Marinetti di aver cercato la guerra, Marinetti gli contrappone
l’ispezione profonda nella materia: la situazione si ribalta e alla fine il
futurista sembra indicare al surrealista quanto il malinteso di inizio secolo
sia fruttuoso una volta che la storia
riprenda il suo corso dopo il cosiddetto delirio
del simulacro.
Riporto le
parole dell’autore Dario Bellini e vi aggiungo una sua delucidazione su ‘il
delirio del simulacro’, “un termine ricavato dalle riflessioni di Deleuze e corrisponde grosso modo al Postmoderno cioè
il periodo culturale in cui la forma delle cose prende il sopravvento sulla
sostanza. In pratica una specie di svuotamento delle cose in funzione del
profilo disegnato, il linguaggio, la comunicazione, il simulacro, appunto. E’
una cosa all'ordine del giorno della cultura degli anni 80 in un certo senso
superata dagli eventi, dalla ripresa della storia, ma che ha lasciato
strascichi non del tutto inefficaci”.
Riprendo ora
personalmente, con mie parole – e perciò rischiando di sfasare il senso col
quale sono state adoperate dagli autori -, il contrasto tra “storia” e “delirio
del simulacro”, tra ciò che avviene nei fatti e ciò che si rappresenta svuotato
nella pervasiva comunicazione mediatica.
Ma ovviamene c’è comunicazione e comunicazione. Però il linguaggio, la comunicazione,
in generale, è sempre un ‘trasferimento’. Le emozioni, i fatti non parlano,
sono, e il loro essere è sempre ambiguo, multiplo. Il trasferimento in parole,
in gesti controfattuali è sempre discutibile, cioè soggetto a discussioni,
interpretazioni, travisamenti, accordi, polemiche. 'Simulacro' è un termine negativo: ombra (magari dei morti), parvenza, fantasma. Insomma, traccia maligna, ingannevole di una realtà diversa. Ovviamente 'il trasferimento' non è sempre di questo tipo. Traduce, articola, sposta nei termini della possibilità. Così anche i ‘Manifesti’ di
Marinetti e Breton sono stati scritti e riscritti, soggetti di meravigliose
polemiche, rotture, incomprensioni, condanne, entusiasmi, alle quali si aggiunge ora
anche il Kouros di Bellini. Bene, un nuovo trasferimento!
[G. C. dicembre 2014]
UNA GRANDE MOSTRA. MARC CHAGALL LA COMPAGNIA AFFETTUOSA
Fin da ragazzino andavo a riguardarmi
quelle immagini di pesci volanti, di violinisti sul tetto - Vitebsk, l’infanzia di sempre - di
innamorati felici, e lei, sempre, Bella,
mazzi di fiori, mucche pazienti, gli impacciati Profeti con i rotoli della Toràh (Mosé, Moshe è parte del nome di Chagall Segal. “…Io non faccio altro che
portare il suo nome, e ho tracciato e disegnato con dolcezza le sue tavole
della legge” p.48)
. La memoria, la curiosità, lo sguardo del ‘fanciullo miracoloso’,
interrogativo, sornione, melanconico. Un sorriso dell’ebreo hasid (cassidico=pio)
che canta e racconta e sogna anche nel freddo della povera isba, e le sue fughe
e i suoi trionfi. Una compagnia che non mi ha abbandonato negli anni.
E vorrei estendere questa continuità con la presenza,
il riconoscimento esteso del valore di Chagall sia da parte di un pubblico
generico sia da parte della categoria degli ‘esperti’, critici, collezionisti,
direttori di Musei. Insolita eccezione da quando l‘arte cosiddetta ‘moderna,
con le sue clamorose ribellioni,’ ha abbandonato il favore dei più. E Chagall, in una lunga
vita, con le mosse di una danza sempre rinnovata tra i resti di Vitebsk, occhieggianti
anche nei viali di Parigi, è rimasto
sempre se stesso. Come Laozi, "un vecchio bambino". “Forse che la mia vita stessa non è un balletto silenzioso?”
Io e il villaggio 1911
Già, una
lunga vita, 1887-1985, più lunga di quell’altro grande vecchio di Picasso,
1881-1973, forse mai stato bambino, che Chagall non ama: “… la sua arte mi era così estranea. Tutto di lui mi era
estraneo . Aveva una grande capacità lavorativa, ma a che serviva una simile
passione per la quantità?... Può darsi che fosse proprio questa quantità a
rassicurarlo in qualche modo. Aveva paura della morte… Con la quantità, forse,
sperava di ripararsi dalla morte” “Memorie,
p. 40). Picasso, veloce come un corridore, preciso come un ragioniere, voleva
fare tutto, essere tutto, antico e moderno, classico e romantico, monumentale e
raccolto, aggressivo e amoroso… voleva usare tutte le tecniche, l’affresco e il
secco, il collaggio, la tela, il muro, la lamiera, la fusione e la ceramica, il colore prezioso
e la vernice industriale….Ma il tutto gli sfuggiva sempre, né poteva essere
altrimenti, un se stesso continuamente
mancante. Continua Chagall: “Com’erano tremendi i suoi quadri! Nessuno mai,
nella storia dell’arte, aveva avuto nei propri dipinti volti come questi. Forse
qualcuno saprà comprendere perché fosse così infelice mentre aveva tanto
successo” (Ibd.). Non sto
parlando di meglio o peggio, di chi era primo o secondo, ma di una differenza
importante: Chagall scava nella propria emotività, la coltiva, ne fa filtro di
ogni vista-visione, legame di ogni rottura e moltiplicazione, che pure c’è. Risultato,
una tensione tra fuoco unitario e dispersione. Picasso ama la rottura, la
moltiplicazione, la dispersione e quel fuoco, una rabbia trattenuta, che pur traspare nelle ripetizione dei gesti e
dei soggetti, per es. “Il pittore e la
modella”, è quasi accettata
controvoglia. Due direzioni, non potevano incontrarsi. Ancora
una notazione. La molteplicità di Chagall non è solo la rottura della unicità
di scena, ma è piuttosto il tempo-spazio nella prospettiva del racconto. Da qui
il suo amore per il teatro, per il balletto, per la illustrazione di una
vicenda: “Ma vie”, “Le anime morte” di
Gogol, “Le Favole” di La Fontaine, “Petruška” e “L’Uccello di fuoco” di Stravinskij. Non solo i racconti dei vecchi
nelle stalle di Vitebsk, ma l’incontro di Bakst e Djagilev nel suo primo
viaggio a S. Pietroburgo, 1907-8.
E ora vengo alla bella mostra apertasi a Milano, che è
l’occasione delle mie riflessioni:
MARC CHAGALL E LA BIBBIA
Una retrospettiva 1908-1985 Milano, Palazzo Reale (Direzione artistica Claudia Zevi &
Partners)
Museo Diocesano settembre 2014 - 1 febbraio 2015.
Vita e opere di Marc Chagall sono note, ben documentate nel catalogo, e qui ne accennerò solo brevemente. Nasce a Vitebsk in Bielorussia nel 1887 da una famiglia di ebrei chassidici di modeste condizioni. Il padre è un venditore di aringhe, la madre gestisce nella piccola casa in legno, una specie di merceria. ”Sul serio, dove ho potuto nascere qui dentro? Come ci si respira, qui?” (“Ma vie”). Marc disegna le figure che ha d’intorno. Con difficoltà riesce ad avere il consenso di recarsi a S. Pietroburgo, dove, privo del permesso di soggiorno, viene chiuso in carcere per qualche giorno. Frequenta il pittore Léon Bakst e l’impresario di esposizioni d’arte e di musica russa Sergej Djaghilev, che guardano a Parigi dove l’intraprendente Sergej-Serge si è già recato più volte. Nel 1911 anche il 24enne Chagall raggiunge Parigi, dove si unisce ai gruppi d’Avanguardia e approfondisce nella sua pittura la tradizione russa ed ebraica che conta numerosi esponenti tra i collezionisti e gli artisti. ” Io ritorno con il pensiero alla giovinezza, quando nel 1911 ero arrivato qui per la prima volta. Già allora avevo notato questo caffè e le ragazze in lontananza, come nelle opere dei pittori francesi. Che aria! Allora mi pareva che la pittura fosse inscindibile dalla Francia. Ero arrivato a Parigi con una disposizione interiore contraria a qualunque forma di realismo nell’arte, fosse impressionismo o cubismo. Una simile disposizione poteva persistere soltanto in Francia”p.22).
Parigi dalla finestra 1913
Nel 1914 ritorna a Vitebsk dove si ferma per lo scoppio della guerra. L’anno successivo sposa Bella Rosenfeld, con la quale si stabilisce a Pietrogrado, entrando in contatto con scrittori, critici e poeti.
Vitebsk e Bella rimarranno il perno del suo mondo, rimarranno nell’anima del miracoloso fanciullo. Quel miracolo di felicità originaria nutrirà tutta la lunga esistenza dell’artista, i suoi sogni, le sue immagini, dando ai passi successivi quel senso di scoperta di un Paradiso terrestre sempre diverso e sempre uguale. La curiosità del pittore, l’apprendimento delle tecniche cubiste, la libertà degli incastri, l’assenza di peso, il volo, la varietà squillante dei colori non è (quasi) mai la capacità quantitativa di Picasso, la conquista di un terreno in più, ma il ritrovarsi nella propria doppia sorgente, lui e Bella, la coppia, la sorgente doppia di ogni creatività.
Il compleanno 1915
Bella saranno i fiori, sarà Vitebsk, sarà Parigi, sarà l’esilio, saranno gli USA, dove Bella troverà la morte mortale, sarà Israele, sarà lo splendore di St. Paul de Vence. Forse direi meglio che la coppia potrebbe riassumersi in Vitebsk-l’infanzia e Bella, l’amore, una polarità forte anche al sopraggiungere delle tenebre.
Il sopraggiungere delle tenebre. Naturalmente la vita di Chagall non è sempre stata un paradiso. Non solo i contrasti con i docenti della scuola d’arte di Vitebsk da lui fondata, 1918-20, in particolare il disaccordo con El Lissitzkij (Lisickij) e Malevič, che lo costringono allo spostamento a Mosca e poi, con altri e più definitivi contrasti con i costruttivisti e i politici all’abbandono della Russia sovietica per il ritorno a Parigi via Berlino, ma la ben più tragica follia Hitleriana, la guerra di sterminio, la Shoah. La coppia deve fuggire dall’Europa e rifugiarsi a New York.
Il Lungo lavoro su ‘La caduta dell’angelo’ accompagna la lunga sofferenza dell’artista e, insieme, del mondo. Lavora alla ‘Caduta’ in tre momenti diversi, 1923, ’33,’47.
La caduta dell'angelo, 1923, 1933, 1947
Nel 1923, data del putsch di Monaco, Chagall è ancora in
Germania. Nel 1933 nella Kunsthalle di Mannheim viene ordinato un autodafé di opere chagalliane, ‘arte
degenerata’. Nel ’41 Chagall e Bella si trasfericono a New York. 1947, la guerra è finita, Chagall si prepara
al ritorno in Europa. Anche il grande quadro è finito: un angelo di fuoco
incendia il mondo, il pendolo segna l’ora del disastro, l’ebreo piccolo, in
basso, fugge, un altro, in alto, perde il bastone e forse l’equilibrio, il
rabbino cerca di salvare laTorah. In basso, a destra, un lume fa luce appena su
di una madre col bambino, su di un Gesù ebreo crocefisso e sui tetti di Vitebsk.
Questo lungo lavoro è anche elaborare un lutto (anche la morte di Bella), fare
i conti con la tragedia, darle una forma. Una minaccia, l’occhio
dell’angelo/diavolo, continua a fissarci. Forse il suono del vecchio violino lo
ammansirà. L’artista potrà tornare al sorriso.
Il miracolo del sogno-realtà sta nella sua mobilità, una
visione sempre uguale e sempre diversa. Il miracolo dell’artista Chagall è di
ritrovare il sorriso anche dopo la tragedia, un sorriso che è più persuasivo in
quanto ha incluso in sè anche la tragedia, non l’ha ignorata, l’ha trattenuta
come un tono di sottofondo. Un sottofondo che toglie al (sor)riso la
contentezza imbecille. Il sorriso melanconico.
Una parte di
quell’umorismo grottesco comune a tanta letteratura ebraica.
Mi accorgo che il mio discorso,
di fronte al grande lavoro dell’artista ben esposto nella mostra di Palazzo
Reale, rischia di lungheggiare troppo.Rimangono altri 35 anni di lavori e
scoperte. Rimane l’Azzurrodella Costa, “il profumo dei fiori, una certa
nuovaenergia (che) mi si iversava dentro… Chissà se sono gli anni che si fanno
sentire, ma per me questa terra è diventatacome la mia citta di Vitesk. Come se
fossi ringiovanito, e aspettassi qualcosa. E questo mondo fiorito ha colorato
la mia nuova vita, miha attirato in unmondo biblico,che albeggia in lontanaza
,laggiù, dall’altra parte del mare…(p. 48).
Rimane un invito ad
andare a vedere le opere e a rimeditarle.
[G. C. settembre 2014]
MOSCA, STALINISMO. ANOMALO
OSSERVATORE GEORGE COSTAKIS RACCOGLIE CON AMOREVOLE DETERMINAZIONE CIO’ CHE RESTA DELLA GLORIOSA AVANGUADIA
RUSSA
Potrebbe
essere un bel racconto d’invenzione. 1900, la Russia, un grande paese
arretrato, subisce tre cataclismi sconvolgenti, una rivoluzione, una dittatura
spaventosa, una guerra feroce. Un modesto impiegato all’Ambasciata greca, G.
C., Ambasciata che sparisce nel 1940, all’inizio della guerra, si sposta in
quella canadese. Terminata la guerra comincia ad interessarsi ad una vicenda
artistica che, per quanto chiassosa all’inizio del secolo, perseguitata ed
esclusa dalla dittatura, era scomparsa, rifugiatasi nei depositi ermeticamente
chiusi, nelle cantine e nei solai dei sopravvissuti. G. C. evita le polemiche
pubbliche e s’inabissa nel circuito dei vecchi artisti o delle loro famiglie e
amici. Si può immaginare che i prezzi delle opere si erano drasticamente ribassati. Compera tutto quello che può e lo trasferisce nel suo appartamento,
prezioso rifugio di un grande lavoro oscurato. Un appartamento dove, scrive
Nicoleta Misler nel 1973, “improvvisamente tutto ciò che avevo sperato di
vedere e di studiare da mesi era esposto, persino con una certa noncuranza
domestica, nella sua molteplice e rutilante varietà. L’avanguardia russa era lì
davanti ai miei occhi, concentrata in tutta la sua forza, tanto tempestosa e
gioiosa quanto erano tristi le opere d’arte ufficiali nei musei, coloratissima
quanto quelle erano grigie e marroni, sperimentali quanto era convenzionale nel
suo linguaggio la pittura sovietica tutta”.
Cambia il mondo,
l’appartamento-rifugio viene visitato da importanti studiosi, il tutto viene
trasferito in un importante Museo. Quel gruppo di artisti, la più parte
deceduti, vengono riconosciuti come Maestri dell’Arte Moderna e il modesto
impiegato un benefattore della cultura mondiale.
Non solo un
bel racconto, ma anche quello che è in gran parte accaduto. Mancano i
particolari del personaggio, GeorgiJ Dionisovič Kostaki (George Costakis, nato
a Mosca nel 1913 da famiglia greca), del suo gusto non improvvisato per l’arte
e il collezionismo e la lunga vicenda che lo ha portato a lasciare alcune opere
della sua collezione alla Galleria Tret’jatiakov per poter trasportare il
resto, una buona parte, in Grecia nel
1977, dove lui stesso si trasferisce e dove sarà acquistata ed esposta al Museo Statale di Arte Contemporanea di
Salonicco dove si trova tuttora.
Tuttociò
l’ho appreso alla mostra AVNGUARDIA RUSSA DA MALEVIČ
A RODČENCO – capolavori dalla collezione COSTAKIS – Torino, Palazzo
Chiablese 3 ottobre 2014 – 15 febbraio 20015. Catalogo SKIRA. E dal catalogo ho ricavato le citazioni che trovate
in questo commento.
Le opere
sono divise in gruppi tematici, ‘Il nuovo impressionismo e il simbolismo’, ‘Il
cubo-futurismo’, ‘Arte analitica’, ‘Il laboratorio di cultura organica’, ‘Il
suprematismo e l’arte non oggettiva’, ‘ Il costruttivismo’, ‘Il portfolio dell’inchuk’ (Istituto di cultura artistica),
‘Il cosmismo’, ‘L’elettro-organismo’, ‘Il proiezionismo’, ‘La nuova
rappresentazione’: una sparata di argomenti, ciascuno dei quali richiederebbe
uno sviluppo a sé stante. Tra gli artisti, Kandinskji, Malevič,
Rodčenko, Tatlin, El Lisickij, Larionov,
Gončarova sono soltanto alcuni dei più noti, uniti o divisi nei molti gruppi
che si confrontarono in un periodo che si spegne intorno agli anni’30, con il
trionfo dello stalinismo. Artisti che si sentivano portatori di un verbo nuovo,
portatori di una bandiera, iniziatori di una realtà diversa, perciò Avanguardia, rimasta poi sotterrata, salvo
quanto rimaneva nelle mani degli esuli o degli autori russi liberamenti dimoranti
fuori dai confini dell’impero sovietico. Avanguardia ritornata poi
trionfalmente in piena luce, Costakis aiutando, con lo sfarinarsi di
quell’impero. E’ curioso che un despota come Stalin amasse immagini
oleografiche di ragazzine sorridenti, mazzi di fiori, pionieri con bandierine rosse
sventolanti, muscolosi eroi di guerra o di fabbrica, tutti felicemente stupidi.
E poi, ovunque, i visi dei capi. Tranquillità, sicurezza. Queste erano le
immagini che dovevano sostituire le invenzioni pericolose, inquiete,
imprevedibili delle Avanguardie.
3
Ma torniamo
a nostri artisti della mostra; ne sceglierei due, non dei più rinomati, PAVEL
FILONOV e MICHAIL MATJUŠIN
4
Pavel Filonov, fine anni venti, testa 85,7 x 60,7 cm
Filonov, 1883-1941, non appartiene a una corrente,
né come primo né come ultimo. “Sono un artista della fioritura universale, e
sono dunque un proletario”(p. 77). Proletario, cioè uguale a ’tutto’, un tutto
che unisce uomini e cose, l’organico e l’inorganico, un tutto sminuzzato nella
infinita varietà dei suoi frammenti che solo la pazienza di uno sguardo attento
ai particolari dei particolari dei particolari….riesce a connettere, con
fatica, in forme significanti, pezzi sparsi, profili, visi, occhi, dita,
arnesi… La cristallografia, di cui è appassionato, l’aiuta. Frantumando
l’oggetto la percezione “sub e sovracosciente” raggiunge l’energia che ne è
l’origine. Il mondo si mostra come flusso di punti luminosi che lasciano
intravedere quelle ‘forme significant’i di cui dicevo. Coltivare una percezione
sottile, penetrante è un esercizio che
Filonov cerca di insegnare ai suoi allievi, “il collettivo dei Maestri
dell’arte analitica”. Tra i vari progetti l’illustrazione dell’epopea
finlandese del Kalevala. Cerca di sostenere che la conoscenza della legge cosmica,
“l’analisi assoluta”, è un aiuto al progresso sociale, ma sia le autorità che i
gruppi più attivi dell’Avanguardia non sono d’accordo. Filonov scioglie il suo
gruppo nel ’33.Proseguirà da solo la sua analisi. Anche se più giovane rispetto
ad altri artisti di cui parlo qui di seguito, mi sembra un caso che meriti una
sua precedenza.
A Filonov è
avvicinabile il lavoro di Michail Matjušin, 1861-1934.
Costruzione
pittorico-musicale 1918 51,4 x 63,7 cm
Ecco cosa scrive della percezione: “ L’artista deve perseverare senza
indugi nella nuova percezione della vista e non deve dimenticare mai che si
tratta solo di una massa fluttuante di parti interrelate… che costantemente e
senza interruzione cambiano forma, colore, dimensioni, peso e volume”
escludendo “l’intermittenza dell’oggettività”, la separazione degli oggetti,
chiusi nei loro artificiali contorni (p. 81). Importante il riferimento alla
musica, capace di trasmettere “la pulsazione del mondo in movimento”. E’ “il
suono interiore” di cui scrive Kandinskij, che nel ’21 lascia Mosca per
contrasti con i costruttivisti, è “la quarta dimensione” di Uspenskij. “Questi
lavori sperimentali, dice Matjušin, …sono concepiti in uno stato mentale
superiore in cui l’artista può ‘vedere’ la forma organica del mondo”.
Il “cosmismo” diventa una
moda, che si estende dallo spazio fantastico, alla mancanza di gravità, al
volo, al soprannaturale. L’aspirazione al volo contagia anche il più tecnico e
politico dei ‘costruttivisti’,
Vladimir E. Tatlin, il quale agli inizi degli anni ’30, poco prima
dell’interdizione stalinista, progetta, senza successo, una specie di
bicicletta per volare, la Letatlin (letat’=volare).
Ivan Kudrjašev, Luminescenza 1926, 106,6 x 71 cm
Ma l’autore
della eliminazione drastica di ogni riferimento rappresentativo in nome di un
‘altrove’ cosmico ricco di una nuova religiosità (anche lui legge Uspenskij) è
quello di Kazimir Malevič che nella mostra a Pietrogrado del 1915 espone un
quadrato nero su fondo bianco e lo appende inclinato sull’angolo in alto della
sala, il luogo proprio delle icone casalinghe, ad attirare lo sguardo
dell’osservatore e insieme tutte le altre opere appese sui due lati verso
quell’angolo, il punto della svolta. E’ il Suprematismo.
7
Mostra di K. Malevič, Pietrogrado 1915
Certo il ‘Simbolismo” europeo è presente, ma tutto calato nella biografia emotiva del pittore. Basta poco e la luce abbagliante della neve si trasforma nel freddo mortuario dei corpi, come i rami secchi in cui sono aggrovigliati, come la donna che si è rifiutata al dono della vita. Anche le evanescenti dolci madri, ”Angeli della vita,” in-tronate nei nodi contorti dell’albero spoglio con il lago scuro di sotto e quell’amore alla fonte della vita, con l’immancabile albero mezzo secco e le radici minacciose scoperte, uno scheletro, e l’angelo imbronciato a fissare l’acqua della fonte che scompare sottoterra, senza contare quella mezzaluna smorta, che non sai se di alba o di tramonto, tutto il positivo naturale nasconde dubbi, insinua contraddizioni.
L’opera di Segantini s’interrompe con la sua morte improvvisa. Il suo mondo , l’altrove inseguito nei suoi profili lontani, nelle sue altezze finali, limpido come un cristallo, promessa di integrità, è ricco di fessure, di crepe dalle quali fuoriesce l’odore di una minaccia, di una ineliminabile oscurità, là dove anche il vortice nuvoloso assume l’aspetto della valanga mentre i piccoli uomini piangono il morto.
“For your eyes only can see me through the
night”
Con il Surrealismo del ‘900 entriamo nella seconda ‘Maniera’. L’esaltazione e l’esecrazione della guerra ha distrutto il vecchio e ormai fragile ordine mondiale. La formazione dei gruppi di Avanguardia e la loro dispersione nel dopoguerra ha concluso una spaccatura che già i movimenti di fine ‘800 avevano iniziato: la caduta di autorevoli schemi artistici di riferimento e l’introduzione di nuove modalità d’intendere l’operazione artistica nella ‘modernità’ invocata da Baudelaire. I linguaggi si mescolano, parola, suono, gesto, colore. Stupire, provocare. Le speranze che la nuova cultura possa offrire una invocata rinascita s’infrangono nei massacri delle trincee e dei fili spinati. Il ventenne André Breton, militare nel ’16, frequenta il ‘Centre Neurologique’ di Wantes e con l’amico Jaques Vaché (che morirà nel ’19), riflette sulle voraggini, i salti, le metamorfosi della psiche umana, l’inconscio. E’ la nascita del ‘Surrealismo’, un movimento che, com’è noto, con ampie e diverse alleanze, si svilupperà nei decenni seguenti attraverso i più differenti mezzi espressivi.
Il rifiuto dei politici e dei burocrati determina una svolta in Klimt. C’è ancora un gesto semipubblico nell’ambiente amico della Secessione, Il Fregio di Beethoven (anche riprodotto nella attuale mostra). Si tratta di un’opera pensata nei minimi particolari e sviluppata con grande suggestione narrativa, in occasione di una imponente festa musicale intorno alla statua del musicista scolpita da Max Klinger. La funzione è aperta con la Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Gustav Mahler, che alcuni vedrebbero anche nella figura del guerriero del ‘Fregio’. L’arte come totalità, architettura, pittura, scultura, musica. “Le arti ci conducono nel regno ideale, dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta, l’amore assoluto” (Klimt). Il piacere estetico come risoluzione delle contraddizioni individuali e sociali. Si scatena la solita polemica. No, l’arte non può fornire soluzioni collettive né spezzare poteri costituiti. Non c’è spazio pubblico per l’artista. Il privato è il suo rifugio.
Gustav Klimt muore a 56 anni colpito ad un ictus cerebrale il 6 febbraio 1918. Lo stesso anno in cui finisce un mondo, non solo la guerra.
E’ tempo di guerra, Léger è sotto le armi, ma non siamo in presenza di cannoni o bombardamenti, che i futuristi italiani dipingono, ma di giocatori di carte e fumatori di pipe. Una pausa di pace. Il soldato-robot è simile a qualsiasi altro meccanismo, come il gioioso uomo-macchina del tipografo del ’19, ormai nel dopoguerra, quando l’uomo è sì una macchina, più macchina del soldato, ma non per distruggere o essere distrutto, ma per diffondere notizie di pace e di allegria. La persona-macchina è asettica, inespressiva, batte i colpi dello stantuffo, non del cuore, è macchina particolare, con i suoi tagli rigidi, come ne “Il tipografo” o “Uomini in città”, oppure riprende, in calme ondulazioni, chiare sembianze umane, però nella veste altrettanto inespressiva dei bambocci, come in “Composizione con tre figure”.
febbraio 2014 G. Colombo
[gennaio 2014, G. Colombo]
PIRANDELLO, CHI?
Arrivo così al 1939, “Il tempo della guerra”, una mostra dedicata a Fausto Pirandello, Agrigento (sino al 2.02.2014), Fabbriche Chiaramontane, a cura di Fabrizio D’Amico e Paola Bonani, con l’Associazione Fausto Pirandello, catalogo Silvana Editoriale.
La scena è un anticipo - siamo nel 1939 - di quello che sta per accadere. Sì, penso a quello che accadrà e che verremo a sapere molto più tardi, penso ai campi di sterminio. E’ un caso straordinario, che non conosco simile in quegli anni. Si possono invocare le sue esperienze parigine del 1927-30, le conoscenze del surrealismo e dell’espressionismo tedesco. Ma questa condanna senza scampo, che risente pure dell’inferno dantesco, è un bruciore unico, tutto giocato su colori di terra, scivolato poi, nei tempi successivi, silenziosamente, nel dimenticatoio di un pubblico distratto. E di una critica distratta. Ancora una contraddizione: suo amico e collezionista è il fondatore e direttore del sciagurato periodico "La difesa della razza". Intendiamoci. Fausto Pirandello non è un discriminato, un artista guardato con sospetto. Riceve premi, partecipa a Biennali e Quadriennali. Qui sì, mi pare, si dimostra quella doppia personalità che Fabrizio D’Amico ricorda come eredità del suo grande padre. Un artista riconosciuto, solido, magari senza i gesti clamorosi e le calcolate vicinanze del più giovane amico Guttuso, ma apprezzato nella sua presunta dura sicilianità. Eppure, al contrario, lontano da qualsiasi retorica, da qualsiasi appartenenza e soggezione di regime, anche di quello più illuminato di Bottai. Destinato così ad una permanente estraneità.
novembre 2013
“Giovane che guarda Lorenzo Lotto”, 1967
sguardo sull’esterno crea una severa
intimità con se stessa. Il proprio sguardo difende il proprio mistero.
L’assenza del modello è
un segno di morte? In un certo senso sì: è l’imago,
la maschera mortuaria, sempre uguale, è pegno dell’eternità, è
la fotografia che si pone sulle tombe. In un altro senso no, non è
segno di morte, ma il suo contrario: ogni caratterizzazione del
ritratto, ogni singolo ritratto rimanda ad una alterità sempre
sfuggente, quel sé personale,
quella profondità insondabile che accompagna tutti i vari, diversi
ritratti che possono moltiplicarsi intorno allo stesso
viso, al sé di quel
viso. La mimesis, la
somiglianza dà visibilità a quel soggetto, quel se
stesso che rimane invisibile. Se l’immagine
coincidesse con il suo proprio sé,
con il proprio “spirito”, sarebbe completa e immobile, come
l’icona bizantina e il velo della Veronica (‘la Vera Icona’)
sul quale si stampa il viso divino di Gesù. Una immagine religiosa
troppo piena, la maschera-volto, e una immagine ricordo troppo vuota,
la foto-maschera mortuaria, la maschera senza volto. In ogni caso la
fine della forma dell’uomo come soggetto, come svelamento
infinito. E’ proprio con la sua doppiezza che nasce il ritratto
moderno: rappresentare il viso di un uomo determinato e rivelare la
sua non figurabilità, il suo nascondimento, un sé
sempre disposto a sfuggire e a nutrire altre
ri-presentazioni. Vedi i molti ritratti di Giacometti del fratello
Diego.
In quella invisibilità
essenziale s’incontra l’energia nascosta di chi guarda,
l’artista, e l’energia nascosta di chi è guardato. Perciò un
ritratto è sempre un po’ un autoritratto. Eppure, poco per volta,
quella riserva nascosta va in esaurimento. E’ il processo che,
secondo Nancy, segna la fine del ritratto ‘moderno’ e nasce
l’altro ritratto, quello della
contemporaneità. Sarebbe la fine dell’invisibile mistero del sé,
la fine dell’aureola, la scomparsa della forma dell’uomo in
quanto ‘soggetto’ e la vittoria dell’involucro, della
superficie: la sensibilità
che nel ‘moderno’ rimandava ad una invisibile interiorità,
diventa piena visibilità, sensazione
costruttiva, “forma auto iconica”,
prevalenza del gesto pittorico in sé, “autoritratto della
pittura”, scrive Nancy, che cita Cezanne, la sua spinta in una
superficie sfaccettata, mobile, onnipervasiva (e qui mi permetto di
dissentire, e ne dissentirà, proseguendo il discorso, lo stesso
Nancy). I due esempi di Giacometti e di Pollock sono sulla strada di
questo cambiamento.
Saltiamo così in un altro tipo di ritratto, quello della nostra vita odierna, che si muoverebbe, sempre secondo Nancy, dalla ‘de-figurazione’ di Picasso alla ‘sur-figurazione’ dell’iperrealismo, della pubblicità e del film. L’altro appare in superfice, si fa conoscere, sprovvisto del suo essere essenziale. Quel sé racchiuso nella profondità del doppio sarebbe scomparso.
Ma il racconto non
finisce qui. Anche in queste forme impoverite “vi è il bagliore di
una presenza sorpresa nell’assenza”, un’impressione fugace
quanto tenace. Non la certezza di sé,
ma l’apparizione della sparizione, l’eclissi. L’altro
ritratto procede da una identità evocata
“nel suo ritiro”, identificazione desiderata, sfuggente, ma non
eliminata . L’altro
ritirato.
Questo sottrarsi della essenza
non è altro che la esistenza, ex-istenza,
essere-fuori-di-sé, un se
stesso in ritirata, quel residuo mobile del
soggetto, prima sicuro nella sua invisibilità, ora insicuro nella
sua fuga.
‘Volto’, parola nobile, indica un’azione
(part. passato di voltare), indirizzato, ri-volto. Io mi (ri)volto.
Sull’origine
tecnica del ritratto Bouhours
introduce un altro racconto, quello di Plinio il Vecchio: una fanciulla di
Corinto, volendo conservare il volto dell’amato che si allontanava per un lungo
viaggio, ne proietta l’ombra sulla
parete e ne disegna il contorno, il
tratto. Sarà il padre vasaio a darne, in creta, il volume. Ombra-luce (fos)- fotografia. E’ una strada piena di sorprese. Quell’ombra che ci
segue minacciosa, anche senza il nostro consenso, viene fermata, resa innocua e
studiata nella Silhouette, sino a farne una popolare disciplina, la Fisiognomica, lo studio del volto, sino
alla ‘fotografia segnaletica’, cara a Lombroso e alla polizia.
Il volto del
vasaio, liberamente ricostituito, trova una puntuale riedizione della vita e
della sua immortalità nella maschera mortuaria. Morte-immortalità, vedi
contraddizione dei vocaboli. Una traccia a contatto, come l’impronta nella
neve. E da questa maschera si passa alle statue di cera sino a quelle di Madame
Tussaud.
Meglio ancora, alla statua femminile d’invenzione, trasformata dall’amore del suo autore, Pigmalione, con l’aiuto di Venere, in viva e palpitante fanciulla (v. F. Gualdoni). Qui il ri del tratto si muove al contrario, dalla pietra al corpo vivo. Siamo ovviamente nel mondo della immaginazione, dove si muove pure il più recente e popolare ‘Ritratto di Dorian Grey’. Tralascio il capitolo del cinema, col quale inizia un altro mo(n)do di rappresentare.
Anche se il ‘900 trasforma profondamente il modo di rendere il viso/volto, sia auto che altro, il rapporto con lo schema di fondo, Il pittore e la modella, per adoperare un titolo di Picasso, rimane. E rimane pure il piacere di vederne tante diverse declinazioni in mostra a Palazzo Reale e nella mostra portatile del catalogo Skira.
In riferimento ad alcune domande che mi sono state rivolte sulla
collocazione delle sedie-sculture di Fortunato Scarpa, arte? artigianato?
passatempo? cura? avevo cercato di introdurle in un nuovo e diverso campo di
operazione artistica, non solo sua, al di fuori di ogni consolidata tradizione
e maniera di ‘fare arte’. In relazione a quegli interrogativi che pur nascevano da questi
strani oggetti, mi viene incontro una
pagina dell’Espresso del 26 sett. scorso
nella rubrica “Arte Passioni”. Al titolo ‘Ci voleva il caos’ il critico
Germano Celant ritorna sulla Biennale veneziana, che avrebbe mancato di
separare “la logica delle forme atipiche” , magari connesse a disturbi
psicologici, (v. Jung e Breton), dalle “immagini elaborate in rapporto alla
conoscenza della storia dell’arte”. Si tratterebbe – se ho capito bene - di una differenza espressiva e di
contesto, estranea ai valori di mercato. Da una parte l’Arte seria,
professionale, dall’altra “creatività autodidatta e oscura”. Insomma una
confusione, un caos appunto.
Chaim s’iscrive all’École des
Beaux-Arts e frequenta l’ atelier di Cormon. Nelle visite assidue
al Louvre è attratto dalle opere di Fouquet, Rembrandt, El Greco,
Tintoretto, Goya, Courbet, Cezanne e dalle antichità greche ed
egizie. A la Ruche, “l’arnia” di Montparnasse, incontra altri
artisti ebrei, Chagall, Zadkine, Lipchitz; sarà quest’ultimo,
anche lui lituano, che nel 1915 lo presenta a Modigliani. Dovrebbero
questi brevi cenni cancellare una delle frequenti osservazioni che lo
riguardano: persona tutto istinto e passione, scarsa la preparazione
tecnica e culturale. Tanto più incolto, insofferente di ogni
vicinanza, quanto più ardente. Al contrario. Nonostante la pesante,
difficile quotidianità, che lascerà gravi tracce nella sua salute,
nelle periodiche, dolorose gastriti, il pittore è pervicacemente,
disperatamente concentrato sulla propria preparazione
artistico-immaginativa. Uno scavo attento ad ogni suggerimento, che
provenga dal Museo o da alcuni contemporanei (che però, salvo
Bonnard e Rouault, non cita) o dai sogni e incubi personali.
Ma vorrei continuare con gli incontri che coinvolgono
Soutine nel circuito ebraico di Parigi. Siamo nei tempi duri della
guerra, quando però gli stranieri sono meno coinvolti. Casuali
lavori in fabbriche o scavi per trincee, ai quali Soutine però è
congedato per motivi di salute. Modigliani si prende subito cura
dell’amico e lo presenta con calde raccomandazioni al suo mercante
polacco Leopold Zborowski, lungamente riluttante. Peggio la moglie
Hanka, che lo trova “brutto e sporco”. Né basterà il ritratto
di lui che dipingerà sulla porta di casa della coppia. Anche
Krémègne insiste. Più efficace sarà il finanziamento del
collezionista alsaziano Jonas Netter, pure lui ebreo, che agisce con
discrezione dietro l’impulsivo Zbo. Bisognerà attendere altri
sette anni prima che Soutine incontri il collezionista di
Philadelphia Albert C. Barnes, gli acquisti del quale cambieranno le
sorti di un pittore che con fatica aveva già scavato la propria
strada. Dicevo prima della mobilità degli artisti di origine
ebraica. Non vorrei insistere troppo su fatti spesso casuali. Mi pare
però di poter aggiungere un altro carattere: superato il divieto
religioso delle immagini (che per contrasto acquistano un valore
superiore, quasi a includere il valore della ‘parola’) aumenta
la libertà di sviluppare lingue e forme inusuali, privi di una
tradizione vincolante come quella dell’Accademia. Forte invece
l’impronta di un’infanzia, sovente conflittuale, altre lingue,
l’yddish e
l’ebraico, scuola primaria separata, l’héder, il
pasto rituale, il gesto dello shochet sull’animale, il fiotto di
sangue… Lo ricorda Elie Wiesel in ‘C.Soutine’ dell’Electa
1995. La coppia Chagall-Soutine è indicativa: alla favola ridente
del primo si contrappone la sofferta ripulsa del secondo, la
prevalenza insistita dell’immagine umana, vietata dai rabbini,
nelle figure degli umiliati, la serva, il valletto, il chierichetto
‘cattolico’, l’animale esaltato e violato, il pollo
capro-espiatorio, il potere dello sguardo, il malocchio. Un lavoro
estenuante contro e dentro la prima età. Ecco dunque un aspetto che
sembra caratterizzare la differenza modernista, il rapporto tra arte
e vita. Mentre l’artista del passato appartiene a una
‘scuola’riconosciuta, esibisce il proprio mestiere e per questo è
riconosciuto maestro (spesso la cronaca che lo riguarda è
tendenziosa, stereotipata o nulla), l’artista moderno, forse a
partire dal tardo romanticismo, cresciuto fuori o contro ogni
‘scuola’, mescola l’impulso interiore col movimento degli occhi
e della mano, la tensione nervosa con la curva della pennellata:
sogni, bi-sogni e realtà. Persino la malattia come rottura delle
regole vitali. Lo scrive bene Marcel Duchamp: “Mi sono voluto
servire dell’arte per istituire un modus vivendi… fare della
propria vita, del proprio modo di respirare, di agire e reagire di
fronte agli individui, che si potesse fare di tutto ciò, un tableau
vivant…(“La vita a credito”). E Marcelin Castaing, scrivendo di
Soutine: “Viveva aspettando l’emozione che gli venisse dal
modello. Allora, invasato, non permetteva più a nessuno di
avvicinarlo, ma è proprio grazie a questa sua comunione assoluta con
gli esseri e con le cose, che noi possiamo oggi conoscerlo
(“Soutine”, Silvana Edit. d’arte 1963). Una forza, una energia
che diventa la forza, l’energia dell’immagine. Tanto l’accumulo
è lento (una lunga pigrizia), quanto l’esplosione è violenta,
travolgente. Ma il luogo comune è in agguato: da una parte
l’impiegato modello, ma anche il manager di successo, compassato,
elegante, controllato, impeccabile, obbediente ragionatore,
dall’altra parte lo strano (estraneo), irregolare, imprevedibile,
stravagante, passionale, l’artista. La contrapposizione è falsa;
la mescolanza può aiutare, essere insieme l’una cosa e l’altra
(Kafka). Mai contrapposizioni forzate, utili solo per gli schemi.
E’ ancora Duchamp che ci viene in soccorso.
Non farsi succubi delle emozioni, affidarsi alla ‘vita’ così
come viene, ma fare anche di essa uno strumento appropriato: “non
dovevo caricare la vita con troppo peso, molte cose da fare, con
quello che si chiama avere una donna, dei bambini, una casa in
campagna, l’automobile… [ma piuttosto] ridurre i propri bisogni.
Possedere il meno possibile, per poter restare davvero libero”
(Ibd.).
Quante volte si è parlato di ‘linguaggio’
artistico, insieme un percepire e un rivolgersi a….; quante volte
si è polemizzato sul ‘tipo’ di questo linguaggio. E, d’altro
canto, prima o fuori dal linguaggio, si è invocata una ingenuità
originaria, un impulso senza senso, dissennato. La vicenda di Soutine
ci narra invece di un faticoso confronto, il tentativo di tenere
insieme le due spinte: un massimo di impulso che vuole prendere una
direzione, formulare un’immagine, calarsi nel linguaggio, che a sua
volta da questo impulso è scosso, smembrato, illuminato. Una vita
dunque prolungata ad ogni costo su quell’unico scopo, una vita
forzata a scontrarsi continuamente con la promessa di un resoconto,
il messaggio del naufrago, il progetto di un ‘altrove’: diventare
una apertura, essere quella speranza, quella ‘parola’.
Comincio con uno scritto di Savinio del 1947: “Fine dei modelli”. “Coloro che a quel tempo [alla vista della Olympia] gridarono allo scandalo, sarebbero stati ben meravigliati di apprendere che quell’opera di modesta apparenza, raffigurante una magra giovinetta coricata nuda su un letto e assistita da una fantesca negra, aveva una importanza “cosmica”, in quanto era la prima manifestazione pittorica d’un profondo rivolgimento avvenuto nel concetto dell’universo […] il primo segnale che l’uomo aveva perduto gli augusti modelli che fino allora lo avevano guidato, e che d’ora innanzi gli toccava di camminare da solo e privo di un’altra guida”. Il suo diventa uno sguardo orizzontale, continua Savinio, senza sensi obbligati, senza picchi verticali ben visibili, raccogliendo qui e là pezzi, residui, echi, flussi come nella scrittura di Proust o di Joyce. Così è l’Olympia di Manet (e qui continuo io): alle orecchie le perle di Venere, al braccio il braccialetto di Venere, invece delle trecce un fiocco, invece di un mazzo di fiori in mano, i fiori stampati sullo scialle di cui ha liberato la propria fredda nudità. I fiori veri, ben disposti nel bianco delle carte, sono l’omaggio che qualcuno ha affidato alla servente perché vengano consegnati alla giovinetta. L’annuncio di uno scambio tranquillamente pattuito. Poi quel filetto nero sul collo, un collare, e quelle scarpe, una calzata e l’altra vuota, a segnare la causalità della posa e lo stacco del viso appoggiato su di un corpo libero da pensieri. E trascuro l’ovvia contrapposizione tra il gatto nero minaccioso e il fedele cane dormiente ai piedi della Venere. Con la più abile replica il modello è stravolto. Non la negazione totalizzante, clamorosa delle avanguardie future, l’aspirazione ad un mondo rifatto tutto daccapo, tutto/niente, ma il gioco silenzioso dello scarto, del passo di lato, un ricordo a metà, un vedere e non vedere, un citare per dimenticare, un tra-vedere e omettere. Simile rimando e lontananza ne Le déjeuner sur l’herbe rispetto all’altro Tiziano del Concerto campestre. Giovane elegante, compassato, discretamente ambizioso, Manet, senza urla e fanfare, segnava così una delle più importanti rivoluzioni del gusto. Giustamente il curatore Stéphane Guégan cita Jean Clay del 1983: “Non siamo più nel registro della citazione riverente, ma in quello del prelievo e del riutilizzo. Manet preleva alla rinfusa: ribalta, assembla, modifica. In questo rapporto del tutto prosaico con la tradizione, la storia dell’arte […] si vede contestare il magistero silenzioso che esercitava su ogni giovane pittore, fin dal suo primo colpo di pennello”. Ogni autorità riconosciuta, ogni guida sicura è scomparsa. Da questo momento i riferimenti significativi l’artista ‘moderno’ li assumerà a suo rischio e pericolo.
Mostra di K. Malevič, Pietrogrado 1915
Nell’attuale
mostra sono presenti dei seguaci di Malevič, tra i quali il prolifico Ivan
Kljun e Ljubov’ Popova.
Esperienze
diverse, accomunate tutte dallo slancio
nel progettare l’uomo nuovo, o scavando nella interiorità per attingere ad una
energia che, dal piccolo al grande, coinvolge la totalità infinita, oppure
impegnate nella socialità, nel sogno di una società perfetta, forte di tutti
gli espedienti della modernità. Una volontà di cambiamento che si era
sviluppata, tra gli anni ’10 agli anni ’20, anche attraverso una terribile
guerra ‘mondiale’, in molte altre capitali europee.
Dal suo
angolo di osservazione George Costakis capisce che un’età stava finendo e che
il meglio rischiava di perdersi. Così dà inizio alla sua collezione, dove
appunti, diari, stampati, manifesti, stoffe, ceramiche si uniscono a bozzetti,
progetti architettonici, pitture, consegnandoci, nella sua varietà, un mondo
che diversamente sarebbe quasi totalmente scomparso.
L’attuale
mostra è qualcosa di più che uno spostamento di opere da un museo ad un altro.
Sono immagini e documenti di una età gloriosa e sfortunata. Oggi almeno
restituita nel ricordo e nella sua esuberante presenza e qualità.
[G.C. ottobre 2014]
SEGANTINI UNA GRANDEZZA MULTIPLA
Ritorno dal bosco, 1890. Olio su tela 64,5 x 95,5 cm |
La montagna, il gelo, i
tronchi sulla slitta tagliati e contorti, la schiena della fatica, le
piccole case accucciate, appena i lumi, pochi, dalle finestre. Una
trasparenza palpabile e allucinata, un ambiente che mi riguarda, mi
assorbe nella sua lontananza. La montagna, un profilo frastagliato,
un brusio soffuso, compagno del silenzio. La tecnica sapiente nella
stesura del colore la rende trasparente e irremovibile. Una barriera,
un residuo più che un futuro, ma un residuo resistente, estraneo a
qualsiasi umana meccanica, a qualsiasi tecnica di riduzione, di
spiegazione, a qualsiasi soggettività. Una tensione, una permanenza
che stupisce, inquieta.
Segantini ha 32 anni. Una
giovinezza già matura. Ha scelto la montagna, ma non la
solitudine. Val Bregaglia, Svizzera, la conca di Maloja, 1800 metri,
case alpine ma anche un Grand Hotel, il Maloja Palace, dove il
pittore può incontrare giornalisti, turisti danarosi, politici,
collezionisti. Segantini veste con ricercatezza, si circonda di
mobili raffinati, costruiti dal fratello della moglie (mai sposata)
Bice Bugatti, spende e si indebita senza preoccuparsene.
Nel ’97 lavora in
collaborazione con Giovanni Giacometti, Cuno Amiet e Ferdinand Hodler
ad un enorme impresa: il padiglione svizzero per l’esposizione
universale di Parigi, un Panorama, un edificio circolare al
cui interno è prevista una pittura che esalta le grandiose montagne
del Paese, “un compendio reale di tutta l’alta Engadina… la più
grande attrazione artistica della mostra parigina”. Si fa costruire
anche un modello in legno presso lo chalet dove abita. Ne riferisce
la stampa europea. L’impresa risulta troppo costosa, non andrà in
porto. La riduce ad un Trittico: La Vita, La Natura, La Morte.
Settembre 1899, al
Trittico vi lavora in una baita del ghiacciaio
dello Schafberg, dove muore per un attacco di peritonite.
Mucche,
casupole montane, sport raffinato sul lago, un grande albergo, il
Palace Hotel.
Una foto pubblicitaria ritoccata su ”Engadin Press”, 1900 circa,
sottolinea questa contraddizione del ‘luogo’.
Il quadro e la
illustrazione sono due immagini che riporto dal bel
catalogo SKIRA, in relazione alla
mostra ‘SEGANTINI’ al Palazzo
Reale di Milano, 18 settembre 2014-18 gennaio 2015, in
collaborazione con la Fondazione Mazzotta: saggi di Annie-Paule
Quinsac, Pietro Bellasi, e lettere da Casa Segantini a cura della
pronipote dell’artista Diana Segantini. Scritti, documenti,
riproduzioni che presentano uno vivace spaccato della cultura tra
800 e 900 intorno ad una figura d’eccezione, Giovanni Segantini
1858-1899, che in quarantun’anni accende, con travolgente
risolutezza, le incandescenti contraddizioni di ‘un mondo’, di
una ‘Natura’ amorevolmente indagata, amorevolmente inventata. Le
edizioni Skira con “Vittore Grubicy e l’Europa” 2005 e
Mazzotta con “I Giacometti” 2000 sono particolarmente
benemeriti per la conoscenza di quel mondo.
Ho cominciato dalla fine,
e ora torno al principio. 1858, Giovanni Segatini nasce ad
Arco Trentino, impero austriaco, in una famiglia povera. La madre
muore nel ’65, il padre l’anno seguente. Affidato alla
sorellastra, si sposta a Milano, Regno d’Italia, con un permesso di
‘emigrazione’ che non verrà più ritrovato, tanto da essere
dichiarato renitente alla leva. Una mancanza di cittadinanza che lo
renderà apolide suo malgrado. Arrestato per vagabondaggio, viene
accolto da un fratellastro che lo avvia alla fotografia e gli
permette nel 1875 l’iscrizione all’Accademia di Brera. A
diciassette anni comincia una nuova vita, col cognome di Segantini,
una n in più, forse pensando al lavoro del suo amico
ebanista e decoratore Carlo Bugatti, fratello di Bice, la compagna di
una vita, ma il rischio dell’abbandono e il sogno di un affetto
materno mancato non lo abbandonerà più.
IL PANORAMA-VEDUTA
COMPLETA
La città moderna abbatte
boschi, sposta fiumi, appiattisce rilievi. Tecniche raffinate
innalzano edifici, moltiplicano fabbriche, allargano strade e
vetrine ricche di luci e di merci. La popolazione, ricca e povera,
aumenta rapidamente. Il verde di alberi e prati, il bruno di terre,
rocce, le vertigini di strapiombi, cascate, bufere, la natura nella
sua ciclica varietà e imprevedibilità si allontana nel sublime
altrove. E’ oggetto di desiderio e di timore. La si vorrebbe a
portata di mano, verosimile ma non ingombrante, rimpicciolita,
innocua. S’inventano effetti speciali ottici e acustici, cosmorami,
diorami, panorami… Le montagne sono le più lontane e imprendibili,
terribili e smaglianti, minacciose e mirabili, riducibili però ad
una proiezione casalinga, nel buio di una sala, ben vestiti e
comodamente seduti, a guardare da uno spioncino oppure ad essere
avvolti da una natura selvaggia, animata da scoppi e bagliori. Ma
altri vogliono toccar con mano e coi piedi. Scienziati, pittori,
camminatori coraggiosi cominciano ad avvicinarle, queste immensità,
anche per ridurne il pericolo, vero o immaginario che sia.
“L’invenzione delle Alpi” intitola il suo bel saggio Pietro
Bellasi. E Giovanni Segantini è tra questi “inventori”.
Il Kaiserpanorama di Berlino, seconda metà del xix sec. |
Tra i suoi ultimi sforzi
, come dicevo, si trova un Panorama, anzi IL PANORAMA più
grande di tutti: una circonferenza di 220 metri, un’altezza di 20,
un diametro di 70, una superficie di 400 mq).”Un’opera grandiosa
– scrive Segantini – dove potessi chiudere, come in una sintesi,
tutto il grande sentimento delle armonie alpine”. Un punto fermo,
una conclusione impossibile. L’esaltazione di una patria,
l’Engadina Svizzera, sempre sfuggita e anche questa volta,
nonostante il parossistico ingrandimento, rifiutata. Mi piace
ricordare che a quest’opera irrealizzata Luca Vittone ha dedicato
nel 2007 al MART di Rovereto la sua installazione “Gli occhi di
Segantini”.
LA MONTAGNA
Ma l’Engadina Svizzera
è veramente una patria? Segantini mantiene i contatti con gli amici
di Milano e in particolare con la Galleria dei due fratelli Grubicy.
Non è solo. Anche la sua famiglia gli è vicina. Ma la città, la
storia della città, lui necessariamente apolide, non è il suo
luogo. Il consumo veloce, l’attualità sempre rincorsa e sempre
invecchiata non è il suo scopo. Cerca un tempo diverso, nel quale la
permanenza, per non dire la immobilità, non esclude il movimento. La
luce, l’aria, l’acqua si unisce alla roccia; la ripetizione alla
fissità. Vittore Grubicy gli insegna le tecniche del
“divisionismo”, del colore puro, che anche altri artisti
dell’ambiente milanese come Previati, Longoni, Pelizza da Volpedo e
Morbelli stavano sperimentando. Il giovane allievo le applica con
grande libertà, stende i colori in striscie sottili, a volte
grattando la tela, studiando con cura i tagli d’orizzonte, i
profili degli animali e dei contadini. “Io continuo così a
lavorare – scrive Segantini – alla mia opera poetica dell’intimo
sentimento delle cose della Natura, accarezzando col pennello i fili
d’erba, i fiori, gli animali e l’uomo; salendo col pennello alle
rocce dei monti ed al cielo, concedendo a tutte le cose che tocco la
parte migliore di me stesso”. I prati, le nevi brillano di luce
propria. Tutta la scena è illuminata in una vibrante fermezza. E’
il silenzio che il pittore cerca, ma ricco di un brusio ininterrotto.
Questa è l’accoglienza che cerca. Non lo sguardo che dice e
contraddice, il gesto che saluta e minaccia, il cambiamento che
lusinga e tradisce, ma la grandezza dell’esistente che ti accetta
senza chiederti nulla. Qui poi, nella scena dell’alpe, c’è
qualcosa di più. Un cucciolo, un vitellino che si dirige, forse
preoccupato, verso la madre che bruca tranquilla.
”Pascoli di primavera”, 1896, 9 x 195,5 cm |
LE MADRI
Giovanni aveva sette anni
quando perde la madre. A Milano passa i giorni tra vagabondaggio e
riformatorio. Sono anni che lo segnano per sempre. Crescerà grande,
anche di statura. Amerà ritrarsi quasi come un profeta: fitta
capigliatura, baffi, barba, sguardo intenso. Una rivincita. Ma quella
iniziale mancanza d’affetto non lo abbandonerà più. Quella natura
così limpida, cercata nelle alture dell’Engadina, sicura nella sua
perennità, nella sua traccia di Paradiso, nasconde anche dei
tradimenti, “Le cattive madri” , sbattute sugli
alberi contorti, nel gelo di un inverno implacabile.
‘Le cattive madri’ 1894, olio su tela, 120 x 225 cm |
Certo il ‘Simbolismo” europeo è presente, ma tutto calato nella biografia emotiva del pittore. Basta poco e la luce abbagliante della neve si trasforma nel freddo mortuario dei corpi, come i rami secchi in cui sono aggrovigliati, come la donna che si è rifiutata al dono della vita. Anche le evanescenti dolci madri, ”Angeli della vita,” in-tronate nei nodi contorti dell’albero spoglio con il lago scuro di sotto e quell’amore alla fonte della vita, con l’immancabile albero mezzo secco e le radici minacciose scoperte, uno scheletro, e l’angelo imbronciato a fissare l’acqua della fonte che scompare sottoterra, senza contare quella mezzaluna smorta, che non sai se di alba o di tramonto, tutto il positivo naturale nasconde dubbi, insinua contraddizioni.
”L’amore alla fonte della vita” 1896, 70 x 100 cm |
L’opera di Segantini s’interrompe con la sua morte improvvisa. Il suo mondo , l’altrove inseguito nei suoi profili lontani, nelle sue altezze finali, limpido come un cristallo, promessa di integrità, è ricco di fessure, di crepe dalle quali fuoriesce l’odore di una minaccia, di una ineliminabile oscurità, là dove anche il vortice nuvoloso assume l’aspetto della valanga mentre i piccoli uomini piangono il morto.
“La morte”, part.
3° del Trittico, 1896-99
|
No, non voglio dire che
quest’ultima ‘morte’, l’ultimo quadro di Segantini, sia anche
una specie di testamento. La sua fine nella baita sul ghiacciaio fu
un evento del tutto imprevisto. La terza parte del Trittico
rimane per puro caso l’ultima parte dell’insieme, dove
l’inseguimento dell’altrove, della più lontana delle lontananze,
di una limpidezza pacificata, “accarezzando col pennello i fili
d’erba”, non poteva ignorare la fatica del percorso, il pericolo
dell’abbandono, il rotolare del tempo. Mi sembra che in questa
instabile compresenza, accettata e trasformata in destino, consista
la grandezza dell’artista.
G.C. settembre 2014
IL FANTASTICO
“For your eyes only can see me through the
night”
“Solo per i tuoi occi puoi vedermi attraverso la notte
Il ‘FANTASTICO’ indica un settore sfumato nel quale fantasia
e sogni allargano la percezione del reale, e già in questo sconfinamento
godiamo di un particolare piacere di onnipotenza: inferni o paradisi, incubi o trionfi, siamo
fuori dai confini ristretti della quotidianità.
Volo, assenza di gravità, trasparenza, sovrapposizioni ci cullano in una
infanzia prolungata. Anche l’orrido ha
la sua attrattiva. Religioni e miti hanno raccontato di figure mostruose o
sublimi compagne di tutte le più diverse
organizzazioni sociali. Alla descrizione
realistica delle cose qui e ora la mente desta o nel sonno, ha sempre prodotto
immagini ir-realistiche. Non sempre dello stesso peso. Infatti nella loro ricca
irrealtà le immagini hanno rappresentato non solo la forte credenza ufficiale (
il potere, le divinità, l’oltretomba, paradisiaca o infernale), ma pure gli
interrogativi, le stranezze, le
speranze, le minacce, le fughe. Non il centro solido,
ma i bordi. Non la luce tranquilla, ma la penombra, l’oscurità inquieta. E più la
società era (è) scissa e scomposta, più le immagini interrogative, ambigue e minacciose aumentano. Così al piacere della
immaginazione si è unita l’ambiguità del significato (un particolare tipo di
piacere-timore). Anzi, il rifiuto
della società così com’è aumenta l’importanza della immaginazione, quella che
Gianni Celati chiama “la pura narrazione”.
Una premessa per giungere al bel titolo “For your eyes only” che andrebbe completato col seguito
della canzone “can see me through the night” , “puoi vedermi attraverso la notte”,
titolo della bella mostra della collezione
di Richard e Ulla Dreyfus-Best di Basilea, curata da Andreas Beyer, al Museo
Guggenheim
di Venezia, sino al 31 di agosto. Non solo ‘un vedere’, ma un passare
attraverso l’oscurità della notte, una notte illuminata. E il sottotitolo, “dal
Manierismo al Surrealismo”, ci
aiuta: l’Europa è scossa da due terribili guerre, quella degli Ottant’anni del
1568-1648 e quella ‘mondiale’ del 1914-18. “La Maniera” di Pontormo, Rosso, G.
Romano, Parmigianino, Primaticcio, Tibaldi, Cambiaso, parte dai due Modelli di
Raffaello e Michelangelo per esagerarne le contorsioni, le luci artificiali, le
decorazioni ‘grottesche’, le deformazioni ottiche. Questo nel Centro e Sud d’Europa. Al Nord la ‘maniera’ è più raffinatamente popolare, in punta di pennello.
Hieronimus Bosch mescola i generi, uomini- vegetali, beccuti, ingoiati da rospi
o vomitati da pesci giganti, impalati, bruciati, immersi in tenebrosi pantani… Un
secolo dopo, in modi meno drammatici, Pieter Bruegel il Vecchio ne prosegue i racconti.
Anche l’immagine singola, il volto, gode di una arguta
ambiguità. Ne è maestro alla corte di
RodolfoII d’Asburgo, il lombardo Giuseppe Arcimboldo, che inserisce
l’argomento del soggetto dipinto nei pezzi stessi in cui il soggetto è formato, come ne ‘L’inverno’
costruito di arbusti secchi, spogli, invernali. Un sottile indovinello nel clima della trasformazione degli elementi,
proprio dell’alchimia.
cerchia di Giuseppe Arcimboldo,
‘Inverno’
L’ambiguità dell’immagine si
complica. Il divertimento non è più individuare il profilo di un volto
dall’intrico di rami, foglie,
lumache ecc., ma di proiettare sulla stessa immagine due significati
inconciliabili, il primo, un promontorio con mura e case e il secondo, un
profilo d’uomo, uno voltato a sinistra e
l’altro voltato a destra.
Maestro tedesco del XVII sec.,
Paesaggio antropomorfo in forma di una
testa maschile
Ignatius Müller (1745-1802),
Paesaggio in forma d’uomo giacente
Non si tratta qui,
come accade nelle immagini dell’Arcimboldo, di attenuare la forza dei
particolari – che pur continuano a vivere
per conto loro – e di insistere sul valore e significato dell’insieme, il volto
umano. Ma di manovrare la nostra attenzione spostandola da cespubli, rocce, prati a naso,
occhio, bocca (aperta), capelli. E’ la nostra attesa che carica l’immagine,
opportunamente trattata, di un
significato o di un altro del tutto
incongruo con la prima. C’è qualche vicinanza con l’immagine di una figura
piccola e di una più grande che percepiamo simili perché ‘immaginate’ in una diversa distanza spaziale. Ma sempre
figure sono, dello stesso tipo, non l’improvviso salto da un paesaggio ad un
volto.
Diversa la situazione dello svizzero Füssli (o Fuseli), ben
rappresentato in mostra: ordinato pastore luterano a Zurigo, ma poi , dopo un
lungo soggiorno a Roma, 1770-78, innamorato di Michelangelo, lettore appassionato di Milton
e Shakespeare, su consiglio di Reynolds si trasferisce a Londra dove raggiunge un duraturo succcesso. E' il pittore dei sogni, degli incubi,dei fantasmi. Le sue
figure neo-manieriste, esagitate e contorte, rientrano in una grammatica illustrativa teatrale di
forte impatto emotivo.
J
Johann Heinrich Füssli, ‘La cacciata
dal paradiso terrestre, 1802
Con il Surrealismo del ‘900 entriamo nella seconda ‘Maniera’. L’esaltazione e l’esecrazione della guerra ha distrutto il vecchio e ormai fragile ordine mondiale. La formazione dei gruppi di Avanguardia e la loro dispersione nel dopoguerra ha concluso una spaccatura che già i movimenti di fine ‘800 avevano iniziato: la caduta di autorevoli schemi artistici di riferimento e l’introduzione di nuove modalità d’intendere l’operazione artistica nella ‘modernità’ invocata da Baudelaire. I linguaggi si mescolano, parola, suono, gesto, colore. Stupire, provocare. Le speranze che la nuova cultura possa offrire una invocata rinascita s’infrangono nei massacri delle trincee e dei fili spinati. Il ventenne André Breton, militare nel ’16, frequenta il ‘Centre Neurologique’ di Wantes e con l’amico Jaques Vaché (che morirà nel ’19), riflette sulle voraggini, i salti, le metamorfosi della psiche umana, l’inconscio. E’ la nascita del ‘Surrealismo’, un movimento che, com’è noto, con ampie e diverse alleanze, si svilupperà nei decenni seguenti attraverso i più differenti mezzi espressivi.
La mostra espone un buon numero di illustri esempi (De
Chirico, Ernst, Dalì, Tanguy, Bellmer, Miro…), ma io vorrei fermarmi soltanto su due esempi molto diversi tra loro, “Il
modello rosso” di René Magritte e “Il dono” di Man Ray.
René Magritte, “Il modello rosso”
1937
Qui i due termini inconcigliabili del ‘modello’ sono uno il
prolungamento stravolto, il falso completamento dell’altro. Il contenuto, il
piede, è il completamento del contenente, la scarpa, in una ovvietà
sottolineata dalla accuratezza dei particolari. La tecnica è volutamente nitida
e tradizionale, una buona pittura, a rendere persuasivo il soggetto assurdo. Il rosso del titolo, non
dell’immagine, è forse un riferimento ironico alla fiaba, ‘scarpette rosse’.
Il salto più consistente della nuova ‘maniera’ è quello del
‘Dono’ , ‘Cadeau’ di Man Ray, in
linea con la sottile ambiguità di
Duchamp. La tecnica esibita da Magritte è del tutto abolita. Anche l’oggetto ha la banalità del
quotidiano: un ferro da stiro, un objet
trouvè, trovato da un rigattiere .
Già, ma come la scarpa che termina col piede, qui c’è un ferro da stiro armato di 14 chiodi in bella vista, che
ovviamente impediscono ogni stirare. Inoltre
si propone come ‘dono’, una gentilezza contraddetta rudamente dall’ assurdità
dell’offerta. Infine l’opera è un multiplo (la prima era stata rubata), uscito
nel ’21 e rifatto più di quarant’anni
dopo.
Man Ray, ‘Dono’, 1921 – 1963
In quessto caso forse quel ciclo del ‘fantastico’ a cui la
collezione dei due coniugi Dreyfus-Best si rivolge, si chiude. Quel lungo percorso di fantasia manteneva pur
sempre, nella ‘prima Maniera’, un
qualche rapporto con la realtà e con i diversi modi di rappresentarla, pur giocando sui bordi, sui capovolgimenti,
sulla sorpresa. L’objet trouvè di Man
Ray no. Ferro da stiro, chiodi, dono non hanno nulla a che vedere con la realtà
e i modi dell’arte, se non per il fatto che si collocano in uno spazio
espositivo, in una galleria d’arte e pretendono un giudizio ‘artistico’ e anche un prezzo artistico. E’ un
diverso capitolo del FANTASTICO col quale termina la ricca esemplificazione
di una mostra che invita ad una meditazione più approfondita della pur piacevole
percezione dei sorprendenti ghiribizzi della fantasia.
G.C. agosto 2014
IL VERONESE : L’ILLUSIONE DELLA REALTA’ O LA REALTA’ DELL’ILLUSIONE
Quasi a seguito della
mostra londinese “Veronese. Magnificence
in Renaissance Venice” si apre quella veronese “L’illusione della realtà” a cura di Paola Marini e Bernard Aikema,
5 luglio – 5 ottobre, catalogo Mondadori
Electa, un volume di 398 pagine e
molti saggi interessanti. Grandi mostre, grandi nomi. Il risultato è un riscontro
sempre più puntuale di date, ambienti,
confronti, attribuzioni. Non
basta una rassegna di opere
importanti e molto conosciute, un nome dall’effetto sicuro, ma si aggiungono
radiografie, analisi chimiche, bozzetti, aiuti, parentele, committenti. Il
profilo dell’opera e del suo autore ne
escono con sempre maggior chiarezza.
Ma qui mi limiterò, come sempre, soltanto ad alcune considerazioni.
Siamo a Venezia, metà del ’500. Tiziano è maestro indiscusso. I più giovani Tintoretto e il Veronese
si contendono le commissioni. Né mancano
abili comprimari; si parla infatti di scuola veneziana, il colore contro il
disegno. Stiamo ai primi tre: al fuoco
avvolgente di Tiziano che incanta ‘i grandi’ d’Europa, ai voli sconvolti,
notturni di Tintoretto, cresce la serenità certa, il teatro solido, la
lucentezza perlacea del più giovane Veronese. Come dire Matisse da una parte,
Picasso dall’altra.
Non decorazione contro passione, ma un diverso tipo di forza emotiva, segnalata anche dalla felice nervosità dei disegni, dalle pose contorte, dalle prospettive sghembe, ma infine pacificate in una superiore armonia. Un risultato, non un punto di partenza.
Non decorazione contro passione, ma un diverso tipo di forza emotiva, segnalata anche dalla felice nervosità dei disegni, dalle pose contorte, dalle prospettive sghembe, ma infine pacificate in una superiore armonia. Un risultato, non un punto di partenza.
La personalità netta,
concreta del Veronese sembra confermare questa differenza. Nasce nel 1528 come
Paullo Spezapreda, lapicida, il mestiere dei suoi antenati luganesi, ma prende il cognome più autorevole
della madre, Caliari. Sposa Elena
Basile, la figlia del suo ‘principale’. Lascia
la provinciale Verona per la capitale
Venezia. Costruisce una florida azienda famigliare, fratello, figli, nipoti. Introduce nelle grandi scene
religiose e mitologiche i visi dei suoi conoscenti e committenti. E’ abile negli affari,
acquista terreni, chiede prestiti e anticipi.
Le architetture
dipinte. Gli architetti studiano il passato classico, i templi, le terme, le ville, i libri di Vitruvio. A Mantova,
Verona, Vicenza, Padova, Venezia Giulio Romano, Palladio, Sanmicheli, Serlio,
Sansovino, con un occhio alla romanità, progettano palazzi, chiese, basiliche,
ville di campagna, dimore nobiliari, e
invitano i pittori a decorarle. Il
Veronese ammira quegli architetti, ne tiene conto: dispone le sue figure tra
colonne, porticati, scalinate, balconi, torri. L’architettura scandisce la
scena, separa il movimento dei corpi, crea profondità di spazi (1). Nelle cornici aggettanti di pietra
degli interni dipinge finte porte socchiuse da cui occhieggiano paggi curiosi,
personaggi in lontananza, vedute di paesaggi. La gara divertita tra
l’architettura dipinta e quella vera, la colonna, il cornicione, l’arco, il
gradino, trae l’occhio in inganno, il tromp
l’oïl, incerto tra volume e
finzione. E’ un inganno piacevole. Così, nel confronto, le parti s’invertono: l’architettura
costruita si alleggerisce tanto quanto acquista peso quella dipinta. Sulla
parete, dietro la balconata dipinta si sporgono figure dipinte, anche di
animali. Guardano il pubblico di sotto.
C’è contiguità con il teatro. I personaggi
(persona = maschera), su piani diversi (il palco), sempre in ricchi costumi e panneggi, agitano mani e sguardi.
L’architettura, vera o dipinta, li
divide e li compatta. Ciascuno, con turbante o mantella d’ermellino,
recita la sua parte. L’identità fissa è un’invenzione. Persino il pappagallo partecipa: gracchia ‘Ave’ o,
forse,’Eva’.
L’inganno leggero può colpire non solo l’occhio ma anche l’anima. L’Inquisizione non gradisce una ‘Ultima Cena’ nella quale la figura del Cristo, invece di esibire il pane-ostia, si mescola a una folla variopinta di nani, servi, negretti, turchesi, animali. Convocato dai giudici il Veronese si scusa: “Nui pittori ci pigliamo la licentia che si piglino i poeti e i matti”. E poi basta cambiare il titolo: “L’Ultima Cena” diventa “La Cena in casa di Levi”.
Cena in Casa di Simone, 1556 ca. cm. 314 x 451 (Torino, Galleria Sabauda) |
L’inganno leggero può colpire non solo l’occhio ma anche l’anima. L’Inquisizione non gradisce una ‘Ultima Cena’ nella quale la figura del Cristo, invece di esibire il pane-ostia, si mescola a una folla variopinta di nani, servi, negretti, turchesi, animali. Convocato dai giudici il Veronese si scusa: “Nui pittori ci pigliamo la licentia che si piglino i poeti e i matti”. E poi basta cambiare il titolo: “L’Ultima Cena” diventa “La Cena in casa di Levi”.
Cena in casa di Levi, 1973 m. 5.55 x 12.8 (Venezia Gallerie dell'Accademia) |
No, non c’è nessuna intenzione polemica. L’artista è in ottimi rapporti con gli ordini religiosi e aderisce senza sforzo alle indicazioni del
Concilio di Trento, ma è ben
lontano, per indole, dal pietismo sentimentale dei due Borromeo. Non ci sono
anime da salvare, peccati da espiare, torture da soffrire. Lo svago, le
cene affollate, i banchetti animati, le
vesti lussuose, lo splendore di Venezia,
la vacanza perenne, in villa o nei palazzi
di città, non è l’eccezione, ma la
regola. Gesù, le Madonne e i Santi non sono una rottura della norma,
l’irrompere dell’al di là, ma la varietà del quotidiano, del di qua, dove si
mescolano in amicizia figure della
religione, della mitologia e della vita giornaliera. In questa
arguta mescolanza, anche la leggerezza
dell’immagine, ‘immaginata’ e dipinta,
si accompagna senza sforzo al peso della figura viva (un borghese colto, un
nobile potente, gli amici, gli estimatori) che si muove concreta, ma che guarda
il vicino con gli occhi del pittore, lo
vede in immagine, nei suoi vestiti di gala, nella sua distinzione sociale. Il
mondo dell’immagine è il mondo dei significati, dei riti laico-religiosi del
potere dogale: balaustre, colonne, nuvole, cieli. Il mondo della regalità veneziana, diffuso dal sapiente pennello del
Veronese, si spande trionfante nel
Paradiso laico del palazzo, il Palazzo Ducale.
L’illusione della realtà si è trasformata nella realtà dell’illusione.
Apoteosi di Venezia, Palazzo Ducale, sala del Maggior Consiglio, soffitto |
Anche l’erotismo è
teatro.
Nel suo saggio nel catalogo Dal Pozzolo ricorda come il nudo
muliebre, nella cultura veneziana del ‘500,
introdotto dal Giorgione, era stato abbondantemente sviluppato da
Tiziano e Palma il Vecchio (e a Mantova da Giulio Romano). Il Veronese lo
rinchiude tra le deità e gli eroi del mito. Ovidio era da tempo utilizzato dai
pittori. Rara la scoperta nudità maschile. Eppure, la nudità femminile, spesso
volteggiante tra nuvole e cieli, panneggiata con misura in pieghe luminose, un accenno di
collana, espone una nudità chiara, ben
tornita, soda, pettinatura impeccabile, non schiva, non solitaria, non
ammiccante, ma sicura di sé, immersa nella
ricchezza degli ambienti (quella grossa testa di cavallo - forse il cavallo di Marte - guidato dall’amorino alato su
di una scala improbabile! A loro guardano, sorpresi, i due amanti).
Un erotismo composto,
soddisfatto, elegante, ben recitato, lontano
dalla duplicazione degli specchi, dai
fremiti e tremori tizianeschi.
Marte e Venere, 1570-77 ca. cm 47 x 47 (Galleria Sabauda, Torino) |
San Marco incorona le virtù Teologali, Parigi, Museo del Louvre |
Il volo, i cieli.
In questo scambio tra realtà e illusione, in questo
prevalere della forza immaginativa si pone anche la torsione prospettica dal
basso in alto. La costruzione, l’architettura, le pareti scompaiono, i soffitti si aprono all’infinità del cielo, al gioco delle nuvole, al volo dei
personaggi. Non è più lo scambio tra realtà e illusione, tra cosa e immagine,
ma il trionfo della immagine totale nel segno della
leggerezza, un nuovo modo di dare realtà alla illusione: uomini, donne, guerrieri,
dei, santi, angeli, Madonne sono scorciati
verso l’alto, liberi nella trasparenza dell’aria. Anche il cielo fa
parte della terra. Un secolo dopo Tiepolo partirà da qui.
Una eleganza spontanea, una
complessità mai forzata, che
sembra naturale, una lucentezza sapiente, non ricevuta dai cieli ma
emanata dalle figure stesse e dalle
cose. La festa, la gioia di vivere non nell’eccesso, nella dismisura, nell’attimo, e perciò sempre
mescolata alla melanconia e al dolore, ma
nel piacere controllato e permanente, in una socialità compiaciuta che si
traduce in connessione armoniosa di corpi, cibi, vesti, architetture, cieli. Un gesto di danza che
trasforma ogni ostacolo in facile salto, ogni guerra cruenta in spettacolo
interessante, ogni smorfia in sorriso.
Sì, perché è il
sorriso anche dell’ironia che accompagna la scena affollata del suo teatro
(Il Veronese ha pure disegnato costumi per il
Teatro Olimpico di Vicenza).
Faccio alcuni esempi. Le “Quattro
allegorie dell’Amore”, 1565-70 c.a, dove quattro figure femminili, di cui
due nude, sono accompagnate da possibili
scelte ambigue, con due uomini le
une, un uomo e una donna le altre due,
più amorini vari. Il nudo della donna di
schiena (il fondoschiena era particolarmente apprezzato) tiene in mano un
foglietto nel quale si intravedono delle lettere: “ Che u (oppure ‘m’)…possede”. I due
maschi, come i due amorini, se la contendono. Una mitologia ironica che
sorride e insieme interroga i misteri dell’eros.
Ma pure la scena della “Cena
in casa di Simone” manca di ogni
seriosità. Gesù è confinato nell’angolo
destro, nell’ombra, come spesso in altre scene religiose. Col piede accarezzato
dalla Maddalena, che vi spalma l’unguento profumato, sembra quasi sfiorarle il
florido seno. Dall’alto del balcone
l’uomo del turbante indica col dito qualcuno, non si sa chi. Il pappagallo l’ho
già ricordato. Giuda, con in mano il sacchetto dei denari, si disinteressa di
quell’angolo, e discute con gli ospiti, uno
dei quali, - la sua figura è
interrotta da una bianca colonna (la
mano che tiene la sua mercanzia spunta
dietro di essa) sulla quale è conficcato, ben visibile, un chiodo nero. Ricordo
di ‘spaccapietre’? Fragilità del marmo? Minaccia di crollo? Un vaso, ben
stagliato contro il cielo, traballa pericolosamente sul vassoio.
E alla destra si mescolano
pagliacci, scimmiette, poveracci…
Una’altra scena, piena di piacevoli assurdità, è il “Riposo durante la fuga in Egitto”. Ma
gli esempi si potrebbero moltiplicare ad
indicare una sottile, voluta contraddizione nei temi più seri del racconto
mitologico, religioso o politico che sia. Non un contrasto drammatico, ma neppure una
descrizione interna all’autorità della tradizione. Uno sfasamento, questo sì, spesso
trascurato dalla critica, che dimostra il sorriso arguto dell’autore, la sua
distanza dall’ovvio, il punto interrogativo anche in mezzo alla più consolidata
certezza. Altro che pacifismo melenso, obbedienza
pronta alle regole dell’armonia e della ‘bellezza’, genuflessione cauta alla
religione dominante. Piuttosto un lieve, vellutato passo di lato, per
scuotere il fatto compiuto e lasciar
scorrere liberamente una esuberanza
irrefrenabile nella quale forma e vitalità trovano un accordo sempre, e
l’occhio si stupisce di tanta perfetta armonia: il miracolo di una civiltà
veneziana, specificamente veneziana, forse esistita solo nella acutezza dei
gesti , nell’ironia, nelle pitture di un
artista venuto da fuori.
(1) Il 12 settembre si
aprirà al Museo Casa Giorgione,
Castelfranco Veneto (TV,) la mostra
“Villa Soranzo, una storia
G. C. luglio 2014
PAESAGGIO O SPAESAGGIO?
“Banditi dal
giardino per antonomasia [il Paradiso Tterrestre],
siamo entrati da banditi nel paesaggio e da allora non abbiamo smesso di farne luogo di perdizione, di danni
irreparabili, di rovine materiali e spirituali”.
Vorrei partire da queste parole del Direttore del MART
Cristiana Collu, per proporre alcune
riflessioni su di una intrigante
mostra aperta al MART di Trento e Rovereto sino al 31 agosto, dal titolo
volutamente ambiguo “Perduti nel paesaggio”.
La cura è di Gerardo Mosquera. Il
catalogo è ricco di interventi interessanti.
Dunque “Perduti”, un plurale, uomini, tutti, o molti, una
condizione generale. Il paesaggio-natura
è uno, ma fatto di molte cose.
Prescindo dal
significato letterale di ‘paese’, di ‘paesaggio’ come paese abitato. Si tratta
di un certo tipo di ambiente, anzi di una
immagine di
ambiente, prodotta o solo immaginata, o
magari sognata, desiderata; doppiamente connessa perciò alla mente umana,
che incontra l’ambiente e lo con-figura. Non un ambiente in sé, separato, non una
natura matrigna, una sorpresa malevola, una minaccia inespugnabile, né un ambiente costruito, regolato, fisso, noto,
una città ordinata, un campo coltivato. Sia ‘immagine’ che ‘ambiente’ sono
termini che significano qualcosa, uno spazio, una cerchia, che sta al di là del
soggetto. Il paesaggio-immagine ha sempre un referente esterno, quella
naturalità che fornisce alle fronde dipinte o immaginate, nella loro stessa
indeterminazione, la forza di esistenza, di alterità, di interrogazione, una spinta a
uscire dal conosciuto, a infrangere ogni limite, a spingersi oltre ogni confine.
Io Io e natura, indisgiungibili.
Io Io e natura, indisgiungibili.
Ma allora perché perduti? Cos’è che si perde? Ci troviamo
spaesati dentro un cumulo di rovine? L’uomo ha perso la via, la direzione, uno
scopo, un motivo per essere lì? E’ lui la ragione di questo spaesamento
distruttivo? E anche se così fosse, non
rimane, nel buio della distruzione, una
luce che lo attrae? E quindi si perde
nel paesaggio perché vuole perdersi, cancellare i confini, le separazioni, e non importa se il
luogo sia un cumulo di rovine o/e uno sbocciare di fiori? Io e natura si
respingono e si richiamano. La fine dell’uno è anche la fine dell’altra.
Chiudere l’immagine di paesaggio nella propria singolarità,
nella propria corporalità, un tatuaggio sulla propria pelle, significa alterare
la sua avvolgenza, la sua forza, la sua alterità. Non è solo la produzione di
una immagine che, come tale, si offre
ugualmente a tutti i guardanti, ma è una vera appropriazione che, con forte
suggestione straniante, ne muta
completamente il significato. Una scommessa impossibile: io sono il paesaggio. La
natura mia e la natura altra
diventano (vorrebbero diventare)
un’unica realtà. Non c’è natura separata.
Credere di potersi
impadronire della alterità è una illusione. Alludere al paesaggio con il proprio viso “abitato” può diventare
una battuta, un sorriso. Un modo leggero per indicare la impossibilità, “consapevoli
di una incolmabile distanza tra noi e la natura da cui ci sentiamo da sempre e
per sempre separati”, come scrive ancora Cristiana Collu.
Luis Camnitzer. Lubecca 1937 Landscape as an Attitude,
1979. Foto b/n, laminato
31x 28.5 cm
Le due immagini, la pelle tatuata, il viso abitato, ci
indicano una mancanza di “natura” e una predominanza, una invasione dell’ “io”.
La solitudine superba dell’io non è solo perdita del Paradiso Terrestre, ma perdita di sé. Siamo perduti
in quel paesaggio che abbiamo distrutto, mutato in una piega del mio corpo.
Eppure ci muoviamo ancora in un ambiente “altro” che come
tale non smette di chiamarci: una “dimensione residua” di appartenenza, vicino/lontana
, un tenue ricordo del Paradiso perduto che ci invita ad un dolce naufragio, in
quella profondità infinita tra sogno e
realtà che annulla ogni confine di tempo e di spazio, ogni superbia dell’io
distruttore anche di sé.
“Ciò che ho
rappresentato, afferma Davide Tranchina, che ha fotografato la notte
all’isola di Montecristo, l’ho visto, o l’ho sognato?” E
se entrambi gli atteggiamenti, il vedere e il
sognare, andassero insieme (Borges)?
Davide Tranchina, Bologna, 1972, “40
notti a Montecristi”, 105 x 150
Non è immobilità ma assenza di direzione,
mancanza di scopo. Non uni-verso ma
pluri-verso. Il paesaggio non è un paese, il pagus che marca, perentorio, il proprio territorio, ma piuttosto
“la rovina” di ogni costruzione, la lontananza delle montagne leonardesche,
grembo materno, leggerezza, mollezza di una interminabile fanciullezza prenatale. Così
la pittura veneziana del 4 e 500 aveva cominciato a cancellare le chiusure, a
guardare oltre alle figure, a esaltare le lontananze. Le
frange dello spaeggiamento si distribuiranno sempre più frequenti ai
bordi della grande rappresentazione.
Aggiungerei anche un’altra notazione, che richiederebbe una
riflessione per conto suo (e mi scuso della brevità). Allo slargamento, allo spaeggiamento indefinito si
contrappone la concentrazione indefinita, il rimpicciolamento del giardino Zen. Un paesaggio portatile, un sasso,
un solco: eliminare, svuotarsi per far posto al granello cosmico, no, neppure il
pesodi un granello, ma punto, scatto d’energia, che non ha peso, non ha
estensione. Un cammino al contrario per raggiungere un simile abbattimento
del confine e della separazione.
Così ritorno alle
parole di Cristiana Collu: “Ancora una volta solo la necessità e l’urgenza di un
sogno, di un’utopia, di un paradiso terrestre e di un altro pianeta riempie il
vuoto tra il Paradiso Perduto e la Terra Promessa. Meglio dunque servire a
questa utopia perché non sia perduta”.
Spaesaggiarsi, perdersi nel paesaggio per respirare il
profumo della libertà.
giugno 2004 Giorgio Colombo
PER GRAZIA RICEVUTA [P.G.R.]
Nei momenti più difficili della propria esistenza l’uomo si
è rivolto per un aiuto a delle figure superiori a qualsiasi altro consimile,
abitanti spazi difficilmente raggiungibili, divinità, eroi, forze indistinte,
benevole e/o minacciose. La richiesta è stata spesso accompagnata dalla
promessa di un dono nel caso fosse stata esaudita. E’ uno dei tanti scambi con
i quali si costruisce ogni società umana. Un caso dove lo scambio avviene tra
due grandezze molto differenti, una grandissima, l’altra minuscola, ma pur sempre in reciproco contatto.
La morte, propria o di un congiunto, è il massimo della
pena, e di sfuggirvi è il massimo della
richiesta. In aggiunta il timore che i
morti insoddisfatti possano tornare a inquietare i vivi spinge i vivi ad
ammansirli con promesse e donativi.
Donare piccole statue come voto agli dei è pratica antica,
documentata in Mesopotamia ed Egitto. Importanti fonti letterarie, Virgilio, Cicerone, Orazio, Properzio,Tibullo,
Giovenale riferiscono di “donaria” etruschi e romani. Riprendo da un testo
pubblicato nel 2001 a Milano in relazione ad una mostra di ex-voto realizzata dalla dalla Fondazione P.G.R. (la stessa di cui mi
occupo più avanti in questa nota) nella
Sacrestia di Santa Maria delle Grazie:
“Figurazioni in oro, argento, rame, bronzo, legno, terracotta, arenaria,
raffiguranti corpi interi, singole parti o
organi particolari, offerti alle divinità come pegno o riconoscenza. Nei
templi i donaria venivano appesi alle pareti… oppure presso un albero
sacro,o sotterrati in fosse vicino alle
edicole ove si compivano sacrifici. Accanto agli ex-voto anatomici, presso i
greci e i romani appaiono le prime
offerte di tavolette dipinte…”. Si tratta di
manufatti personali, che
insistono su di un rapporto intimo tra l’offerente e la potenza invocata, raccolti in luoghi
sacri scelti con cura: cima dei monti (vicinanza col cielo) o
caverne sotterranee, rocce vulcaniche (vicinanza con la terra). Luoghi che un
segno, cippo, colonna , statua o tempio ne confermerà pubblicamente la sacralità.
La conferma materiale
di questo speciale rapporto tra uomo e divinità passa direttamente dal mondo
pagano al cristianesimo, in particolare al cattolicesimo bizantino e romano,
con la devozione nelle immagini della
Madonna, la Grande Madre, e dei Santi, sovente localmente definiti. Se ne
asterranno le Chiese Riformate, attente alla ‘parola’ ma diffidenti verso le
immagini sacre, troppo vicine alla condanna biblica. Al contrario, il Concilio
di Trento favorisce il culto delle reliquie e delle immagini, delle feste, delle
processioni, della devozione popolare in genere. Alcuni Santuari ricchi di ex-voto, la Madonna
della Consolata a Torino, il Santuario di Oropa, Santa Maria
delle Grazie presso Mantova, la Madonna di Montenero presso Livorno, Santa
Maria del Monte a Cesena, la Madonna di Loreto, la Madonna dell’Arco presso Napoli, sono
soltanto alcuni dei molti, più di cento, sparsi in Italia dalle Alpi alla
Sicilia.
Una piccola aggiunta. Si parla di arte naif, ingenua, naturale, semplice. Rispetto a che cosa? Alle opere di Raffaello o
Michelangelo? E’ come paragonare una bicicletta a una Ferrari. Le tavolette di
ex-voto hanno un proprio scopo: comunicazione facile, immediata, pochi
elementi ben individuati, colori netti, disposizione ripetitiva. Per alcune
immagini, specialmente in area germanica, viene usato il vetro per ricopiare lo
schema precedente. Non si vuole inventare, non si vuole essere originali, ma
ribadire sempre gli stessi gesti. Le
iscrizioni sono sigle, date, un nome. A volte qualche riga di scrittura o,
specialmente in area ispanica, un foglietto incollato racconta.
Con il passare degli anni la
situazione delle tavolette votive cambia: se ne interessano gli studiosi come Giuseppe Pitrè o Ernesto de
Martino, ne scrivono gli storici delle piccole patrie, se ne disinteressa la
Chiesa e diminuiscono i fedeli committenti.
Così vengo all’oggi.
Al primo piano della Casa Manzoni, via G. Morone 1, Milano, , la Fondazione P.G.R. (che citavo prima) presenta la sua seconda mostra di ex-voto, 70 tavolette dal XV
secolo agli anni 20 del 1900, Navigando tra gli Ex-Voto, “Trattieni i
venti e placa le tempeste” (5 maggio - 20 dicembre) al seguito della prima,
Le stanze degli Ex Voto. Una
collocazione inusuale, fuoritempo, la casa, un po’ appannata, quasi a scusarsi
di essere lì, un angolo silenzioso in una città frastornata, la casa di uno
scrittore illustre, Manzoni, un monumento nazionale, rispettato, per carità, ma
non si muova troppo dal suo piedistallo. Anche gli ex voto sono fuoritempo,
fuori dal tempo della agitazione, del perenne colpo di scena (meglio se in
inglese), del rumoreggiare continuo, dell’effetto-flash (in inglese, appunto).
L’ex voto parla di un mondo lontano, un mondo di sofferenze evidenti che
sperano in un riscatto, di pericoli, di malattie, di incidenti chiari, di Santi
e Madonne a portata di mano. E c’è una corrispondenza, per contrasto, tra i soggetti della prima mostra, il letto
del malato, con quelli della seconda
mostra, le tempeste di mare. Quanto è fermo, protettivo il letto a baldacchino,
dove il pericolo, il male, è tutto interno al corpo, invisibile, subdolo, medico
impotente, al contrario è furiosa, visibilmente terribile l’onda minacciosa,
l’acqua profonda, senza fondo, il silenzio infinito del mare, e l’uomo piccolo,
sbattuto su quel misero legno, la vela scossa oppure ormai strappata,
inservibile. Meglio aumentare le sacre protezioni.
Ma vorrei ricordare una scena
della precedente mostra di Santa Maria delle Grazie, un ex voto al contrario,
dove il soggetto non vuole fuggire la
morte ma incontrarla. La Madonna gli rifiuta la richiesta. E’ questa una
grazia? E vengo alla scena dipinta che possiede l’assurdità felice e
incomprensibile della sequenza:
data, 1873, a) l’aspirante suicida poggia il
fucile sul gradino di una scala e fa fuoco, ma sbaglia la mira, b) s’impicca al
ramo di un’albero, ma il ramo si spezza, c) si getta nel pozzo, ma ne ritorna
indenne, d) si lancia dal tetto, non un osso rotto. Possibile che la Madonna di
Itri sia stata così paziente con un cocciuto suicida? Il pittore ha dipinto un desiderio?
un incubo?
Anche la Fondazione P.G.R. ha
per fortuna la gentilezza del
fuoritempo. Passione della collezione - una passione di famiglia - garbo dei modi, precisione e
semplicità nella presentazione.
Aggirarsi in quelle stanze dai muri carichi
d’anni, con quei teatrini lontani, gesti minimi, un’infanzia dell’umanità,
disperata e sorridente.
Lunga vita alla Fondazione
P.G.R. , Per Gentilezza
Riconosciuta
G.C. maggio 2014
PIERO MANZONI, LA SERIETA’ DEL GIOCO
In relazione alla mostra “Piero Manzoni 1933-1963” al Palazzo Reale di Milano, 26 marzo-2
giugno 2014, organizzata in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni, e
al bel catalogo SKIRA che l’accompagna,
con testi di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo, già seguita con
attenzione dalla stampa, mi limiterò, come al solito, di alcune considerazioni.
L’opera breve e significativa del giovane Manzoni si inserisce nella risposta
“fredda” agli eccessi emotivi dell’ Informale, insieme ai compagni di strada come Castellani e Bonalumi, e alla
galleria milanese Azimut (dall’arabo, misura astronomica=direzioni) con la rivista omonima (2 numeri). Ma
alla tecnologia esibita degli amici (la
tela tirata nelle shaped canvas)
riponde con una diversa inquietudine: la tela
è stropicciata o cucita senza alcuna rigidità geometrica, il bianco non è l’annullamento polemico
dei colori, il gelo ospedaliero, ma un non-colore, un Achrome, una luminosità, una
polvere sovrapposta di gesso o caolino (la materia della ceramica), oppure una
morbidezza, batuffoli di cotone o un
cibo imbiancato, michette di pane! Una scelta curiosa. L’esempio sono
i diversi gesti di Fontana, riconosciuto
maestro.
E’ il gesto che conta, non
l’anonimato della materia o della struttura (tela, telaio), ciò che sarebbe la materia prima della pittura, la freddezza
della riduzione, ma oggetti che hanno a che
fare con la vita quotidiana: il
pane, la pelle di coniglio, la paglia, il cotone... Il gesto è il rapporto tra l’artista e l’opera, senza
riguardo alla soggettività dell’artista oppure alla autonomia ‘artistica’
dell’opera. E’ qui che diventa
fondamentale la lezione di Duchamp che trasforma in “opera” un qualsiasi readymade, aggiungendovi anche un’ironia
nel titolo (orinatoio=Fontaine) e
nell’autore (Duchamp=Rrose Sélavy). Né l’ironia può mancare nei gesti di
Manzoni che firma il corpo delle sue modelle, che legittima l’opera, l’uovo,
con l’impronta digitale, o “Le sculture
viventi” con “certificati di autenticità”: “Si certifica che…Tizio(a)…è
stato(a) firmato(a) dalla mia mano e perciò è considerato(a) dalla data
sottoscritta vera e autentica opera
d’arte….”. Persino i “Corpi d’aria” hanno una vaga origine nel gesto
duchampiano de l’Aria di Parigi, una
ampolla che l’artista si procura da una farmacia come regalo per il suo collezionista americano Walter Arensberg.
Il gesto impossibile dell’artista è
nella sua presunta e ridicola onnipotenza: trasformare un personaggio vivente in
una statua (il contrario del racconto
mitico) oppure appoggiare il mondo, con tutto
il suo peso e dimensione reale, allo zoccolo capovolto (“Socle du monde”), un pensiero dedicato a
Galileo (rotondità della terra). Ma
di più, dare in pasto al pubblico una parte della propria corporeità: impronta,
sangue, fiato, feci. Manzoni parla di
reliquie, un pezzo di corpo, corpo dell’artista, che diventa oggetto di culto.
E’ uno sgarbo alla sacralità o una sacralità sgarbata? Certo una trasposizione,
l’impronta sull’uovo da mangiare (che trasforma il contenuto dell’uovo in
contenuto dell’artista). Oppure un
residuo presunto, il palloncino che è
stato gonfiato dal soffio dell’artista (rimane la pellicola sgonfiata del
palloncino e la targhetta con firma e titolo). O ancora una scatola di comune
cibo conservato (manzo-tin= scatola
di manzo = scatola di manzo-ni) trasformata in scatola con feci di Manzoni. E
infine una fiala con sangue dell’artista
(non realizzata). Si tratta di sorprese fondate sulla parola dell’artista, come la parola scritta su di una ricevuta che muta la persona vivente in piedi sulla “Base magica” in una statua.
L’ultima, la “Merda d’artista”, quella più discussa,
in particolare dopo la mostra postuma del 1971 (Manzoni era morto da otto anni)
curata da Germano Celant per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e la
esilarante interrogazione di un deputato democristiano alla direttrice Palma
Bucarelli (“…Poiché l’interrogante ha
ritenuto finora, anche se erroneamente, che una simile creazione artistica… fosse quotidianamente
prodotta da tutta l’umanità, chiede se non sia il caso di dare la massima
divulgazione a questa forma d’arte in modo che le masse popolari, finora ignare
portatrici di tanto valore artistico sempre avviato verso le fogne cittadine,
prendano rapida coscienza degli sconfinati
orizzonti che i su lodati Manzoni e Bucarelli hanno loro aperto…”, lettera
tutta da leggere nel mini-saggio Skira di Flaminio Gualdoni).
Anche qui una scommessa di
fantasia, non solo per la equiparazione sostenuta dall’autore del
valore-merda con il valore-oro, ma per
il fatto che nessuno può verificare il contenuto della scatoletta, la quale va
conservata ermeticamnte chiusa, mai da
aprirsi. Ne fa fede unicamente il suo involucro con l’etichetta, “contenuto
netto gr 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”,
firma autografa e numero. È la stessa ermetica chiusura che Manzoni adotta per le
diverse ‘Linee’ che produce a partire
dal 1959. Scrive: “Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito,
al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione….: l’unica
dimensione è il tempo” (Libera dimensione).
L’idea di tracciarla su di un rotolo di carta da svolgersi progressivamente
come un rullo di rotativa gli viene dal “Rotolo di pittura industriale” che
Pinot Gallizio, dal suo Laboratorio di Alba,
taglia in varie lunghezze, secondo i desideri del compratore. E’ un
accostamento all’Internazionale Situazionista
di Debord che ha i suoi punti di
riferimento in Italia, oltre che ad Alba, a Torino e Albissola. Un aspetto che
forse dovrebbe essere approfondito. Ma qui vorrei sottolineare solo due punti:
1) il rotolo breve, lungo o lunghissimo è sempre sigillato in un involucro, con
etichetta o scritte (titolo, luogo,
data, firma), che non si deve aprire. La Linea
di lunghezza infinita,1960, è un
cilindro di legno pieno munito di
un’etichetta. La linea, anzi La linea
bianca, come scrive nel ’62, è un puro
stimolo concettuale, come la merda o il fiato d’artista. “Vorrei anche
tracciare una linea bianca lungo tutto il meridiano di Greenwich”. 2) L’unica
realtà è la firma dell’artista, una specie di mago povero, che lascia degli
indizi, delle impronte, dei suggerimenti di ciò che si potrebbe o si vorrebbe
sognare.
Un’ultima osservazione. I gesti di Manzoni non sono rivolti
ai pochi specialisti delle arti, sempre gli stessi, sempre in ritardo. Occorre
soltanto liberare la mente dai pre-giudizi. Tutti sono invitati al gioco:
mangiate le mie uova, timbrate col mio
pollice, salite sul mio zoccolo statuario, fatevi una scultura d’aria,
immaginate una linea infinita, entrate nel mio Placentarium,”teatro pneumatico per balletti di luce, di gas ecc…”, che non realizzerà.
La serietà del gioco: spostare la figura del sorridente,
paffuto Manzoni, giovane, sempre giovane, fuori da una cornice forse troppo seriosa, per restituirgli quel senso del divertimento,
quella coraggiosa libertà del gioco che è parte non trascurabile della scoperta
e della creatività.
Aprile '14 G.C.
Torino 1969. Mostra:
“Il sacro e il profano nell’arte dei simbolisti”. Il
presentatore Luigi Carluccio scriveva: “Abbiamo accettato come un dogma di fede
che l’arte contemporanea, cioè quella che dovrebbe esprimere…una secolare stagione
di crisi, si specchia nell’inerte felicità del mondo pittorico
degli impresionisti”, quando invece questa felicità “è quasi un accidente…
(nel) campo tanto più vasto delle zone
che solo per contrasto chiamo zone dell’ombra”, quelle degli “uomini fragili, nervrotici, insoddisfatti; facili
prede delle esaltazioni e delle cadute”.
Le ultime opere riprodotte nel catalogo della importante esposizione erano quelle di Gustav Klimt.
Da allora sono passati vari anni e varie Biennali. Gli
architetti guidano i più espliciti cambiamenti nell’ambito del cosiddetto postmodernismo. Negli Usa Robert Venturi, Michael Graves,
Charles Moore. In Inghilterra James Stirling. In Italia Paolo Portoghesi cerca
di tirarne le fila con la Biennale di Architettura, Venezia 1980, “La
presenza del passato” e le diverse
facciate della “Strada Novissima” firmata da vari architetti, allestite negli spazi restaurati
dell’antico Arsenale. La “Strada” sarà replicata a Parigi e a
San Francisco.
Ma già nel ’63, con il “Mito asburgico” di Claudio Magris,
si era cominciato a rivedere il passato. Parigi aveva da un pezzo
perso la sua centralità, a cui pretendeva New York. Inutilmente, perché il
mondo non riconosceva più nessuna guida capitale. Dal presente, allegramente
smarrito, lo sguardo retrospettivo era, è diventato più adatto, più sensibile a scorgere la
molteplicità anche in quel tumultuoso vortice di rinnovamento che aveva interessato il mondo, specialmente
europeo, tra Otto e Novecento. Le capitali della cultura erano molte: accanto a
Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Berlino,
Mosca, Monaco, Vienna… Anche il
concetto di “Avanguardia”
sfuma la sua radicalità e militarizzazione. I diversi centri, pur avvicinati attraverso grandi iniziative internazionali,
mostre, spettacoli, concerti, riviste, manifesti, grandi magazzini, rimanevano
purtuttavia legati ad abitudini, rapporti
sociali, forme educative peculiari e distanti. Le rivoluzioni del ’48 avevano avuto un significato ben diverso a Parigi e a
Vienna. Così come la rivolta contro il
comformismo era differente se espressa da un anarchico apolide oppure da un
borghese benestante, magari cittadino di
un Impero multietnico. Invece le mode del giapponesismo e dell’Art Nouveau o Iugendstil, la linearità nervosa, il colpo di frusta,
schioccata sul mobile, sulla parete,
sulla tela dipinta, anche se con qualche anno di differenza, trionfano
ugualmente a Londra come a Parigi, a Bruxelles come a Berlino, a Monaco come a
Vienna. Insomma differenze e uniformità, lontananze e vicinanze sono compagne
di strada.
Erano le premesse che mi parevano necessarie per iniziare il
discorso su Klimt, non certo poco conosciuto in quell’Italia che visitò più
volte, sia da giovane curioso dei mosaici di San Marco a Venezia e ancor più di
quelli di Galla Placidia a Ravenna, che da adulto alla Biennale del 1899 e del
1910 (acquisto della ‘Giuditta’) e
alla esposizione romana del centenario del 1911 (acquisto del ‘Le tre età della donna’). E ora, dopo un
lungo intervallo, al culmine della sua mondiale popolarità. Non per questo di
facile comprensione. Ben venuta perciò una mostra che intende mettere in luce l’esordio di questa complessa
personalità: ‘Klimt.
Alle origini di un mito’, Palazzo Reale, Milano, sino al 13 luglio.
Catalogo 24ORE Cultura. Cercherò di
sottolinearne soltanto alcuni aspetti (e già andrò troppo poer le lunghe).
Gustav Klimt,
secondo di sette figli, nasce il 14 luglio 1862 a Baumgarten, un sobborgo di
Vienna. Il padre Ernst, originario della
Boemia, è un orafo incisore, la madre Anna ama la musica e il canto. Nel 1877
Gustav e il fratello Ernst si iscrivono alla
“Scuola d’arti e mestieri del Museo austriaco per l’Arte e l’Industria”
e sotto la direzione dei loro maestri
eseguono pitture e decorazioni nei grandi
palazzi del Ring, L’Anello. Si tratta della imponente ristrutturazione
‘simbolica’ del centro città, con il Rathaus, il municipio, in stile gotico,
il Reichsrat, il Parlamento, in stile
neoclassico, l’Università, in stile
Rinascimento e il Burgtheater, in
stile barocco. Un collage storicista voluto e finanziato da una nuova
borghesia, rispettosa del rigido potere imperiale, attiva, individualista, affascinata
dalla creatività artistica. Molti ebrei, ‘liberati’ (ma non del tutto) dal 1867, ne fanno parte. L’ io non è uno, ma doppio, triplo, multiplo. Lo scrive un dottore
non ancora molto conosciuto. Fatica a trovare il posto a cui aspira, il dottor Freud. Ma il gusto estetico abbandona presto i
facili attaccamenti al passato, propri del Ring.
Il futuro è incerto. La dinamica sociale è in costante movimento. L’impenetrabilità
delle caste aristocratiche, la litigiosità delle pretese etniche, la minaccia
dei gruppi sociali emergenti, operai,
artigiani, slavi, antisemiti, mette in crisi la tranquillità borghese (in
realtà mai esistita). Il rifugio nella psicologia e nell’arte non dà i frutti
sperati. L’erotismo non è la pacificazione del desiderio. La frattura, la
contraddizione, la inconciliabilità diventa un mobile stato di fatto. Non c’è ingegneria sociale che
possa venire in soccorso. Non è la debolezza, ma la ricchezza di questa cultura..“Dobbiamo congedarci dal mondo
prima che crolli…Sono i poeti a interpretare questo sentimento indefinibile”
(Hugo von Hofmannsthal 1905).
Dopo questa breve premessa posso tornare ai due fratelli
Klimt che, terminati gli studi, decidono
di fondare, insieme all’amico Franz Matsch, una propria ‘Società’, la ‘Künstler-Compagnie’ che lavora negli
edifici del Ring ancora coi caratteri ‘storicistici’. L’essere
parte di un gruppo sarà attitudine costante di Gustav.
Nel 1892 muore il fratello Ernst, lasciando una figlia,
Helene Emilie, di un anno, di cui Gustav
viene nominato tutore. Nello stesso ‘92 era morto il padre. La Compagnie si soglie e Gustav Klimt entra
in un grave periodo di depressione. Helene, crescendo, rimarrà affettuosamente vicina al suo tutore, insieme ad un lungo legame intellettuale e amoroso,
documentato da un fitto epistolario, con la cognata Emilie Flöge, animatrice di un raffinato salone di moda, la “Casa piccola”.
Gli Jungen, i giovani dell’Associazione degli artisti vogliono un cambiamento, una separazione dai vecchi, una Secessione. Gustav Klimt è con loro. Il passato ora è la Grecia dei miti, Athena e Teseo (Edipo per Freud). Teseo ammazza il Minotauro. 1898, Il nuovo spazio è come un tempio. Lo progetta Josef Maria Olbrich , lo finanzia l’industriale Karl Wittgestein. Sulla facciata la scritta: “A ogni tempo la sua arte, a ogni arte la sua libertà”. La cupola è un tripudio di foglie dorate. Ver sacrum è il nuovo annuncio. Sul primo numero della rivista Klimt disegna NUDA VERITAS. Ne farà un dipinto provocante, anche nella citazione da Shiller: “Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia a pochi. Piacere a molti è male”. E’ l’attacco esplicito alla vecchia cultura, ai suoi nemici. La dea greca si è trasformata in una donna il cui erotismo si spande dalle carni fosforescenti ai lunghi capelli ondulati, al pube, alle onde del fondo azzurro, agli steli dei fiori, alle spire del serpente. Tiene in mano uno specchio vuoto. Sei diventato invisibile oppure sei invitato a specchiarti? O a trasformarti, assorbito dagli occhi di lei? O da quelli del serpente? Verità e nudità si confondono. E’ la nudità che corrisponde alla verità o la verità che è svelata? "La verità è fuoco...che illumina e arde". Conoscenza e vita, linguaggio e passione, parola e desiderio, ambiguità allucinatoria. La crisi non è la perdita dei compagni ma la perdita della certezza. Il sesso è insieme il fascino e la paura di questa perdita. Un vortice che esplode e implode.
Gli Jungen, i giovani dell’Associazione degli artisti vogliono un cambiamento, una separazione dai vecchi, una Secessione. Gustav Klimt è con loro. Il passato ora è la Grecia dei miti, Athena e Teseo (Edipo per Freud). Teseo ammazza il Minotauro. 1898, Il nuovo spazio è come un tempio. Lo progetta Josef Maria Olbrich , lo finanzia l’industriale Karl Wittgestein. Sulla facciata la scritta: “A ogni tempo la sua arte, a ogni arte la sua libertà”. La cupola è un tripudio di foglie dorate. Ver sacrum è il nuovo annuncio. Sul primo numero della rivista Klimt disegna NUDA VERITAS. Ne farà un dipinto provocante, anche nella citazione da Shiller: “Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia a pochi. Piacere a molti è male”. E’ l’attacco esplicito alla vecchia cultura, ai suoi nemici. La dea greca si è trasformata in una donna il cui erotismo si spande dalle carni fosforescenti ai lunghi capelli ondulati, al pube, alle onde del fondo azzurro, agli steli dei fiori, alle spire del serpente. Tiene in mano uno specchio vuoto. Sei diventato invisibile oppure sei invitato a specchiarti? O a trasformarti, assorbito dagli occhi di lei? O da quelli del serpente? Verità e nudità si confondono. E’ la nudità che corrisponde alla verità o la verità che è svelata? "La verità è fuoco...che illumina e arde". Conoscenza e vita, linguaggio e passione, parola e desiderio, ambiguità allucinatoria. La crisi non è la perdita dei compagni ma la perdita della certezza. Il sesso è insieme il fascino e la paura di questa perdita. Un vortice che esplode e implode.
Le due figure femminili che ne approfondiscono il
significato sono le due ‘Giuditte’, una del 1901 e l’altra del 1909. Giuditta con la testa di Oloferne, che appena appare nell’angolo in
basso a destra, ricordata anche come Salomé
dal dramma di OscarWilde/Richard Strauss, passa dal fascino seduttivo della
prima versione alla crudeltà grifagna della seconda, assorbimento e minaccia
della castrazione. “Viens-tu du ciel
profond ou sors-tu de l’abîme” (Baudelaire). La trasparenza acquatica delle carni della prima si raffredda nei labirinti, nei
tagli giapponesi della seconda. La presenza della decorazione, rigida e
luminosa, isola, assedia, conserva, sega, ripone il fremito dei visi, il
tremito delle mani, carezza e graffio.
Una contraddizione fastosa che l’artista sviluppa con gioia e sofferenza. Cielo
e abisso.
Sembra
che Klimt attendesse l’arrivo del ‘900 per compiere la sua virata più
impegnativa, che coincide con la commissione ministeriale per dipingere il
soffitto dell’Aula Magna dell’Università. Soggetto: Filosofia, Medicina,
Giurisprudenza. I committenti si aspettavano il trionfo della ragione, le conquiste della ‘Scienza’. Ma il risultato è il contrario: un
mondo che si sbriciola in profumi velenosi, in abbracci disperati, in rimpianti
inconsolabili. Altro che natura regolata
dalla cultura dei ‘professori’! Un moto
ascensionale fluido e viscoso trascina,
succhia corpi nudi e indifesi. Nonostante la Kunstwollen di Riegl, “a ogni tempo la sua arte”, e la difesa dei
docenti guidati dallo storico Franz Wickhoff, i lavori vengono rifiutati. Klimt
li ritira e restituisce il suo onorario. Saranno esposti con successo in giro per il mondo. Trasportati
infine nel castello di Immendorf,
verranno distrutti da un incendio nell’ultima guerra. Rimangono
le riproduzioni fotografiche in bianco e
nero.
La Medicina.
Nella
figura di primo piano, Hygeia, che, separata fondo, si rivolge al
pubblico con un atteggiamento di sfida,
regge un serpente dalle spire geometriche cui fornisce una bevanda nel calice
che tiene con l’altra mano. Dietro di lei sale il flusso dei corpi doloranti
guidati dalla morte. A sinistra si stacca, sospeso, provocante, il corpo nudo
di una donna, la guarigione.
La
Giurisprudenza.
L’atmosfera
cupa ritaglia le figure avvolte da filamenti astratti. Al centro l’uomo
colpevole è imprigionato dai tentacoli di un enorme polipo: la coscienza? E’
circondato da tre inquietanti figure femminili, le tre Parche o Moire, due
tirano il filo della vita, la terza,
Atropo, lo taglia. Da un piccolo spazio si intravedono le teste dei giudici. In
alto, su di un piano diverso dello scenario, due donne, La Legge e la Verità,
affiancano Il Diritto. Nulla incoraggia
l’affermazione di quel lontano idolo, rigido nella sua geometrica
decorazione.
Il rifiuto dei politici e dei burocrati determina una svolta in Klimt. C’è ancora un gesto semipubblico nell’ambiente amico della Secessione, Il Fregio di Beethoven (anche riprodotto nella attuale mostra). Si tratta di un’opera pensata nei minimi particolari e sviluppata con grande suggestione narrativa, in occasione di una imponente festa musicale intorno alla statua del musicista scolpita da Max Klinger. La funzione è aperta con la Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Gustav Mahler, che alcuni vedrebbero anche nella figura del guerriero del ‘Fregio’. L’arte come totalità, architettura, pittura, scultura, musica. “Le arti ci conducono nel regno ideale, dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta, l’amore assoluto” (Klimt). Il piacere estetico come risoluzione delle contraddizioni individuali e sociali. Si scatena la solita polemica. No, l’arte non può fornire soluzioni collettive né spezzare poteri costituiti. Non c’è spazio pubblico per l’artista. Il privato è il suo rifugio.
Dalla sinfonia alla musica da
camera. Nel
suo studio, coperto da un camicione monacale, Klimt, ricercherà
soltanto singoli interlocutori, o meglio, singole interlocutrici. Di
nuovo, un gruppo protettivo di amici e amiche. Non mancano riconoscimenti
importanti a Vienna e nelle altre capitali d’Europa. E, nello stesso tempo,
cresce lo spazio decorativo, si moltiplicano
cerchi, quadrati, spirali, ondulazioni, punte, occhi, vetri colorati,
inserti diversi, argento e oro, tanto oro.
Il bacio, 1907-1908
part. Fregio Palazzo Soclet
Ne ‘Il
bacio’ la coppia cresce quasi in
bilico sull’angolo del prato fiorito.
Ne ‘Il
Compimento’ la coppia
risponde alla figura di sinistra, ‘L’Attesa’,
uniti dalle volute de L’albero della
vita. Sono le pareti della sala da pranzo del palazzo costruito a Bruxelles
per l’industriale Stoclet da parte di Hoffmann e degli artisti della Wiener
Werkstätte. Non delle figure singole, come ne ‘Il bacio’, ma un intervento ambientale, come nelle pitture
rifiutate per l’Università, senza però narratività emotiva, senza sfondo. Una
decorazione parietale è una decorazione, e basta. La donna de ‘L’Attesa’, nel suo accentuato giapponesismo,
è di una inespressività gelida. Nella
invasione decorativa, la coppia mantiene a stento, in una piccola striscia, un’accenno
del viso e della mano di lei e della
schiena e nuca di lui: una inclinazione, un reciproco sostegno che sa più di morte
che di amore, di soddisfazione, di ‘compimento’.
Qui Klimt si rende conto che la decorazione, pur ricca di una sua specifica
narratività (la ripetizione, il
contorno, l’interruzione, la pluralità materica ecc.), non basta. La sua
rigidità e invasività va interrotta, contraddetta con la sfumatura, il palpito, lo
sfondamento della espressività. Il ritorno successivo ai ritratti e alle figure
simboliche (Bisce d’acqua I e II, Danae, La Vergine, il finale Adamo
ed Eva) restituirà un respiro, un calore di carne e di sguardi, circondati però sempre dalla minaccia (o dal
trionfo) dell’intrigo decorativo, cosmicità fluttuante o/e gelida impronta di
morte. ‘Il bacio’, a lungo elaborato,
ne è un massimo esempio, là dove l’impronta decorativa si moltiplica e si sfalda,
là dove il palpito della carne si racchiude e si esalta.
Contraddizione
magnifica. L’immobile, ricca, forte, debordante decorazione è una minaccia, non
un trionfo; il viso trasparente, smunto, la mano rattrappita, lo sguardo spento
è ciò che rimane della vita.
“Dobbiamo congedarci
dal mondo prima che crolli”.
Gustav Klimt muore a 56 anni colpito ad un ictus cerebrale il 6 febbraio 1918. Lo stesso anno in cui finisce un mondo, non solo la guerra.
[marzo 2014]
***
UNA RAGAZZA TROPPO SOLA
Una mostra dedicata a ‘Vermeer.
Il secolo d’oro dell’arte olandese’ con otto quatri di Vermeer (su di un
magro numero totale di 37 pitture) era stata aperta con successo alle Scuderie
del Quirinale, Roma, settembre 1912-gennaio 1913 (me n’ero occupatonell’Odissea
cartacea) e ora si ripresenta a Vicenza un soggetto simile, febbraio-maggio
1914, a cura di Marco Goldin e Linea d’ombra,
col titolo “La ragazza con l’orecchino di perla” e il sottotitolo “Il mito della Golden Age. Da Vermeer a
Rembrandt. Capolavori dal Mauritshuis”. Tralascio la descrizione della
esposizione in corso, a parte la dicitura di un ‘Rembrandt’ dopo un ‘Vermeer’,
nonostante Rembrandt appartenga ad
una generazione precedente (l’uno è del 1606, l’altro del 1632); questa seconda
mostra esp0ne solo due quadri di Vermeer, anzi, considerando ‘Diana e le sue ninfe’ un’opera giovanile estranea al suo
stile più noto, uno soltanto è il quadro che dà titolo a tutta l’iniziativa: “La ragazza con l’orecchino di perla”. Si
vuole cioè fare di questo piccolo ritrattto, cm. 44,5 x 39, un unicum, un
miracolo che sta per conto suo, nonontante che, nel catalogo, il presentatore
scriva, a p. 218, che “dipinti di questo genere, definiti “tronie”, non
miravano a raffigurare modelli specifici … ma presumibilmente lo studio di un tipo immaginario”
(neretto mio). Dello stesso Vermeer ne rimangono altri esempi, come “Ragazza con velo” o “Ragazza con cappello rosso”
.
La particolarità del vestito o del copricapo o della perla era comune in questa serie di ‘esempi’, molto richiesti
dalla clientela. Ma, al di là delle abitudini mercantili, un singolo quadro
difficilmente può avvicinare lo spettatore – che non sia già un conoscitore - al
lavoro, alla qualità, al significato di un autore, di qualsiasi autore. Giusto inserirlo nel suo ambiente,
come fa la mostra vicentina, le ricche collezioni del Mauritshuis dell’Aia, ma
fuorviante insistere su di un’opera singola, come già accaduto a Bologna, da cui proviene, trasformarla in
un mito, una superiore estraneità, che le fa perdere quella ricchezza
ambientale, quel percorso che infine la distingue. Strumenti musicali, carte
geografiche, rispecchiamenti, scritture, tendaggi, pavimenti quadrettati, luci
soffuse, sguardi (in)discreti, questi sono l’accompagnamento silenzioso di quel nitore incantato che Vermeer ci ha trasmesso. “Una ragazza troppo sola”.
Isolare una singola opera, farla diventare un marchio pubblicitario, uno slogan
televisivo non è soltanto deformare uno
stile, ma svilire l’opera stessa. No, non mi
pare un buon modo di invogliare, stimolare la comprensione, anche solo
un inizio di comprensione.
24 marzo, G. Colombo
24 marzo, G. Colombo
LÉGER, LA SCOMMESSA DEL LINGUAGGIO REALISTA
La città, una
comunità organizzata sotto un unico principio o potere, il papa, un
principe, un sovrano, dipinta e diffusa da mani esperte di incisori e maestri
illustri, la imago urbis esposta al
Museo Correr di Venezia, ‘L’immagine della città europea dal Rinascimento
al Secolo dei Lumi, e la città moderna, dalle mille facce, invasa dai soffi
dei fumi e dai rimbombi dei motori, ciò che segue ai ‘Lumi’ dell’intelletto settecentesco per diventare i ‘lumi’
, la luce dell’energia elettrica. Ecco allora la seconda mostra del Museo
Correr: Léger 1910-1930. La visione della città
contemporanea. Entrambi le
esposizioni aperte dall’8 febbraio dal 2 di giugno.
Ed è su questa seconda città che vorrei fermarmi.
Ed è su questa seconda città che vorrei fermarmi.
La città non è il luogo in cui si raggiunge un centro fisso
e predominante, chiesa o palazzo, ma un sistema di ‘flussi’ incanalati da
“arterie” e “vene”, secondo la
terminologia seicentesca del “De
motu cordis” di William Harvey. Il
movimento segna la nuova città: si arriva e si parte, i luoghi si
moltiplicano, le periferie si allargano, gli edifici del potere si
allontanano dai centri, sovente poco affidabili. Basta sfogliare le pagine di
Henry Mayhew o di Dickens, oppure le incisioni di Doré sulla Londra
ottocentesca, invasa da carrozze e carretti tirati da cavalli, colmi di sacchi,
che si trasportano su e giù dai magazzini, abitata da venditori ambulanti, ladri,
prostitue, straccioni e mendicanti rissosi, strade maleodoranti… Insomma la
Londra vittoriana descritta dalla sua immensa letteratura. Ma intanto il mondo
muta rapidamente. I cavalli diventano cavalli-vapore, i treni sbuffano nelle
nuove stazioni (ancora) in stile neogotico, le lampadine di Edison a filamento
di carbone sostituiscono la illuminazione a gas, sui nuovi viali si aprono café-
chantans, caf’conc’, caffè
concerto, cabarets, bistrots, gallerie, vetrine. Gli artisti si
ritrovano in luoghi deputati, Montmartre, Montparnasse. Grandi magazzini
offrono di tutto. Au Bon Marché a
Parigi (Zola gli dedica “Au Bonheur des dames”), Harrods a Londra, Macy’s a New York. Il ‘dentro’ e il ‘fuori’, l’interno e l’esterno
si scambiano le parti. Dalle fiere internazionali si levano in volo palloni
aerostatici, dai quali la macchina fotografica riprende panorami mai visti
prima. Nella e Esposizione Universale del Centenario, quella del 1900 a Parigi,
il visitatore può salire con scale mobili, muoversi su tapis
roulant, vedere films sonori, ammirare la potenza dei motori e i miracoli
della elettricità, che già avevano animato i
veli nella “danza serpentina” di
Loïe Fuller. E può pure, questo visitatore, sentire notizie e musica dalla
radio, parlare al telefono, attraversare
la città con la prima linea della sotterranea ‘metropolitana’. Già al suo sorgere, a metà
del secolo, Baudelaire aveva amato “la
transitorietà, la fuggevolezza, la contingenza” della vita moderna.
1900, è l’anno nel quale il diciannovenne Fernand Léger
arriva a Parigi dal suo paese in Normandia. Macchinismo, velocità, movimento, simultaneismo
sono gli interessi della nuova pittura che sviluppa una grammatica
genericamente cubista: negazione della rappresentazione naturalistica, scena
multipla, scomposizione dell’oggetto, libertà ricompositiva. Permane la
tensione tra spinta soggettiva e intenzione oggettiva, tra emotività e indifferenza. Da una parte la
espressività dei Futuristi o la liricità di Kandinskij e Delaunay, dall’altra
l’oggettività di “De Stijl”, di Mondrian o di Van Doesburg. La spinta verso l’oggettività, la sola superficie
colorata, è la sparizione della pittura,
il muro; la spinta della soggettività è la spiritualità smaterializzata. Ma
attenzione, sia Kandinskij che Mondrian
sono interessati alla teosofia di Steiner e della Blavatskij. Una componente
spiritualista nel mondo dell’oggettività. Né manca oggettività didattica nelle
lezioni di Kandinskij al Bauhaus. Dunque le
definizioni vanno sempre prese con cautela.
Robert Delaunaynay, Omaggio a Blérioz, 1914 cm.48 x 46
E Léger? Il suo macchinismo? La riduzione a materia rigida, tubolare, lucida nella formazione dei personaggi è certo carattere sia di Léger che di De Pero. Ma in De Pero c’è il divertimento di un teatrino infantile, di
una macchina scherzosa, che passerà pure ad un illustratore come Rubino. Chissà
se per entrambi c’è un eco de “L’Uomo di latta”senza cuore, da “Il meraviglioso
mago di Oz”. Ma in Léger non c’è scherzo, e neppure c’è vicinanza con
le macchine di Duchamp e Picabia, macchine contraddette,
sfottute da un titolo, da una scritta: la ben nota “Mariée mise a nu par ses célibataires, même”, o di Picabia uno
stantuffo intitolato “Fille née sans mère”
. Un ingranaggio rotante nel manifesto di Léger per il film “La Rue” (1920) di Abel Gance è una
composizione perfetta di cerchi e lettere che si legge e si ammira così com’è,
senza sottintesi più o meno ironici.
Certo, il ‘com’è’ va
letto come un meccanismo rotante che indica, simil- orologio, e vanno lette
anche le lettere di contorno, LARUE
ABELGANCE. Dico ‘letto’, perché si tratta di un linguaggio
autorappresentativo. Il riferimento esterno è il modello pubblicitario, ma
perfezionato, integrato in una coerenza interna
che appartiene a quello che Léger intende come “legge dell’equivalenza”. E qui viene in aiuto una citazione di
Michel Foucault, introdotta nel bel
saggio di Anna Vallye nel catalogo della mostra: “Il grande valore del
presente è indissociabile dall’accanimento con cui lo si immagina… diversamente
da com’è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che
è...Una libertà che rispetta quel reale e, al tempo stesso, lo violenta” (p.
51). Un certo tipo di realismo. “Uso
di proposito la parola realistico – scrive Léger – nella sua accezione più propria. Giacché la qualità di un’opera
pittorica discende direttamente dalla sua quantità di realismo” . E
prosegue: “Solo il realismo di tipo
concettuale è capace di realizzare…gli effetti di contrasto”, quegli
effetti che garantiscono la equiparazione tra pittura e vita. Le proprietà
della pittura, linea, forma, colore, devono essere sottoposte alle opposizioni
più nette, con il risultato di un “contrasto multiplo” dalla intensità
moltiplicata. Di una scena metropolitana abituale non si darà una falsa
ri-produzone, secondo la visibilità morta tradizionale, ma se ne catturerà un equivalente del suo “spirito creativo”.
Fernand
Léger, Fumatori 1911
Fumo, fumatori, tavoli, tetti, comignoli, alberi sono
tagliati, incastrati, sovrapposti in contrasto secondo una tecnica di origine
cubista, non lontana da quella usata da Severini. Dunque si tratta di un
realismo diverso dalla geometria semplificata di Mondrian che vorrebbe
annullare la differenza tra dipinto e ambiente. L’ambiente mosso, rotto,
rumoroso, confuso della città moderna non è trasponibile come tale, sarebbe
impossibile. Si tratta invece di una trasformazione linguistica, l’uso di un
segno che si riferisce a qualcosa d’altro e di un interprete al quale il segno
si rivolge. Se il colore può diventare muro, la città non può diventare pittura se non si trasforma in linguaggio.
Si tratta perciò di individuare il tipo di linguaggio ‘realistico’ che poco per
volta Lèger inventa e modifica, un linguaggio anti-soggettivo, privo di
emozioni, pieno di oggetti pesanti, che hanno i bagliori del metallo, la rotondità del tubo, la forma, la
forza dell’ingranaggio.
La figura umana partecipa di questa oggettività, è parte dell’ingranaggio, ma
senza senso diminutivo o deprecatorio, dove invece l’uomo è stritolato dalla
macchina. Anzi, con la serenità di far parte intrinseca di una gioiosa
trasformazione che si chiama modernità.
E’ tempo di guerra, Léger è sotto le armi, ma non siamo in presenza di cannoni o bombardamenti, che i futuristi italiani dipingono, ma di giocatori di carte e fumatori di pipe. Una pausa di pace. Il soldato-robot è simile a qualsiasi altro meccanismo, come il gioioso uomo-macchina del tipografo del ’19, ormai nel dopoguerra, quando l’uomo è sì una macchina, più macchina del soldato, ma non per distruggere o essere distrutto, ma per diffondere notizie di pace e di allegria. La persona-macchina è asettica, inespressiva, batte i colpi dello stantuffo, non del cuore, è macchina particolare, con i suoi tagli rigidi, come ne “Il tipografo” o “Uomini in città”, oppure riprende, in calme ondulazioni, chiare sembianze umane, però nella veste altrettanto inespressiva dei bambocci, come in “Composizione con tre figure”.
F. Léger, Uomini in città 1919, cm. 145,7 x 113,5
F.Léger -Il tipografo 1919
Qui le forme si addolciscono, perdono il ferro, ma rimangono
nella lontananza del burattino, non per
il gioco di De Pero, ma per la tranquillità degli oggetti, di tutti gli
oggetti, non solo quelli della meccanica, ma pure quelli della vita comune, fiori,
corda, legni, stoffe. E oggetti umani inaffettivi (con affetti simulati) sono
quelli dello spettacolo di Léger, nel teatro e nella pellicola cinematografica.
Già, perché i nuovi mezzi del teatro, della
danza ( con i Ballets suédois),
del cinema (con Dudley Murphy), là dove
la figura umana potrebbe riprendere, sulla propria pelle, la propria biologia, i
battiti del cuore, Léger la tratta invece
come scenario mobile, imprigionando i corpi “in strutture sovradimensionate e
rigidamente geometriche, che si muov(ono) piano sul palcoscenico, creando uno spettacolo in cui tutto si incentra sulle
macchine, e sui giochi di luce” (Ibd. p.
33). Cioè la realtà visiva animata
che le tecniche dello spettacolo potrebbero consentire, viene trasformata nella realtà linguistica del meccanismo,
dell’oggetto meccanico. Insomma ‘la
pittura’ del mondo meccanico corrisponde, è l’equivalente della vita nella città moderna, di quell’enorme
e tumultuoso e affascinante meccanismo che è la città moderna.
|
F. Léger, progetto di sipario per Skating Rink 1922, cm. 40,6 x 47,6
La soggettività dei sentimenti non ha posto nella scena teatrale come nel tipografo o nel lavoratore in generale. Il cuore non batte nella figura del fabbricatore, dell’operaio
che costruisce il nuovo mondo, figura che Léger svilupperà specialmente negli
ultimi decenni della sua attività.
Ma forse anche questo progetto si fondava
su di un sentimento, il sentimento della speranza.
“IO PROTESTO”, E VOI?
Sul Corriere della Sera del 19. 02. 2014 a
firma di Guido Santevecchi, comparivano
due serie di fotografie che raccontavano la la vicenda di due artisti. Il
primo, Ai Weiwei, è un artista dissidente cinese, molto noto nel mondo,
presente all’ultima Biennale di Venezia, chiesa di Sant’Antonin, con dei ‘teatrini’ che ricostruiscono l’interrogatorio
e la sua detenzione in carcere. Nell’opera qui riprodotta (sempre dal Corsera), esposta al museo di Miami,
sono collocate in primo piano sedici antiche urne Han sulle quali
gocciolano i colori aggiunti da Weiwei , “Coloured Vases”, dietro alle quali l’autore, fotografato in tre grandi pannelli, lascia cadere un altro
vaso antico che si frantuma a terra: “Dropping
a Han Dinasty Urn”. Antico-moderno, fragilità della conservazione etc…
Il secondo, l’artista di origine dominicana residente a
Miami, Maximo Caminero, alla vista di quell’opera, “ci ho letto
- afferma – una forte provocazione intellettuale e ho voluto replicare
la performance di protesta”, rivolta ai curatori del museo che privilegiano autori stranieri
rispetto ai creativi locali. Un altro vaso antico in frantumi. Caminero è
stato arrestato e rischia un processo. Weiwei
non l’ha presa bene: “E’ stato un
artista, allora non va bene, nessun
artista ha il diritto di rovinare l’opera di
un collega”.
Teniamo conto che Weiwei non è un artista qualsiasi. Dopo essere stato
acclamato con opere come il “nido d'uccello" per lo stadio dei Giochi Olimpici di Pechino 2008, ha passato un periodo di carcerazione e gli è stato ritirato il passaporto per le critiche alla mancanza di libertà nel suo Paese. Ora io mi chiedo e vi chiedo: è ammirevole distruggere
documenti antichi e preziosi, anche se di mia proprietà, a scopo dimostrativo, scopo,ovviamente, in sé lodevole? E’ criticabile, con conseguenze penali, un artista che ripeta un gesto
effettuato da un altro artista, spostandone il significato?
[marzo G. C.]
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SAN GENNARO, IL TESORO
DI NAPOLI RITO E RITMO
Matteo
Treglia, Mitria con infule 1713,
argento dorato, diamanti, rubini,
smeraldi, granati
La mostra “Il Tesoro di Napoli – I Capolavori del
Museo di San Gennaro”, aperta
sino al 2 marzo presso la Fondazione
Roma, Palazzo Sciarra, è un buon motivo
per alcune riflessioni sulla devozione popolare e le sue più radicate
manifestazioni, con l’aiuto del catalogo
Skira e i testi dei curatori Paolo Jorio e Ciro Polillo. San Gennaro e Napoli, un legame indissolubile
“tra il santo protettore e le pulsioni psicologiche di un popolo periodicamente
minacciato da catastrofi naturali” e artificiali (P. Jorio). E, tra tutti, il
Vesuvio, il “Vesevo” leopardiano che “Dall’utero tonante / Scaglia al ciel,
profondo / Di ceneri, di pomici e di sassi / Notte e ruina…”.
Il dono e la risposta.
Il dono e la risposta.
I doni per
propiziarsi le grazie del santo, preziose teche, smeraldi, diamanti, busti,
sculture sopraffine che re, duchi, potenti e impotenti hanno accumulato nei
secoli, il Tesoro di San Gennaro.
La risposta, il miracolo, il sangue di San Gennaro di
nuovo vivo, mobile, liquefatto. Solo per la festa. Ritornerà fermo, duro,
spento, notturno, morto per poi, al
richiamo dei fedeli, al sorgere dell’anno dopo, di nuovo gocciolante, caldo,
energico, luminoso. Ciclo cosmico e umano, come
le stagioni, come i giorni e le
notti, la luce e il buio, come la morte e la rinascita, l’amore e l’odio.
Etienne
Godefroy, Milet d’Auxerre, Guillaume de Verdelay. Busto reliquiario di San Gennaro, 1305
L’incontro di due
storie.
La prima, la storia di San Gennaro. Già nel nome, Ianuarius, gennaio, come Giano bifronte,
fine di un anno e principio di un anno nuovo, sempre uguale e sempre diverso. La
sua riconoscibilità visiva è incerta. Il
busto viene cesellato mille anni dopo la
sua morte. Il volto è più una soglia che una scena. L’espressione inventata,
fatta uscir fuori (ex-pressio) dai
pittori e dagli scultori-orafi si ri-volta all’indietro, entra dentro,
sprofonda: mi sta di fronte nella sua inconoscibilità, nella sua diversità, un
Dio nascosto (E. Lévinas, citato da Jorio). San Gennaro ha tanti volti, “uno,
nessuno e centomila”; non tutti lo riconoscono, occorre pazienza, pregiera,
blandizie perché metta in moto la sua forza misteriosa, questa sì unica.
Manifattura napoletana, Croce episcopale 1878,
Oro, diamanti e smeraldi
Vengo alla sua vicenda. Quarto secolo, il secolo dell’imperatore Diocleziano, persecutore dei
cristiani. 305, Gennaro, vescovo di
Benevento, si reca verso capo Miseno per incontrare dei confratelli. E’
zona vulcanica: fiamme, soffi, scosse, borbotii. Il gruppo dei cristiani, tutti
insieme presi prigionieri, vengono condannati a essere sbranati dai leoni
nell’anfiteatro di Pozzuoli. Ammansiti magicamente i felini, il vescovo viene
decapitato nella vicina solfatara, Forum
Vulcani. E’, noi diremmo, un uomo prestante, alto un metro e novanta, ha
poco più di trent’anni. Eusebia, una pia donna, raccoglie in due ampolle il
sangue dal capo mozzato. I resti vengono inumati sul posto, che diventa oggetto
deviozionale. Dovrebbe essere il 19 settembre, che diventerà il giorno miracoloso del Santo. Passa poco più di un
secolo. Giovanni I duca e vescovo di Napoli trasporta i resti nelle catacombe
di Capodimonte. Intorno alla tomba di Ianuarius, al quale si atribuirebbero i
primi prodigi, si sviluppa un grande
complesso cimiteriale, le Catacombe di San Gennaro. Nono secolo, Sicone I, perfido
principe longobardo di Benevento, da
Napoli riporta le ossa a Benevento. Passano i secoli. 1154, il normanno
Guglielmo “il Malo” sposta le reliquie nel Monastero pugliese di Montevergine,
ma a Napoli sono nascosti il cranio e le ampolle col sangue. Altri duecento
anni, 1305 Carlo II d’Angiò commissiona agli
orafi francesi un busto reliquiario in oro e argento. Il figlio Roberto
vi aggiunge una teca dove riparare le ampolle col sangue. Nel 1337 la
prima processione, nel 1338 la prima
liquefazione del sangue, nel 1646 la
inaugurazione della Cappella di San Gennaro, 1341 anni dalla uccisione del vescovo
Santo! Una lunga vita da morto e un morto che si fa periodicamente vivo.
E ora passo alla
seconda storia, la preghiera rituale, e mi riferisco al testo esemplare di Paolo Jorio (pag. 171-175
catal.) “Le parenti: il mito dell’eterno
ritorno”. Le parenti di San Gennaro sono le donne che officiano
il rito del sangue che risuscita. E’ un rito cruento, il sangue di un morto
ammazzato e il sangue di un morto risuscitato. Il tempo come progressione, come
processo, si ferma, è sospeso. Anni,
millenni non contano. Non conta quando sia vissuto e morto il vescovo Ianuarius. E’ diventato “un modello
esemplare” (M. Eliade). Il gesto si
ripete, morte e nascita si richiamano, sempre. Il rito non è un ricordo ma un
fare, far vivere e rivivere. L’officiante è donna, colei che dà la vita. E’ parente di San Gennaro, simile alla
sacralità della morte-vita, parente di Eusebia, colei che conserva e rinnova il
sangue, ma anche mostra (pareo),
chiama alla luce: Jesce sole, jesce sole
nun te fa’ cchiù suspirà! Faccia ’ngialluta facci o’ miracolo! Le parenti
si chiamano per nome dalla strada,
modulano il nome come una melodia; nell’invocazione a San Gennaro battono le
mani, dondolano la testa, un accenno di danza, come nelle antiche
trenodie, e quando il sangue si sciogle alzano il tono, “credo! Credo!” Faccia
’ngialluta è il colore dorato del busto di San Gennaro, è la faccia splendente del sole che sorge dietro il
vulcano, dietro il Vesuvio distruttore,
dietro la minaccia, sopra la minaccia. Le parenti sono eredi delle Prefiche. La
lamentazione funebre si rivolgeva anche alle “anime pezzentelle”, alle anime dei morti di morte
violenta, dei giustiziati. Il Santo decollato è più santo del
santo invecchiato. L’evidenza della morte dà splendore alla vita, il
grumo di sangue è pronto a sciogliersi. Il nome ripetuto, Sangennà, invocato, spremuto è l’appello
(ad pello), la messa in moto, la riapparizione, a suo modo, dello scomparso.
Morte e risurrezione.
Il rito è ripetitivo, la stessa processione, ritmico (sempre
d’accapo, le stesse pause), comunitario, consolatorio: “Tu ‘o vvide e Tu ‘o ssaje
arrimmierece chisti guaje”. Le
parenti siedono in prima e seconda fila
nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, dal giorno che precede la cerimonia
del miracolo, il 19 settembre. Per otto giorni, l’ottavario, seguono
l’esposizione delle ampolle, invocando il miracolo e cantando una antica nenia:
Pe’ lu sanghe e pe’ la testa liberace
d’’e tempeste!.... L’obbedienza
alle regole è la garanzia che funzionano (anche se non sempre il miracolo si
compie, proprio per tener desta la sorpresa).
Non si potrebbero riprendere queste riflessioni senza fare i
nomi che cita lo stesso Jorio, quelli di Mircea
Eliade, Ernesto de Martino e Roberto De Simone.
Ignoto
argentiere napoletano, Santa Maria
Egiziaca 1699. Tre pani, il magro cibo e il segno della Trinità. La mano
destra forse teneva un crocifisso.
Così, riassumendo queste due storie, non mi rimane che
rimandarvi alla mostra romana, alla
Cappella di Napoli e alle belle riproduzioni del catalogo, a dimostrazione di un Tesoro che è tra i più ricchi del mondo.
[Febbraio 2014 G.Colombo]
ESAGERATI GRATTACIELI
VETRO-CEMENTO. ALLAGAMENTI, FRANE, CREPE, CROLLI. DOVE PROCEDERE, COME CONSERVARE
IL PASSATO?
Chi guarda solo al super-nuovo, o,
viceversa, al super-vetero, ha una
visione monca. Ovvio. Ma non è facile bilanciare le due direzioni, che si
richiamano sempre, in diverso modo, l’un l’altra.
Re-staurare ha sempre a che fare col
tempo e col doppio: ri-tornare su qualcosa. Ogni epoca è un ‘post’ di un prima,
si svolge in un suo presente e si rivolge a un suo passato. Ma ‘epoca’ non è
una cosa omogenea, ma una pluralità di cose unite in un certo tempo, e perciò
anche il suo passato è una pluralità di riferimenti. Questo non significa
negare standard prevalenti nei gusti, nelle credenze, nelle memorie ecc.
Premessa, anche questa, ovvia, che mi
serve per ritornare sul tema del restauro, che avevo già affrontato nell’Odissea
cartacea a proposito della città vecchia di Varsavia, distrutta dai nazisti e
ricostruita nel dopoguerra, aiutato
anche dall’interessante studio su “Il
restauro” di Bruno Zanardi, autore ora di un altro intervento su di “Un patrimonio senza” per le edizioni di
Skira, con riferimento, sempre, agli esemplari insegnamenti di Giovanni Urbani.
Uno sguardo ampio sulla conservazione e l’ambiente, tenendo conto delle
profonde trasformazioni che si sono verificate nell’Italia dagli anni ’50 in
poi, con le fratture e gravi ‘dimenticanze’ più recenti: il disordinato sviluppo industriale e la
cementificazione selvaggia. Il dissennato
sfruttamento
del suolo, la speculazione e corruzione diffusa, non certo ridotta, come si
auspicava, con l’avvento delle ‘Regioni’, ma anzi aumentata, capillare e
irrefrenabile, ha messo in piedi un sistema costruttivo-distruttivo ben difficile da sconfiggere, o, per lo meno, da contenere. Lo riscontriamo giorno dopo giorno. Casermoni
abbandonati occupano terreni un tempo agricoli. Basta una piovuta abbondante,
un tremito di terra, e crollano argini e campanili, villette e ferrovie, opere antiche
e nuove. Soffitti vetusti gocciolano, crepe si aprono su pareti illustri,
affreschi sfarinano. Restauratori improvvisati ridipingono, ingabbiano, puliscono,
scoprono, ritagliano, ricoprono.
E Zanardi ne dà, da par suo, terribili esempi.
Ma vorrei aggiungere che contrapporvi un
passato esemplare, edenico, mi pare esagerato.
Leggo nel ‘patrimonio senza’ tutela,
che l’attuale pessima trasformazione
cancellerebbe “la precedente e nei fatti intatta Italia, il Paese rurale e
“senza tempo” la cui morte invano piangerà Pier Paolo Pasolini” (p. 106). E
l’Autore cita Heidegger a sua volta citato da Urbani, circa la tecnica che è
“salvezza” quando consente all’uomo di essere il giardiniere dell’Eden, cioè
colui che custodisce l’essere nascosto di ogni essente, ed essenti per
eccellenza sono le cose della natura e quelle dell’arte” (p. 61). Eppure
sappiamo bene quanto il sano contadino, non certo tenero con le sue ‘bestie’,
al sud come al nord d’Italia, è stato svelto a trasformarsi nel padroncino più
efferato. E ricordiamo pure quanto guerre e politici di ogni tempo e colore abbiano
requisito grandi opere d’arte, per sé, per i propri Musei e collezioni, per
venderle o distruggerle, abbiano chiuso chiese e palazzi illustri, abbattuto
vecchie mura, onorabili strade, per farne boulevard
adatti all’ambizione delle grandi parate, ecc. ecc.
Ma ridurre la nostalgia
del passato non vuol dire accettare le pessime condizioni del presente,
quando si voglia giustamente allargare lo sguardo all’ambiente in cui il
manufatto artistico è situato, il rischio sismico e idrogeologico, il paesaggio
e lo stesso ambiente museale, non sempre idoneo nei suoi recenti ammodernamenti.
E allora qui sì occorerebbe analizzare l’impatto del turismo, sempre invocato,
sulla conservazione dei beni storico-artistici. Zanardi ci ricorda che è
sbagliato paragonare gli introiti del
Louvre a quelli degli Uffizi, facendo presente che l’offerta a Firenze e in
Italia in generale, non si limita ai grandi Musei, ma a tante minori e preziose
collezioni, sparse ovunque (a volte persino troppo ‘sparse’), insieme a chiese,
cappelle, edicole, monasteri, palazzi, residenze, borghi… Rispetto al Museo, mi
pare sia stato giusto affidare a privati certi esercizi supplementari, come il
ristoro e la vendita libraria, ma non l’organizzazione e ristrutturazione di
spazi museali e monumentali, né la trasformazione improvvisata di piazze ed
edifici storici. Il privato punta sempre al grande nome, al monumento famoso.
Non è interessato all’insieme. E così assitiamo alle code chilometriche per un
Raffaello, ‘La Madonna di Foligno’, esposto
nelle sale del Comune di Milano, con sponsorizzazione privata, e la pace
silenziosa del Raffaello esposto nella Galleria di Brera, accanto a Piero della
Francesca e Bramante! Vorrei anche aggiungere quanto sia un calcolo affrettato
puntare sul turismo, un turismo di qualsiasi tipo, come soluzione di tutti i
mali di un Paese, un tempo ‘Bel Paese’, oggi più sbrindellato che bello. Un
accenno aVenezia, e mi piacerebbe che Zanardi se ne occupasse, al di là del
ponte di Calatrava. C’è una gara sui milioni di turisti in città, ogni anno più
numerosi, e il calo degli abitanti veneziani: ancora 60.000? Navi da crociera
sempre più nemerose e colossali, dieci, dodici piani, sfilano nei fragili
canali della laguna e sbarcano in pochi minuti, negli stretti calli, migliaia
di persone, in cerca di un souvenir a poco prezzo, un pezzo di Murano fatto in
Cina, una borsa contraffatta, un giro stanco (dopo una lunga fila) in San Marco
o in Palazzo Ducale, per poi sedersi affaticati su qualche gradino o in groppa
ad una vecchia statua (i popolari Leoni di fianco alla Basilica) per l’ennesima
fotografia o a mordere una fetta di pizza. Musei come Ca’ Pesaro o chiese come la
Madonna dell’Orto (il più eccelso
Tintoretto) vuoti. E, per carità di Patria, non mi fermo a descrivere le
scolaresche ridanciane e vocianti che sfilano indisturbate, tra custodi
annoiati, nei corridoi delle Gallerie dell’Accademia. A suo tempo un Ministro
aveva magnificato il turismo come il petrolio italiano, forse pensando alle
esalazioni di Marghera. Per fortuna vigilano gli amministratori della città,
ben contenti di affidare all’architetto straniero di turno la trasformazione
del Fondaco dei Tedeschi, sul Canal Grande di fianco al ponte di Rialto, in
grande magazzino con terrazzo bar sul tetto, oppure ricavare guadagni dai gigantgeschi
cartelli pubblicitari che foderano il
Palazzo Ducale o le Procuratie del Sansovino. Basta! Queste lamentele rischiano
di oscurare i tanti temi affrontati da Zanardi, a iniziare dal parziale
fallimento della legge Bottai-Brandi del 1939 per la “tutela delle cose di interesse Artistico o Storico”,
il cui impianto, riferito al manufatto
singolo, da restituire nella sua proprietà estetica, poteva essere
accettabile per una prima indagine nell’Italia ancora poco industrializzata, ma
del tutto insufficiente in un Paese
sconvolto dalle distruzioni belliche e dalle ricostruzioni del dopo-guerra. Né basterà
il pur benemerito Istituto Centrale del
Restauro, di cui diventerà direttore nel 1973 lo stesso Urbani, dieci anni dopo però dimissionario perché critico
del nuovo Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, voluto da Spadolini, non in grado di formulare un piano serio di
garanzia nel rapporto tra bene culturale e sistema territoriale. Debolezza
aumentata con i titolari successivi, mai specialisti del settore, come Bondi
(acquisto del finto Michelangelo), Galan, oppure Ornaghi, esperto in Diritto
Internazionale, ai quali si uniscono la debolezza nelle professioni attinenti,
come quella dello storico dell’arte, del
restauratore e dell’architetto, in parte confluiti nelle schiere dei
soprintendenti, responsabili di interventi pericolosi se non dissennati. Alcuni
esempi: durante un restauro complessivo e molto costoso della Cappella
Scrovegni di Giotto a Padova, per cosiddette ragioni di consolidamento, viene
costruito un grosso cordolo di cemento rigido e inamovibile e sostituite le
vecchie capriate in legno con pesanti
capriate d’acciaio, che il fuoco di un incendio fonde facilmente, né
vengono rispettate le norme di sicurezza che vieterebbero la cementificatione
di un’area vicina: Leggo da Zanardi a p.
52: “Nei 143.000 metri cubi di cemento che l’architetto Boris Podrecca ha
piazzato in quell’area ci sono anche due torri alte una 110 (centodieci) metri,
l’altra 80 (ottanta). Ai piedi di tutto ciò si sta scavando una buca larga
circa 12.000 (dodicimila) metri quadrati e profonda una quarantina (quarantina)
di metri dove collocare un migliaio (migliaio) di pilastri in cemento della
sezione di circa 1 (uno) metro quadrato che dovranno sorreggere un garage
ipogeo a due piani con 2000 (duemila) posti auto”. Con tutti i permessi delle
soprintendenze. Rispetto ambientale? E sui restauri inutili la lista è
interminabile. Due casi emblematici e simili, i cosiddetti restauri a pioggia di frammenti, “informe sciame
di farfalle”, briciole raccolte e ricomposte sia sulla vela di Cimabue,
Basilica di Assisi, caduta durante il
terremoto del ’77 e resa peggiore proprio dal
precedente riempimento cementifero nel retrofacciata, che nella cappella
degli Ovetari agli Eremitani di Padova, affrescata dal Mantegna e bombardata
nel ’44. Risultati incomprensibili, costi astronomici, centinaia di frammenti inservibili,
sia sulle pareti che rimasti nelle casse.
E
allora? Tra i numerosi
suggerimentidi di Zanardi ne
riporterei due: primo, la necessità di un catalogo generale del patrimonio
artistico mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio,
in modo da poter usare un sistematico quadro di
riferimento sulle urgenze, le mancanze,
le possibilità di serio intervento e di riuso. Secondo, smettere di eseguire
puliture e ritocchi inutili, quando non dannosi, su opere stranote, ma “mettere le opere d’arte” di ogni grado e
importanza, “ nella condizione di non essere restaurate” (p. 138). E pazienza
se alcune mostreranno i segni del tempo.
Meglio che vantare una fasulla
giovinezza.
Facile
dirlo e scriverlo. Ma Zanardi sa anche muoversi nei labirinti di una
complicatissima burocrazia, non estranea
alle lusinghe dell’onnipotente speculazione edilizia.
Auguri!
Febbraio 2014 G. Colombo
El
Lissitzkij, la complessità esteriore
Nel 1918 la
rivoluzione vittoriosa nomina Marc Chagall, poco più di trentenne, Commissario
per le Belle Arti e direttore della Scuola d’arte nella sua città natale di Vitebsk, il quale a sua volta
invita Eliezer Lissitzkij, lauretao in architettura e già noto come
illustratore e appartenente alla ebraica KulturLige.
Abitanti di Vitebsk, avevano insieme frequentato La Scuola prerivoluzionaria
fondata da Yehuda Pen, un esponente della rinascita ebraica russa, uniti
dall’interesse verso l’arte popolare ebraica (già vicino all’opera
dell’etnografo An-skij, nel 1916 Lissitzkij si era dedicato alla copiatura dei vecchi
dipinti delle sinagoghe Bielorusse), ma
in seguito divisi nel modo di
interpretarla. Indicative sono le illustrazioni che Lissitzkij compone per una
filastrocca ebraica relativa alle festività di Pesakh, “Una capretta”, disegnata
a Mosca e stampata a Kiev, con un occhio ai terribili pogrom del 1918 in Ucraina. E’ lo stesso mondo di Chagall.
Riprendo
queste notizie dall’utile catalogo ed. Electa, che accompagna la mostra, “El Lissitzky. L’esperienza della totalità”,
a cura di Oliva María Rubio, aperta al MART di Rovereto sino all’8 giugno, con
saggi di Valery Dymshits, L. artista
ebraico, di Isabel Tejeda Martín, I
progetti espositivi tedeschi, di Victor Margolin, Da artista d’avanguardia a designer di Stato.
Iniziativa importante,
perché introduce un complesso aspetto della visibilità artistica che esula sia dal racconto
rappresentativo, realistico o fantastico, che dalla interiorità emotiva, quel
colore musicale declinato con tanto acume da Kandinskij. Una visibilità
artistica che si esprime nella metodologia operativa, nel ‘progetto’,
gettar fuori, rendere possibile, termine vicino al neologismo ‘Proun’, adoperato Lissitzkij, che ora, dismesso
il nome Eliezer di cui conserva le prime due lettere, diventa El Lissitzkij.
“Noi chiamiamo ‘Proun’, scrive, la
costruzione di una nuova forma: il quadro inteso come icona per il borghese è
morto. L’artista da riproduttore si è trasformato in costruttore di un nuovo
universo di oggetti”.
Ma vorrei
tornare indietro, al momento in cui Lissitzkij, già invitato da Chagall, invita
a sua volta alla Scuola di Vitebsk Kazimir Malevič, il maestro del ‘Suprematismo’, e insieme decorano per il
1° maggio del ‘20, utilizzando sistemi
grafici astratti, il centro della
città. Il mondo fantastico di Chagall è
accantonato. La collaborazione di Chagall, Lissitzkij e Malevič s’interrompe. Tutti e tre si trasferiscono a
Mosca. La città è in piena trasformazione. Chagall si dedica alla pittura murale, esegue affreschi
per il Teatro ebraico, ma il frastuono delle fabbriche non l’aiutano. Architetti,
pianificatori, pubblicitari guidano i lavori. Entrato in contrasto con i vari ‘costruttivisti’, Tatlin, Rodčenco,
Stepanova, Popova ecc., nel ’22 Chagall ritorna a Parigi. Se ne va pure Kandinskij, che sceglie il Bauhaus
tedesco (vedi il mio intervento precedente). Anche El Lissitzkij predilige
la Germania, senza dimenticare però la lezione del Costruttivismo (dedica una tavola a Tatlin e riconosce agli amici
di Mosca il progresso “nel dimostrare e siegare che la creazione è un diritto
di tutti”). I nostri tre artisti, nei loro spostamenti ad occidente, non
dimenticano la Russia, ma ciascuno la
declina in modo diverso: il sogno del mondo infantile ebraico per Chagall, le
spinte emotive dell’interiorità per Kandinskij, la progettualità per El
Lissitzkij.
Un progetto non è un gesto, ma una espressione linguistica che rappresenta una particolare disposizione di spazi e, quando è operativo, un modo per realizzarli. Rappresenta = l'uso di segni del tipo 'iconico' (C. Morris).
Questo è quanto vorrei intendere per 'esteriorità' complessa in El Lissitzkij.
L''interiorità' riferita a Kandinskij, è pur sempre linguaggio, anch'esso composto di segni 'iconici', diretto ad un altro scopo, la con-posizione di forme/colori secondo le spinte delle energie emotive.
So di adoperare termini come 'esterno'e 'interno' in modo rozzo, ma spero di aver suggerito alcuni aspetti di una differenza che individua due personalità molto diverse, entrambi impegnati nell'innovazione e a teorizzare il proprio operato, offrendolo nelle opere e nell'insegnamento.
E ora torno al El Lissittzkij e ai suoi appuntamenti in Germania. Nei centri di Berlino, Dresda, Hannover, Colonia entra in contatto con l’Avanguardia europea ed elabora forme nuove di esposizione e valorizzazione del prodotto sovietico. Non si tratta di un lavoro puramente strumentale, ma di riconsiderare l’attività dello sguardo in sè. Il vedere non è un esercizio fisso, il visitatore di mostre non è un ricettore fermo e passivo così come lo spazio non è un contenitore neutro. Si tratta di elaborare un luogo magnetico di forze nel quale interagiscono tutti gli elementi in gioco. Anche l’editoria partecipa di questo dinamismo. Particolarmente fortunata è la “Storia di due quadrati”, il quadrato rosso, quello della rivoluzione, che manda in frantumi il quadrato nero, quello della reazione.
Un progetto non è un gesto, ma una espressione linguistica che rappresenta una particolare disposizione di spazi e, quando è operativo, un modo per realizzarli. Rappresenta = l'uso di segni del tipo 'iconico' (C. Morris).
Questo è quanto vorrei intendere per 'esteriorità' complessa in El Lissitzkij.
L''interiorità' riferita a Kandinskij, è pur sempre linguaggio, anch'esso composto di segni 'iconici', diretto ad un altro scopo, la con-posizione di forme/colori secondo le spinte delle energie emotive.
So di adoperare termini come 'esterno'e 'interno' in modo rozzo, ma spero di aver suggerito alcuni aspetti di una differenza che individua due personalità molto diverse, entrambi impegnati nell'innovazione e a teorizzare il proprio operato, offrendolo nelle opere e nell'insegnamento.
E ora torno al El Lissittzkij e ai suoi appuntamenti in Germania. Nei centri di Berlino, Dresda, Hannover, Colonia entra in contatto con l’Avanguardia europea ed elabora forme nuove di esposizione e valorizzazione del prodotto sovietico. Non si tratta di un lavoro puramente strumentale, ma di riconsiderare l’attività dello sguardo in sè. Il vedere non è un esercizio fisso, il visitatore di mostre non è un ricettore fermo e passivo così come lo spazio non è un contenitore neutro. Si tratta di elaborare un luogo magnetico di forze nel quale interagiscono tutti gli elementi in gioco. Anche l’editoria partecipa di questo dinamismo. Particolarmente fortunata è la “Storia di due quadrati”, il quadrato rosso, quello della rivoluzione, che manda in frantumi il quadrato nero, quello della reazione.
”Crac, tutto è disperso”, 1922
Si avvicina
al Bauhaus e a De Stijl, conosce Moholy-Nagy, Theo va Doesburg, Mies van der
Rohe, Hans Richter, Viking Eggeling, Hans Arp, Mondrian, Man Ray. Esperimenta
diverse tecniche fotografiche, esposizioni multiple, sovrapposizioni, stampe a
contatto, collages, anche applicate all’editoria. A Berlino crea la “Stanza
Proun” (Prounenraum). Costretto ad
entrare in un sanatorio a Locarno, conosce Schwitters col quale collabora alla
rivista “Merz”. Nel ’25 pubblica a
Zurigo insieme ad Arp “Gli ismi nell’arte” (anche il Prounismo) e l’anno dopo progetta
con Dorner il museo di Hannover, dedicato all’arte astratta, l’Abstraktes Kabinett, che sarà
distrutto dai nazisti. Era un buon esempio di arte degenerata.
Nel 1925
ritorna a Mosca, sperando un maggiore coinvolgimento nell’architettura.
Nuvola 1925, progetto
Ma il
grattacelo orizzontale, la “nuvola”, rimane solo un progetto. Continua ad
occuparsi delle grandi esposizioni internazionali, che si configurano sempre di
più come propaganda sovietica. E’ il tempo dei ‘Fronti popolari’ all’estero e
delle ‘Grandi purghe’ all’interno, insieme al secondo Piano Quinquennale a cui
seguirà un più duro terzo Piano.
Ancora un respiro con il cinema di Dziga Vertov, ma i costruttivisti sono
emarginati. El Lissitzkij cerca di rinchiudersi nel mestiere di ‘grafico’: curerà per diciassette
numeri, sino alla morte, avvenuta nel 1940, il mensile di propaganda “URSS in costruzione”.
Alle
immagini di Lenin sostituirà poco per volta quelle di Stalin.
Triste finale di
un grande artista- e quanti con lui in quel terribile periodo - la cui serietà
del lavoro, sempre, in contrasto con un realismo becero-popolare in ascesa, non
poteva sottrarlo da una corresponsabilità, per quanto indiretta.
Né poteva
cancellare il grande contributo a livello mondiale che aveva dato al fare
artistico: non lo scavo nella interiorità, non la mistica di un assoluto
supremo e suprematista, non la purezza di una geometria semplificata, non l’architettura
come trionfo della tecnica e ripetizione conveniente – tutte proposte serie che gli erano cresciute
intorno -, ma la freschezza di uno strumento sempre diverso, dal piccolo
schizzo allo spazio più elaborato: offerta, progetto di comunicazione, di sorpresa,
di coinvolgimento, di vivere-dentro, di essere-parte. Varietà, complessità,
socialità.
Con lui il fare, la creatività artistica aveva aperto nuove strade,
il meglio della modernità.
Wassily
Kandinsky, la risonanza interiore
Una prospettiva meccanico-materialistica, che aveva
accompagnato lo sviluppo industrale del secoloXIX, era entrata in crisi alla
fine di quello stesso secolo. La
psicologia e le scienze fisiche ridefiniscono il mondo e i poteri della mente umana: atomismo, elettricità,
magnetismo, ipnotismo spalancano nuovi universi. Mentre a Parigi Charcot cerca
di controllare l’isteria, e Marie Curie se ne interessa, Bergson fa una
distinzione tra “Matière et Memoire”;
a Vienna Klimt fonda la nuova ‘Secessione’
e due medici , Freud e Schnitzler pubblicano, l’uno “L’interpretazione dei sogni”, l’altro, a proprie spese, “Girotondo” , che subito incappa nella
censura. A Parigi un gruppo di pittori
vengono definiti Fauves, Belve. Su di
un terreno più tranquillo uno storico dell’arte,Wihelm Worringer, scrive un
testo di grande successo, ‘Astrazione e empatia’, “Abstraktion und Einfühlung. Ein Beitrag zur
Stilpsychologie”. Einfühlung(empatia)
e Stimmung (consonanza, umore)
diventano nozioni correnti. I riferimenti si
possono moltiplicare, i periodi e
i luoghi dividere, ma risulta un comune sforzo di rompere la crosta di una
superficie consolidata, di stereotipi solidi, materiali, tranquillizzanti, che
si pesano e si misurano, e di liberare una energia sotterranea, che nell’uomo
‘interiore’ può trovare uno sbocco sia nella anomalia psichica che nella
creatività. La liberazione creativa può essere una risoluzione della malattia,
oppure le due condizioni possono unirsi, una malattia creativa (Kandinsky critica Max Nordau di "Degenerazione" 1895), o dividersi o
far parte di stadi successivi: embrione-infanzia-maturità. Sapienza orientale e sciamanismo, fantasia
infantile e primitivismo popolare aiutano. Si tratta di stadi psichici dai
comportamenti specifici, che le apparenze ‘materiali’ non sono in grado di
spiegare: interiore/esteriore, profondo/superficiale, conscio/inconscio, spirito/materia,
anima/corpo, astratto/concreto, contenuto/forma.
Ora posso arrivare a Kandinsky. Nato a Mosca nel 1866,
laureato brillantemente in legge, ha deciso di dedicarsi alla pittura. Ha
trent’anni, conosce il tedesco e decide che il posto utile è Monaco,dove incontra la coppia di pittori
russi Marianne von Werefkin e Alexej Jawlenskij. Mantiene i contatti con Mosca
e Diaghilev. Nel 1910-11 conosce Klee, Macke, Arp, Shönberg. Con Franz Marc
fonda il gruppo del “Cavaliere Azzurro” (Der
Blaue Reiter), pubblica nel 1912
l’Almanacco e scrive “Lo spirituale
nell’arte” (Über das Geistige in der Kunst), un’opera maturata negli ultimi
dieci anni. Cita la Teosofia di Rudolf Steiner, la signora Blavatzky, gli Indù
e il Lombroso delle sedute spiritiche. Sente l’urgenza di un cambiamento
totale, sente di essere parte responsabile di questo cambiamento. Già nel 1901 scriveva: "Ci sono epoche in cui la natura svela ai pittori, all'improvviso, interi territori incontaminati e ricchi di bellezza". Letteratura, musica, arte “si allontanano dal contenuto senz’anima
della vita contemporanea e si rivolgono a cose e ambienti che lasciano via
libera alle aspirazioni e alle ricerche non materiali dell’anima assetata….. E’
l’apparire di una mano che addita una via e offre un aiuto…Chiunque s’immerga
nei reconditi tesori interiori della
sua arte è un invidiabile collaboratore nella costruzione della piramide spirituale, che si che si eleverà sino al cielo” (traduz.
it. ediz. De Donato 1968).
La musica è un esempio e una guida, perché l’uomo “ha
la musica in se stesso”. E’ il “suono
interiore” che il pittore fa rieccheggiare nella sua opera. Un suono sacro che
illumina il verbo e i colori. Kandinsky cerca di formularne una grammatica e una sintassi. La luce ottica
deve trasformarsi in illuminazione interiore: di qui la sua polemica contro l’Impressionismo ottico,
ma, nello stesso tempo, il suo entusiasmo per i ‘Covoni’ di Claude Monet. La tastiera luminosa di Scrjabin è citata spesso.
Prove di copertina per
l’”Almanacco del Cavaliere Azzurro”
(Der Blaue Reiter), Monaco 1911
L’occasione di
riparlare di Kandinsky è la bella mostra
apertasi al Palazzo Reale di Milano in collaborazione al Centre Pompidou, ricco
della donazione della moglie Nina Kandinsky, visitabile sino al 27 aprile
prossimo. Curatrici e autrici del
catalogo 24ORE Cultura, Angela Lampe e Ada Masoero, strumento
eccellente per seguire le varie parti, i diversi volti di una vita complessa e
di straordinaria creatività, svolta tra Mosca, Monaco, Weimar-Dessau, Parigi.
Il nome di Kandinsky è
tanto noto quanto trascurato. Pensando
all’arte astratta ci vengono in mente forme rigide, chiare geometrie, ben
delimitate: eliminare gli aspetti transitori per raggiungere una struttura stabile. Tutto il contrario delle Improvvisazioni
e Composizioni che Kandinsky
dipinge negli anni’1911-14, l’epoca del Blaue Reiter. Trasparenze, sovrapposizioni, sfrangiature,
spinte, energie, cenni di figure. Il Cavaliere è San Giorgio contro il drago, cavallo e cavaliere sono immagini di
movimento, come il ponte, la barca, i rematori, la vela. Movimento, passaggio,
congiunzione; così la figura si trasforma in una curva, una connessione, con-posizione, come
in “Quadro con macchia rossa”.
La forma rossa di sinistra è il punto di
maggiore intensità, che si connette a destra, tramite due segni a ponte, con un mondo incerto, che sta
sprofondando nel buio. Forze di
contrasto e di ascensione spingono verso l’alto. Siamo nel 1914. Scoppia la
guerra, la Germania è contro la Russia,
Kandinsky deve tornare in patria. Il giorno prima di partire scrive a Herwarth
Walden: “Ci siamo! Non è terribile? È come se fossi stato svegliato bruscamente
da un sogno. Nel mio intimo, ho vissuto nella convinzione che fosse
assolutamente impossibile che simili cose accadessero. La mia illusione mi è
stata strappata” Catal. P. 82).
Nella Russia squassata prima dalla guerra, poi dalla guerra
civile e infine dalla sovietizzazione, Kandinky si trova impegnato nella
riorganizzazione rivoluzionaria delle scuole d’arte e della nuova sistemazione
museale, accanto a Aleksandr Rodčenco.
Ma il suo orizzonte di un’arte puramente espressiva, la risonanza interiore,
non può accordarsi alle urgenti progettualità funzionali del costruttivismo, perciò nel 1921 accetta
volentieri l’invito di un insegnamento alla Bauhaus di Walter Gropius, prima a Weimar
e poi a Dessau, e infine a Berlino. Il compito didattico, in un ambiente di
amici e stimatori, la varietà degli insegnamenti , balletto, teatro,
fotografia, tessitura, design,
favorisce le sue riflessioni teoriche (pubblica Punkt und Linie zu Fläche) e
una maggiore stilizzazione di segni e forme, senza cancellare una vivace
rimembranza narrativa, come si ricava da
‘Giallo,rosso,blu’, i
tre colori primari ai quali corrispondono i tre secondari, verde, arancione,
viola, e le tre forme, il triangolo, il quadrato, il cerchio, con allusioni ad
un profilo a sinistra e a una lotta tra la lancia di San Giorgio e il drago a
destra.
"Giallo, rosso, blu", cm.
128 x 201,5 – olio, 1926
E così, con la chiusura
nazista del Bauhaus nel 1933, Kandinsky si trasferisce con la moglie Nina a Parigi.
La vista del nuovo appartamento con vista sulla Senna, “la sua luce
meravigliosa”, lo affascina. Il mondo artistico è guidato da Picasso e dai
Surrealisti. Trombe di guerra squassano l’Europa. Kandinsky non cerca alleanze,
la politica non l’interessa; piuttosto pensa alle fantasie di Klee, in Svizzera
molto malato, e ai lavori di Mirò, che va a trovare nel suo studio. Legge libri
sull’evoluzione e sviluppa un allegro
balletto di forme biomorfe, un galleggiamento di nuclei vitali
divertenti e divertiti.
Non il teatro, ma il music-hall, il circo, i
giocolieri, i fuochi d’artificio (Christian Deroulet).
Azzurro cielo. Un sogno dell’infanzia. Giochi di amebe e cavallucci marini. Potrebbe essere l'infanzia dell'umanità? Kandinky difende la sua interiorità da ogni pericolo estraneo. Non sente le bombe che scoppiano, le urla dei deportati. Il Cavaliere è stanco,
non cerca ponti da attraversare, mondi da trasformare, menti da persuadere. E’ diventato un eremita
sereno, il suo occhio interiore cerca le origini, con eleganza, con
discrezione. Gli è vicino Nina, la sua affettuosa compagna. E’ il suo modo di concludere, di spegnersi nel terribile inverno
del ’44.
"Azzurro cielo" , cm. 100 x 73 – olio, 1940
[gennaio 2014, G. Colombo]
DE PER AD AOSTA IL TEATRO DEI SUOI BURATTINI
“Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare
questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè
ricreandolo totalmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile,
all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li
combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per
formare dei complessi plastici che metteremo in moto…
Complesso plastico 1.
Astratto, 2. Dinamico, 3. Trasparentissimo, 4. Coloratissimo e Luminosissimo,
5. Autonomo, 6. Trasformabile, 7.
Drammatico, 8. Volatile, 9. Odoroso, 10.
Rumoreggiante, 11. Scoppiante…”
Seguono
i titoli: “La costruzione materiale del complesso
plastico. MEZZI NECESSARI: Fili metallici, di
cotone,lana, seta, d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carteveline,
celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni
genere, coloratissimi, tessuti, specchi, làmine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze
sgargiatissime. Congegni meccanici, elettrotecnici; musicali e rumoristi;
liquidi chimicamente luminosi di
colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc…”. “ La scoperta-invenzione
sistematica infinita… Il giocattolo
futurista… Il paesaggio artificiale… L’animale metallico.” Roma-Milano
11 marzo 1915
Il Manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo” è firmato da un ‘maestro’di
lungo corso, Balla, 44 anni, e da un giovane entusiasta allievo, Depero, 23 anni, appena arrivato a Roma dall’austro-ungarica Rovereto, con
Rosetta Amadori, instancabile “adorabile compagna” della sua vita. Per entrambi (lui e
Balla) è invocata l’ala protettrice di Marinetti. Il
Manifesto segna alcuni punti di novità rispetto alla impostazione
boccioniana: non più la tensione
drammatica, emotiva, conflittuale sotto la guida di due forme artistiche
collaudate come la pittura e la scultura, ma una trasformazione totale della
realtà attraverso tutte le tecniche e i materiali disponibili in una
infinita, immaginifica scomposizione e ricomposizione. L’anno dopo Depero
ripeterà: “con l’aiuto capricciosissimo e svariatissimo-magico di ogni mezzo
meccanico-fisico-chimico-elettrico”. Un teatro sui generis, ricco di sorpresa,
immaginazione, ‘capricci’, divertimento. E proprio in questa dimensione di
gioco e magia scherzosa si sviluppa la partecipazione dell’irruente neofita
Depero.Vi rientra quello che ‘i fiorentini’ Soffici e Papini avevano
chiamato con disprezzo ‘Marinettismo’,
ma non quella eredità di Boccioni (che muore nel ’16), il quale per lungo tempo
verrà indicato come il vero e unico interprete del Futurismo, facendo scadere come Secondo Futurismo, una lunga
stagione di creatività, ovviamente connessa col Fascismo, guardata nel dopoguerra
con sospetto e sufficienza, di cui fu
vittima, tra gli altri, lo stesso Depero. Aggiungo che anche il Futurismo nel
suo insieme, Boccioni compreso – che pure per anagrafe non poteva rientrare nel
Fascismo -, fu considerato in Italia dopo il ’45, da critici e galleristi, con
fastidio, una cattiva compagnia di cui quasi vergognarsi, favorendo quei
collezionisti stranieri che facilmente si aggiudicarono alcuni capolavori di
quel periodo.
Tempo
passato. Da anni il meritevole lavoro del MART di Rovereto, la città di Depero e della sua Casa d’Arte, guida una attenta riconsiderazione di quel
periodo con mostre, cataloghi, archivi, e ora collaborando con la nuova esposizione
di Aosta, che proprio dal Manifesto del ’15 prende il titolo: Universo Depero. Catalogo ‘Silvana
Editoriale’. Durerà sino all’11 maggio. Una buona occasione per ritornare su di
una invenzione allegra, bizzarra, onnicomprensiva che si sviluppa ben prima
degli anni ’20 a cui ci si riferisce solitramente.
Ma, come
al solito, mi fermerò soltanto su qualche aspetto. Per intanto sugli anni romani 1916-17 successivi al Manifesto
della Ricostruzione. Nella Francia in
guerra Serge Djagilev, con i suoi Ballets
Russes, non fa affari. Lui e i
suoi amici sono stranieri, non hanno obblighi militari. Col suo gruppo, il
giovane scenografo, ballerino e collezionista d’arte Léonide Massine (Leonaid
Mjasin), gli artisti Larionov e Goncharova, a cui si aggiungono saltuariamente Picasso, Cocteau
e Stravinskij, si sposta prima in Svizzera e poi a Roma. Djagilev Incontra
Marinetti, il compositore Casella e alcuni pittori futuristi. A Balla
commissiona scene e costumi per Feu
d’artifice (3 minuti, musica di
Stawinskij) e a Depero Le Chant du
Rossignol (da una novella di Andersen, musica di Strawinskij). Spera di
organizzare spettacoli e nel frattempo si avvale di vari aiuti per dipingere il
sipario del balletto Parade (testo di
Cocteau, musica di Satie, costumi e scena di Picasso). Depero ne costruisce i
costumi. Feu d’artifice va in scena
al Teatro Costanzi: niente balli, ma solo forme geometriche e luci, battimani e
risate. Già di breve durata, finisce nel buio per un corto circuito. Le Chant du Rossignol, nonostante i vari
bozzetti e modellini (oggi ricostruiti), non va in scena. Si parla della
malignità di Cocteau, o della difficoltà dell’allestimento. Djagilev, abbandonata
Roma, lo rappresenterà a Parigi in pace,
nel ’20, con scene di Matisse.
Ma la
via del teatro, per Depero, non è finita. Anzi. Vicino al gruppo di Djagilev si
trova anche il poeta, cultore di esotismo e di egittologia, lo svizzero Gilbert
Clavel che, affascinato dalle prove e pitture di Depero, lo invita nella sua
villa a Capri, dove il pittore elabora
quei Balli plastici che verranno
messi in scena il 15 aprile del 1918 al Teatro dei Piccoli di Roma.
Con
l’aiuto della compagnia marionettistica Gorni dell’Acqua, fantastici burattini
meccanomorfi danzano al suono delle musiche di Casella, Tyrwhitt, Malipiero,
Chemenov (= Béla Bartòk). Lo spettacolo
è un successo di pubblico e di critica. “Un teatro plastico che è alla sua volta un mondo poliespressivo, ricchissimo di
sorprese, di trovate e di magie pittoriche, foniche, plastiche (“Il Mondo 27
aprile 1919). Gilbert Clavel, finanziatore, è “un signore piccolo, gobbo, con naso rettilineo
come uno squadretto, con denti d’oro e scarpette femminili, dalle risate vitree
e nasali. Un uomo di nervi e di volontà, dotato d’una cultura superiore” (‘F:
Depero…’, Rovereto 1940).
F. Depero
“I miei balli plastici” olio su tela 1918, cm 180 x 189
Il suo
modo (mondo) duro, ben tagliato, dai contorni netti e i colori piatti, burlesco,
fantasioso, grottesco, favolistico è ormai riconosciuto, apprezzato. Depero
è invitato a Viareggio, Milano, Roma.
In
giugno, finita la guerra, il pittore con la moglie torna in Trentino diventato
italiano e nella sua città di Rovereto apre la sua Casa d’Arte Futurista, una
piccola fabbrica di arti applicate, oggi si direbbe di ‘design’: cuscini,
arazzi, mobili, suppelletili, architettura d’interni, pubblicità. Per le tarsie
di stoffe, tutte donne ai tavoli di lavoro, attente a riportare i suoi bozzetti.
Depero
avrà ancora una lunga vita davanti a sé
(muore nel 1960), punteggiata da risultati sempre di alta qualità: la
pubblicità, “l’arte dell’avvenire”, la lunga collaborazione con Campari, l’auto-pubblicità, la
partecipazione alla Exposition
Internationale des Artes Décoratifs, Parigi 1925, e prima a Monza, le Biennali e Quadriennali, il
viaggio a New York (’28-30), il libro imbullonato e l’editoria… Ma io vorrei
fermarmi al teatro delle marionette che, in qualche modo, accompagna e
impronta, coi suoi caratteri burleschi,
tutta la produzione successiva. Provo a indicarne alcuni: filastrocche di
personaggi-caricature, ritagliati in materie dure, proprie di una gioiosa
meccanica; semplificazione di forme e rigore grafico che ingegnosomente si
conmbinano; scambi positivo-negativo di forme nette e colori piatti; geometrie
impossibili onnipresenti; divertimento, facilità di far uscire dal cappello del
mago personaggi sempre uguali e sempre diversi, un sorriso, una favola senza
fine che unisce l’innocenza della fanciullezza alla tradizione dell’intagliatore
trentino allo scatto meccanico dell’avanguardia,
un insieme che forse si può ritrovare, ma senza quell’acutezza, in alcune produzioni russe di quegli anni.
Ed è con
ilsorriso della matita Presbitero (Uomo-matita
1926-29) che vi faccio i miei più
sentiti auguri di buone feste
Dicembre 2013 G. Colombo
PIRANDELLO, CHI?
Anticoli, estate 1936. Fausto P. sta dipingendo “Siccità”.
“Mentre vi lavoravo, mio padre ci si
veniva a sedere dietro, e così, invisibile, cominciava a parlarmi: “Vedi, tu stai facendo un errore estetico. Quel verde è
troppo verde, ecc…”. Ne nascevano delle lunghe discussioni e,
naturalmente, non venni a capo di nulla.” All’ingombrante
padre, al quale terrà nascosto a lungo il suo matrimonio con la modella
Pompilia d’Aprile, era il Pirandello famoso, quel Luigi che morirà nello stesso
anno di quel colloquio estivo.
C’è un altro motivo che penalizzava, e penalizza tuttora
Fausto Pirandello. Non aver mai fatto parte di gruppi, consorterie, movimenti.
Scuola romana? I due Mafai, Scipione, Cagli, arriva anche Guttuso… Sì, li
conosceva, ma….; i fiorentini, Soffici,
Maccari…, i milanesi, Carrà, Birolli, Sironi,
il fu ‘Novecento’, Corrente…, i torinesi, Casorati, ‘I sei’… E poi c’era
il fascismo. Sì, ma…
Un esempio: il regime esalta lo sport, nel ‘Foro
Mussolini’ muscolosi giovanotti, nei loro quattro metri d’altezza, gonfiano
bicipiti marmorei. E lui? Il Pirandello pittore? In uno spazio ristretto,
sghembo, tre nudi di schieda gesticolano in modo non subito chiaro.
Non
visi spavaldi, non glutei marmorei, non
bellezze pseudo greche. Quasi per umorismo vengono indicati come ‘atleti’: uno è tagliato a metà, l’altro prende a pugni, senza convinzione, una palla
penzolante, il terzo saltella con una improbabile ombra sugli assi di un
pavimento in rialzo. Scopriamo che si è
staccato, forse, da due anelli appesi al soffitto. Tutto il contrario di
muscoloni, baldanza, sfida, gioventù fascista. Piuttosto stanchezza,
spaesamento, enigma.
Faccio un salto al 1940. Pirandello partecipa con quattro grandi bozzetti (cm.
76,5 x 151) bozzetti
al concorso per i mosaici del costruendo palazzo dei Ricevimenti e Congressi dell’E42. Si capisce bene che non vengono
accettati. In questo, qui riprodotto, ‘Primordi di Roma’, gruppi scomposti si
sparpagliano su di uno sfondo indeterminato, abitato da uccellacci poco
auguranti. Una coppia di buoi distratti cercano di tracciare il solco: il
famoso confine di fondazione?
Torno indietro, al tempo della Palestra del ’34. Il
pittore dipinge uno strano ‘bagno’. Mezzo nascosta da un rozzo trabiccolo una donna svestita porge
un sapone che tiene in mano. In mezzo, seduto, di schiena, l’uomo si volge faticosamente buttandoci, di traverso, con
fastidio, un’occhiata. Il pittore? Lo abbiamo interrotto? Il terzo personaggio,
una donna rigida, di fronte, in piedi, fissa
un’ampolla appoggiata ad una sedia, aprendo le due mani come per uno scongiuro.
Dislocazione e parentela. Ognuno sta per sé, ma è pure insieme con gli altri,
dispone del medesimo spazio. Nella Palestra i personaggi esprimevano,
distrattamente, esercizi congruenti. Qui no. Cosa fanno? Dove sono? La
impossibilità di individuare un
significato plausibile insinua una
sottile inquietudine nello spettatore;
un passo più in là rispetto alla scena degli
atleti per finta.
Arrivo così al 1939, “Il tempo della guerra”, una mostra dedicata a Fausto Pirandello, Agrigento (sino al 2.02.2014), Fabbriche Chiaramontane, a cura di Fabrizio D’Amico e Paola Bonani, con l’Associazione Fausto Pirandello, catalogo Silvana Editoriale.
Anche se l’Italia
di Mussolini aspetta ancora un anno per partecipare alla guerra nazista,
Pirandello apre il suo personale mondo ‘tragico’. L’enigma si trasforma in disastro. I nudi non sono più l’abbondanza totemica della carne,
come pure li aveva prima concepiti. Sono invece corpi denudatie straniti: si
spargono o si accumulano su spiagge
deserte, ormai esangui o stretti nell’ultimo rifugio.
Scrive l’autore:
Mistero
dei personaggi del vento
a
far visita nel silenzio.
Sono
da chi sa quanto nei paraggi
aggregati
chi sa a qual cosa;
rischiano
di diventare stolidi,
di
cresparsi nella calura.
Sulla
soglia dubitano: per non ardire, calpicciano
mormorano,
si rammemorano,
mi
si riscontrano: vorrebbero accoglienza. ( F. Pirandello, Scritti inediti, p. 231, Giuffrè, Roma 1984)
‘Composizione’, cm. 50 x 60, 1939
disegno, "Uomini distesi in terra", cm. 70 x 100 ca.1039
La scena è un anticipo - siamo nel 1939 - di quello che sta per accadere. Sì, penso a quello che accadrà e che verremo a sapere molto più tardi, penso ai campi di sterminio. E’ un caso straordinario, che non conosco simile in quegli anni. Si possono invocare le sue esperienze parigine del 1927-30, le conoscenze del surrealismo e dell’espressionismo tedesco. Ma questa condanna senza scampo, che risente pure dell’inferno dantesco, è un bruciore unico, tutto giocato su colori di terra, scivolato poi, nei tempi successivi, silenziosamente, nel dimenticatoio di un pubblico distratto. E di una critica distratta. Ancora una contraddizione: suo amico e collezionista è il fondatore e direttore del sciagurato periodico "La difesa della razza". Intendiamoci. Fausto Pirandello non è un discriminato, un artista guardato con sospetto. Riceve premi, partecipa a Biennali e Quadriennali. Qui sì, mi pare, si dimostra quella doppia personalità che Fabrizio D’Amico ricorda come eredità del suo grande padre. Un artista riconosciuto, solido, magari senza i gesti clamorosi e le calcolate vicinanze del più giovane amico Guttuso, ma apprezzato nella sua presunta dura sicilianità. Eppure, al contrario, lontano da qualsiasi retorica, da qualsiasi appartenenza e soggezione di regime, anche di quello più illuminato di Bottai. Destinato così ad una permanente estraneità.
Il sibilo
della colletiva tragedia, si attenua nel
riparo degli affetti domestici, pure accompagnati da una cupa melanconia. Il
figlio Antonio guarda senza gioia ad un futuro che non desidera.
La fine della guerra è anche la fine di quel rovello, di
quel terrigno furore che aveva occupato, spronato e in qualche modo sconvolto
la mente del pittore. I suoi amici scoprono la gioia di nuove bandiere e di
nuovi schieramenti. Finalmente! C’è una liberazione anche nelle parole. Nessuno
è mai stato fascista. Le bordate di critici e di scrittori autorevoli sono
assordanti ma non pericolose; piuttosto il segno di una gioia collettiva, barricate di carta.
Ma anche un mercato nuovo e promettente. Pirandello non vi partecipa, come
sempre, non abbraccia programmi, non cerca alleanze, ma le pressioni delle
nuove mode lo trovano stanco e indifeso. Cerca un suo modo, con i suoi temi di
sempre, di rispondere a quelle
sollecitazioni con con una dose di quel neocubismo che andava per la maggiore:
bene i nudi e le nature morte, ma più tagli
e angoli, più astrazione, più pittura pittura, più...
Io credo che il meglio Pirandello lo aveva già dato. E per quel ‘meglio’ meriterebbe, nell’attuale disattenzione, un posto ben più rilevante di quanto l’oggi gli riconosca.
Io credo che il meglio Pirandello lo aveva già dato. E per quel ‘meglio’ meriterebbe, nell’attuale disattenzione, un posto ben più rilevante di quanto l’oggi gli riconosca.
novembre 2013
VENEZIA
- UNA FAMIGLIA AV-VEDUTA
Venezia, Cà Rezzonico, 7 dicembre 2013 – 28 aprile
2014, ‘Pietro Bellotti’, un quarto ‘vedutista’ di famiglia, a partire
da Bernardo Canal, al figlio Givanni Antonio, detto ‘Il Canaletto’ (1697-1768),
il più famoso, ai due nipoti, i fratelli Pietro – attualmento riscoperto – e Bernardo,
entrambi attivi in Europa, Pietro in Francia, Bernardo in Germania e in Polonia
(muore a Varsavia). Sui nomi vige una certa confusione, perché i due fratelli, utilizzando la notorietà dello
zio, si facevano chiamare anche loro ‘Canaletto’, e le guide oggi continuano questa abitudine,
confondendo l’ignaro turista. Poco male.
Pietro Bellotti, Venezia, 'Il Campo SS. Apostoli'
Nel
‘700 il ‘vedutismo’ diventa una vera industria, un tema per collezioni private e
musei. Così le grandi capitali si facevano ricordare dai visitatori, così i
turisti danarosi ordinavano i panorami di Roma, Parigi, Vienna, Varsavia, e naturalmente
di Venezia. Per Varsavia, distrutta dai nazisti in fuga, le pitture del
Bellotto/Canaletto furono fondamentali per la ricostruzione. Vedremo se i
quadri dei vari Canaletto saranno necessari anche per Venezia, in questi anni
sottoposta ad una usura violenta da parte di una insensata invasione,
sbandierata come ricchezza turistica, grandi navi in testa. C’è rischio di trasformarci
anche noi stranieri a casa nostra: teniamoci
almeno
***
Renoir, il mito della bellezza
***
Renoir, il mito della bellezza
A Torino, alla GAM, Galleria civica d’Arte Moderna,
23 ottobre 2013-23 febbraio 2014, Renoir catalogo
Skira, pp. 175, euro 34, con una particolare attenzione al suo viaggio in
Italia. Sessanta opere dai Musées d’Orsay
et de L’Orangerie, quasi a seguire, dopo un anno, quella di Degas. Se si
aggiungono le Gemme dell’Impressionismo
all’Ara Pacis di Roma e il Monet ou coeur
de la vie al castello Visconteo di Pavia, si può riscontrare la fortuna che
continua a mantenere il tema dell’Impressionismo francese. Va tenuta in conto la
facilità con la quale si spostano le
opere in relazione alla chiusura temporanea dei Musei che le contengono. Alcuni
anni fa questi viaggi erano puntualmente
deprecati, per i rischi conseguenti: urti, distacchi di colore, cambiamenti
delle temperature ecc. Ora forse queste eventualità sono ridotte con l’aumento delle tecniche protettive.
Vantaggi e limiti. I vantaggi, per noi spettatori, sono evidenti. Gli
svantaggi: la scelta da un’unica fonte, anche se prestigiosa. E’ più facile che
manchino alcuni pezzi importanti (per Renoir per es. La première sortie o Le mulin
de la Galette) e che abbondino alcune ripetizioni.
Qualche parola ancora sulla
intramontabile fortuna dell’Impressionsimo,
fenomeno franco-parigino, la cui estensione altrove (“Impressionismo
italiano” e “Impressionismo europeo”) non mi pare abbia avuto particolare
fortuna. Fortuna invece che accompagna sempre ogni mostra che rientra in questo
neologismo, nato, com’è noto, con senso derisorio, dal quadro di Monet “Impression. Soleil levant”, esposto in
una mostra di giovani artisti
indipendenti presso i locali dell’amico
fotografo Nadar nel 1874: quella che viene ricordata come la prima
mostra degli ’Impressionisti’.
L’ultima porta la data del 1886. Questa, di Renoir a Torino, rientra negli
avvenimenti di successo, nei canoni
trionfali del ‘movimento’, sul quale esiste un’ampia bibliografia. Perciò mi
limiterò soltanto ad alcune osservazioni marginali.
E’ stato veramente un movimento unitario? E poi, nella
gara delle novità culturali, non è accaduto altro paragonabile in Europa, che
abbia contribuito a cambiamenti importanti?
Si capisce,
quando si parla di gruppi e di movimenti che durano nel tempo, le diversità sono
di prammatica. Persino la durata è oggetto di controversie. Ma, a Parigi, le
accese discussioni erano incominciate
circa dieci anni prima di quel ‘74, quando Manet, che non farà mai parte del
gruppo, aveva esposto nel ’63 “Le déjeuner
sur l’herbe” e Zola l’aveva vivacemente difeso. Intorno a lui si erano ritrovati gli amici
Monet, Renoir, Bazille e Sisley. La mostra di Nadar giunge quando le scosse
della guerra ’70-’71 si erano quietate e la compagnia dei pittori, tutti
rifiutati all’ufficiale Salon, tutti
pressappoco trentenni, non è particolarmente omogenea. Bazille è morto, Degas e
Cezanne rappresentano vicende molto diverse. Il gruppo più solido, per il
momento, è il duo Renoir-Monet. L’etichetta ‘Impressionisti’, nonostante
l’avversione degli ‘Accademici’, si diffonde rapidamente, serve ad attirare
l’attenzione dei galleristi e dei collezionisti; si ripeterà per ben otto volte,
anche se ciascun artista andrà per la propria strada. All’ultima edizione
dell’86 non parteciperà né Renoir, né Monet, né Sisley. Cezanne era da tempo
ritornato in Provenza, offeso dall’Oeuvre
di Zola, 1876, un tradimento del vecchio amico. Nella sud, tra mare e
boschi, si ritroverà amichevolmente con Renoir. La “Grande Jatte” del giovane Seurat, esposta all’ultimo appuntamento
del ’86, era ormai su di un’altra
strada. E ancora di più lo erano le vicende di Gaugin e Van Gogh, che pure
sovente saranno presentati come stars
nel gruppo degli ‘impressionisti’.
Alla seconda domanda, cosa d’altro succedeva in
Europa, è facile riferirsi a centri come quelli di Vienna, Monaco,
Berlino, a quei “metafisici paesi di
tedescheria”, come scriveva Soffici, per riscontrare linee di ricerca
altrettando innovatrici di quelli franco-parigini. Basti pensare ai nomi di
Munch, Klimt, Kandinskij. Sentieri che
si moltiplicano in quel passaggio tra
Otto e Novecento che si dimostra nodo cruciale per qualsiasi ‘modernità’.
Ma le etichette sono etichette: impressionismo,
cubismo, espressionismo, Jugenstil. Liberty… Organizzano periodi, suggeriscono parenetele,
aiutano la memoria e la pubblicità.
Occorre soltanto non mitizzare un’etichetta, non farne un tocco magico, non
appiattire in una parola delle significative diversità.
P. A. Renoir,
‘La balançoire’, 92 x 73, 1876
Con queste cautele, il gruppo di giovani artisti che
si riuniscono intorno alle mostre dell’’Impressionismo’ portano indubbiamente
aria nuova. Spesso si cita Baudelaire (che però muore nel ’67) e alla sua lode
per il “pittore della vita moderna”. Ma questi giovani ( Manet sta per conto suo) sono tutti dei modesti
‘provinciali’ estranei alle operazioni immobiliari e bancarie della grande
borghesia, estranei a ogni macchinismo e serialità. Nella città guardano al
‘teatro’, ai balli popolari, ai caffè
rionali, oppure alla mobilità delle nuvole, dei vapori, dei fiumi, delle acque. Molti di
loro, appena possono, vanno in campagna, amano le gite in barca, studiano l’aria e il vento,
coltivano fiori e piante con l’occhio ai giapponesi. Certo, uscire dal
chiuso degli studi vuol dire abbandonare
l’eccesso dell’artificio, l’idolatria del già fatto, i modelli dell’Accademia.
Vuol dire quello sguardo nuovo in cui gli storici hanno individuato la principale loro novità.
P. A. Renoir, Chemin
montant dans les hautes herbes, 60 x 74, 1876-77
Due parole ora sul longevo Pierre-Auguste Renoir
(1841-1919). Sia per educazione che per indole il pittore non ama gli intellettuali, i discorsi complicati. Questo
non significa che non si arrovelli sul ‘modo’del dipingere, sia guardando e
riguardando gli esempi del Museo sia, in pratica, provando e riprovando modalità diverse di scrittura colorata. “Il trattato
della pittura” del quatroccentesco Cennino Cennini è la sua lettura preferita. Si
è parlato spesso di un rapporto non
facile tra razionalità e istinto. Certo una volontà di ferro: vecchio,
inchiodato alla sedia a rotelle, sino agli ultimi giorni muove a fatica sulla
tela il pennello fasciato alla mano artritica. Si fa aiutare da modelle e
familiari, pur di tenere in vita il sogno di un Eden con ninfe (e)stese su erbe
e acque gorgoglianti. E’ l’ultima tappa di un desiderio formulato fin dagli
anni giovanili: cantare il piacere dell’essere che, come una soffice pelle
femminile, una morbidezza affettuosa, si allarga su tutte le cose,
arricchendole di una diffusa sessualità.
“…Si clair, Leur incarnat léger, qu’il voltige dans l’air
Assoupi de
sommeils touffus… (Mallarmé)
Eliminare gli spigoli, le rigidità, le
contrapposizioni. Quasi un respiro, un profumo che la tecnica visiva deve tradurre, riportare, restituire. Far
brillare la luce, ridurre il colore mescolato. Il programma di molti amici
‘impressionisti’. Una modulazione di tocchi, di tratti netti, puliti che si
ripetono, si rincorrono, su tutta la superficie visiva, pur con frequenze
diverse. Si veda
l’eccezionale
rtitratto di Monet, 85 x 60,5 - par., 1875
Il verde sulla mano, nei capelli, il rosa nel giaccone, nell’ambiente. Oppure
macchie, chiazze, espansioni e
contrazioni che fanno palpitare il fogliame, i vestiti, i corpi (‘Le mulin de la Galette’ e, con la stessa
modella, ‘La balançoire’, in mostra) .
Non sempre. Quando il piacere diventa far piacere, piacevolezza, accondiscendenza,
gusto salottiero, smanceria, la tecnica s’inaridisce, s’imbamboleggia, diventa aigre. Sono gli anni ’80, che preludono
ai grossi ‘nudi’opulenti, alle ‘Baigneuses’,
una ‘Natura’ al megafono, ingrandita, enunciata, ‘dichiarata’ su tracce
acquisite, ma non ri-inventata: le Ninfone, che il ricordo di Rubens non riesce
a riscattare.
Baigneuses,
110
x 160, 1923
Insomma una mostra complessa, in cui lo spettatore è
chiamato ad analisi sottili, ad entusiasmi e dubbi: esempi eccelsi e
accondiscendenze discutibili, abilità tecnica strabiliante e icone stanche. Il
mito della bellezza e del sorriso non deve offuscare le crepe, i dubbi, gli sforzi.
Proprio nei punti di frizione sbocciano i risultati più interessanti. Liberare
l’artista dai cliché che rischiano di banalizzarlo. E’ giusto? Ogni spettatore
avrà modo di confrontarsi di fronte agli originali ora esposti a Torino
G.C. novembre 2013
MOLTIPLICARE IL DOPPIO – QUATTRO ESEMPI
A costo di
annoiare, ritorno sul ri-tratto, ripensando
anche a un riferimento che avevo un po’ affrettatamente dato per scontato: “L’Annunciata” di
Antonello da Messina, il soggetto principale
di una mostra su Antonello che si tiene al MART di Rovereto (sino al 12 gennaio 2014),
catalogo Electa, a cura di Ferdinando Bologna e Federico De Melis,
accompagnata da una serie di conferenze tuttora in corso. Mostra che si svolge
in parallelo a “L’altro ritratto”, di cui pure avevo dato conto
in questa stessa rubrica.
Riprendo
dall’osservazione che il tratto del ri-trattato, è sempre almeno un doppio, la
figura dipinta e il modello , cioè
l’altro, l’assente. Ma lo sguardo che lo ritrae rimbalza dalla figura ritratta su
di me, autore, che lo ritrae. Siamo
quindi in tre: figura, modello,
autore. Quel viso è come uno specchio nel quale io vedo un
me/altro, o, per meglio dire, un altro che rimbalza su di me, che per primo ho lanciato quello sguardo. Perciò avevo convenuto (per
es. con Jean-Luc Nancy) che il ritratto
è sempre anche un autoritratto. Tanto è vero
che quel modo di guardare e di figurare, ripetuto su molti soggetti,
costituisce un segno di riconoscimento, lo stile dell’autore. Sovente il ritrattato
risponde al ritrattante (i soliti ri-) col suo sguardo, un ammiccamento, un
incrocio di sguardi, quasi a dire: siamo
parenti. E’ il caso dei ritratti di Antonello:
ritratto virile, ca. 1474-75
Gli occhi guardano di lato, quasi a
nascondere la risposta dello sguardo. La bocca accenna a un sorriso ironico. Il viso è
tagliato netto, il bordo della camicia
bianca in basso, il bordo del berretto nero in alto, il nero del fondo. La risposta dello sguardo ci
introduce, noi spettatori, nella parte
dell’autore. E’ anche un nostro specchio. Lo sguardo dell’autore si moltiplica
nei vedenti presenti e futuri. Guardano un ‘altro’ sfuggente, assente, e sentono la propria
vista alla origine di quell’interrogativo: chi è che guarda?
E allora
arrivo all’autoritratto vero e proprio: io che guardo è lo stesso che
guarda me, è una andata e ritorno. E’ l’immagine dello specchio? Non del tutto.
L’immagine dello specchio si muove con me, si azzera al mio allontanamento. Il
gesto infantile la cerca dietro lo
specchio. L’autoritratto è una figura stabile, è la mia
percezione-immaginazione di me fatta oggetto. E questo farsi oggetto non è la
rifacitura di me soggetto, del mio io, comunque lo voglia considerare, ma una trasposizione, un
doppio che reclama la sua autonomia. Ecco allora l’autoritratto di De Chirico,
che non è solo doppio, ma triplo. Uno dei cento auttoritratti, espressione del suo
narcisismo:
Autoritratto 1924
Il viso è,
si può dire, a memoria ( spesso si è
servito di fotografie o di precedenti ritratti); di spalle la figura di
Ermes, l’annunciatore oniropompo (conduttore di sogni) che regge la lira (della
quale aveva fatto dono ad Apollo), e dietro la lira le foglie di alloro che
uniscono i due nel segno del trionfo. E
poi le mani, nel gesto dell’Annunciata.
Non solo lo sviluppo dello specchio,
ma una dichiarazione di intenti.
Si tratta del se stesso profondo che intende svelarsi, oppure quello stesso sé
che cerca di utilizzare altri e più depistanti figure e maschere? Forse non è
un ‘oppure’, una opposizione, ma piuttosto uno sviluppo del narcisismo, una sua
articolazione ben controllata, utilizzata con sagacia, che certo lascia
intravedere, ma non può risolvere quell’invisibile sprofondamento che gorgoglia
in ciascuno di noi, e in lui con più
forza che in altri.
E’ il
contrario di questo ritratto di Giulio Paolini, “Giovane che guarda Lorenzo Lotto”.
Qui il oggetto
non prende nulla su di sé, ma rimanda freddamente lo sguardo allo spettatore/autore. Rifiuta ogni
introspezione, ogni segreto, ogni compiacimento su di un io straboccante, su di ogni maschera compiaciuta. Non io, ma tu sei
il soggetto. I miei occhi ti seguono,
sono il tuo specchio, la risposta al tuo sguardo. Io sono una figura che parla di un ri-guardo verso
ogni spettatore. Interpello tutti i vedenti, presenti e futuri. Loro sono i
soggetti.
E ora passo
al contrario, vengo a questa giustamente famosa “Annunciata” di Antonello, il ritratto della Vergine che ascolta
l’annuncio. Eppure non pare attenta all’ascolto. Pur volgendo le pupille di
lato, come gli altri ritratti virili, non guarda nessuno, con un gesto ambiguo
nella sua semplicità. Non si rivolge allo spettatore o interlocutore per
proclamare la propria eccezionalità, come in De Chirico. Non si cura dello
spazio esterno, né dell’angelo annunziatore, né di ‘Chi’ ha inviato il
messaggio. Non c’è guardante verso cui dirigersi, né autore a cui rispondere.
Con la mano saluta, invita, oppure,
viceversa, pur con cautela, allontana? Con l’altra mano non indica se stessa,
come eventuale scopo di una voce ‘altra’ in procinto di parola, ma chiude il
manto con cui si copre quasi interamente. Chiude insomma, non apre. Il banco
sul quale poggia il leggìo e il libro
aperto divide, separa, crea uno spazio privato, nel quale si ferma una pausa,
una interruzione piuttosto che uno scambio di sguardi: come dire, stavo
leggendo, che vuoi? La mancanza di uno sguardo sull’esterno crea una severa
intimità con se stessa. Il proprio sguardo difende il proprio mistero.
Annunciata ca. 1475-76 |
L’ALTRO
RITRATTO
"L'altro si ritira nell'abisso del suo ritratto - ed è in me che risuona l'eco di questo ritiro - l'Annunciata di Antonello da Messina guardava il mistero divino, il ritratto di oggi guarda verso il suo misterioso ritiro"
Al MART di Trento e Rovereto si è aperta una mostra, “L’altro ritratto” (5 0ttobre 2013 – 12 gennaio 2014, catalogo Electa), che interloquisce, per puro caso, con “Il Volto del ‘900”. Mi pare una buona ragione per riprenderne il discorso, utilizzando il bel saggio di Jean-Luc Nancy, che è anche il curatore della esposizione. Un ritratto altro della contemporaneità, ma pure un’alterità presente nel ritratto tradizionale, con il suo gesto di ri-trarre quel segno distintivo della persona che è il volto (anche quello dell'Annunciata di Antonello da Messina, in una contemporanea esposizione al MART di Rovereto).
Che il ri-tratto
sia doppio, lo sappiamo: a) un trarre fuori la figura dal modello,
b) un trarre dentro, ritirarsi, sparire dietro la figura (fingo,
fictum). L’immagine figurata sostituisce il
viso del modello, ne stabilisce la sua assenza (che rimane pure
l’essenza della figura). La doppiezza del ri
si ripete nella ra (ri) presentazione e nella
ri-produzione, tutti modi di indicare un ritratto.
Giacometti, buste de Diego, 1955 ” un giorno il ritratto si ritira, si guarda, si diffrange” |
Jackson Pollok, Portrait and a Dream, 1953 |
Douglas Gordon, Monster, 1997 |
Saltiamo così in un altro tipo di ritratto, quello della nostra vita odierna, che si muoverebbe, sempre secondo Nancy, dalla ‘de-figurazione’ di Picasso alla ‘sur-figurazione’ dell’iperrealismo, della pubblicità e del film. L’altro appare in superfice, si fa conoscere, sprovvisto del suo essere essenziale. Quel sé racchiuso nella profondità del doppio sarebbe scomparso.
Laurie Anderson, Self-portrait into the edge of a mirror, 1975 |
Una specie di lungo
tramonto della identità. C’è rimpianto? E’solo una perdita? E’
la vittoria della superficie sulla profondità? Può un’identità
essere mobile? Più che appannamento, un assottigliamento: forse non
una fermata, ma un insieme di passaggi, un percorso. E di questo
percorso, ecco alcuni esempi in mostra.
IL VOLTO NEL '900
Il volto del ‘900 (da Matisse a
Bacon, capolavori dal Centre Pompidou) è il
titolo di una mostra al Plazzo Reale di Milano ( 25 sett. 2023 – 9 febb.
2014) ed è pure il titolo del catalogo Skira (pag. 176, euro 38).
Amedeo Modigliani, Ritratto di Dédie (1918) |
‘Viso’, con significato simile, indica una
passività, visto, cosa veduta. Io sono visto.
Trattandosi
di pitture il volto-viso diventa un ‘Ri-tratto’.
Anche qui part. passato di ri-trarre. Il ‘ri’ significa sia il raddoppio (di
nuovo) sia il contrario (ritirarsi).
‘Trarre’ di nuovo, trasferire, lo stesso in altra veste.
E’ così che trovo il
doppio del ritratto dipinto nel catalogo
stampato (che ha ormai acquistato un significato ben più ampio dell’originario elenco). Se il ritratto dipinto è il
doppio del volto in carne ed ossa, il catalogo stampato è il ritratto della mostra: la mostra in
altra forma. E’ un oggetto facilmente maneggiabile, portatile, perciò diverso
in misura e nei materiali, e aggiunge molte pagine di scrittura. Per es. il piccolo
ritratto di Michel Leiris di Francis Bacon, 34x29 cm occupa uno spazio appena minore del grande
ritratto (viso e busto) di F. Iturrino di André Derain 92x65 cm. Il senso della
materia e delle dimensioni originali sono evidentemente alterati in favore di
una reiterata e plurima utilizzabilità, espressa anche nell’aggiunta degli apparati scritti:
“schede delle opere” , “biografie degli artisti”, e infine due eccellenti
saggi, “La profondità del volto” di Jean-Michel Bouhours e “Il Novecento e le
ragioni del ritratto” di Flaminio Gualdoni. Senza togliere nulla alla visione
diretta delle opere, sovente le veloci recensioni sui quotidiani (ma pure la
memoria successiva) si affidano al ritratto
della mostra, al catalogo. Ne consegue anche una sempre più attenta cura della
pubblicazione nella quantità informativa e nella precisione delle riproduzioni
a colori, impensabile in passato.
Se ora mi
sposto al ritratto-immagine, tipico caso
di doppio, il primo esempio è quello
di Narciso, lo specchio, raccontano in
vari modi dagli scrittori dell’antichità greca e romana (v. J. Bouhours): Narciso, giovane di
particolare bellezza, amato dalle donne, non riamate, riflettendosi su di
uno specchio d’acqua, s’innamora della propria immagine e muore tentando di
riunirsi ad essa. Sul luogo cresce un fiore bianco, il narciso, il fiore della
pittura (L. B. Alberti).Il narcisismo, secondo la psicoanalisi, è
l’impossibilità di uscire dal proprio io,
nel tentativo di riportarsi al seno
materno: rivalità coi fratelli e confronto col padre. Nel seguito degli
studi psicoanalitici, con la individuazione dello “stadio dello specchio” viene
riconosciuta la positività dello sviluppo infantile che nell’immagine
specchiata costruisce la sua unità e persistenza corporale: ma essere io non esclude essere con. E’ ciò che si verificherà
poi nell’artista, in particolare con l’autoritratto, dove il narcisismo si esercita in una
esternazione, un’opera che è insieme un chiarimento per sé ed un esempio
affidato alla visione e al giudizio degli altri: io e con. Inoltre,
contrariamente allo specchio, la pittura del volto continuerà ad esistere anche
quando il soggetto originario si sarà allontanato o addirittura morto: una
patente d’ immortalità.
Henri Matisse, Odalisca in pantaloni rossi (1921) |
René Magritte, Lo stupro (1945) |
Meglio ancora, alla statua femminile d’invenzione, trasformata dall’amore del suo autore, Pigmalione, con l’aiuto di Venere, in viva e palpitante fanciulla (v. F. Gualdoni). Qui il ri del tratto si muove al contrario, dalla pietra al corpo vivo. Siamo ovviamente nel mondo della immaginazione, dove si muove pure il più recente e popolare ‘Ritratto di Dorian Grey’. Tralascio il capitolo del cinema, col quale inizia un altro mo(n)do di rappresentare.
Anche se il ‘900 trasforma profondamente il modo di rendere il viso/volto, sia auto che altro, il rapporto con lo schema di fondo, Il pittore e la modella, per adoperare un titolo di Picasso, rimane. E rimane pure il piacere di vederne tante diverse declinazioni in mostra a Palazzo Reale e nella mostra portatile del catalogo Skira.
ANCORA FORTUNATO SCARPA
Tre sedie di Scarpa |
Nella stessa pagina del settimanale si parla di una mostra
tenutasi a Merano nel novembre scorso “sul rapporto tra arte e oggetti a partire da chi l’oggetto lo rese santo,Dchamp”,
l’autore, a New York nel 1917, di un
gesto clamoroso: l’esposizione (rifiutata) di un orinatoio di ceramica
capovolto, col titolo “Fontaine”. Il primo di una serie di readymades firmati ed esposti, da quel
momento in poi,nelle Gallerie d’arte di tutto il mondo.
Sempre nella stessa rubrica “Arte Passioni”, Massimiliano Fuksas ricorda l’artista americano
Walter De Maria, morto il 25 luglio
scorso, con alcune sue opere o ‘installazioni’ che rientrano di quella che si è
chiamata Land Art. Per esempio 400
pilastri di acciaio piantati nel deserto nel Nuovo Messico, “The Lighthing Field” “per attirare i
fulmini, riprenderli e fotografarli”. Anno 1977. Oppure “The Vertical Earth Kilometer”, “una barra d’acciaio di 5 cm di
diametro e
Non penso qui di sviluppare temi complessi, propri di alcune esperienze, quelle citate, che hanno segnato le diverse imprese artistiche del ‘900. Misono servite soltanto per sottolineare le grandi differenze che hanno caratterizzato quelle imprese, la moltiplicazioni delle strade, alcune più fortunate altre meno, ma, nel loro insieme, capaci di esprimere una ricca pluralità che nessuna “conoscenza della storia dell’arte” può ridurre a traccia unica e privilegiata, con il monopolio dell’A maiuscola di Arte. Non certo il glamour o il mercato e il collezionismo che vi è pure connesso. Non perché il mercato rappresenti ‘il maligno’ mentre l’arte bella voli beata tra le nuvole, ma perché le capacità d’invenzione, la sorpresa di un incontro, di una imprevedibile novità vanno colte dovunque, nel laboratorio dello sconosciuto Scarpa come nella brillante Factory di Warhol, nella passione di Artaud come nell’algida intelligenza di Duchamp: una conquista per tutti, un respiro di libertà e di futuro di cui tutti sentiamo il bisogno.mille metri di lunghezza, infilata quasi del tutto nella terra”.
FORTUNATO, COLPI D'ASCIA GENTILI
Vorrei cominciare con un cenno alla
55esima Biennale veneziana, tuttora in corso, curata da Massimiliano
Gioni. Il suo titolo, “Palazzo Enciclopedico” è ripreso da un
modello costruito negli anni ’50 dall’artista autodidatta Marino
Auriti, “un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il
sapere dell’umanità”.
Il Padiglione centrale inizia con le pagine de “Il Libro Rosso” che Carl Gustav Jung elaborò a partire dal 1915 ca., un insieme di visioni, incubi e fantasie personali, che lo psichiatra cercò di fissare e commentare per più di 16 anni. Una introduzione che giustifica le varie presenze, solitamente estranee alle rassegne e compendi d’arte, come le figure grottesche e apocalittiche del prussiano Friedrich Schöder-Sonnenstern, il simbolismo medianico di Augustin Lesage, i disegni degli Shakers americani. Fogli, tele, ricami, sculture di prigionieri, ricoverati in ospedali psichiatrici, visionari, anomali di varia natura, che già avevano interessato Jean Dubuffet , a cui si deve la definizione di “Art Brut”. E già, molto prima, avevano interessato gli amici di Rousseau il Doganiere e gli appassionati di maschere africane. Ora, non si tratta soltanto di espandere la figura dell’artista nei territori dell’estraneo, dell’irregolare, in una società apparentemente onnivora come la nostra, ma di accentuare la fine dei modelli, la fragilità delle guide ufficiali, dei riferimenti costituiti. Cosa che mi sembra sempre opportuna, considerando la facilità con la quale si costruiscono (e si dismettono) monopoli, figure, opere, sorrette dalle aste e dalle disponibilità dei collezionisti. Questa comparsa di elementi nuovi, assenti dalle pagine dei rotocalchi o delle riviste specializzate, comporta però anche una fatica maggiore da parte dello spettatore: una informazione preventiva, un breve inquadramento dell’autore, del personaggio, dei suoi strumenti, dei suoi mezzi, che ci metta nelle condizioni di entrare nel suo mondo. Così i pazienti visitatori della Biennale incollano il viso sulle piccole schede a muro che accompagnano le opere di autori sconosciuti ai più. Molti non guardano neppure e ripetono il gesto del turista: col braccio allungato fotografano le scritte.
Le leggeranno poi.
Il Padiglione centrale inizia con le pagine de “Il Libro Rosso” che Carl Gustav Jung elaborò a partire dal 1915 ca., un insieme di visioni, incubi e fantasie personali, che lo psichiatra cercò di fissare e commentare per più di 16 anni. Una introduzione che giustifica le varie presenze, solitamente estranee alle rassegne e compendi d’arte, come le figure grottesche e apocalittiche del prussiano Friedrich Schöder-Sonnenstern, il simbolismo medianico di Augustin Lesage, i disegni degli Shakers americani. Fogli, tele, ricami, sculture di prigionieri, ricoverati in ospedali psichiatrici, visionari, anomali di varia natura, che già avevano interessato Jean Dubuffet , a cui si deve la definizione di “Art Brut”. E già, molto prima, avevano interessato gli amici di Rousseau il Doganiere e gli appassionati di maschere africane. Ora, non si tratta soltanto di espandere la figura dell’artista nei territori dell’estraneo, dell’irregolare, in una società apparentemente onnivora come la nostra, ma di accentuare la fine dei modelli, la fragilità delle guide ufficiali, dei riferimenti costituiti. Cosa che mi sembra sempre opportuna, considerando la facilità con la quale si costruiscono (e si dismettono) monopoli, figure, opere, sorrette dalle aste e dalle disponibilità dei collezionisti. Questa comparsa di elementi nuovi, assenti dalle pagine dei rotocalchi o delle riviste specializzate, comporta però anche una fatica maggiore da parte dello spettatore: una informazione preventiva, un breve inquadramento dell’autore, del personaggio, dei suoi strumenti, dei suoi mezzi, che ci metta nelle condizioni di entrare nel suo mondo. Così i pazienti visitatori della Biennale incollano il viso sulle piccole schede a muro che accompagnano le opere di autori sconosciuti ai più. Molti non guardano neppure e ripetono il gesto del turista: col braccio allungato fotografano le scritte.
Le leggeranno poi.
Ecco, questa breve introduzione forse
ci aiuta ad incontrare i lavori di Fortunato Scarpa. Occorre
spostarci in un luogo appartato della periferia veneziana, là dove
s’impone, all’uscita di una strettoia, la facciata chiara e
geometrica di San Pietro di Castello, chiesa palladiana dal cui
sagrato si ammirano le antiche mura dell’Arsenale. Di fronte al bel
campanile bianco, che sale di fianco, per conto suo, gentilmente
inclinato, si apre, facendo intravedere un chiostro un po’
malandato, il portone dell’ex Palazzo del Patriarca, con tanto di
stemma. Sì, perché questa chiesa era la sede del Patriarca di
Venezia (v. immagine di Scarpa), sino a quando Napoleone non lo
trasferì a San Marco, la basilica dei Dogi.
Entrando nella chiesa, le opere di
Scarpa sono quasi nascoste negli angoli delle grandi navate o
accumulate in sagrestia: sono… non semplici sedili, ma seggiole stravaganti, scolpite, rimontate, dipinte, riformate (v. le
immagini), ospiti inquieti piuttosto che riveriti ausilii di natiche
riposanti.
La storia dell’autore è raccontata dai familiari perché lui, il mastro- scultore, ancora in vita e presente nel suo laboratorio, per l’età avanzata e gli acciacchi relativi non è più in grado di comunicare facilmente. Dunque Fortunato Scarpa, terminata negli anni ‘20 l’attività lavorativa come carpentiere nei Cantieri navali veneziani, cerca come celebrare la sua libertà dipensionato. Inizia con la pittura, copia riproduzioni di Ligabue e paesaggi di Venezia. Riprende i suoi vecchi strumenti e si diverte a intagliare Pinocchi di varie dimensioni sui quali dipingere le sue particolari visioni lagunari. Quando il parroco di San Pietro gli chiede di riparare banchi e seggiole della chiesa, entrambi ci prendono gusto. Perché non rifare tutto e meglio? Comincia così una nuova attività, la ricerca dei materiali di scarto, docili al riuso: dipinti accantonati di Madonne e Gesù, stemmi, croci, ma anche pezzi da ri-sagomare, residui di mobili, decorazioni, lastre di marmo. Le strutture di partenza sono le ‘Savonarola’ con le zampe leonine, sia nella forma grande che in quella di sgabello: traforate, ingrandite, colorate si trasformano negli angelici ‘troni’ e ‘dominazioni’. Fortunato, consultandosi con Don Bruno, raccoglie, pialla, incide, incolla, colora, lucida e infine regala alla sua chiesa , che ne conserva circa 25. Ma pure ne fa dono alle due chiese vicine, sempre nel sestiere di Castello, San Giuseppe e San
La storia dell’autore è raccontata dai familiari perché lui, il mastro- scultore, ancora in vita e presente nel suo laboratorio, per l’età avanzata e gli acciacchi relativi non è più in grado di comunicare facilmente. Dunque Fortunato Scarpa, terminata negli anni ‘20 l’attività lavorativa come carpentiere nei Cantieri navali veneziani, cerca come celebrare la sua libertà dipensionato. Inizia con la pittura, copia riproduzioni di Ligabue e paesaggi di Venezia. Riprende i suoi vecchi strumenti e si diverte a intagliare Pinocchi di varie dimensioni sui quali dipingere le sue particolari visioni lagunari. Quando il parroco di San Pietro gli chiede di riparare banchi e seggiole della chiesa, entrambi ci prendono gusto. Perché non rifare tutto e meglio? Comincia così una nuova attività, la ricerca dei materiali di scarto, docili al riuso: dipinti accantonati di Madonne e Gesù, stemmi, croci, ma anche pezzi da ri-sagomare, residui di mobili, decorazioni, lastre di marmo. Le strutture di partenza sono le ‘Savonarola’ con le zampe leonine, sia nella forma grande che in quella di sgabello: traforate, ingrandite, colorate si trasformano negli angelici ‘troni’ e ‘dominazioni’. Fortunato, consultandosi con Don Bruno, raccoglie, pialla, incide, incolla, colora, lucida e infine regala alla sua chiesa , che ne conserva circa 25. Ma pure ne fa dono alle due chiese vicine, sempre nel sestiere di Castello, San Giuseppe e San
Francesco di Paola. Accanto
alle sedie anche tavolini, alcuni con piano di marmo inciso. Fuori
sede sono state collocate una nel Palazzo dell’attuale Patriarcato
e sei, più semplici, nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei
Frari. Questo non significa che i lavori di Scarpa siano
particolarmente conosciuti e apprezzati.
Con i loro rilievi ingombranti sono sedili scomodi e troppo pesanti. Non sai dove metterli. Sono nate strane e rimangono estranee. Fortunato non obbedisce a progetti, a idee preordinate che non siano ri-fare un sedile e connetterlo genericamente ad un gusto chiesastico. Fortunato è un bricoleur; non crea, non vuole puntare sulla novità, su di una differenza che lo distingua, ma neppure continuare un passato, definire uno stile. Il modo in cui assembla è suggerito dagli oggetti che trova, dalle illustrazioni che sfoglia, dai frammenti abbandonati nei ripostigli che, secondo il colore e la collocazione possono diventare un’ostia o un pomo di un bracciolo: non compone ma ri-compone. I suoi troni non hanno un tempo e uno spazio definito. E qui sta la vicinanza con alcuni artisti presenti in questa Biennale: non rappresentano uno stile, non appartengono ad una scuola, non aspirano ad una Galleria d’arte. Una vicinanza anche con la impostazione del Palazzo Enciclopedico: non si tratta di rincorrere un post o un pre o un anti-moderno. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano i nostri e altrui passaggi che noi con presunzione chiamiamo ‘storia’. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano anche la storia minima, i passaggi, le trasformazioni, le congiunzioni dell’artigiano-scultore Fortunato, estraneo ad ogni presunzione culturale, mastro d’ascia e di sorprendenti mescolanze combinatorie.
Con i loro rilievi ingombranti sono sedili scomodi e troppo pesanti. Non sai dove metterli. Sono nate strane e rimangono estranee. Fortunato non obbedisce a progetti, a idee preordinate che non siano ri-fare un sedile e connetterlo genericamente ad un gusto chiesastico. Fortunato è un bricoleur; non crea, non vuole puntare sulla novità, su di una differenza che lo distingua, ma neppure continuare un passato, definire uno stile. Il modo in cui assembla è suggerito dagli oggetti che trova, dalle illustrazioni che sfoglia, dai frammenti abbandonati nei ripostigli che, secondo il colore e la collocazione possono diventare un’ostia o un pomo di un bracciolo: non compone ma ri-compone. I suoi troni non hanno un tempo e uno spazio definito. E qui sta la vicinanza con alcuni artisti presenti in questa Biennale: non rappresentano uno stile, non appartengono ad una scuola, non aspirano ad una Galleria d’arte. Una vicinanza anche con la impostazione del Palazzo Enciclopedico: non si tratta di rincorrere un post o un pre o un anti-moderno. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano i nostri e altrui passaggi che noi con presunzione chiamiamo ‘storia’. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano anche la storia minima, i passaggi, le trasformazioni, le congiunzioni dell’artigiano-scultore Fortunato, estraneo ad ogni presunzione culturale, mastro d’ascia e di sorprendenti mescolanze combinatorie.
CHAIM SOUTINE (CHAIMAS SUTINAS), UN
PITTORE LITUANO A PARIGI.
Autoritratto con tenda (1917) |
Una coincidenza particolare:
dalla Lituania, dalla confinante Bielorussia e Polonia, tutti Paesi
sotto il potere della Russia zarista e un tempo uniti in una
“Repubblica dei due stati”, artisti ebrei lasciano le loro case
per raggiungere la città delle arti, delle sfide, degli incontri
desiderati, Parigi, la Ville Lumière. Un esilio desiderato
per gruppi già abituati alla mobilità, spesso forzata, propria
delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. ‘Essere fuori’
per alcuni non è una perdita, ma un modo, forse l’unico modo per
elaborare quel ‘dentro’ che hanno lasciato, di sé, della
propria infanzia, del proprio paese, della propria lingua. Per gli
artisti ebrei valevano forse due altre ragioni principali: esclusi
per il loro ‘status’, la scarsezza degli insegnamenti artistici
aggiornati a cui potersi iscrivere (anche Bakst e Diaghilev lasciano
S. Pietroburgo per Parigi) e le vessazioni a cui erano spesso
sottoposti, senza ‘patrie’ di protezione. Ma pure l’ambiguità
del ghetto, dello shtetl, le gerarchie rigide, le costrizioni,
i divieti rituali. Dice Chagall: soltanto “qui, nella “Ruche”,
a Parigi, in Francia, in Europa, io sono un uomo” (p. 103). Cito
alcuni nomi nella trascrizione francese: Moïse Kisling, Pinchus
Krémègne, Michel Kikoïne, Aizik A. Feder, Ossip Zadkine, Jaques
Lipchitz. Altri, più giovani, come il lituano Mark Rothko (Markus
Rotkowiis), esule negli USA.
Riprendo la figura di Chagall e
la paragono a quella dell’appena più giovane Soutine. Due storie
simili e opposte. Chaim (Chaimas) nasce nel 1893 o ‘94 a Smilovii,
un povero villaggio di contadini e piccoli artigiani ebrei, e i
Sutinas sono tra i più poveri. Salomon, il padre, fa lavori di
rammendo mal pagati. Chaimas, decimo di undici figli, svogliato a
scuola, vive un’infanzia di punizioni e di stenti. Al contrario
Moishe Segal (e poi Šagal-Chagall), il primo di nove figli, cresce
in una famiglia modesta ma benestante: il padre, molto religioso,
lavora presso un mercante di aringhe, la madre organizza una
drogheria casalinga. Vitebsk è una bella cittadina di circa 60.000
abitanti, la metà ebrei. E’ il mondo di Chagall che sempre ritorna
nelle sue pitture. Ci sembra di conoscerlo: slitte, carretti,
samovar, violinisti sui tetti, barbe di rabbini e profeti, pesci
volanti, rotoli della Torah, coppia di amanti, il viso di lei,
l’amata. La lunga vita del pittore (1887-1985), fortunata e
creativa, continuamente nutrita dai sogni della sua infanzia e
giovinezza (ma pure l’incubo del pogrom cosacco alla sua
nascita), è ben documentata da mille pubblicazioni, cartelle di
incisioni, vetrate, mostre, dalle sue memorie, e dalle memorie
dell’indimenticabile compagna Bella Rosenfeld, scritte in yddish
nel 1939 e pubblicate dopo la sua morte a New York nel 1944 (ora, per
Donzelli 2012, “Come fiamma che brucia”), insieme fuggiti
dalla Francia e dalle persecuzioni naziste. E da lei la descrizione
del viso di lui, il giovane incontrato dall’amica Thea: “…Un
viso bianco quanto la parete.
La pazza (1919) |
Ha i capelli scompigliati. I suoi ricci
ricadono giù, si arrotolano, si incollano alla fronte, nascondono
occhi e sopracciglia.
Ma quando gli occhi si aprono
un varco sono blu, venuti dal cielo. Occhi stranieri, non come
quelli di tutti, lunghi, a mandorla. Ogni occhio guarda dal proprio
lato, barchette che si allontanano una dall’altra. Non ho mai visto
occhi simili da fauno, se non in un bestiario illustrato. Bocca
spalancata, non so se intenda parlare o mordere con i suoi denti
bianchi e taglienti. Tutto in lui è movimento, come in un animale a
riposo pronto a spiccare un balzo in qualunque istante” (p. 227).
La tradizione favolistica e popolare innestata nella libertà
rappresentativa delle ‘Avanguardie’, incontrate a Parigi nel
1910, ne faranno un personaggio affettuosamente ben’accolto sia dai
collezionisti e specialisti raffinati sia dal vasto pubblico. E tanto
basta per una figura d’eccezione, ben conosciuta, saldamente
collocata nel Pantheon dei grandi.
Tutto il contrario per
Chaim Soutine, nomi che adopero nella trascrizione francese con la
quale l’artista si firmerà e sarà riconosciuto. Per notizie
dettagliate rimando agli scritti di Marc Rastellini e in particolare
all’ultimo catalogo pubblicato quest’anno, in occasione della
mostra di Palazzo Reale di Milano, tuttora in corso,
“Modigliani-Soutine e gli artisti maledetti”, Ediz.
24ORE Cultura.
Una spinta a
disegnare e colorare, a cercare una via di fuga da un gruppo
familiare misero e oppressivo. L’esecuzione di un ritratto, forse
del rabbi di Smilovii - un insulto alla tradizione aniconica ebraica
– e la risposta violenta, una scarica di botte, conduce in ospedale
il giovane Chaim. La somma del risarcimento è il denaro necessario
al viaggio a Minsk, dove, al corso di disegno, incontra Michel
Kikoine, col quale torna a Vilnius iscrivendosi alla Scuola di Belle
Arti. Insieme all’aspirante pittore Pinchus Kremegne, il terzetto,
sempre in cerca di un piatto di cibo e di un letto per dormire,
partecipa alla vita di una ‘vera città’: teatri, concerti,
mostre, feste. Decidono di raggiungere Parigi: nel 1912 Kremegne,
l’anno dopo Soutine e Kikoine. body artists, alle
Performances di oggi.
Ed ecco cosa dice Jean Leymarie del pittore quando la crisi
era passata: “Seguiva un rituale segreto e complicato, simile alla
preparazione materiale dei mistici: nella scelta della tela, intanto,
che doveva essere vecchia e già dipinta, come vivente, per meglio
innestarvi la nuova energia; nella scelta di un modello o di un
motivo appropriati, della luce o della espressione propizie. Al
momento di gettarsi sulla tela, i colori erano tutti disposti
attentamente, e per ogni sfumatura, per ogni intensità c’era un
pennello apposito. Cominciava con una quarantina di pennelli e li
gettava uno dopo l’altro in terra, appena li aveva adoperati: era
tale la sua frenesia che un giorno, nel bel mezzo del lavoro, si
slogò un pollice. “Tutto – diceva – dipende dal modo di
mescolare il colore, di prenderlo e di posarlo sulla tela”… Se il
risultato non gli sembrava assoluto… distruggeva senza pietà.
Collezionisti e mercanti senza scrupolo hanno a volte rovistato nella
sua spazzatura per ricostruire abusivamente opere lacerate” (Ibd.
P. 28). Più tardi Drieu La Rochelle conferma: “attorno a lui,
tubetti e pennelli son disseminati a terra, sventrati o spezzati”.
“Era capace di stendere la pittura sulla tela con le sue stesse
mani intrise di colore, e gliene rimaneva sotto le unghie. Terminato
il lavoro, collocava il quadro contro una parete in modo che se ne
vedesse solo il retro; non tollerava che si osservasse ciò che aveva
dipinto “ ( M.Restellini, 24Ore, cit. da Garde, Gerda G., p. 170).
Scalinata rossa a Cagnes (1918) |
Il bue (1920) |
Paesaggio di montagna (1920) |
Non dunque negare gli stimoli da
Rembrandt o dalla ‘uccisione rituale’ (shechital), da Courbet o
dalla antica fame patita, ma inserirli nella grammatica vorticosa dei
rossi e dei bianchi, il sangue animale, il pollo morente, il bue
squartato e la stoffa dei chierichetti, i paesi sconvolti, i grandi
alberi rutilanti. Un equilibro non facile: trasferire un minimo di
controllo nel dinamismo vitale, articolare il flusso in una
grammatica di segni senza interromperlo, senza snaturarlo. Saper
cogliere il momento giusto, forzare l’inerzia del colore.
Confusione e maniera, i due estremi pericoli.
Che questo instabile equilibrio fosse la sua strada, la sua
conquista cercata e raggiunta, lo dimostra la costanza con cui venne
mantenuto, anche quando muore nel ‘20 il suo amico e protettore
Modigliani, ma specialmente quando la sua vita muta nel ‘22, dopo
l’intervento di Barnes, accompagnato dal mercante Paul Guillaume:
3.000 dollari di acquisti. Persino il dubbioso Zborowski lo fa
accompagnare da un autista con macchina e gli paga un salario. Il
pittore “brutto e sporco si trasforma in un dandy” (M.
Restellini, p. 166 24Ore). Ma la depressione e gli attacchi di ulcera
non l’abbandonano. Non sopporta di stare da solo. Paulette Jourdan,
ex modella di Modigliani, lo segue e l’aiuta. Nel 1927 Waldemar
George scrive la prima monografia nella collana “Gli artisti
ebrei”. I coniugi Madeleine e Marcellin Castaing, appassionati
collezionisti, lo proteggono e ospitano in una bella residenza di
campagna a Lèves. Con essi si comporta, nota M. Sachs, “come un
bambino viziato, mostrandosi non solo depresso e imprevedibile, ma
capriccioso e maleducato” (Ibd. p. 169). La sua pittura non conosce
particolari rasserenamenti. 1937, al
café du Dôme, a Parigi, Soutine incontra Gerda Groth, nata
Michaelis, una ebrea tedesca in fuga dalla Germania nazista, che si
prende cura di lui, malato e mal nutrito. Forse l’ulcera è
degenerata in cancro. La chiama “Mademoiselle Garde”. Frequentano
il cinema e incontri di box e catch. Scoppiata la guerra, nel 1940
Garde viene internata a Gurs, nei Pirenei, da dove, dopo l’armistizio
di giugno, riesce a liberarsi. Non rivedrà il suo compagno, che
forse cerca la fuga a New York, senza risultati. Unitosi a
Marie-Berthe Aurenche, ex moglie di Max Ernst, è segnalato al
Commissariato parigino come “rifugiato russo…ebreo”. Insieme
continuano a cambiare indirizzi. Meglio la campagna che la città.
Tormentato dai dolori Soutine viene trasportato d’urgenza in
ospedale con un’ambulanza mimetizzata. E’ l’agosto del 1943:
ulcera perforata, l’operazione, la morte… Nella Parigi occupata,
sfidando il controllo nazista, poche persone partecipano ai suoi
funerali al cimitero di Montparnasse: tra queste Picasso, Max Jacob,
Jean Cocteau. Non ci sono conclusioni generali a questo tragico
racconto. Arte e vita, difficile separazione, difficile
congiunzione.
Bambina con vestito rosa (1938) |
Venezia. Devo confessare che
iniziare questa forma di comunicazione telematica, per me, non è
stato così facile come pensarmi, scrittore o lettore, su di una
pagina stampata, là dove regna(va) la lentezza, il ritorno, la
pausa. Vorrei scusarmi perciò di trasportare in questa, per me,
nuova forma alcune abitudini e fronzoli delle abitudini precedenti.
Ora vengo al soggetto che vi propongo,
la mostra di “Manet ritorno a Venezia”, accompagnata
dall’ottimo catalogo pubblicato da Skira, di cui mi servirò io
stesso, saggi scritti e mostra progettata da Gabriella Belli e Guy
Cogeval, curata da Stéphane Guégan, aperta al Palazzo Ducale sino
al 18 di agosto. Catalogo e mostra di grande qualità.
Il punto centrale è costituito
da due dipinti , uno modello dell’altro: la “Venere di Urbino”,
Tiziano 1538, la “Olympia” di Manet, 1863, accostati, in mostra,
l’uno accanto all’altro. Modello? Omaggio? Provocazione?
"Olympia" di Manet, 1863 |
Comincio con uno scritto di Savinio del 1947: “Fine dei modelli”. “Coloro che a quel tempo [alla vista della Olympia] gridarono allo scandalo, sarebbero stati ben meravigliati di apprendere che quell’opera di modesta apparenza, raffigurante una magra giovinetta coricata nuda su un letto e assistita da una fantesca negra, aveva una importanza “cosmica”, in quanto era la prima manifestazione pittorica d’un profondo rivolgimento avvenuto nel concetto dell’universo […] il primo segnale che l’uomo aveva perduto gli augusti modelli che fino allora lo avevano guidato, e che d’ora innanzi gli toccava di camminare da solo e privo di un’altra guida”. Il suo diventa uno sguardo orizzontale, continua Savinio, senza sensi obbligati, senza picchi verticali ben visibili, raccogliendo qui e là pezzi, residui, echi, flussi come nella scrittura di Proust o di Joyce. Così è l’Olympia di Manet (e qui continuo io): alle orecchie le perle di Venere, al braccio il braccialetto di Venere, invece delle trecce un fiocco, invece di un mazzo di fiori in mano, i fiori stampati sullo scialle di cui ha liberato la propria fredda nudità. I fiori veri, ben disposti nel bianco delle carte, sono l’omaggio che qualcuno ha affidato alla servente perché vengano consegnati alla giovinetta. L’annuncio di uno scambio tranquillamente pattuito. Poi quel filetto nero sul collo, un collare, e quelle scarpe, una calzata e l’altra vuota, a segnare la causalità della posa e lo stacco del viso appoggiato su di un corpo libero da pensieri. E trascuro l’ovvia contrapposizione tra il gatto nero minaccioso e il fedele cane dormiente ai piedi della Venere. Con la più abile replica il modello è stravolto. Non la negazione totalizzante, clamorosa delle avanguardie future, l’aspirazione ad un mondo rifatto tutto daccapo, tutto/niente, ma il gioco silenzioso dello scarto, del passo di lato, un ricordo a metà, un vedere e non vedere, un citare per dimenticare, un tra-vedere e omettere. Simile rimando e lontananza ne Le déjeuner sur l’herbe rispetto all’altro Tiziano del Concerto campestre. Giovane elegante, compassato, discretamente ambizioso, Manet, senza urla e fanfare, segnava così una delle più importanti rivoluzioni del gusto. Giustamente il curatore Stéphane Guégan cita Jean Clay del 1983: “Non siamo più nel registro della citazione riverente, ma in quello del prelievo e del riutilizzo. Manet preleva alla rinfusa: ribalta, assembla, modifica. In questo rapporto del tutto prosaico con la tradizione, la storia dell’arte […] si vede contestare il magistero silenzioso che esercitava su ogni giovane pittore, fin dal suo primo colpo di pennello”. Ogni autorità riconosciuta, ogni guida sicura è scomparsa. Da questo momento i riferimenti significativi l’artista ‘moderno’ li assumerà a suo rischio e pericolo.
Altro
punto, la direzione degli sguardi. E qui mi riferisco alle belle
pagine di Michel Foucault di ‘Le parole e le cose’e di
alcune conferenze successive. In quasi tutti i quadri di Manet
ritrovi lo stesso rimando esterno: due occhi ti guardano. C’è
uno spazio invisibile, fuori dal quadro, che, non visto, indirizza i
movimenti della scena dipinta. In precedenza la scena della pittura
cercava di ritagliarsi, di spiegarsi tutta dentro il perimetro
dipinto. Il dialogo, le luci, gli spazi si radunavano all’interno
dell’opera, che in questo modo portava con sé il proprio
significato. Ora c’è un vuoto. Il centro dell’attenzione si
concentra fuori, nella invisibilità dello spettatore. A lui è
demandato il completamento della scena: sciogliere l’enigma. Cosa
dice, e a chi, il personaggio maschile a destra del Déjeuner?
E la modella nuda, sbiancata da una luce frontale, che ti guarda?
L’insieme dipinto, non più garantito dai ‘maestri’, è
incompleto, disturbato, interrogativo, e lo sarà sempre di più
negli anni futuri: il segnale di quel rivolgimento di cui parlava
Savinio.
Ritorno agli sguardi, ora al plurale. Spesso infatti la invisibilità
è doppia, come ne Le chemin de fer, dove la donna si rivolge
al guardante fuori dal quadro e la bambina, di schiena, a qualcosa
dietro al quadro, nascosto dai fumi della stazione. C’è poi una
invisibilità parziale, come ne La Serveuse de bocks”: lei
si volta a guardarti, ma il cliente con la pipa e quello con il
cilindro guardano altrove, là dove s’intravede appena un
particolare, un braccio e un profilo di gonnella, forse il
suggerimento di un teatrino (il quadro è stato tagliato, ma
dall’autore). Ecco dunque il particolare che introduce un altro
spazio del tutto diverso dal soggetto centrale: in Lola de Valence
attori e pubblico sono appena accennati dietro il profilo delle
quinte, in Bal masqué à l’Opéra i piedi e le gambe della
balconata, in Jeune dame à son piano la pendola (il tempo)
riflessa nello specchio. Dal piccolo specchio della Jeune dame a
quello grande de Le Bar aux Folies-Bergère. Entrambi,
specchi dipinti, restituiscono lo spazio davanti o dietro al
soggetto: una pittura che riflette la pittura, sbilanciandone l’unità
con la pluralità dei punti di vista. La ragazza centrale del Bar,
i palmi delle mani sul tavolo, ti guarda trasognata di fronte,
pressappoco alla tua altezza, mentre nello specchio il tavolo aumenta
la vista dall’alto, la ragazza riflessa di schiena e, ancora di
più, l’uomo che sembra interloquire con lei (quindi non sei tu),
tutti e due rappresentati più grandi, di lato e dal basso. I piccoli
spettatori della balconata guardano dalla parte opposta verso, si
presume, un invisibile palco. Insomma la finzione dello specchio
invece di chiarire, ancor più della foto, la scena, ne frammenta
l’unità, moltiplicando a sorpresa le persone, gli angoli, le
grandezze. Lo specchio non serve a riconoscermi ma a disconoscermi.
Sguardi obliqui, rimandi, riferimenti
interrotti, trabocchetti. Una scena dipinta con piglio sicuro, con
sfumature ben calibrate, mossa su vari piani da gran maestro, insinua
non una via sicura ma un labirinto, non delle forme chiuse ma delle
mancanze, non la tranquillità della conclusione ma l’inquietudine
dell’incertezza. Ho cercato di riprendere
soltanto alcuni dei molti aspetti che una personalità solo
apparentemente lineare ci offre con le sue opere e la sua biografia,
che qui ho lasciato da parte; con la sua formazione accademica
presso Couture; con i suoi viaggi di apprendimento in Europa e
specialmente, come nel caso di questa mostra veneziana, in Italia, a
Venezia, due volte, a Firenze e forse a Roma; con i suoi rapporti non
facili con gli amici ‘imprressionisti’, con le sue modelle, con
Zola, con i collezionisti, con i politici ecc. Una figura complessa
della quale spero di aver dato almeno un invito ad approfondire.
QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo
CEZANNE. I TRE
INSEPARABILI
Claude (Cezanne),
Sandoz (Zola), Dubuche (Baille), “i tre inseparabili… si erano legati subito e
per sempre, spinti da segrete affinità, il tormento ancora vago d’una comune
ambizione”, scorrazzavano in gite anche
di parecchi giorni, “fughe dal mondo, istintivo abbandono al seno della buona
natura… Claude si portava già dietro… un
album dove disegnava scorci di
paesaggio, mentre Sandoz aveva sempre in tasca il libro d’un poeta… In quella
provincia arretrata, nel cuore della
torpida stupidità, erano vissuti dai quattordici anni , così, isolati,
entusiasti, divorati dalla febbre della letteratura e dell’arte”. I tre giovani
corrono per la campagna provenzale, nuotano nei fiumi, compongono versi, sognano
destini gloriosi, recitano brani di Hugo e de Musset. (E. Zola, L’œuvre 1886).
Sono passati trent’anni quando Zola, autore di successo, scrive, voltandosi indietro, della sua adolescenza insofferente nell’assolato meridione, della sua stretta amicizia con un coetaneo bizzarro, predominante, Paul Cezanne, già pittore. Questi, inquieto nella sua produzione giovanile, “con la brutalità dei timidi”, recalcitrante compagno degli “Impressionisti” a Parigi, dalla fine degli anni ’80 alla morte, nell’ottobre del 1906, vive e dipinge nelle terre della sua infanzia “in una reclusione ostinata” (G. Geffroy), con la rara visita di qualche ammiratore. La sua pittura della maturità, contrariamente alle sue prove giovanili, viene lentamente, poco per volta considerata base fondamentale delle innovazioni del ‘900.
Sono passati trent’anni quando Zola, autore di successo, scrive, voltandosi indietro, della sua adolescenza insofferente nell’assolato meridione, della sua stretta amicizia con un coetaneo bizzarro, predominante, Paul Cezanne, già pittore. Questi, inquieto nella sua produzione giovanile, “con la brutalità dei timidi”, recalcitrante compagno degli “Impressionisti” a Parigi, dalla fine degli anni ’80 alla morte, nell’ottobre del 1906, vive e dipinge nelle terre della sua infanzia “in una reclusione ostinata” (G. Geffroy), con la rara visita di qualche ammiratore. La sua pittura della maturità, contrariamente alle sue prove giovanili, viene lentamente, poco per volta considerata base fondamentale delle innovazioni del ‘900.
Spero che si ricavi da queste poche righe la vicinanza di questo
‘caso’ Cezanne con quelli di Morandi e di Opalka, dei quali mi sono occupato
nei numeri precedenti di “Odissea”: la forte spinta pulsionale, la varietà
delle strategie di difesa etero e auto-dirette, lo spostamento su immagini
accettabili, vibranti, forti della pressione inconscia. L’espressione artistica,
lo stile che ne risulta si divide in due periodi diversi: il primo rozzo,
esagerato, romantico, il secondo raffinato, controllato, classico. Su questo
secondo si è più spesso concentrata, in
positivo, la riflessione: la complessità della percezione visiva, la sua
inusuale attenzione orchestrale, l’equilibrio delle forme (v. M. Denis o R. Fry o L.Venturi). Dualità che andrebbe
connessa a due diverse strategie difensive, una estroflessa, aggressiva,
scoperta, l’altra introflessa, riflessiva, nascosta. In entrambe lo sforzo paga
un prezzo nella quotidianità: i tic, le paure, la solitudine scontrosa.
Il suo aspetto di trentenne, scosso da un tremito nervoso, barbuto, un cappello malandato di feltro a coprirgli la pelata, è trasandato. Sotto un cappotto troppo grande, macchiato dalle strisce verdognole della pioggia, dai pantaloni troppo corti e gli stivali spuntano le calze blu. Al café Guérbois, dove s’incontra con i suoi amici pittori, sospettoso, parla poco, lo distingue l’accento meridionale; si allontana dal suo angolo prescelto, indispettito da un argomento che non gradisce. Conosce gli scrittori latini, recita a memoria Baudelaire, ama Flaubert e Wagner (M.L. Krumrine,“Cezanne The Earky Years”, London 1988).
“…Ci si rivelò immediatamente a tutti [Monet, Rodin, Mirbeau, Clemenceau] come un personaggio singolare, timido e violento, straordinariamente emotivo…” [A proposito di Clemenceau, avrebbe detto] “È che son troppo debole… E Clemenceau non mi potrebbe proteggere!… Non c’è che la Chiesa che mi possa proteggere” (G. Geffroy).
Il suo aspetto di trentenne, scosso da un tremito nervoso, barbuto, un cappello malandato di feltro a coprirgli la pelata, è trasandato. Sotto un cappotto troppo grande, macchiato dalle strisce verdognole della pioggia, dai pantaloni troppo corti e gli stivali spuntano le calze blu. Al café Guérbois, dove s’incontra con i suoi amici pittori, sospettoso, parla poco, lo distingue l’accento meridionale; si allontana dal suo angolo prescelto, indispettito da un argomento che non gradisce. Conosce gli scrittori latini, recita a memoria Baudelaire, ama Flaubert e Wagner (M.L. Krumrine,“Cezanne The Earky Years”, London 1988).
“…Ci si rivelò immediatamente a tutti [Monet, Rodin, Mirbeau, Clemenceau] come un personaggio singolare, timido e violento, straordinariamente emotivo…” [A proposito di Clemenceau, avrebbe detto] “È che son troppo debole… E Clemenceau non mi potrebbe proteggere!… Non c’è che la Chiesa che mi possa proteggere” (G. Geffroy).
Pochi riferimenti cronologici. Paul
Cezanne nasce a Aix nel 1839 da padre benestante e autoritario. Iscritto come interno
al collegio Bourbon, dove riceve una solida educazione umanistica, si lega con
profonda amicizia ai compagni Emile Zola e Baptinstin Baille. Superata
l’opposizione del padre, si dedica alla pittura e nel 1861 si reca a Parigi,
dove si iscrive ad una scuola privata, l’Académie
Suisse. Rifiutato all’École des Beaux-Arts, dopo un breve rientro ad
Aix, ritorna a Parigi, dove frequenta Pissarro, Bazille, Renoir, Monet e Zola, che
difende il “Déjeuner sur l’herbe” di
Manet, esposto con scandalo al Salon des
Refusés. I suoi quadri sono regolarmente inviati e rifiutati ai Salons per
sei anni di seguito, dal ’64 al ’69. Durante la guerra del 1870 si rifugia in
un piccolo villaggio del sud, l’Estaque, vicino a Marsiglia. Di nuovo a Parigi
con la compagna Hortense Fiquet, gli nasce nel 1872 il figlio Paul. A Pontoise
dipinge con Pissarro ‘sur le motif ’.
Ha 33 anni, è il momento della svolta. I suoi
dipinti del primo periodo, gli anni Sessanta, presentano una ossessiva insistenza sulle figure del gruppo famigliare
e la violenza sessuale. Il trio che si
ripete in queste opere, il maschio all’attacco, la femmina seduttrice-vittima e
l’osservatore, si ritrovano nei primi romanzi di Zola. Nel dipinto “La tentazione di S. Antonio” (un accenno
a Flaubert), il santo, alla sinistra, è tentato non dai demoni, ma da quattro
nudi femminili: tre sensuali e seduttivi, ma il quarto, accanto al fuoco,
androgino e in posa melanconica. Un aspetto che alcuni critici (v. The Earky Years cit.) hanno ravvisato
nel giovane Zola, ma pure in una ambiguità dello stesso Cezanne tra la
separatezza del monaco, l’attrazione del
nudo femminile e l’inserzione del fuoco ermafrodito. Il successivo “Déjeuner surl’herbe”, titolo ironico da Manet, è un indovinello. Il soggetto seduto sul prato (Cezanne), bruno e
stempiato accanto alla tavola, punta con il dito alla figura bionda di fronte,
un giovane dall’aspetto femminile, il suo ‘doppio’, e alla donna in piedi con
un frutto in mano, la tentazione di Eva. È con lei che si allontana alla sinistra della scena.
La donna a destra, simile alla sorella, è la temperanza. Una duplicità che
ritorna sino a “Jouers de cartes”. In seguito, invece di comparire come
partecipe dell’evento, Cezanne si ritrae come osservatore. Ne “L’Eternel Féminin” nelle vesti del pittore che dipinge il grande nudo sotto un
monumentale baldacchino, un anticipo degli ultimi ‘Mont de S. Victoire’. Nella
“Une moderne Olympia”, più che a
Manet pare vicino, per sua stessa ammissione, al Frenhofer del “Chef-d’oeuvre inconnu” di Balzac, una
infinita “moltitude de lignes bizzarres”.
La forza della pulsione erotica si ricava da altri soggetti dello stesso periodo: ‘L’Orgia’, ‘Satiri e Ninfe’ ‘Il ratto’, ‘La toeletta funebre’, ‘Assassinio’, ‘La donna strangolata’, ‘Bagnanti’, ‘Pomeriggio a Napoli (con servo negro)’. La materia pittorica spessa, schiacciata con veemenza dalla spatola, ne accentua il furore. Frequenti anche i ritratti dei famigliari, di sé e degli amici più stretti, il cerchio di protezione. L’interrogazione allo specchio, l’autoritratto, chi? quasi sorpreso da un incontro inaspettato, lo accompagnerà sempre. Il tema della natura morta è ancora incerto. Quelle col teschio non richiedono commento. ‘La pendule noire’, appartenuto a Zola, è un elogio dell’amicizia, della sua permanenza -l’orologio manca delle lancette , della vivacità d’affetti- la conchiglia mossa con i suoi labbroni. Amicizia che s’interrompe con la pubblicazione de ‘L’œvre’ citata. Claude, il pittore protagonista, tenta invano una congiunzione tra il potere dell’immagine artificiale e la pulsione erotica, tra il nudo provocante dipinto e la modella e moglie Christine. L’impossibile ‘vita’ dell’una, dell’immagine, dovrebbe crescere sull’annullamento, altrettanto impossibile, dell’altra. La doppia impossibilità spinge Claude al suicidio. Cezanne, riconoscendosi in Claude, rompe l’amicizia con Zola. Per entrambi è la fine di un’adolescenza prolungata. Dicevo della svolta del ’72. Cezanne guarda all’ “umile e colossale” Pissarro. Non c’è nero nell’ombra, non c’è contorno negli oggetti, negli alberi, nelle rocce. Dappertutto, anche sul viso, nelle mani, brilla la luce del cielo. Nel ’74 espone con gli “Impressionisti”, ma non ne condivide la felicità del plain air. La passione non si placa esaltandola, ma spegnendola nello spessore della immobilità, spandendola ovunque, rendendo di sasso il viso (povera madame Cezanne ferma, in posa per ore!) e trasparente la roccia. Lo spazio diventa una vibrazione, “una transizione” di toni, il pennello scorre in obliquo, cogliendo i punti della tensione e ritornando a cancellare, a svuotare e riprendere. Le “piccole sensazioni” coloranti tastano “il motivo”. La tela sul cavalletto, il lavoro è lento e faticoso. Disegno e colore sono la stessa cosa, “ogni oggetto partecipa dell’oggetto vicino”. Il pittore si ferma, guarda intorno pensieroso, valuta i rapporti e all’improvviso ritorna sulla tela (Emile Bernard). I due sessi, schizzati alla brava, nessun particolare anatomico, non combattono più. Addio “Lutte d’Amour”. Leggeri, tra alberi e acque, da una parte la femmina, le bagnanti, dall’altra il maschio, i bagnanti. Gli oggetti, le figure, i profili si richiamano, il sentiero sprofonda nel verde, il fondo si ribalta in primo piano, le nuvole in rocce, le rocce in corpi, lo spesso in leggero e viceversa. La geologia onnicomprensiva del paesaggio e delle case non prevede l’individualità, tanto meno l’uomo. Un silenzio, un brusio ad orecchio attento avvolge il mondo. C’è qualcosa sotto. Resiste appena il profilo della Sainte-Victoire, quante volte interrogata nell’ultimo anno, protettiva, materna. Strati sempre più sottili, memorie, percorrono il vuoto, un vuoto inquieto quanto un pieno, un tacere che sostituisce il sopratono di gioventù. Qualche segno di matita, qualche tocco d’acquerello. Cezanne forse alla terza tappa. Un soffio. Ceneri leggere, profumate, filtri del sottosuolo, di un vulcano non mai spento. Un temporale gelido di ottobre 1906 gli fermò il respiro e la mano sino all’ultimo attenta all’ocra e all’azzurro del capanno nel bosco, le cabanon de Jourdan.
La forza della pulsione erotica si ricava da altri soggetti dello stesso periodo: ‘L’Orgia’, ‘Satiri e Ninfe’ ‘Il ratto’, ‘La toeletta funebre’, ‘Assassinio’, ‘La donna strangolata’, ‘Bagnanti’, ‘Pomeriggio a Napoli (con servo negro)’. La materia pittorica spessa, schiacciata con veemenza dalla spatola, ne accentua il furore. Frequenti anche i ritratti dei famigliari, di sé e degli amici più stretti, il cerchio di protezione. L’interrogazione allo specchio, l’autoritratto, chi? quasi sorpreso da un incontro inaspettato, lo accompagnerà sempre. Il tema della natura morta è ancora incerto. Quelle col teschio non richiedono commento. ‘La pendule noire’, appartenuto a Zola, è un elogio dell’amicizia, della sua permanenza -l’orologio manca delle lancette , della vivacità d’affetti- la conchiglia mossa con i suoi labbroni. Amicizia che s’interrompe con la pubblicazione de ‘L’œvre’ citata. Claude, il pittore protagonista, tenta invano una congiunzione tra il potere dell’immagine artificiale e la pulsione erotica, tra il nudo provocante dipinto e la modella e moglie Christine. L’impossibile ‘vita’ dell’una, dell’immagine, dovrebbe crescere sull’annullamento, altrettanto impossibile, dell’altra. La doppia impossibilità spinge Claude al suicidio. Cezanne, riconoscendosi in Claude, rompe l’amicizia con Zola. Per entrambi è la fine di un’adolescenza prolungata. Dicevo della svolta del ’72. Cezanne guarda all’ “umile e colossale” Pissarro. Non c’è nero nell’ombra, non c’è contorno negli oggetti, negli alberi, nelle rocce. Dappertutto, anche sul viso, nelle mani, brilla la luce del cielo. Nel ’74 espone con gli “Impressionisti”, ma non ne condivide la felicità del plain air. La passione non si placa esaltandola, ma spegnendola nello spessore della immobilità, spandendola ovunque, rendendo di sasso il viso (povera madame Cezanne ferma, in posa per ore!) e trasparente la roccia. Lo spazio diventa una vibrazione, “una transizione” di toni, il pennello scorre in obliquo, cogliendo i punti della tensione e ritornando a cancellare, a svuotare e riprendere. Le “piccole sensazioni” coloranti tastano “il motivo”. La tela sul cavalletto, il lavoro è lento e faticoso. Disegno e colore sono la stessa cosa, “ogni oggetto partecipa dell’oggetto vicino”. Il pittore si ferma, guarda intorno pensieroso, valuta i rapporti e all’improvviso ritorna sulla tela (Emile Bernard). I due sessi, schizzati alla brava, nessun particolare anatomico, non combattono più. Addio “Lutte d’Amour”. Leggeri, tra alberi e acque, da una parte la femmina, le bagnanti, dall’altra il maschio, i bagnanti. Gli oggetti, le figure, i profili si richiamano, il sentiero sprofonda nel verde, il fondo si ribalta in primo piano, le nuvole in rocce, le rocce in corpi, lo spesso in leggero e viceversa. La geologia onnicomprensiva del paesaggio e delle case non prevede l’individualità, tanto meno l’uomo. Un silenzio, un brusio ad orecchio attento avvolge il mondo. C’è qualcosa sotto. Resiste appena il profilo della Sainte-Victoire, quante volte interrogata nell’ultimo anno, protettiva, materna. Strati sempre più sottili, memorie, percorrono il vuoto, un vuoto inquieto quanto un pieno, un tacere che sostituisce il sopratono di gioventù. Qualche segno di matita, qualche tocco d’acquerello. Cezanne forse alla terza tappa. Un soffio. Ceneri leggere, profumate, filtri del sottosuolo, di un vulcano non mai spento. Un temporale gelido di ottobre 1906 gli fermò il respiro e la mano sino all’ultimo attenta all’ocra e all’azzurro del capanno nel bosco, le cabanon de Jourdan.