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QUARTIERE LATINO

QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo
Giorgio Colombo

Il RITORNO DEL GRANDE ASSENTE


Pastorale - 1905
Matisse forse sta tornando. Due mostre su di lui, quasi contemporanee, in Italia, una a Roma, già aperta nel marzo scorso, Matisse. Arabesque, che chiuderà il prossimo 21 giugno, curata da Ester Coen, alle scuderie del Quirinale, catalogo SKIRA, con opere da vari musei tra i quali il moscovita Museo Puskin e l’Ermitage di San Pietroburgo, e la seconda, apertasi il 12 dicembre a Torino, Palazzo Chiablese, Matisse e il suo tempo , che chiuderà il 15 maggio 1916, a cura di Cécil Debray in collaborazione col 24 ORE Cultura, con opere che provengono dalle collezioni del Centre Pompidou di Parigi. Ho scelto di cominciare con un’opera del 1905, l’anno nel quale il gruppo guidato dal trentaseienne Matisse, che espone al parigino Salon d’Automne, viene battezzato scherzosamente dal critico Vauxelles con il nome di “Fauves”, “Le belve”, non pericolo di morsi selvaggi  ma una libera, inusuale scarica coloristica. Un gruppo di amici, tra i quali Marquet, Derain, Vlaminck, Braque, per breve tempo vicini ma che presto prenderanno strade diverse. Matisse, il più anziano, continuerà il suo percorso con metodo e completa dedizione, raggiungendo rapidamente riconoscimenti importanti internazionali sia tra i galleristi e collezionista che tra i colleghi e i critici d’arte. Una storia ben conosciuta, che non sto qui a ripercorrere, se non per alcuni punti che vorrei sottolineare.


Comincio con La ‘Pastorale’ del 1905. Il titolo si riferisce ad un’antica tradizione poetica, un soggetto campestre spesso accompagnato da musica. Il dipinto di Matisse ci offre due nudi di schiena, due giovani di fronte, uno dei quali suona un flauto in un ambiente vario, alberato, una scena senza data e senza storia, una eleganza di luci,  di tocchi e di linee. Spostandoci di due anni, 1907, trovo una semplificazione: ingrandimento del tema femminile (numero e pose), il mazzo di fiori, un ambiente che dai tratti ancora espliciti nella prima stesura si riduce in forme e colori più astratti. Il titolo, accorciato, riprende quello già adoperato due anni prima alla esposizione dei ‘Fauves’, ‘Luxe, calme et volupté’ diventato semplicemente : ‘Luxe’ I e II.


Luxe I e II 1907 (Donne)
Matisse ha dunque indicato la sua strada, il principio femminile come nucleo vitale, un’emozione pacata, un equilibrio sottile che esalta il rapporto delle parti, forme, colori, luci, una serenità della convivenza, senza urla e forzature. Il decoro, il decorativo, non è il futile ornamento, ma il sentimento della propria dignità. Le cancellazioni, l’esclusione, l’implicito, in una parola il processo di semplificazione, è altrettanto significativo della configurazione finale che di quel processo è il prezioso risultato.
Ora vengo alle due mostre. La prima, Arabesque, si riferisce ai numerosi spunti che Matisse ricava dalle diverse tradizioni orientali, già esposte a Parigi nei musei e nelle varie Esposizioni internazionali, tra le quali quella sull’arte maomettana a Monaco nel 1910. Viaggia in Algeria e in Marocco, più tardi visita Tangeri e infine l’Oceania. S’innamora delle moschee e delle icone bizantine, ricorda le stoffe del negozio paterno, acquista tappeti, appunta intrecci geometrici e orditi del mondo Ottomano e ortodosso.
Partecipa a quell’entusiasmo che avevo spinto molti giovani artisti  a scoprire tradizioni pittoriche fuori dall’Accademia, come l’entusiasmo di Klee, Macke e Moilliet in Tunisia o quello di Kandinskij per le isbe russe, o quello di Picasso per le statuette del museo etnografico parigino.
La seconda mostra, Matisse e il suo tempo, indaga sui numerosi rapporti intercorsi tra Matisse e gli artisti e collezionisti a lui contemporanei, per chiarire come l’artista non fosse un monumento isolato, solamente interessato alle sue proprie strette conoscenze e al conseguimento dei suoi successi personali, ma intensamente coinvolto nei risultati conseguiti da colleghi amici o rivali, dai quali ricavava suggerimenti e stimoli, come, naturalmente forniva loro i propri risultati e ricerche. Due aspetti importanti per definire la complessità della sua figura e le differenze, i salti del suo percorso. E però mi sembra di aver percepito nei decenni più vicini a noi un prolungato silenzio sulla sua opera, silenzio, intendiamoci, mai disgiunto da un indiscusso apprezzamento, il ‘monumento’ non si tocca, ma  la sua voce è diventata flebile, lontana, si perde tra il vociare più concitato, il tono alto o altissimo che ha interessato buona parte del mondo artistico contemporaneo. E allora ritorno ad alcune sue opere, cercando di individuarne il suono elegante, finissimo, smuovendone il sottostante ardore.


Grande interno rosso 1948
Il sogno 1935

Grande interno rosso è un suo luogo, propri quadri alle pareti, fiori e limoni sui tavoli, tappeti a indicare l’obliquità del pavimento, pochi segni neri, gli stessi a suggerire la differenza degli oggetti, quelli dei quadri e quelli del mobilio, pennellate di rosso vibrante con leggere variazioni, silenzio, concentrazione. L’altro dipinto è un sogno: di donna che dorme oppure è la donna che sogna, o entrambi? In ogni caso il sogno è parte del processo creativo: l’artista sogna una donna che sogna.

Attraverso numerosi passaggi e cambiamenti, Matisse, anche nei momenti più drammatici della sua vita personale e delle condizioni generali, ben due terribili guerre, ha sempre cercato di confinare la tragedia sui bordi, magari farne sentire un’eco lontano, mai al centro della scena. Mentre gran parte della cultura e della produzione artistica cercava di entrare nelle caverne più inospitali dell’animo umano, nelle crudeltà più atroci, nella ricerca, magari, di una possibile risposta, quale che fosse, la posizione di Matisse è stata diversa: mantenere ad ogni costo la serenità del saggio, dimostrare che  la pacificazione, pur raggiunta con difficoltà, con sottrazioni, non è solo possibile ma necessaria ad una sopravvivenza della dignità. Non il buio delle caverne, ma la luce delle marine, sempre amate, l’amore di Nizza, sino alla semplice cappella di Vence, no, non per una conversione, ma per una continuità. La cappella  delle monache, una delle quali era stata, prima della vestizione religiosa, sua modella e segretaria, è una ulteriore esempio di dedizione alla figura femminile, alla sua ritrosia e bisbiglio, un sussurro, un invito indiretto, o un aspetto dell’eros opposto e compagno alla generosità di quei nudi che lo hanno sempre affascinato. La tragedia va ridotta nell’angolo, non al centro. S’indovina nella sua minaccia e allontanamento, non nella sua presenza. Semplificare, togliere, non complicare, non affastellare. Come non ricordare la mano leggera di Morandi, le sue umili brocche? Ma anche un altro caso mi viene in mente, un altro caso che ho sempre ammirato, la riproduzione all’entrata della mia casa, in anni lontani, de ‘La Caduta di Icaro’ di Brueghel, che qui voglio riportare al termine del mio omaggio a Matisse. La tragedia di Icaro che annega è un piccolo particolare, quasi invisibile nella scena dove il pastore guarda il cielo, il pescatore è chino sull’acqua, il contadino ara tranquillo la terra e il vento gonfia le vele. 




Tristezza del re  195

A partire dal 1947, anche perché reso immobile dalla malattia,  Matisse sviluppa una tecnica che aveva già realizzato in precedenza nella veste di progetti, ora diventata il centro del suo lavoro, il guazzo ritagliato, che gli permette di ritagliare “al vivo” nel colore. Spiega: “Anziché disegnare il contorno e collocare al suo interno il colore -l’uno modificando l’altro-, disegno direttamente nel colore, che è tanto più misurato in quanto non è trasposto. Tale semplificazione garantisce precisione nella riunione delle due cose, che diventano un tutt’uno”, contorno e superficie (C. Debray catal. p. 17).  “Un ritmo, un significato”. Teriade ne ha fatto un volume, JazzInsieme al progetto della Cappella del Rosario a Vence si tratta delle ultime opere. Morirà a Nizza nel 1954. Ecco, anche nella vecchiaia invalidante, Matisse trova il modo di riaffermare il suo amore per la chiarezza, il riposo, l’armonia, il flauto della ‘Pastorale’.  Marcel Sembat scrive nel 1920: “Conosco uno di questi giardini (di Tangeri), rifatto tre volte ed ogni volta che l’ho visto mi sono sentito affascinare dalla vita autonoma degli alberi, delle erbe del suolo; poi il suolo si è fuso in un tono uniforme, le erbe sono diventate una ghirlanda ornamentale di liane, gli alberi si sono trasformati in frescura del paradiso terrestre, e tutto l’insieme ci offre oggi il riposo ideale” (citaz. di J. Leymarie, ‘L’arte moderna’ 28, F. Fabbri 1967). La cappella bianca, luminosa di Vence, le vetrate colorate, il tratto semplice, condotto sul muro, da seduto, con la sua  lunga canna e il pennello in punta, è l'ultimo segno della sua intelligenza artistica. 






















A PROPOSITO DELLA PITTURA ITALIANA 
DELL’OTTOCENTO


Andrea Baboni nel suo studio di Correggio
 
Per incontrare uno dei maggiori esperti di pittura italiana dell’Ottocento, occorre recarsi nella brumosa bassa padana, precisamente a Correggio, cittadina già famosa per aver dato i natali al grande pittore Antonio Allegri detto appunto “Il Correggio”. Qui il nostro esperto, Andrea Baboni, è nato nel 1943, qui ha studiato e qui tuttora vive. Dopo la maturità al liceo classico “Rinaldo Corso” della cittadina, si è iscritto all’Università di Firenze, dove si è laureato in Architettura. Firenze è rimasta la sua città d’elezione. Lì ha acquisito le competenze necessarie per il suo lavoro, svoltosi poi in vari ambiti. La sua autentica passione è tuttavia sempre stata la pittura, la sua storia, le sue tecniche. La sua conoscenza della pittura è estesa a tutte le scuole regionali italiane (in particolare l’emiliana, la toscana e la veneta), per il periodo compreso tra le prime esperienze sul vero (Macchiaioli in particolare) e l'inizio delle avanguardie storiche del XIX secolo, quale responsabile, sin dallo scorcio degli anni Ottanta, della casa d’Aste Christie’s per l’Italia, con consulenze anche per tutte le altre sedi, comprese New York e Londra.
In anni ormai lontani si è dedicato egli stesso alla pittura, anche con esposizioni personali dai primi anni Sessanta, a Reggio Emilia, Firenze e Milano, dapprima su temi tradizionali quali il paesaggio o le figure; in seguito (e sono le cose che particolarmente ricordiamo di lui), con forte originalità, su forme quasi astratte di foglie autunnali accartocciate
Questo suo primo impegno fattivo resta comunque un momento formativo essenziale per la sua sensibilità e per le successive acquisizioni conoscitive, dato che gli ha permesso di approfondire pennellate e tecniche pittoriche degli artisti e di distinguere quindi ancor meglio gli originali dalle copie o dai falsi. In seguito ha tralasciato (e provvisoriamente si spera) la sua attività pittorica, per dedicarsi agli studi della pittura dell’Ottocento da cui è rimasto affascinato frequentando in giovane età gallerie e mercanti d’arte, studiosi e collezionisti.


                                                         G. Fattori -Barrocci Romani


Evidentemente si è riconosciuto in questo mondo, la sua sensibilità lo ha condotto ad esso. Ma certo è anche animato dal desiderio di riscattare questo periodo, troppo spesso sottovalutato, o a cui comunque si è dedicata un’attenzione svagata, non sufficientemente approfondita, benché lì siano riconducibili le nostre radici storiche e culturali. Ora ha lasciato il lavoro presso Christie’s, ma per le conoscenze acquisite ed approfondite con uno studio costante, è spesso chiamato a fare perizie, ad autenticare opere appartenenti al suo spazio di competenza, sia da parte di privati che da case d’asta nazionali e internazionali ed anche dalla Direzione del Museo “Fattori “di Livorno. La sua casa a Correggio resta un centro di documentazione invidiabile in questo ambito.
Il pittore macchiaiolo verso cui ha una vera predilezione è Giovanni Fattori, di cui ha curato preziosi cataloghi e mostre studiandone  a fondo la produzione sia pittorica che grafica in ogni dettaglio. Ricordo qui, fra le altre, alcune pubblicazioni: Giovanni Fattori. L’opera Incisa (1983); La pittura italiana dopo la macchia, con la presentazione di Rossana Bossaglia (De Agostini 1994); L’Ottocento: le incisioni di Giovanni Fattori (Livorno 2001); L’Ottocento: i disegni di Giovanni Fattori (Livorno 2002).
Ha curato, fa le altre, con Giorgio Cortenova, allora direttore della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti a Verona, la mostra Giovanni Fattori (1998-1999) nelle due prestigiose sedi di Verona e Livorno, quindi la grande antologica presso il Museo Fattori di Livorno, nel 2008, in occasione del Centenario della morte dell’Artista, Giovanni Fattori tra epopea e vero.
Sta ora  lavorando al catalogo generale dell’opera di Fattori, mentre sta ormai ultimando il catalogo dell’opera del “pittore lagunare” Pietro Fragiacomo, (Trieste, 1856 - Venezia, 1922 ) delle cui opere è profondo conoscitore ed estimatore.
Daniela Prati e Gabriele Scaramuzza

                                                                      ***





CRISTO E L’IMPRONTA DELL’ARTE  di Demetrio Paparoni, è una pubblicazione di Skira ricca di  molte e accurate riproduzioni, dal sottotitolo “Il divino e la sua rappresentazione nell’arte di ieri e di oggi”. Aggiungo che il lavoro di Paparoni introduce una varietà di proposte sulle quali vorrei tentare delle distinzioni. Il divino, ciò che si riferisce a Dio, non è necessariamente una immagine. Nelle tre religioni monoteiste abramitiche dell’occidente, Ebraismo, Cristianesimo, Islam, solo il Cristianesimo, per l’influenza della cultura ellenistica, ha permesso e poi promosso, dopo vari movimenti iconoclastici,  la definizione della  ‘immagine’ di Dio che però, all’inizio, nella sua spiritualità, escludeva una fattura umana. L’immagine divina era ‘acheropita’, una immagine miracolosa,  non fatta da mano umana. Dallo sviluppo tardo romano l’immagine religiosa riconosce la sua umana fattualità, ma per incontrare nomi di pittori che firmano le loro immagini come marchi di fabbrica, passano alcuni secoli. Ho riassunto in poche righe quello che Demetrio Paparoni conosce molto bene, cioè il fatto che il divino non si coniuga automaticamente con il Cristianesimo, nel quale pure l’immagine, anche quando riconosciuta, è stata prodotta poco per volta, in tempi diversi, con usi e significati differenti, dai mosaici alle miniature ai rilievi  e pareti dei grandi monasteri e delle cattedrali. Soltanto intorno al 1000 compaiono i nomi di Wiligelmo, Lanfranco, Antelami e via via si individuano e moltiplicano autori e scuole e insieme si stabilizzano i racconti, canonici o apocrifi, sulla vita di Gesù (Yeshua, Salvatore) Cristo (Khristos, Mashiuac/Messia, Unto). Con l’occupazione mussulmana dei luoghi santi cristiani, il cristianesimo si sposta e si stabilizza in Europa e le sue raffigurazioni diventano patrimonio comune di società più o meno omogenee prodotte da ‘individui’ specifici, riconosciuti e ricercati solo dopo il 1000. E’ quindi comprensibile che le immagini scelte da Paparoni datano dal 1300 in poi ed è pure inerente alla storia della cultura che la personalità del Cristo ripercorra più o meno i tratti canonici stabiliti dai Vangeli, pur con le cancellazioni dovute alla Riforma Protestante, specialmente Calvinista, ma che poco per volta si indebolisca o si mescoli con la diffusione di una cultura laica, laïkós  ovvero "del popolo", quindi che vive tra il popolo secolare non ecclesiastico, a volte anche antireligiosa.  Ciò non significa che nella modernità sia esclusa qualsiasi sacralità dell’immagine, anche quando non coincida con la figura del Cristo, come accade nelle impronte di Yves Klein o nei  ‘riti’ di Joseph Beuys. Oppure quando l’immagine del Cristo è volutamente privata di ogni afflato sacro, come nella piatta  ripetizione pubblicitaria di Andy Warhol o nello sberleffo grottesco di Yue Minjnjun. Spesso la smorfia della sofferenza o l’impronta sindonica sono state nella contemporaneità un modo indiretto per ripensare la persona di Gesù.
Insomma la ricca scelta delle riproduzioni e i commenti di Demetrio Paparoni sulla immagine laica, l’immagine sacra,l’immagine del Cristo sono un ottimo stimolo per ulteriori riflessioni sull’uso e significato molteplice che assume di volta in volta la produzione dell’immagine e le sue capacità comunicative.

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CASORATI GIOVANE




                                                                                                                                          Via Lattea 1913


I primi 35 anni di Felice Casorati , che nasce a Novara nel 1883. La sua produzione giovanile oggi esposta nella bella mostra ai Musei Civici agli Eremitani di Padova sino al 10 gennaio 1916, accompagnata dall’interessante catalogo SKIRA, a cura di Virginia Baradel e Davide Banzato,  è l’occasione di alcune riflessioni sulla complessa figura del pittore: un artista elegante, in giacca e cravatta anche coi pennelli e la tavolozza in mano, riservato, colto, rispettato, una famiglia affettuosa, una carriera invidiabile, insegnante e poi Direttore dell'Accademia di Belle Arti i Torino. I suoi quadri? Una mestizia contenuta, un carattere, uno stile facilmente riconoscibile, una eleganza e sicurezza di mestiere che incontra presto l’interesse dei collezionisti e dei musei, un gruppo di affezionati allievi. E allora le sue crisi e angosce ricorrenti, attenuatesi col passare degli anni, ma mai scomparse del tutto, e, in qualche modo, uno dei  segni interessanti della sua personalità e del suo lavoro, come esplicitarle senza cadere nell’aneddotica? Tralascio la partecipazione alla guerra, che lui stesso abbandona "disgustato" al silenzio. Ma almeno due fatti  vorrei ricordare, una grave forma di astenia nel periodo liceale che gli impedisce di continuare l’applicazione assidua al pianoforte, che rimarrà comunque una abitudine giornaliera e il suicidio del padre nel 1917, che spingerà il gruppo famigliare, la madre e due sorelle, ad abbandonare Verona e a trasferirsi a Torino, una città congeniale di cui Casorati tesserà le lodi, che ho già ricordato in questa rubrica, scrivendo di lui e di Carol Rama.  Il periodo più problematico, quello pre-torinese, la cui svalutazione successiva lascia molto perplessi (…I miei sforzi d’oggi  sono intesi a liberarmi da tutte le teoriche, le ipotesi, gli schemi, i gusti, le rivelazioni e le restaurazioni dei quali con generosa avidità si è avvelenata la mia giovinezza- Introduzione alla  Quadriennale romana del 1931) è invece ricco di rimandi, sottintesi,  interrogativi che ci aiuteranno ad entrare in quell’altrove , in quella forza della debolezza che avvolgerà con più o meno evidenza, ben al di là della sua giovinezza, tutta la sua carriera. Introduco subito il tono ‘alto’ del suo lavoro, il ricordo dell’antico, riferimenti indiretti, sottaciuti, ma a valere per una propria rassicurazione, una buona armatura di protezione. E inoltre la figura femminile, di gran lunga ‘soggetto’ prevalente, forse compagna di quelle semplici uova, sparpagliate o in tazza, anch’esse ripetute dall’inizio alla fine, un sottile erotismo che mormora anche nei periodi più austeri.



 Comincio con ‘Le signorine’  1912



Su di un piano rialzato,di fronte ai rami di un grande abete, quattro figure di giovani, senza guardarsi, senza comunicare fra loro, esprimono coi visi, le braccia e le mani, i vestiti, ben studiati nella loro diversità, sentimenti differenti. I loro nomi, come quello dell’autore, sono scritti su cartigli posati in terra (una citazione dall’antico) insieme ad oggetti femminili qualsiasi, un ventaglio, boccette, collane, fiori, scatolette, un libro chiuso e un altro illustrato, aperto. Accanto alla figura di sinistra un grosso tacchino, non un nobile volatile, ma con una bella livrea piumata, il suo vestito. L’adolescente nuda, apre le braccia e rivolge gli occhi al cielo, una invocazione o una timorosa accoglienza. Al suo fianco, in basso,  uno specchio tondo ben regolato riprende l’attacco delle gambe in un punto delicato del corpo, una sessualità invece attenuata nella figura frontale, una curiosità inaspettata che il pittore ridurrà quando l’opera sarà acquistata da Ca’ Pesaro, la Galleria d’Arte Moderna di Venezia. Più chiaro nelle opere come "L'abbraccio" e "Adamo ed Eva" del 1914 l'erotismo, solitamente, alluso e diretto, qui, con rimandi alle "Secessioni" viennesi, è palese, secondo quel gioco a rimpiattino che dicevo proprio del pittore.


  

L'abbraccio 1914

Adamo ed E va 1914

Le figure femminili che Casorati dipinge nel periodo di trasferimento da Verona a Torino negli anni 1918-19 vengono sottoposte ad una semplificazione e ad una cura ambientale rinnovata: spazi chiusi, claustrofobici, fughe di corridoi deserti, luci e ombre nette, maschere  piuttosto che visi. E’ l’avvio a quella produzione ‘in studio’, nel silenzio e nell'artificialità dello ‘studio’ e l'accompagnamento del pianoforte, "operazione magica" dirà Carlo Levi, che costituirà la zona di protezione da interferenze disturbanti  sia interne, le sue inquietudini,  che esterne, la dispersione spaziale. Una interiorità espansa e controllabile, l’interno della propria stanza, che si ripeterà per tutta la sua vita. 

Ritratto di Maria Anna De Lisi 1918

L'attesa 1918

Già il titolo de “Il ritratto” è ambiguo. Non si capisce se il viso della scultura sia il ritratto della persona seduta, oppure se entrambi le figure siano due modi di ritrattare. Forse la prima versione sarebbe più plausibile, ma la durezza, il taglio delle ombre, il vuoto delle orbite parrebbe condurre alla seconda versione.  Il vuoto, l’immobilità, la solitudine, lo sfinimento pare un carattere di tutte e due le scene. Lo spazio di fuga, condotto dalle piastrelle e dall’assito legnoso è tagliato da interruzioni che accentuano la solitudine delle due figure sospinte sul proscenio. Il pasto preparato sul tavolo è privato di cibo e di commensali. L’eleganza della De Lisi è quasi un sudario. Ecco, in queste pitture di passaggio, da Verona a Torino, la descrittività delle prime opere è cancellata. Quella deriva, quell’altrove prima indovinato nelle fessure, nei dettagli  si è impadronito del tutto. Lo stupore di questa riduzione inanimata sta nel senso della mancanza, di una attesa di significato, che non verrà. Il vuoto ha cancellato ogni presenza viva, ogni via d’uscita. Il seguito nel lavoro di Casorati sarà di attrezzare questo vuoto con i paramenti dello studio del pittore e le varie pose della modella svestita come ogni brava modella deve essere, il nudo. Una parsimoniosa variazione dei soggetti  insieme ad  una parsimoniosa ambientazione riconoscibile e pacificata: tenuità di colori, melanconie delle pose, suono del pianoforte. Ma quel dubbio, quella mancanza, quel sibilo sotterraneo di una irreparabile solitudine, anche se più intermittente, anche se più sfuggente, per fortuna,  lo sentiamo sempre ancora. Non un veleno di giovinezza, come Casorati aveva scritto, ma il drammatico e glorioso presentimento della morte.
                                                                                                                                 novembre 2015

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                                           I BRUEGHEL MARCHIO DI  FABBRICA
            
Pieter Brueghel, Danza di contadini (1568 circa)


Il nome di Brueghel ci porta subito, senza incertezze, a feste, danze contadine, vestimenti nordici, particolari minuti, paesaggi enigmatici. Una pittura tersa, limpida, tagliente. Nel nostro caso è il nome di una famiglia fiamminga nella quale il mestiere della pittura è un fatto ereditario, la storia di un mestiere ereditario. Il nome del suo fondatore si ritrova nei registri della gilda di San Luca ad Anversa nel 1551 come Pietre Brueghels, che poi si firmerà come Brueghel o Bruegel. I suoi disegni tradotti in incisioni risentono dell’influenza di Hieronymus Bosch. Il suo viaggio in Italia, che lo porta a Roma, Napoli, Messina non modifica la sua attitudine ad una descrizione minuta e impietosa di una popolazione medio-bassa, che mangia, beve, gioca, balla, soffre; una popolazione che pattina sul ghiaccio, ara il campo, riposa durante la mietitura, mentre le scene mitologiche, come la caduta di Icaro, sono ridotte ad un particolare trascurabile; una pittura ben lontana dai piumaggi e pose eroiche ed erotiche dei futuri  Rubens e Van Dyck. I soldi sono nelle tasche di mercanti che tagliano e scambiano pietre preziose, ceramiche e stoffe orientali, bulbi di tulipani. Nn solo l’abbassamento di tono, dove il paesaggio (quello in cui si vive è piatto e basso come porta il nome di Paesi Bassi) è ricco di montagne viste o raccontate dai viaggi al sud, in Italia, le Alpi, gli Appennini, popolato da un mondo indaffarato in piccole cose, la pesca, il cibo, le nozze, e in un angolo appena un accenno alla natività di Gesù o al censimento di Betlemme, ma anche l’organizzazione di un nuovo mercato: una produzione di immagini, di incisioni stampate con ampia  diffusione, di pitture e pittori uniti in ‘gilde’ - quella di San Luca, la più nota- molto attente all’apprendistato e alla garanzia di prodotti ‘certificati’ in vista di un acquirente non sempre raffinato conoscitore. Tra questi  lo ‘stile Brueghel’. Prendo dal catalogo SKIRA uscito in concomitanza della Mostra ‘BRUEGHEL Capolavori dell’arte fiamminga’, al Palazzo Albergati di Bologna sino al 28 febbraio 2016, una citazione da Andrea Wandschneider: “Pieter il Vecchio fu l’iniziatore di quello “stile Brueghel” che le tre generazioni successive faranno proprio, personalizzandolo, trasformandolo e rendendolo popolare attraverso la reiterazione  di particolari soluzioni iconografiche, al punto da fare del nome Brueghel quasi un “marchio di fabbrica”.  Non solo una scuola, ma una offerta di mercato che insieme stimola e risponde a delle esigenze di una nuova committenza. Il mondo delle Fiandre tra cinque e seicento sta cambiando radicalmente. Il Calvinismo vieta la riproduzione di immagini religiose e contemporaneamente si sviluppa quel ceto di intraprendenti  mercanti di cui accennavo prima.  Un buon prodotto non è tesoro di qualche ricco aristocratico, ma può essere replicato anche attraverso diverse generazioni. Si tratta di un cambiamento tra la soggettività dell’artista e il suo lavoro che riflette l’attitudine del buon artigiano nel seguire le lezioni e i successi dei suoi predecessori e nel garantire comunque un buon prodotto. Le misure dei quadri tendono a ridursi per abbellire pareti più modeste e disadorne.

Pieter Brueghel il Giovane, La trappola per gli uccelli (1601)
Si tratta di una delle quarantacinque o centoventisette repliche, secondo i diversi studiosi, e che indica la fortuna prolungata del soggetto invernale. Ai paesaggi quotidiani di pattinatori, contadini, marinai e soldati, si aggiungono quei mazzi di fiori di una ‘vita silente’ che si spande e si consuma non solo in una sottile, rimembranza del memento mori, ma anche come eco al fallimento della grande, breve fortuna (dei bulbi) dei tulipani.

Cristoffel van den Berghe, Mazzo di fiori
(1620, circa)
dai modelli dei Brughel
Ma i balli e le feste nuziali con suonatori e convitati più o meno avvinazzati continuano ad essere molto richiesti. Naturalmente tecniche e risultati sono piuttosto lontani da quelli raggiunti dal primo grande Vecchio. Mancano la secchezze e sicurezza del tratto, la sorpresa in un tessuto unitario, la messa in angolo delle figure religiose, quasi nascoste. l’inserimento spiazzante di presenze anomale, un teschio, un animale, un nano…  E invece, nei successori, la indulgenza nei riguardi di figure mitologiche e allegoriche, nudi e positure accademiche, oggetti incongrui, frutti e fiori, quasi ritagliati e incollati sopra, in una mescolanza sorprendente, surreale,  specialmente in Jan Brueghel il Giovane. La scena incuriosisce, diverte ma non inquieta perché ogni elemento sta per conto suo, recita, isolato, la sua parte su di un palcoscenico. La “Allegoria dell’udito” ne è un buon esempio. Un netto distacco rispetto ai modelli di partenza. L’inquietudine di Bosch è scomparsa. Ma vorrei terminare con una più evidente ripresa delle opere del primo Brueghel, la danza di nozze, una allegra festa della comunità popolare, in una delle varie repliche dipinte da Pieter Brueghel il Giovane. Certo la tecnica è più soft, le simmetrie più evidenti, ma il marchio di fabbrica rimane ben evidente. Non una copia, in senso stretto,  ma una variazione all’interno di artisti sempre uniti nelle gilde, abituati alle collaborazioni (spesso le opere portano le firme di più persone), omogenei alle società, ai gruppi che li seguono e vi si riconoscono. Occorre aggiungere altri autori, tutti estranei ai soggetti religiosi di cui si è persa la committenza, come si conferma nelle chiese spoglie di Senredam, pittori della vita quotidiana, Vermeer con i suoi interni cristallini insieme a Metsu, de Hook, van Mieris, e i ritrattisti Hals e Rembrandt. Insomma un mondo nuovo, vario che scrive, legge, traffica, si diverte, un mondo di piccole cose, di angoli, di sguardi, di banchetti che ha esiliato i drammi religiosi e i trionfi delle armi in zone invisibili o, al massimo, secondarie, in mezzo a foreste, a paesaggi ariosi e sereni. Di questo nuovo mondo almeno tre e più generazioni dei Brueghel hanno tracciato il cammino.

Pier Brueghel il Giovane  Danza nuziale (1610 circa)
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GLI ARTISTI CHE HO INCONTRATO


Gillo Dorfles


Quando il 24 ottobre scorso, alla presentazione di un volumone  Skira di ben 857 pagine, “Gli artisti che ho incontrato”, alla presenza attiva dell’autore Gillo Dorfles, mi ripromettevo di riparlarne più diffusamente in seguito, non pensavo che la promessa incontrasse le difficoltà nelle quali invece mi sono ritrovato: una antologia di scritti sugli artisti che copre più di ottant’anni di storia. Tutti scritti in punta di penna, alcuni in lingua straniera, ben circoscritti al momento e al personaggio, ma naturalmente in una girandola continua di accenti, riflessioni, descrizioni di qualcosa che manca: la riproduzione dell’opera, pittura, scultura, architettura che sia, una assenza che darebbe carne e vita a quelle parole. Tralascio la vicenda personale dell’Autore, ricca di attività culturali e artistiche ben note, che hanno lasciato una traccia importante non solo in Italia (la sua bibliografia lo dimostra), ma vorrei fermarmi soltanto su due punti.                                  
Il primo è la necessità che l’opera dell’artista non si limiti ad una sintassi geometrica di forme, come poteva risultare in alcuni esiti del MAC, quel Movimento per l’arte concreta che lo stesso Dorfles aveva fondato, insieme a Soldati, Munari e Monnet, nel 1948. Ma che occorresse arricchirla, quella sintassi, con una dimensione completamente diversa, un segno, un gesto “nella trasmissione pressoché onirica delle proprie visioni fantastiche”, come scrive riferendosi ai lavori di Paola Levi Montalcini. “Alcuni motivi ricorrenti… di labirinti magici, di trecce e spirali, di cifrari astrali, di alfabeti occulti…, debbono essere accettati soltanto per quello che la loro veste metaforica lascia intendere (appunto come una metafora non può venire analizzata e sezionata oltre un certo limite a rischio di venire tosto a morire): intendere, cioè,  non già concettualmente, non già in maniera razionale e logica, ma solo come suggerimento e spunto per una più vasta rete di associazioni visive e intuitive che non spetta al critico -e neppure all’artista- di maggiormente chiarire, ma che costituiscono il sancta sanctorum d’ogni vera e autentica creazione” (p. 192). E anche nel caso delle ‘impronte’ ripetute di Toti Scialoja aveva individuato la volontà di “dar forma a codesti fantasmi del proprio “io profondo”. Ecco dunque che la inesausta polemica contro le tecniche illusorie della rappresentazione, l’alternativa non è l’arido razionalismo geometrico ma la ‘estroflessione di se stessi’, l’apparizione misteriosa delle profondità dell’io. E vorrei terminare questa dimensione che Dorfles sottilmente insegue con la sua apertura relativa all’uovo e all’ovale di Fontana: “L’ovo: il germe, l’embrione di un nuovo essere; ma anche la matrice spirituale, il microcosmo, la forma che in sé comprende ogni futura esistenza; e anche l’uovo di Pasqua, simbolo tradizionale della Resurrezione, simbolo di una doppia nascita… Quest’ovo -che appare misteriosamente nell’opera di Hieronymus Bosch come in quella di Piero della Francesca- può ben costituire il simbolo di una divinità sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata; e anche il simbolo che si viene a sostituire all’iconologia d’una antica figuralità ormai usurata e consumata”(p. 209-10). Quella forma/informe che alcuni vorrebbero conservare anche per “una antica figuralità”.

Arturo Nathan, Il ghiaccio del mare -1928
 E ora arriverei al secondo punto, a partire proprio dal titolo della raccolta, “Gli artisti che ho incontrato”, il fatto dell’incontro, della visita agli studi, di una esperienza di prima mano, non solo come aggiunta informativa, ma come esperienza ‘formativa’ di quell’aura originaria e sfuggente che accompagna il farsi e il fatto. Un esempio che è insieme un bel pezzo di letteratura è la “Vita arcana di Arturo Nathan”, "in memoria d’un lungo periodo di amicizia", scritto alla notizia della morte di Nathan nel campo di sterminio di Belsen Biberach.                                                                                                                                                         
 “Via del Lazzaretto Vecchio, a Trieste, è una delle poche strade dagli ottocenteschi, severi palazzi padronali, dove una atmosfera di agiata noia ristagna, ricordo di un’età absburgica e opulenta, lontana dalle guerre e dalle catastrofi. In questa via appartata visse per parecchi anni Arturo Nathan, trascorrendo lunghe ore pazienti nella creazione (sarebbe più esatto dire, nella distillazione) di un’opera pittorica che non dobbiamo lasciar dimenticata” (p. 478). La “segreta alchimia” di quell’arte, creata “nelle profondità dell’essere… fuori dal tempo… dove la fantasia non può errare libera ma spumeggia tra i rottami d’una civiltà che si spegne”, trasuda nella affettuosa scrittura dell’amico, quasi a restituirgli quella vita spezzata. Non vorrei esagerare, ma questa intimità con il fare dell’arte che si incrocia con il fare e disfarsi della vita, è una qualità preziosa di Gillo Dorfles, appena celata nel suo apparente, elegante distacco.

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PAUL GAUGIN QUI E ALTROVE


Autoritratto
“Il pittore orientale dice ai sui discepoli: “Non rifinite mai troppo; così facendo raffreddate la lava di un sangue ribollente, ne fate una pietra. Fosse anche un rubino, gettatela lontano da voi” - ‘Raccontars de rapin’ P. Gaugin 1902
Questa espressione tarda di Gaugin, un anno prima della sua morte, l’oriente, il gelo della pietra e il fuoco,  può aiutarci ancora una volta in occasione della mostra ‘GAUGIN racconti del paradiso’ che s’ è aperta a Milano il 28.10.15, parte delle offerte relative all’apertura del  MUDEC, il Museo delle Culture nei bei locali di via Tortona, catalogo 24 ORE CULTURA. Naturalmente riparlare di una figura così impegnativa, ben conosciuta,  sia a livello specialistico che popolare, quasi uno stereotipo dell’artista ribelle, eroico, inquieto,  incompreso, sfortunato, significa, almeno per me, toccare solo un aspetto tra le tante, tantissime facce che la sua opera ci presenta: l’aspetto dell’alterità, dell’altrove. L’occasione potrebbe essere L’Esposizione Universale di Parigi del febbraio 1889, in ricorrenza della gloriosa Rivoluzione. Il Governo stesso se ne occupa. Oltre alla Tour Eiffel, molte strutture racchiudono diversi soggetti, come il Palazzo delle Colonie inteso ad esaltare i vari possedimenti francesi d’oltremare: villaggi ‘indigeni’, mercati del Senegal e del Gabon, danze giavanesi,Tahiti, ricostruzioni di templi -quello di Angkor verrà smontato e replicato in varie altre città -, una via del Cairo, escursioni in cammello... Accanto a questo variopinto esotismo, in una sala del  Cafè des Artes allestito da M. Volpini, che ha ottenuto la licenza di aprire una birreria all’interno dell’Esposizione delle Belle Arti, espongono dei pittori, il gruppo ‘impressionista sintetista’ di Pont-Aven, guidato da Paul Gaugin, un quarantenne combattivo, presente con 17 opere. L’esposizione non ha successo. Il pubblico non ama gli innovatori  che si fregiano ‘Impressionisti’  coi quali Gaugin aveva esposto nella loro 4° mostra dell’81. Un  “Etude de nu”, un quadro raffinato nella tecnica, nella posizione e nella scelta del soggetto:
Etude de nu. Suzanne cousant -1880-
Ora riprendo le parole iniziali, oriente, gelo della pietra, fuoco. L’oriente è un luogo, l’altrove rispetto al qui. Il fuoco del sangue è la forza delle passioni, il gelo della pietra è il mondo congelato nel conformismo e nella ripetizione. L’altrove per Gaugin non è un lontano qualsiasi. E’ il mondo prima che l’ingordigia, le macchine, la stampa,  il denaro corrompessero l’animo dell’uomo. Il pittore non è uno sprovveduto. Ha sperimentato di persona ingordigia, macchine, stampa e denaro e li ha respinti. Il qui, l’ambiente che lo circonda, è invece la negatività,  l’applicazione di quei parametri. Il mondo si è allargato. L’altrove, in generale, è una diversità, non necessariamente un positivo; può essere una lontananza facilmente raggiungibile con le nuove macchine, popoli prima sconosciuti,  soggetti tecnicamente deboli  e facilmente manipolabili, come i selvaggi ridotti in animalità curiosa, e infine in servitù. Gaugin inaugura uno sguardo diverso, che avrà una particolare fortuna nella pittura del ‘900. Uno sguardo che cerca una alternativa ai disastri della modernizzazione e ne trova tracce nei mondi lontani della vita contadina e in quelli, ancora più lontani, dell’Oriente e dell’Africa. Si aggira nel Palazzo delle Colonie e schizza profili, oggetti, decori come frammenti  di una società diversa, di una innocenza perduta. Un altrove esattamente opposto alla superbia dell’uomo bianco, il contrario di quanto si propongono gli organizzatori e di ciò che la folla del grande pubblico plaude con soddisfazione, per esaltare la propria superiorità ed eccellenza -la ricchezza, la pittura accademica  e la scienza lo conferma,- il compatimento di chi è rimasto indietro biologicamente e psicologicamente, un particolar stadio della evoluzione animale, un utile e conveniente mezzo di sfruttamento oppure, se ingombrante, di annientamento. Gaugin si sente dall’altra parte, estraneo a quella superbia, estraneo a questo tipo di società. L’altrove è un altro mondo. Prima di cercarlo a ‘oriente’ lo trova nelle campagne della Bretagna, quel  paesino di Pont-Aven che ho già ricordato, e lì vicino, più sperduto, Le Pouldu,  dove aveva radunato intorno a sé giovani pittori come Emile Bernard, Emile Schuffenecker e Paul Sérusier, e dove aveva dipinto quel capolavoro che è ‘La vision après le Sermon. La Lutte de Jacob avec l’Ange’. Ma il costo è alto. Mancano i quattrini e il consenso. Un altro episodio è indicativo di questa contraddizione, il rapporto con i due fratelli Van Gogh, Theo e Vincent. Siamo nel maggio del 1888. Nel rispondere positivamente, dopo molti dubbi, alla richiesta di Vincent di raggiungerlo ad Arles dove avrebbero dipinto insieme e fondato una  associazione di giovani pittori, l’”Atelier du Midi”. Gaugin la interpreta come un’organizzazione commerciale con Théo nel ruolo di mercante, il quale in effetti gli offre uno stipendio di 150 franchi in cambio di un quadro al mese. Com’è noto il rapporto tra i due pittori si deteriora rapidamente. A dicembre Paul Gaugin si allontana spaventato e avvisa Theo di venire ad assistere il fratello che in una scenata di rabbia lo aveva minacciato con un rasoio con il quale si era tagliato il lobo di un orecchio. Conclusione drammatica, non soltanto uno scontro tra un esaltato, Vincent Van Gogh e un calcolatore, Paul Gaugin. Entrambi autodidatti erano passati attraverso gli stimoli dell’Impressionismo e del giapponesismo, entrambi erano radicalmente polemici con la  società e la cultura dominante, entrambi erano stati in grado di esprimere nella propria pittura la spinta visionaria, “il fuoco ribollente” che li rodeva e li gratificava. Ma la forza di queste spinte, connesse ad un forte senso della propria individualità, centro e origine della loro furia, non poteva giungere ad un pacifico accordo. L’altrove, prima che un luogo, è una condizione, essere sempre fuori  da ogni compromesso; ed è anche un tempo, il sogno di raggiungere un essere prima delle catastrofi. Se per l’uno si propone la cura psichiatrica, per l’altro nasce il progetto di Tahiti.

Arlésiennes au jardin public (Le zitelle) -1889-
Aprile 1891 Gaugin sbarca a Papeete, il porto più importante di Tahiti, con un incarico governativo per “fissare il carattere e la luce della regione”. Il tentativo di inserirsi nella comunità europea, anche come ritrattista, fallisce, e allora, piuttosto malandato di salute si trasferisce alla meridionale Mataiea dove inizia la sua immersione nel mondo locale, spunto per il sogno del paradiso primordiale.

Donna col fiore -1891-
Ma non abbandona, anche per indispensabili guadagni, il mondo della pittura e dei mercanti. E’ la contraddizione che lo accompagna. Ritorna a Parigi dove il suo studio è un teatrino di attrazioni esotiche, scritte in lingua maori, armi e maschere guerresche, stoffe, pareti  gialle, paesaggi tahitiani: riceve gli amici in abiti fantasiosi in compagnia di una scimmietta, un pappagallo sul trespolo e una giovane mulatta giavanese, sua amante, Anna. Le numerose amiche, amanti e spose polinesiane, sempre giovanissime, dai 13 ai 14 anni, testimoniano una certa ambiguità rispetto alla sua simpatia per i nativi. Un altro aspetto della contraddizione. Mi sembra che si possa svolgere in questo modo: la ricerca del paradiso primordiale è strettamente connessa con lo sguardo che lo possa esprimere, con il fuoco che dia la luce, con i colori e le forme della pittura. Paradiso ed espressione sono inseparabili. L’artista perciò ne è lo strumento indispensabile: “il mio centro artistico è nel mio cervello… faccio quello che è in me”. L’artista si rende conto che l’altrove, la scoperta dell’ambiente felice  è sempre, anche, parte della propria soggettività. Le soddisfazioni insieme alle delusioni e i limiti della scoperta sono parte dei limiti della propria individualità. Così mi pare si possa intendere un desiderio mai appagato, il sogno di un paradiso originario, dove le emozioni, gli impulsi, gli scambi sentimentali, l’aggressività dell’eros vivono liberi. Il peccato, il ricatto, la violenza e il tradimento sono banditi. Un sogno che il suo pennello ci ha raccontato. Scrive nel 1894: “Tutte queste disgrazie, la difficoltà a guadagnarmi regolarmente da vivere, nonostante la mia fama, nonché il gusto per l’esotico, mi hanno indotto a prendere una decisione irrevocabile: in dicembre torno e mi occupo subito di vendere tutto ciò che possiedo, in blocco o al dettaglio. Una volta intascato il capitale, riparto per l’Oceania. Nulla potrà impedirmi di partire, e sarà per sempre”.

Il divertimento dello spirito maligno -1894-
Ma Tahiti, dove ritorna, non è l’ultima tappa, che sarà invece a millequattrocento chilometri nord-est, le isole Marchesi. Qui il suo ultimo rifugio si chiamerà “Maison de Jouir”, Casa del Piacere. L’ultimo sogno, il luogo dove finirà il suo percorso stremato dalle malattie a cinquantacinque anni.


                                                                   MONET

Il 1° ottobre 2015 si celebra nel salone della Galleria d’arte moderna di Torino una grande festa. Sono presenti il sindaco della città, il direttore del Musée d’Orsay, il Patron della Casa editrice Skira e una folla di giornalisti e critici d’arte. Il festeggiato è morto da un pezzo, ma il suo nome, la sua fama si è consolidata nel tempo in compagnia di un movimento altrettanto amato: MONET e l’IMPRESSIONISMO.  La mostra, ben documentata nel catalogo, anche con un interessante contributo di Virginia Bertone, ‘Monet nell’Italia del Novecento’,  proseguirà sino al 31 gennaio 2016. Così la Galleria torinese prosegue un percorso insieme al Musée d’Orsay iniziato con Degas, proseguito con Renoir, in attesa ora di un promesso Manet.

Monet "Autoritratto" 1917
Non intendo seguire una carriera intensa, anzi straordinaria, quella di Claude Monet, una creatività fermamente accolta e consapevolmente guidata,  un grande vecchio che muore a ottantasei anni nel 1926 al culmine di una fama internazionale; vorrei fermarmi soltanto su alcuni punti, ben presenti in questa mostra, che mi paiono significativi della sua produzione e di ciò che ha rappresentato nello sviluppo artistico nel ‘900. Parto dal Déjeuner sur l’herbe’1865-66, una enorme tela, m 6 x 5 ca., un omaggio al quadro di Manet che aveva fatto scandalo due anni prima e per il quale il giovane Monet si adopererà perché venga acquistato dallo Stato.

Le Dèjeuner sur l'herbe 1865-66
I personaggi sono amici, Frédéric Bazille, Camille Doncieux, che diventerà sua moglie, e una figura maschile seduta che viene individuata come Courbet, autorevole consigliere. Colpi di luci tra il fitto fogliame. Forti bianchi variati tra tovaglia e grandi gonne. Sulla corteccia dell’albero, nel bozzetto del Museo Puskin, il segno di un cuore trafitto. Un senso di tranquilla soddisfazione. Il dipinto, varie volte ripreso ma non finito, verrà abbandonato presso un creditore, dal quale, più di dieci anni dopo, in pessime condizioni, Monet lo ricompra, elimina le parti troppo deteriorate, lo ritocca, lo divide in due e conserva nel suo studio la parte migliore, quella che vediamo oggi in mostra. Familiarità, luminosità, riflessi, morbidezze naturali, e poi cieli, acque, nebbie…
Ora vengo alla prima (1874) e all’ultima (i886) mostra degli ‘Impressionisti’. Monet nel ‘70, allo scoppio della guerra franco-prussiana, si era rifugiato con Pissarro e altri artisti, a Londra, dove aveva ammirato Turner e gli ambienti nebbiosi intorno al Tamigi. Nel 1874, alla prima mostra di un gruppo di giovani artisti (Société Anonyme) nello studio del fotografo Nadar, Monet espone “Impression. Soleil levant”, dipinto due anni prima nel porto di Le Havre. E’ noto che Louis Leroy, critico del giornale ‘Le Charivari’ adottò il termine ‘impressionismo in senso negativo, una impressione imprecisa, confusa. Al contrario di altri, come Jules Castagnary, che scrive di “puro idealismo” in una “sensazione evocata”. I destinatari accettarono il termine che diventerà il loro pubblico riconoscimento.
Un salto, una diversa forma di affermazione si sviluppa in relazione all’ultima mostra degli Impressionisti del 1886, alla quale Monet non partecipa,  quando la più vivace discussione si sviluppa intorno all’opera ‘Une dimanche après-midi à l’ile de la Grande Jatte’ di Seurat con la disposizione geometrica dei personaggi e l’uso sistematico dei pigmenti colorati. Nasce il Neo-impressionismo. Monet non ci sta. Le drammatiche 38 opere dedicate agli scogli di Belle-Ile è la risposta alla immobile serenità di ‘Le Bec du Hoc’ di Seurat: “Ho capito che per dipingere realmente il mare, si deve guardarlo ogni giorno, in ogni momento del giorno e nello stesso posto per riuscire a conoscere la sua vita in questo posto particolare; così rifaccio lo stesso motivo quattro o anche sei volte”  (riferito da Alice Hoschedé). Così nasce il concetto di ‘serie’. Non è l’oggetto che conta, ma le sue variazioni luminose col passare del tempo. Così l’oggetto scelto è semplice, legato al lavoro dei campi, al cambiamento delle stagioni, alle differenze di luce. Non una persona, non un animale, non uno strumento. Le piccole case dello sfondo segnano l’inizio della barriera scura che separa il covone dal chiarore del cielo. Gli amici scrittori come Mirbeau e Mallarmé parlano di inesprimibile, di intangibile silenzio, di preziose irrealtà, di suggestione, insomma i temi del simbolismo. E allora i commentatori ricordano che Monet non era un lettore di Bergson e di testi difficili; che non rinnegò mai l’Impressionismo e il suo attaccamento alla natura, comunque s’intenda questo termine (per es. la natura del giardino giapponese ricostruito); che spesso la ripetizione dei suoi temi era anche legata al successo commerciale. Ma anche che Monet frequentava volentieri circoli di intellettuali, che si era proposto come interprete della francesità (la forza, la capacità della terra e del suo rinnovarsi), che la ricchezza della luce era un regalo all’umanità. Seurat, il pittore dell’immobile perfezione, garantita dalla scienza, moriva a trent’un anni nel1891, tre settimane prima che la serie dei covoni venisse messa in mostra.
Ora, prima di concludere, vorrei aggiungere qualche osservazione su questo rincorrere il cambiamento luminoso, passo dopo passo, attimo dopo attimo, sull’attenzione alla nebbia londinese, al riflesso nell’acqua, che, come uno specchio mobile, toglie peso, realtà all’oggetto. E’ un timore che l’oggetto sfugga, mi scappi di mano. E affretto la mano con piccole, veloci pennellate, e altre ancora perché la scena sta cambiando, si fluidifica. Ecco allora il gran finale delle ninfee e il doppio trionfo, della luce e dell’acqua. Così l’oggetto, inseguito dal desiderio,  scompare (o si trasforma) nella imprendibilità dell’atmosfera e nei gorghi e negli specchi dell’acqua.






In mostra anche due facciate della cattedrale di Rouen (foto in alto), un’altra serie, due di una trentina, dipinte tra il 1892 e il ’94, più o meno dallo stesso punto di vista. Si trattava di esaltare un altro aspetto della gloria francese, le sue grandi costruzioni gotiche, esaltate, esplose, bruciate, svanite nella frenesia del pennello. Amate e perse. Vorrei terminare con un’altra opera di Monet, Londra, il Parlamento, effetto di sole nella nebbia’, 1904. (foto in basso).


Là, nella campagna, il sole bruciava i covoni, qui è la nebbia vincitrice. Ma il risultato è lo stesso: l’oggetto di un desiderio inappagato lascia la meravigliosa traccia della sua sparizione. La via della pittura del 900 era tracciata. Nel 1913 Kandinskij alla vista d queste opere scriveva: “…Sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto”.  Avrebbe in seguito capito anche lui; quel mancamento era un trionfo. L’inseguimento del tempo si era trasformato nello sfinimento di ogni peso, si era trasformato in meravigliosa leggerezza.  
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ODDIO GLI SPIRITI!

Foto 1

FOTOGRAFIA FUTURISTA s’intitola la bella mostra fotografica alla Galleria Carla Sozzani sino al 1 novembre 2015 a cura di Giovanni Lista. Vorrei cominciare con un accenno all’inizio del processo fotografico e alla consuetudine di riconoscerlo come un raddoppiamento della realtà. Un modo di dire affrettato: lì c’è un oggetto, qui, c’è una immagine manipolabile, moltiplicabile e duratura a cui si aggiunge il senso del ‘c’è stato’, ‘il était sùr que cela avait été’di Roland Bartes. Un oggetto esterno è stato acquisito dalla mia soggettività. Anche la foto ‘spiritica’ è dello stesso tipo: vuole assicurarmi che lo spirito che mi è apparso gode di una sua propria esternità, di una sua specifica autonomia. La scoperta dei trucchi fotografici riduce ma non sopprime la credenza negli spiriti, comunque intesi, fantasmi, ossessioni, ricordi, nella loro capacità comunicativa. Ora, com’è noto, lo sviluppo della pittura ‘moderna’ trascura via via l’autonomia, il primato dell’oggetto esterno (che gli spiritisti, col positivismo, intendevano privilegiare), per sviluppare il ruolo della mia soggettività (sogni, emozioni, capacità percettiva ecc.) e renderlo con una manifattura sapiente, stabile, riconoscibile, fruibile: dal soggetto all’oggetto, dall’artista all’opera. Con la fotografia fotografica si credeva di aver catturato il mondo. Con la fotografia antifotografica si credeva di aver catturato lo spirito. Due illusioni, entrambi produttive. Il mondo però era, è fatto di entrambi.

M. Gramaglia "Spettralizzazione dell'io" 1931
Mi scuso di questa rozza semplificazione, ma credo ci serva ad accompagnare gli esempi che la mostra ci presenta, con al centro il variegato svolgersi del Futurismo. Fine della fotografia? No, naturalmente. Fine della fotografia artistica? Sì e no. Sì, se s’intende quella fotografia che voleva gareggiare con la pittura figurativa. Rimane ovviamente, anzi si moltiplica il freddo foto-documento. No, se s’intende l’insieme dei mezzi fotografici di cui l’artista dispone. In questo caso due artisti, il giovane Boccioni e un fotografo romano -siamo nel1905/1907- in una ‘camera a specchi’: “io/noi” scrive Boccioni, uno e plurale, con l’ambiguità: l’uno è plurale? Oppure l’uno è contro il plurale?

U. Boccioni "Io/Noi" 1905-1907
I fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia s’interessano all’immagine in movimento, già studiata da Muybridge e Marey, i quali individuano e fotografano dei punti successivi dello spazio corrispondenti ai momenti successivi di tempo, ma saltando la continuità del movimento, che invece i Bragaglia registrano in una fascia “intermomentale” tenendo aperto l’obbiettivo quando il movimento si compie: questa è la Fotodinamica futurista che i due fratelli perfezionano con mostre e pubblicazioni tra il 1911 e il 1913, senza interpellare Boccioni -da loro pure dinamicamente fotografato- che offeso la condanna senza appello: non “abbiamo bisogno della grafomania di un fotografo positivista del dinamismo…” (Lettera a P. Sprovieri del ’13). Un equivoco?


Anton Giulio e Arturo Bragaglia 1912-1913
 
G. Bonaventura "Ritratto di A. G. Bragaglia
con il fratello", sdoppiamento incosciente,
foto spiritica truccata 
Con la guerra (a cui partecipano come volontari molti futuristi) e la morte di Boccioni e Sant’Elia le attività artistiche in Italia naturalmente si riducono, ma non si spengono. Nel ’15 esce, a firma di Balla e del giovane Depero ‘Ricostruzione futurista dell’universo’.

L’attività inesausta di Fortunato Depero, in chiave fabulistica-fantastica, oltre alla pittura, è varia e sorprendente: canzoni rumoriste,‘BALLIPLASTICI’- Teatro dei Piccoli, oggetti d’arredo (Casa d’Arte a Rovereto), arredamenti, gilets d’autore (magliette stampate in mostra), giocattoli, mobili, libri imbullonati, collages di marionette colorate su paesaggi in bianco/nero fotografati da Pedrotti (in mostra), pubblicità, tanta pubblicità, in particolare per la Ditta Campari, importanti edifici per esposizioni (Il Padiglione del Libro di Monza)  ecc. ecc.

Fortunato Depero "Autoritratto con pugno" 1915
Un altro autoritratto, questa volta femminile, si aggiunge alla galleria futurista, l’io+gatto della fotografa triestina Wanda Wulz, che alla violenza solitamente maschile aggiunge una sottile minaccia animalesca, una vitalità sotterranea non sai se umoristica o preoccupata. 



I movimenti artistici del ‘900, si sa, non si restringono ai ‘confini’. L’uso libero della fotografia come mezzo di riflessione e provocazione artistica è proprio di quegli anni che vedono l’origine del Futurismo e l’attività del movimento Dada da Zurigo a Berlino (il ‘fotomontaggio’), l’attività singola di Man Ray con le sue rayografie, di Shad con le shadografie, di Duchamp, dei Surrealisti, dell’Avanguardia russa, del Bauhaus ecc. Negli anni ’30 i futuristi sono affascinati dal volo. Tutto diventa aereo, aeropoesia, aeroplastica, aeromusica e, naturalmente, Areopittura. La pesantezza materiale svanisce, l’energia immateriale trionfa. Tato (Guglielmo Sansoni) compone un fotomontaggio dell’amico Mino Somenzi con l’elica dell’aeroplano e gli occhi sgranati, lo sguardo  preoccupato (minaccioso?) fisso sullo spettatore. Lo vorrebbe includere nella sua tensione. Nel vortice dell’elica Tato include anche Tommaso Marinetti.

Tato "Fotomontaggio con elica"
Tato "Fotomontaggio con elica e Marinetti"
Ma c’è anche un aspetto leggero, scherzoso. L’oggetto pesante non ha bisogno di sfidare la gravità. Si svuota da sé, senza eliche, si alleggerisce, si smaterializza, si ritrova nella sua ombra: non un’anima nera, nascosta, cattiva compagna, ma in un gioco allegro della fantasia, dove un po’ di sessualità non guasta.   

Così Piero Boccardi ritorna alla foto-grafia, disegno della luce (e dell’ombra) e sembra introdurre al teatrino personale di Munari, camuffato ridicolmente da pistolero e cow boy. Le audacie sperimentali tornano alle origini, luce e ombra, figura in posa. Gli spiriti luminosi hanno terminato il loro percorso. Così, credo inavvertitamente, termina questa intelligente mostra, un palcoscenico di suggerimenti.                                         
                                                                                                                            settembre 2015                                      
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LA GRANDE MADRE UNA MOSTRA GRANDE


“Io sono la tua bellissima madre”. “Suck  my breasts I am your beautiful mother” scrive sul corpo della sua immagine femminile Doroty Iannone

In anticipo, rispetto alla stagione delle grandi mostre, per rientrare nei tempo dell’EXPO, si è aperta il 25 di agosto a Palazzo Reale di Milano in collaborazione con la Fondazione Trussardi “La Grande Madre” e rimarrà aperta sino al 15 novembre. Curatore Massimiliano Gioni, già responsabile della Biennale del 2013, della quale avevo scritto a suo tempo. La personalità del curatore, delle sue scelte, si dimostra anche questa volta. Introduzione con documenti poco conosciuti e molto personali, allora, nel 2013, il libro Rosso di C. G. Jung, ora i disegni di meditazione di Olga Foebe-Kapteyn e l’uso di una varietà sconcertante di materiali, incisioni, disegni, pitture, sculture, proiezioni, manifesti, libri, a cui si aggiunge la teatralità, l’uso accorto degli ambienti del Palazzo, quelli restaurati di fresco, con la cupola dedicata a Louise Bourgeois, amorini, fiori e decorazioni a profusione, e le ultime sale ancora da restaurare, con muri scrostati o mezzi intonacati a cui si aggiunge una presentazione non prevista ma perfetta dato il soggetto della mostra: Massimo Gioni parla via skype da New York da dove non ha potuto spostarsi data la nascita di un figlio, anche lui, appena nato, fuggevolmente presentato nella emozionata video-conferenza . La varietà e il gran numero, 400, delle opere esposte in 29 sale, richiede al visitatore una particolare capacità di attenzione, di ripensamento, di resistenza, di ritorno, inusuale rispetto al rapido ‘consumo’ a cui siamo solitamente abituati. Una nuova Enciclopedia, per riprendere un termine usato nella Biennale del ’13, dove le opere esposte sono spunto per altre opere, per altri pensieri e sorprese. Quindi si può iniziare il discorso con una certa libertà, anche se la cronologia aiuta.  La Grande Madre è termine antico che incute, di per sé, rispetto. Siamo nel ’900 e due nomi ne introducono l’apertura, quelli di Freud e Jung, con le loro le riflessioni sull’affettività, l’inconscio, la sessualità, la repressione, i simboli. Quello che sembrerebbe un potere femminile unico e totale, creare un essere umano, riconosciuto nelle divinità di un lungo periodo nebuloso che chiamiamo pre-istoria, viene sottoposto anche nella nostra vantata modernità a controlli, restrizioni, comandi, conflitti, rivolte, un rapporto insomma difficile tra donne e potere (maschile), pur con una progressiva affermazione dei ruoli femminili. Scrivo tra parentesi potere (maschile) perché questo conflitto tra ‘figure’, quella della madre e quella del padre, s’instaura già nella stessa vita prenatale  ci accompagna dentro la nostra stessa individuale soggettività. Ma Cioni, pur riconoscendo una “maternità immersa in una atmosfera straniante, in cui si mescolano sentimenti opposti, affetti profondi e rifiuti spietati”, predilige l’incontro allo scontro, sfogliando “una sorta di grande album di famiglia …Tanti individui raccontano le loro storie…La storia del ‘900 non solo come scontro di generazioni, ma come storia di sorellanza, di simpatie che si rincorrono attraverso gli anni… Una storia dell’arte in cui si possa essere al contempo madri e sorelle e non solo padri e padroni”. E la produzione artistica è un terreno privilegiato,  relativamente neutro, dove la riflessione, la critica, la rivolta si esercitano attraverso un filtro, uno spostamento che attenua la contrapposizione (anche se a volte la prepara e la provoca). Tesi non sempre accettata dagli autori (il rapporto vita-opera), di cui rimane comunque il mormorio duraturo delle opere di cui possiamo apprezzare senza rischi le raffinatezze, gli ingegnosi sberleffi, le condanne radicali, i progetti audaci. Provo a citare alcuni luoghi in mostra di questa vicenda maternale. Il ‘macchinismo’, ‘le macchine celibi’. L’essere meccanico è la promessa di una tecnica erotica, attrattiva e sfuggente, il potere della indefinita trasformabilità. Duchamp veste i panni della “donna nuova” e si firma Rrose Sélavy (eros c’est la vie). ‘Il Grande vetro’ si presta ad interpretazioni diverse: forme meccaniche desideranti e improduttive. Ciò che sarà più tardi l’isteria per i surrealisti: “Il regno della sessualità non riproduttiva”. La macchina in esposizione, l’Erpice descritto da Kafka ‘Nella colonia penale’ non produce, ma incide sul corpo del condannato a morte i crimini che ha commesso. Una dichiarazione, un rapporto tra macchina, scrittura e corpo. Né manca il contrasto ironico tra immagine e commento scritto in cui si diverte Francis Picabia, per es. in un motore a vapore con il titolo: Fille née sans mère. 
                                                                                                                                                                                                  
 Non nella crudeltà ma nella soddisfazione vitale mi sembra si muovano i gesti di Lucio Fontana ben rappresentato con le sue sessuali, esuberanti escavazioni.

  L’Enciclopedia è fatta di tanti pezzi diversi, dove spesso la diversità è maggiore della parentela. Mi pare ne siano buoni esempi queste tre immagini, tutte con date significative: 1) Der Vater 1920 della dadaista Hanna Hoech, ‘il Padre’, una figura androgina con un bambino in braccio colpito da un pugno, mentre intorno ballerine danzano spensierate; 2) 1936, Dorotea Lange fotografa per la Farm Security Administration, miseria in California, “Una donna di 32 anni, madre di 7 figli; 3) Oscar Bony, La familia obrera 1968, una famiglia nucleare, padre operaio, madre, figlio, seduti su di un piedistallo in mostra per otto ore al giorno, accompagnati da una registrazione della loro vita, pagati dall’artista il doppio del salario di fabbrica, parte di una esposizione collettiva chiusa dalle autorità. 

                                                                                                                                                                    
 Alla libera rotazione della prima immagine si contrappone la falsità immobile della terza, la falsa sacra  famiglia e la disperazione severa della seconda. 
Un umorismo, divertito o sarcastico, accompagna le prove di molte artiste, quasi a volersi allontanare da una seriosità che sembra troppo connessa alla non amata autorità dei soggetti (la supponenza delle opere e degli autori). Per esempio la Mumum (‘Mamma’) dell’inglese Sara Lucas, una poltroncia sospesa di forme mammellifere fittamente moltiplicate, fatte di collant imbottiti.                          

 Oppure l’autoritratto trasformato da un accurato montaggio appena volutamente visibile di Cindy Sherman, già ben nota per il molteplice uso del proprio corpo come supporto agli stereotipi kitsch dell’arte, della moda e della pornografia, con una gran varietà di parrucche, trucchi, protesi, costumi e oggetti di scena, tutti intelligentemente esagerati.     
                                                                         
  Oppure l’animazione di Nathalie Djurberg, la casa dentro la casa, l’attaccamento filiale e grottesco all’utero di ‘It’s the Mother. 

 Da una Enciclopedia che si rispetti non ci sono luoghi più rappresentativi di altri. Il ‘taglio’ è largo ma ben segnato: l’emergere autonomo, per quanto faticoso e contradditorio, della figura femminile nelle arti e nel costume del XX° secolo. Gli esempi che ho adoperato potrebbero moltiplicarsi o restringersi a piacimento, senza sbagliare.                                                                                               Prima di chiudere vorrei riprendere il suggerimento di Cioni, andare a rileggere La camera chiara (La chambre claire) di Roland Barthes insieme alla sua fotografia di lui bambino in braccio alla madre dal titolo ‘La richiesta d’amore’ (da Roland Barthes par Roland Barthes). Alla morte della madre nel 1977 il figlio va a frugare tra le vecchie fotografie. Riflette sul doppio senso che ne risulta, “la Morte in persona” e la certezza che qualcosa è stata. Ma per la madre si tratta d’altro, un ritrovamento emotivo della sua animula individuale, un grido, fine di ogni linguaggio: C’est ça!”.E ora giungo veramente al termine di questa carrellata con due immagini femminili parallele, quella di Virginia Woolf in posa per Vogue” vestita con gli abiti della madre e quest’altra, il ‘Self Prortrait as My Mother J. G.’. (Autoritratto come mia madre) di Gillian Wearing, simbolo della mostra, la figura materna incorporata, parte di sé, in una immagine ovvia,  con eleganza stereotipata, controllata, senza dramma. Non c'è sforzo, non c'è sorpresa. Io sono lei.
 Agosto 2015
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Marc Chagall, la grafica
 Dopo la bella mostra retrospettiva a Palazzo Reale di Milano 2014-2015, di cui ho scritto a suo tempo in questa rubrica, i racconti si moltiplicano con l’opera grafica, ora a Monza.

“Qualcosa mi sarebbe mancato se, a parte il colore, non mi fossi impegnato, ad un certo momento della mia vita, anche con l’incisione”. Un asciugamento che pare ancora più concentrato nella vicenda.
I Musei Civici e l'Arengario di Monza ospitano dal 4 settembre 2015 oltre trecento incisioni dei tre cicli grafici più importanti dell’artista russo: le
Anime morte di Gogol’, le Favole di La Fontaine e la Bibbia.

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ROUSSEAU BURATTINAIO DEI SOGNI
di Giorgio Colombo
H. Rousseau -Allegri commedianti- 1906
Je ne sais pas si vous êtes comme moi, mais quand je pénètre dans ces serres et que je vois ces plantes étranges des pays exotiques, il me semble que j’entre dans un rêve.

16 Henri Rousseau, in Arsène Alexandre, La vie et l’oeuvre d’Henri Rousseau, peintre et ancien
employé d’octroi, in “Comoedia”, 19 marzo 1910.

Ho scelto di riprendere il caso Rousseau (la mostra al Palazzo Ducale di Venezia sarà prorogata sino al 6 di settembre) ripensando a una delle sue immagini più misteriose. Gli animali nella foresta sono commedianti (farceurs); fissano lo spettatore coi loro occhi rotondi in uno spazio teatrale, dove è ben segnato il primo piano col fitto fogliame allungato, il secondo con le quattro figure principali, e poi i terzi, i quarti ecc. con la vegetazione sempre più rimpicciolita sino al cielo piatto del fondo. Una scena dichiaratamente artificiale, non facile da decifrare. L’artista aveva già scritto alcuni drammi teatrali, sempre rifiutati dai teatri. L’originale manoscritto di “La Vengeance d’une orpheline russe” 1899, viene acquistato da T. Tzara. Ora passo ad alcune caratteristiche del ‘personaggio’ Rousseau: una continua ricerca di riconoscimenti, medaglie, attestati, compratori; una estraneità alle più innovative prove dell’arte sua contemporanea, che, pur in gruppi ristretti, invece l’ammira (Kandinskij, Pissarro, Jarry, Apollinaire, Delaunay, Picasso…); un interesse per i maestri dell’arte ‘classica’, visitata assiduamente nei musei, sganciata però da ogni contesto storico-critico. Questi aspetti, propri anche di un artista medio parigino, magari un po’ incolto e stravagante - genere egizio definisce la pittura di Picasso - (di cui però riceve l’appoggio insieme a quel gruppo emergente di artisti che ho già nominato), lo allontanano però dalla cultura circostante in movimento, dall’affanno di un riposizionamento continuo, di un definirsi nel tempo, prima di.., dopo di… E allora, ecco, si apre senza sforzo il mondo dei sogni, quello che in psicologia si chiama l’inconscio. Tiene accanto al letto matite e fogli, per annotare quanto gli suggerisca l’ultimo sonno, non diversamente di quanto faceva nello stesso periodo, in modo certo più sistematico, Carl Gustav Jung. Ma la spinta inconscia non  è un fiume tranquillo ma deve superare filtri e sbarramenti, col risultato di immagini contrastanti: quelle del perbenismo professionale: la posa dell’artista, il cappello floscio, barba e baffi, la pubblicità delle sue offerte (premi, medaglie, lezioni ecc.), l’esecuzione meticolosa, già un passo verso un mondo incantato, un sogno accuratamente coltivato. Una felice incongruenza che incontrerà subito l’interesse di un ristretto gruppo di pittori e più avanti, dopo la sua morte, le simpatie del ‘Surrealismo’. Provo a indicare alcuni aspetti di questa singolare combinazione: la foresta, presente simile in  numerosi quadri, dipinta con la solita cura e ripetizione. I modelli? I rami raccolti nei giardini vicini e pubblicazioni popolari correnti. Non smentisce la sua conoscenza del Messico, la partecipazione all’infelice spedizione di Massimiliano d’Asburgo, e Apollinaire la conferma durante il festeggiamento promosso da Picasso nel 1908, per riderne allegramente o confermare l’aura mitologica in cui si muove il pittore: “Tu te souviens, Rousseau, du paysage astèque,/  Des forets où poussaient la mangue et l’ananas,/ Des signes répandant tout le sang des pastèques, / et du blond empereur qu’on fusilla là-bas. / Les tableaux que tu peins, tu les vis au Mexique…”.         
La foresta è un archetipo che si ritrova spesso nelle sue opere. La foresta nasconde, ripara, protegge, spinge l’occhio a scoprire soggetti improbabili, quasi un indovinello. Quei due farceurs che si abbracciano teneramente, illuminati dal basso sono scimmie? Una manina rossa, artificiale, forse li accarezza. Chi la tiene? Gli animali sono umanizzati. Uomo-scimmia, l’uomo nella sua innocua animalità. La bestia nera, grossa, la chiostra dei denti in evidenza, che si para davanti ai due ha un tocco più inquietante, una punta appena più minacciosa. Più indietro, più piccolo, seminascosto, un animaletto birichino, non ci guarda, sembra fermato a un palo. Immobile sta l’uccello sul ramo. Si mostra completo, non si nasconde. È comparso in altre pitture, è ripreso dal ‘Magasin pittoresque’: minaccia? Controlla? E ora la più enigmatica presenza: una bottiglia di latte, spinta da una lunga foglia maneggiata dall’animale di destra, versa il suo latte tra lo sbarramento vegetale del primo piano. È l’immagine della madre? Della mancanza, della lontananza di quella immagine? La bottiglia versa il suo latte, un nutrimento sprecato. La madre vera, Eléonore, muore ad Angers nel 1890, con scarse tracce di vicinanza al figlio.  Rousseau ha 46 anni. La ricerca della figura femminile, madre, mogli, amori desiderati, sognati, non l’abbandonerà mai sino all’ultima sua opera:

Giungla con donna su un divano e suonatore -1910-

 
Vorrei terminare non col gran finale, quello sopracitato, Yadwigha, il nudo sul sofà, assediato da foglie forti, una per una, e grandi fiori fiammanti, l'indice puntato forse verso il suonatore nero (Rousseau suonava il violino), un’apparizione scura segnata da colori brillanti (la tromba, il gonnellino), il fallo incantatore, quasi sorto dalle belve mansuete dagli occhi attoniti, sgranati, ma in altre opere precedenti con il ricordo di una infanzia incerta, il bambino/bambina adulti, il rapporto tra crescita e infanzia, il fanciullo che l’adulto conserva in sé, la capacità di sorpresa, di rinnovamento, e, insieme, quello che l’adulto sarà nello sguardo preoccupato della crescita, il peso, l'incomprensibilità del corpo, e viceversa la mancanza di peso nell'altrove, la sospensione e la caduta, il perdersi e Il ritrovarsi.


Sono seduta o volo sui fiori? Sono una bambola, un burattino, oppure un fiore, un fiorire? Una ragazzina che sogna o guarda ansiosa l’ignoto? Gli occhi, sbarrati, si somigliano: lei, donna di fiori e lui, il bambino/uomo delle rocce? Il viso adulto, il vestito improbabile, quelle righe sul bianco! il paesaggio lunare, le proporzioni stravolte. Dove mi trovo? Ecco la sorpresa Rousseau, il sogno, le sue speranze e paure, le nostre speranze e paure.

[Agosto 2015]
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ARTE IN COPIA
di Giorgio Colombo
Nelle belle sedi della Fondazione Prada, a Milano -gli spazi progettati da Rem Koolhaas- e a Venezia, nei saloni di Cà Corner della Regina, dove si ospitano due mostre curate da Salvatore Settis (sino al 13 settembre), si pone un problema che accompagna tutti i manufatti d’arte, la loro unicità o/e la loro produzione seriale. Nel primo caso è segno della conseguente unicità, per prestigio e ricchezza, del loro possessore, nel secondo caso della diffusione ed uso collettivo. ‘Serial Classic’ a Milano e ‘Portable Classic’ a Venezia, trattano di una produzione artistica seriale, rivolta ad una pluralità di individui in un’ampia estensione temporale. Se ci si riferisce ad un periodo dal VI, V sec. a.C. sino ai primi tempi della nostra era, nella sola Olimpia (come del resto ad Atene, a Delfi, a Rodi) c’erano circa 3000 statue di bronzo, la materia più pregiata -e anche di più semplice riproducibilità - accanto al marmo e alla terracotta. Quindi oltre alla serialità si parla di ‘Classico’, un termine che, anche con il neo davanti, ‘Neo-classico’ ci accompagna sino ai nostri giorni, con il senso di austero, autorevole, ritrovabile in ogni tempo. Il termine deriva da ‘cittadino di prima classe’ della repubblica romana. Due sono i fatti che mi sembra utile ricordare. Primo, la ripresa del classico si caratterizza per una voluta semplificazione tra cui la eliminazione dei colori e quindi la prevalenza del bianco, anche perché i modelli rimasti, quei colori che pure avevano, erano spariti col tempo, gli infossamenti, le intemperie. Secondo, la sparizione dei più antichi esemplari e le numerose copie tarde, ellenistiche e romane. Il testo di Settis va citato per intero: “Nel 1875 si aprì la missione di scavo tedesca a Olimpia, attiva ancora oggi. Ma gli scavi, per quanto accurati, hanno recuperato poche decine di frammenti, spesso minuti: occhi, dita, piedi, mani, genitali, ciglia, orecchie... Nella lunga eclisse che chiamiamo “la fine del mondo antico”, e che milleduecento anni dopo travolse anche la celebrazione quadriennale delle Olimpiadi, perfino le statue dei più celebri maestri furono fatte a pezzi: il nudo metallo valeva ormai più di qualsiasi ‘opera d’arte. L’umile testimonianza di questi frammenti da Olimpia simboleggia bene quel che accadde in tutto il mondo antico: i grandi bronzi greci più o meno interi oggi non sono che un centinaio in tutto il mondo, e quasi tutti sono tornati alla luce negli ultimi centoventi anni, spesso emergendo dal mare, millenni dopo il naufragio della nave che li trasportava altrove”, come i ben noti ‘Bronzi di Riace’. Le non numerose opere rimaste, che furono gli stessi Papi romani a raccogliere e a collezionare, sono copie di copie. Siamo nel primo ‘Rinascimento’, quando la letteratura e l’arte ‘classica’ ritorna ad essere un modello da ammirare e da imitare, una sua nuova nascita, una ri-nascita.
coppia di ginnasti
Sto parlando di copie in bronzo, risultato di un procedimento complesso che parte da matrici fisse, stampi parziali, busto, braccia, testa ecc., che vengono poi saldati, ripuliti e verniciati. Nel 1400-500, riscoperte, le parti mancanti venivano rifatte e i soggetti liberamente interpretati. L’archeologia 8-9centesca ha cercato di rimettere ordine e di isolare l’antico dagli aggiustamenti successivi.  Ma qui vorrei fermarmi sul concetto di ‘copia’. Possedere una scultura singola, magari firmata dall’autore famoso, è un privilegio che solo i ricchi, i potenti possono permettersi. Ma l’uso collettivo nei templi, nelle piazze, nelle festività, nelle gare sportive, nelle tombe è altrettanto richiesto. Non si tratta del passaggio dal manoscritto alla stampa. L’immagine vale nella sua totalità, non nella sua letteraria descrizione. Eppure il sociale richiede la molteplicità, magari garantita da una mano ‘superba’, dove la parola ‘copia’ sembra svilire. Così anche le copie preziose godono di particolari individuali e preziosi (gli occhi, i bracciali, l’elmo, la collana, i colori). Passano gli anni “di mezzo”, ri-nasce la passione dell’antico. Altri sono i poteri, altre le collocazioni. La misura può cambiare, dal gigantesco al ‘portatile’. Quest’ultimo, più casalingo, adatto ai diversi spazi dei nuovi proprietari.

Ercole Farnese


Ho parlato della copia di bronzo, la più prestigiosa,  a cui si aggiunge quella in marmo che non possiede una forma fissa nella quale riprodursi. La copia in marmo non può essere che manuale. Una bottega ben organizzata può sfornare molte copie, mai del tutto uguali tra di loro. Passa il tempo, anzi i secoli. Le città spopolate si ripopolano, ritornano centri di commerci e di cultura, il nuovo titolare dell’impresa manovra simboli, il denaro, più che ‘cose’, e tra i simboli di prestigio rientra l’arte in generale e l’arte classica in particolare. Anche i pittori dei nuovi palazzi guardano con venerazione agli esempi dei classici. Gli spazi abitativi e di lavoro si restringono, si ‘privatizzano’. Le sculture devono potersi collocare anche in luoghi domestici, sui tavoli, nei salottini, negli studi. Ecco il trionfo della manifattura portatile e della varietà dei materiali, dal marmo prezioso, al vetro, alla ceramica. Nelle sue otto repliche dal 1500 al 1700 L’Ercole Farnese passa da un’altezza di 317 cm. a 15 cm.
L’uso della carta stampata introduce un'altra moltiplicazione di immagini, quelle delle cosiddette ‘incisioni’, lastre di legno o di metallo incise dall’artista e stampate su carta in più esemplari. Sigle, timbri, firme ne garantiscono l’autenticità e il valore.
Dunque il termine ‘copia’ mantiene un doppio significato: la esistenza di un originale, unico e prezioso, e le successive copie, in genere di altra mano e di altro valore. Divinità, Madonne, Santi, Gesù bambini ricavati da originali illustri, si sono sparpagliati per ogni dove nelle misure, asimmetrie e modalità più svariate. Le più recenti e raffinate tecniche di stampa hanno introdotto il termine ‘ri-produzione’, a volte, con l’informatizzazione, rispettando non solo le misure dell’originale, ma anche la grana del supporto, gli spessori delle paste colorate e gli andamenti delle pennellate. Un esempio impressionante è la riproduzione della grande tela di Paolo Veronese, ‘Le Nozze di Cana’ (sottratta dai francesi) nel Palladiano refettorio all’isola di S. Giorgio di Venezia. 
Oppure la inesistenza dell’originale, una matrice diversa dal risultato compiuto, per cui le copie che se ne ricavano sono, a loro modo, tutte originali, per la materia, la misura, il colore, l’inserzione di dettagli diversi ecc. Insomma la sacralità del pezzo unico, l’aura spirituale e materiale, la mano e l’ispirazione, il significato meta-fisico e il costo inestimabile, poco per volte si attenua. Dico apposta ‘attenua’ e non ‘sparisce’, perché ne rimane una debole traccia che ne fa pur sempre un oggetto d’affezione, una scintilla di stupore: il mistero di un’apparizione, o forse l’ombra di quel mistero. 
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Un solo colore. Il soffio sottile della riduzione
di Giorgio Colombo

Questa elegante, finissima mostra di pittura monocroma (Dansaekhwa) coreana (evento collaterale della Biennale di Venezia nello storico Palazzo Contarini-Polignac, maggio-agosto 2015) mi suggerisce di arretrare nel tempo per introdurre una distinzione che ha percorso un po’ tutta la vicenda della pittura, un gesto che accompagna l’uomo dalle sue origini: di-segnare figure, figure-parole, parole. Le figure si sono via via avvicinate all’oggetto figurato, le parole all’uomo che le pronunciava. Le figure, quella dell’uomo in particolare, vennero ritenute una emanazione (a Sua immagine)  del Sommo Creatore e subirono un opposto destino: o isolate e venerate negli altari (le divinità dipinte o scolpite in forma umana) o rifiutate del tutto dagli iconoclasti, e tra questi gli ebrei, i mussulmani e alcune comunità cristiane. Il rifiuto della raffigurazione umana-divina non escluse tutti gli interventi di abbellimento di oggetti e ambienti che hanno sempre accompagnato e accompagnano tuttora i luoghi della vita umana. Le stesse lettere degli alfabeti hanno danzato sui bambù, sulle pergamene, sulle pareti dei luoghi di culto. Due modalità, figure esaltate o vietate; decoro, eleganza, ritmo. Mi scuso di questa digressione e salto su quel nodo tra ‘800 e ‘900 nel quale si elabora freneticamente la nostra modernità. Alle chiese che anno perduto la loro funzione trainante si sono sostituite le macchine, le folle, la velocità, le nuove energie e, insieme, le tecniche di produzione e riproduzione in serie, la fotografia, il cinema. A sua volta l’Io si moltiplica nella sua interiorità e nella sua esteriorità. Chi se ne accorge con più urgenza ruba un termine militare, “Avanguardia”. Le precedenti separazioni tra figura umana e decorazione, tra figura-racconto e segno, colore, spazio, gesto, perdono il loro valore, e con loro  la separazione rigida tra arte figurativa e arte astratta, così che l’astrazione è un modo di figurare e la figurazione un modo di astrarre. Ci muoviamo sempre dentro i linguaggi. La figura umana-divina non è il frutto di un miracolo (l’icona acheiropita, creata senza mani) ma il risultato di certe tecniche pittoriche manuali, la stesura col pennello, i mosaici parietali, i colori in tubetto e le tele da cavalletto ecc., così come il progetto mentale che può aspirare alla nozione di creatività, tentare qualcosa di nuovo, o a quella di ripetizione, rifare sempre lo stesso (la sacralità non cambia). Il peso o la ricchezza della tradizione culturale pesa diversamente sulle spalle degli artisti che abbracciano la novità come una bandiera, esplicitamente polemici con il loro passato, da cui comunque non possono prescindere. Mi scuso di questo precipitoso riassunto, ma è qui che volevo arrivare: i sette pittori coreani del gruppo ‘Dansaekhwa’, 1970-1980, autori della riduzione ‘monocroma’, e con loro l’artista dell’ombra Lee Ufan, non raccontano storie, non sono ‘figurativi’ ma abili danzatori le cui mosse ‘figurano’ i nostri movimenti percettivi, con la eleganza che partecipa chiaramente, per noi occidentali, della tradizione orientale. Nella loro presentazione si parla di taoismo e buddismo. Svuotare, liberarsi da ogni alterità, incontrare il proprio sé e allora, solo allora sentire il proprio soffio unito al respiro universale. La pittura è un modo di essere. E a loro si unisce Lee Ufan che trasforma ogni peso in una sfumatura, ogni oggetto nella sua propria ombra. Così riprendo la gouache di Kwon Young-Woo, che ho già citato in ”Trasferimenti”; un’opera del 1985, 224x170 cm. Vorrei aggiungere che le riproduzioni difficilmente riescono a trasmettere la finezza delle tecniche usate dai coreani. L’autore incolla sulla tela una carta trasparente appena colorate sui bordi irregolari, tagliata in strisce parallele e vi graffia piccole aperture, soffi, uscite silenziose, che il taglio delle sue unghie hanno prodotto. Ferite? sguardi? libertà?

Chung Chang-Sup 1927-2011 / Wandering 1965


Fig.2

Quest’altra opera, dello stesso autore e dello stesso anno con la stessa fattura riprende, scurite, le liste di carta incollate, le sovrappone in parte e ne scolla le punte: di nuovo prigione o libertà?

Kwon Young-Woo , Untitled 1984

 Fig. 3 e 4
Il più giovane Lee Ufan, il poeta dell’ombra, qui diventa il poeta della progressiva sparizione. Anche il piccolo punto svanisce. Una diversa versione dell’oggetto e della sua strada di alleggerimento.
Queste grandi opere (tutte sono circa metri 2 x 1) sono la proiezione di una danza dai movimenti lenti, lentissimi, nel silenzio, la musica appena udibile di un sospiro.  

                                                  Lee Ufan From Poin 1974                      

Altre opere:
Kim Whanki -1971
Ha Chong-Hyun, Conjuction -1974


Park Seo-Bo, Ecriture - 1982  

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TRASFERIMENTI
di Giorgio Colombo

Ignatius Müller (1745-1802), Paesaggio in forma d’uomo giacente
“Son testa son paese case gente”- Mitelli in. fece 1702
Chi mi legge sa che ho già accennato in passato all’argomento dei trasferimenti. Lo riprendo, sempre in termini molto semplificati. Ogni operazione comunicativa richiede dei trasferimenti da un insieme ad un altro insieme, un trasporto, una traduzione, si perde qualcosa, si aggiunge qualcosa d’altro. Una cosiddetta traduzione ‘letterale’ non esiste: sarebbe una ripetizione. Ci sono traduzioni evitabili, imparare una lingua sconosciuta, e ci sono traduzioni inevitabili: se parlo o scrivo di un’opera dipinta, passo da un sistema ad un altro. E, continuando con l’elenco, ci sono sistemi analoghi, per esempio due linguaggi scritti, oppure sistemi simili, un linguaggio scritto e uno parlato, e anche sistemi disaloghi, un linguaggio letterale e un insieme figurativo. I simili contengono varie sfumature: la parola parlata, la parola cantata, la pura aria cantata. Lo stesso strumento, le corde vocali, si presta ad usi diversi: uno starnuto, un urlo, una canzone. E qui interviene il linguaggio musicale, una specie di lingua per le sensazioni, l’udito educato. Ma anche la parola scritta sfuma dalla ‘forma’ della parola/frase ai linguaggi ideografici. Gli ideogrammi  possono assumere forme particolarmente eleganti, trasmettendo un significato e insieme un piacere estetico. Di nuovo le sensazioni.
Una ulteriore precisazione: non tutte le comunicazioni appartengano a sistemi linguistici ben definiti e catalogati. Esistono segnali cosiddetti interiori, tra me e me, spesso già trasformati da un fondo indefinibile, ben noto alla psicologia; esistono forme di ansia e di gioia di cui non sempre riesco a capire l’origine e il tragitto; le chiamiamo emozioni, e, se durature, sentimenti. E i sogni? Quanta parte delle ‘posizioni’ e ‘trasposizioni’ sono mobili, sfumate, ribelli a ogni definizione soddisfacente, a ogni griglia stabile! Metto tra parentesi questa parte importante del trasferimento, e ritorna al mio fare spicciolo, qui ed ora: scrivo di pitture e di pittori, un sistema molto usato di trasferimento dalle immagini alle parole e viceversa, un commento a delle immagini dipinte, in parte riprodotte in parte indicate come solitamente note al lettore. I due linguaggi sono separati. Un commento. Ho un ricordo lontano, di una maestra, forse di prima elementare, intenta a farci ricordare delle parole, forse di una poesia. Iniziava muovendo le braccia come fossero ali, pronunciando co.co.co. (come una gallina) e successivamente indicando il suo ‘mento’: co-mmento. E continuava con senti-mento, raccogli-mento ecc. Gesti, suoni, una trasposizione-indovinello da accostare alla testa-paesaggio di Mitelli e Müller.
   
                                                          
Il commento parla dell’artista, del suo ambiente, della sua fortuna o sfortuna, dei caratteri generale dei suoi soggetti e delle tecniche ecc. È una modalità che si applica ai più diversi oggetti.
Ma c’è anche un modo di parlare del quadro, di entrare nel dipinto. Riprendo una frase che avevo adoperato per una riflessione su Joan Mirò, il suo sguardo: “Mirò si guarda intorno con lo stupore del ‘fanciullo’… Il gioco, la burla, la meraviglia. I profili, gli occhi, le bocche si disegnano quasi per caso. È’ la forza nascente, “la scintilla” che stupisce lo sguardo del fanciullo prodigioso, che scarta il troppo, ama il vuoto, la mancanza, il “senza” che apre lo spazio all’infinito della immaginazione, all’infanzia di sé e del mondo, a quel sorriso d’intesa che aleggia anche sul viso di Chagall”. Ecco un tentativo di sviluppare una analogia, di trasportare in parole delle sensazioni complesse relative all’operazione stessa del pittore. Così la scrittura s’impadronisce dell’immagine e la propone al lettore che legge, guarda, pensa. Ci troviamo insieme ad una rete di trasferimenti mobili, dalla figura alle parole e dalle parole alla figura, trasferimenti elastici che mettono in causa non solo la comunicazione ma la stessa, più importante, comprensione, una totalità, una momentanea soddisfatta fermata. Può riuscire o fallire o essere rimandata. Un processo che tutti noi affrontiamo di continuo. Così anch’io qui mi fermo, dopo aver sparpagliato sul tavolo alcuni strumenti del nostro rapporto.

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Crisha Bruskin e la sue escavazioni
di Giorgio Colombo
Crisha Bruskin



Venezia, ex chiesa di Santa Caterina. Il buio fitto impedisce la comprensione. Piccole luci individuano appena pezzi di  figure che escono dalla terra; ai lati le colonne richiamano lo spazio di una chiesa. Sul fondo si proietta una stella il cui cerchio interno parla di un emblema sovietico.  Sono scavi? Tombe? Scoperte archeologiche? A quale tempo si riferiscono? Poco per volta lo sguardo intravede una passatoia che percorro incerto. Intravedo volumi, profili che escono dal buio, sfiorati da luci radenti. Ciò che resta dopo uno o più cataclismi, un ritorno frantumato ma riconoscibile, un essere dis-umano, un soldato, un pioniere, un aeroplanino. Figure ‘sovietiche’ rotte ma riconoscibili. La prospettiva deforme dei residui sembra essere un sentimento comune ad alcuni artisti. Accanto a Bruskin, qui a Venezia, all’isola di S. Giorgio, la polacca Magdalena Abakanowicz, le sue statue, presenze residuali, un folto gruppo in penombra, gusci vuoti, in piedi, con o senza testa, con o senza braccia. Forse anche un ricordo stravolto di quei muti guerrieri cinesi di terracotta sepolti eternamente e felicemente, loro sì, insieme all’imperatore. Sono due artisti esposti negli spazi del Fuori Biennale, (56 Biennale, “All the World’s Futures”, Venezia 9 maggio-22 novembre 2015) una meravigliosa  proliferazione in contenitori imprevisti, ex-chiese, dimore patrizie, istituzioni universitarie, giardini. Ma ora mi fermo su Grisha Bruskin e mi riferisco principalmente al bel libro a lui dedicato, “An Archeologist’s Collection”, Terra Ferma Edizioni 2015 (Centro Studi Arti della Russia a cura di S. Burini e G. Barbieri) e ai due luoghi in cui espone, la ex chiesa con cui ho iniziato, con il titolo dello stesso volume, e la Fondazione Querini Stampalia, “Alefbet: Alfabeto della memoria”. Le mie osservazioni fonderanno i due discorsi, entrambi racchiusi nella Archeologia fantastica dell’artista.
Bruskin nasce a Mosca nel 1945 e cresce nel periodo del cosiddetto “disgelo”. Figlio di genitori ebrei non credenti, negli anni ’60 riscopre i valori del giudaismo che prenderanno forma nelle tavole ed arazzi ora esposti alla Fondazione Querini Stampalia. Il periodo tra il ’70 e l’80, con la “perestroika”, partecipa all’atmosfera del ‘concettualismo’ propria di artisti e poeti attivi a Mosca. Ritorna il termine ‘avanguardia’. Le loro esposizioni si aprono prevalentemente in circoli privati. Nel 1988 Miloš Forman, invitato da Gorbachev, compera uno dei suoi quadri. Di conseguenza alcune sue opere, compreso il ‘Foundamental Lexicon’ sono vendute a prezzi record in un’asta di Sotheby’s, la prima apertasi a Mosca. Subito dopo, per uno scambio culturale, Bruskin vola negli USA e da quel momento inizia la sua fortuna internazionale.

Arazzo

L’artista riflette sulla ‘Torah’, il Libro le cui lettere sono state tracciate dallo stesso Creatore. “Il Libro è il mondo e il mondo è il Libro”. Numero, lettere, parola, immagine, tutto si corrisponde. Il 4 è il nome di JHWH, le 4 chiavi del Paradiso  terrestre, i 4 elementi (fuoco, acqua, terra, aria) ecc. Ecco le quattro parti in cui si dividono gli arazzi che l’artista intreccia -con l’ausilio di aiutanti- mescolando i segni di un alfabeto inventato e le figure, isolate, ciascuno per conto suo, divenute loro stesse alfabeto, Alefbet  di un discorso, un specie di vocabolario dedicato all’ebraismo. Le immagini in rosso e giallo sono i mostri ultraterreni della mistica biblica.

Arazzo

Arazzo (particolare)

Ma la riflessione sulle figure-lessico era cominciata molto prima.
Il mondo non è più  quello amico del Rav o Rabbi ebraico  ma quello della prigione sovietica, il mondo che riduce le persone a manichini inespressivi, dis-tinte solo da un distintivo, un emblema: persone- emblema. Così riferisce Bruskin: ”A 30 anni “ho scritto un ‘Lessico Fondamentale’, un  epistolario dipinto per un distante nessun luogo… in cui ciascun carattere è un archetipo del mito ideologico sovietico”, il Pioniere (coi candelotti di esplosivo), il lavoratore, il dottore col veleno, il prigioniero, il soldato (uno conosciuto con la maschera antigas), l’ufficiale coi gradi ecc.

Tre figure

Guardare al passato e al futuro è pericoloso. La moglie di Lot guardando al passato si trasforma in una mucchio di sale, i miei eroi sovietici, dice Bruskin, guardando nel loro proibito futuro si trasformano in oggetti innocui, l’album del collezionista. E’ l’accessorio colorato, l’emblema che dà loro un nome, che, così af-fermati, dà loro l’esistenza. Una lista, come quella dei peccati elencati nella Torah. Ma l’autore vuole cancellare ogni nobiltà tragica. Ama la precisione, magari pure il divertimento del collezionista di farfalle.

E ora, stabilito l’alfabeto e la lingua, passa alla Archeologia fantastica. Il passaggio non è semplice. L’artista abbandona la sottigliezza della pagina (carta o arazzo) per il peso di un ambiente fisico e di un tempo inventato. Ecco la sua descrizione:
L’Impero Sovietico sembrava dovesse durare per millenni, come il Regno dei Faraoni. Poi le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. La crisi dei missili a Cuba… La storia andava verso la sua fine, le nostre vite sbriciolate, svanite, le crudeltà seppellite. Passano gli anni, i millenni. Gli umani futuri ameranno le rovine, la maestà, la freschezza delle tombe, i misteri delle civiltà sepolte. Lo sguardo è quello che si volta indietro da un futuro ipotetico, di là da venire, rivolto ad una realtà, ad un residuo di realtà, per noi (e per l’artista), invece, oggi, appena trascorsa. Questo è il salto, l’invenzione della sfasatura.
E’ una macchina, una macchinazione del tempo. Bruskin, futuro archeologo, si ritrova  scopritore stupito di ciò che è stato, una umanità fossile sconvolta, spezzata. Vuole giocare come un vero ricercatore, capace di trasformare i fantasmi inquieti del passato in spiriti inoffensivi, consegnandoli disarmati allo sguardo museale di un ipotetico presente.  

Visione
Per trasformare l’elenco del collezionista in scavo archeologico, in una grottesca, monca ricostruzione, l’artista scolpisce 33 figure più o meno a grandezza naturale (33 sono le lettere dell’alfabeto russo, ‘lettere’ come ‘principi’ della creazione), le rompe, le ricompone assemblando i pezzi e così, rotte, le fonde in bronzo. Non i resti storici del monumentalismo sovietico ma le rovine di una ideologia. Ora si tratta di trovare il luogo appropriato per seppellire questi frammenti ‘concettuali’ di un Impero distrutto. Sì, di un Impero. Questa è la pretesa imperiale da cui parte l’artista per connetterla ad altre consolidate pretese della storia occidentale: l’Imperium di Roma, il primo; quello di Bisanzio, il secondo, e il terzo quello di Mosca (Czar Caesar) con il finale falsetto sovietico.

Scavo


Studio


I resti del Terzo Imperium verranno sepolti nel terreno del Primo, l’Italia. Bruskin organizza il seppellimento in Toscana nel novembre del 2009 e vi ritorna per lo scavo di ricupero circa tre anni dopo.

Chiesa di Santa Caterina

 La creta si è indurita, la pala della scavatrice e gli scalpelli degli operai hanno faticato a ricuperare le figure-residuo interrate e corrose. Gli archeologi fiorentini hanno studiato la loro composizione molecolare e atomica fornendo un certificato di autenticità.                                                        Una rappresentazione grottesca della verifica scientifica. Il passo successivo della Archeologia fantastica è l’ambiente veneziano dell’ex chiesa di Santa Caterina, da cui ho iniziato la mia descrizione.  Un silenzio, un’attesa. I visitatori tacciono. Nel buio poco per volta animato dalle luci radenti e dall’occhio che si sta abituando, si respira un senso di religiosità che le antiche arcate gotiche ancora trasmettono.
Dalla terra scura i profili incerti, mezzi affossati e mezzi rotti, una materia liscia e grigiastra, prendono forma. Bracci, visi, gambe, divise e decorazioni militari… Sulle pareti vengono proiettati tre racconti: 1) gli scavi di ricupero, 2)le stesse figure ora affossate, disposte nel filmato erette e variamente mescolate , 3) le immagini di  Marx, la copertina de ‘Il Capitale’ e l’inizio in molte lingue del famoso manifesto del 1848 “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. Anche questo un residuo spettrale, invano cacciato da “tutte le potenze della vecchia Europa”, anch’esso divenuto parte innocua, fuori mercato, del museo postumo.                                                 
Strano ritorno marxista pure nei padiglioni della Biennale, ai ‘Giardini’, sia all’ingresso che nel teatro interno, diventando perfino “Das Kapital Oratorio”. Siamo alla ironia postuma o al confuso desiderio di una rinascita? Preferisco rimanere alla sottile ironia di Bruskin.
Gli scherzi del tempo. Lo sguardo del poeta  è quello che guarda indietro da un futuro ipotetico, di là da venire, rivolto ad una realtà, ad un residuo di realtà, per noi, per tutti noi, oggi, appena trascorsa. La fantasia di domani ci fa intravedere la realtà dell’oggi.
Bruskin un artista dalle molte maschere, un fine teorico, un talmudista.




IL DISEGNO E IL SUO DOPPIO
di Giorgio Colombo
G. A. Boltraffio: Ritratto di G. Casio, olio su tavola 1495-1500 
Milano Pinacoteca di Brera
Il mondo delle immagini è sempre stato abitato dal desiderio della moltiplicazione. Per la scultura penso alla mostra di Prada. Per la figura sul piano il segno, il contorno ne ha costituito l’avvio, l’abbozzo, l’impressione. Il di-segno è una specificazione, un segno di qualcosa. Anche le lettere degli alfabeti (alfa-beta) sono sempre segni di immagini. Quello che chiamiamo ‘disegno’ è un risultato del fermo-immagine. Nel settore artigianato-arte il disegno è insieme progetto e risultato. Qui sta la sua ricca ambiguità. E’ una figura sta per conto suo o invece ha bisogno di una diversa conclusione? E’ una fragilità che richiede qualcosa d’altro che lo realizzi, la premessa di un doppio, oppure può valere anche in sé, all’incrocio di un doppio, verso l’originale in carne ed ossa e verso un trasferimento in un’altra opera, quella dipinta? In mezzo a questa doppiezza sta la sua possibilità di pretendere una fermata, una propria autonomia.  
Al di là dell’alfabeto-immagine i modi della figurazione complessa sono molti e diversi: la grande pittura sui muri dei palazzi e delle chiese, la pittura di cavalletto per gli interni borghesi, l’incisione singola o in molte copie e infine il trasferimento diretto, la fotografia e il cinema. Il destino del disegno oscilla tra una ricetta di cucina, un mezzo al cibo cucinato per poi essere gettato, oppure (anche) un essere proprio con una duratura identità. 
Viene incontro a questi dubbi una esposizione che dichiara subito ‘Il primato del disegno’, alla Pinacoteca di Brera, Milano, dal 9 maggio al 19 luglio, con un bel catalogo Skira che ci aiuterà a rispondere ad alcuni interrogativi.

G. A. Boltraffio: 1) Ritratto 1498-1502, punta metallica, pietra nera,
carboncino, pastelli, acquerello, Milano Bibl. Ambrosiana
 
Il disegno come progetto fa parte del bagaglio del pittore. Prima di impegnarsi sulla parete definitiva l’autore prova e riflette su diverse soluzioni, così come prova preparando i colori, i diluenti, i pennelli ecc. Non è solo, ma lavora in una bottega insieme a collaboratori e maestri. I disegni possono essere schizzi, appunti, oppure la scena grande, nel suo formato definitivo da trasferirsi sulla parete o sulla grande tavola. L’interesse per il tracciato disegnato si consolida nel 1500 insieme alla crescita della figura del pittore, sempre più vicino allo scienziato umanista, senza perdere la sua pratica ‘artigianale’. Utile in tale contesto il saggio (del catalogo)  di C. C. Bambach che prende come inizio di questa promozione le ‘Vite’ vasariane e i due cartoni, oggi perduti, de “La battaglia di Anghiari” di Leonardo e “La battaglia di Cascina” di Michelangelo. I collezionisti cominciano a guardare ai cartoni delle grandi firme come ad oggetti autonomi coi loro valori di mercato. “Il cartone raggiunse il picco della sua fama storiografica poco dopo, nei De’ veri precetti della pittura di Giovanni Battista Armenini (Ravenna 1587), autore che coniò il termine “ben finito cartone”. La tecnica più diffusa e longeva è quello dello “spolvero”, la pratica di forare i contorni del disegno con una punta metallica e di picchiettare i fori con polvere di carbone, così da trasferire l’immagine grafica sulla superfice da dipingere.                   
Spolverizzo, Spolvero, Spolverizzare entrarono ufficialmente nella lingua italiana a partire dalla prima edizione del Vocabolario della Crusca del 1624”. Vari tipi di ‘carte carbone’ sono state successivamente adoperate per mantenere inalterate quelle copie non bucate che potevano valere di per sé ed entrare più facilmente in commercio. Alcuni artisti elaborano i disegni anche dopo l’esecuzione del dipinto, riconoscendoli di uguale valore.

 Lorenzo Costa il Vecchio: S. Giovanni Battista con l’agnello 1506-08,
 contorni incisi per spolvero, Milano Pin. Di Brera
Accanto al cartone d’autore, il disegno viene pure usato nelle Accademie come mezzo didattico, come sintesi manuale e intellettuale, utile alla formazione degli apprendisti pittori (v. S. Bandera). Una rinnovata funzione strumentale. la Pinacoteca di Brera, grazie al suo legame con l’Accademia di Belle Arti, istituzione che in epoca neoclassica ha sostenuto la grande tradizione del disegno, conserva un ricco ma poco noto Gabinetto di Disegni. Ora la mostra, valendosi anche di prestiti importanti, espone rari esempi pisanelliani e di Stefano da Verona, importanti opere della pittura veneta del Rinascimento, come quelle di Mantegna, Giovanni e Gentile Bellini, a cui segue una sezione dedicata a Leonardo e i Leonardeschi, fondatori in Lombardia di una vera e propria scuola del disegno e dello ‘sfumato’. E Leonardo, lo sappiamo magari con l’aiuto della esposizione tuttora aperta a Palazzo Reale, era un sublime autore di sorprendenti schizzi, fogli e foglietti affollati, vergati nervosamente con la mano sinistra. Il disegno, anche moltiplicato con le varie tecniche della carta carbone e dell’incisione, raggiunge poco per volta la sua autonomia rinchiudendo in sé la sua doppiezza. Ma i molti nomi degli autori si scopriranno meglio nella visita alla mostra.

                                          Amedeo Modigliani: Ritratto del pittore M. Kisling 1915 
                                                  olio su tela, Milano Pinacoteca di Brera

Abbreviando, vorrei arrivare al Novecento dove la separazione dei generi e delle funzioni s’indebolisce sino a scomparire in una ricca mescolanza. Le pitture esibiscono parti disegnate, le opere monocrome, graficamente semplificate, penso a Matisse o a Rouault o a Modigliani o a Morandi, vengono considerate alla pari di quelle colorate e spesso ne sono la trama che le sorregge. Il segno è come un filo elettrico, segna volutamente anche le zone colorate che diventano subordinate a quella trama. Le parti si sono capovolte. Il di-segno è prima e dopo. Non è più l’ombra sfuggente ma la struttura del discorso. Il segno, matita, inchiostro o pennello guida lo sguardo. 

              Giorgio MorandiNatura morta metafisica  1919 olio su tela
 Milano, Pinacoteca di Brera 
Modigliani e Morandi, grandi pittori, sono prima di tutto grandi disegnatori. Il segno può rimanere da solo o guidare il gruppo (dei colori) senza timidezza o arretramenti. Da parente povero è diventato capofamiglia.    
                                                ***
QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo
 

George Grosz 'Scena di strada' 1925 M. Thyssen-Bornemisza - Mdrid

NUOVA OGGETTIVITA’. Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar 1919-1933.

Inizio dal titolo della mostra aperta il 1° maggio e visitabile sino al 30 agosto al Museo Correr di Venezia, lungamente desiderata e preparata da Gabriella Belli, direttrice dei Musei civici veneziani, e da Stephanie Barron, capo curatrice di arte moderna del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), dove si conservano buona parte delle 140 opere esposte. Il titolo riprende quello tedesco, Neue Sachlickeit, una esposizione organizzata da Gustav Hartlaub nel 1925 alla Kunsthalle di Mannheim. A quale ‘oggettività’ si riferiscono questi pittori della Repubblica di Weimar (1919-1933), Otto Dix, George Grosz, August Sender, Chrisatian Schad, Georg Schrimpf? Personaggi ben noti ma raramente visti in Italia sugli originali. Una oggettività amata-odiata, una realtà di una guerra perduta, frontiere spezzate, popoli allo sbando, milioni di morti e di invalidi. Dice Grosz, arruolatosi nel ’14 come volontario (intervista con H. Kinkel 1961): “Tutti questi fatti era necessario che io li vivessi. Io dovevo vedere qualcuno cadere all’improvviso accanto a me, senza più rialzarsi, colpito in pieno petto. Questo era precisamente ciò che io dovevo vivere. Io lo volevo. Non si può dire dunque che io sia stato un pacifista… Avevo bisogno di vedere tuttociò di persona”. Non solo lo scoraggiamento dei vinti, i tedeschi, sottoposti a pesanti risarcimenti e in balia di una incontenibile inflazione. “Un uovo, ricorda Stephanie Barron, arrivò a costare cento milioni di marchi”. Vincitori e vinti sono parti di una comune decadenza inarrestabile nella quale i contrasti materiali, intellettuali e morali sembrano insanabili.  Anche l’Italia si sente vittima di una ‘vittoria mutilata’. L’avanguardia futurista aveva appoggiato il Fascismo e pur con la morte di alcuni protagonisti e la fortuna del ‘ritorno all’ordine’, con due diverse generazioni, quella di Balla e di Sironi, ne segue le fortune e le trasformazioni postbelliche. Margherita Sarfatti a Milano e la rivista “Valori Plastici” a Roma rilanciano ‘il mestiere’ e la lezione dei maestri antichi. In Germania la prima avanguardia della ‘Brücke’ era stata sostituita da gruppi aggressivi e polemici: dalla Svizzera il Dada, dai reduci le formazioni di estrema sinistra, il Novembergruppe e gli Spartachisti  e al contrario lo zoccolo duro di un’estrema destra militare e affaristica tutt’altro che sconfitta. La trasformazione di vizi e delitti (il massacro, lo scontro, il dileggio) in virtù, la medaglia, la promozione. Lo scontento dei reduci disoccupati, la difesa dei gruppi deboli, storpi, affamati, prostitute e la rapida e dubbia formazione di spropositate ricchezze dei “pescecani” si accompagna allo sviluppo della stampa, fogli, riviste, manifesti di rapida diffusione e di violento impatto. Così il segno dei disegnatori diventa il graffio, la critica spietata e grottesca.  

George Grosz 'Il capo' Fotolitografia cm 57,6x42,6 Lo Angeles County Mus. of Art LACMA

G. Grosz 'Far in the South beautiful Spain' 1919
                                                                                    
G. Grosz 'Nieder mit Liebnecht' 1918

Otto Dix 'Giocatori di carte' 1920 Puntasecca cm 51,1x42,6 LACMA

Dichiara Grosz: “Presi a copiare nelle latrine i disegni folkloristici che mi parevano l’espressione diretta e la traduzione più concisa di forti sensazioni. Anche i disegni infantili mi stimolavano per la loro univocità. Pervenni così gradualmente a questo stile tagliente che mi serviva per tradurre le mie osservazioni, dettata allora da un’assoluta misantropia” (Entwicklung 1924, da ‘Il disegno nel nostro secolo’, Mazzotta 1994).Otto  Dix stampa e diffonde le incisioni sulla guerra, l'incubo di un mondo scomposto e mostruoso. Lo stile della fredda inquietudine 'oggettiva' seguirà poco dopo.Pur in contesti europei diversi la formazione di nuove organizzazioni politiche e la diffusione di giornali e riviste facilita l’arma, lo sberleffo della caricatura. Nuovi lettori, nuove provocazioni. In Italia indimenticabile il nome di Scalarini .



In Germania gli anni venti non vedono soltanto il trionfo del graffio caricaturale, ma anche l’affermazione di due altre linee espressive, Il Bauhaus di Gropius, con Kandinsky, Albers e Moholy-Nagy, la progettazione della città nuova e un ritorno al realismo nella fortunata definizione di una “Nuova oggettività”. Tre percorsi diversi ma non contrapposti. Critica sfacciata, plebea la caricatura, sforzo costruttivo, nuove tecnologie (casa, fabbrica, danza, teatro, fotografia, cinema) il Bauhaus, critica pacata, gelida, mestiere impeccabile, uno sguardo ai ‘maestri antichi’ la Nuova oggettività. Non un gruppo compatto, ma un clima che unisce figure diverse. Ciò che era stato lo scoppio di una nuova soggettività, lo slancio, la fiducia utopica nel cambiamento, la rottura drastica con il passato, gli elementi tipici delle varie ‘Avanguardie’ del primo novecento si erano spenti nella melma puzzolente delle trincee, nei massacri indiscriminati, mezzi distruttivi sempre più efficaci . Addio passione, addio giovanile emozione! Ora lo sguardo deve essere impassibile, la freddezza, la precisione del chirurgo. La ferita non si nasconde, ma si accetta, forse con una sottile speranza di cura. Qui sta, a mio parere, la differenza con “Valori Plastici”, ben conosciuti dai critici tedeschi, consolati. Gli italiani, pur attraverso sanguinosi contrasti tra socialismo e fascismo trionfante, si avviano ad una sognante rivisitazione del passato sbirciato tra le quinte teatrali di De Chirico, i bamboleggiamenti di Carrà e le durezze romaneggianti, un po’ mortuarie, di Sironi. L’oggettività ambigua di Dix o di Schad o di Davringhausen, il mestiere squisito, la rappresentazione meticolosa, ossessionata dal particolare paradossalmente non esalta la realtà, ma al contrario ingenera silenziosamente un senso diffuso di inquietudine. La partenza da un noto evidente, volutamente insistito nei dettagli minimi, spinge verso un altrove, verso un ignoto incombente, minaccioso, tanto più inquietante quanto più familiare. Scorre sottotraccia un’aura surreale, i bisbigli  di Freud e di Schiele. La caricatura è un fragore che ti scuote, l’ultrarealismo erotico di Dix e di Schad non è un sospiro liberatorio ma un allarme, un sussurro costante, un magma appiccicoso, che nessuna ragione può allontanare. Questa mi pare la eccezionalità di questa esperienza. E ora vengo alle immagini:


Otto Dix 'Ritratto dell'avvocato H. Simons' 1925 Montreal Mus. of Fiene Arts


                                     
                                OttoDix 'Ritratto dei genitori' 1921  Kunstmuseum Basel
  
L’esagerato, grottesco riferimento al ritratto familiare tradizionale rende 
ancora più stridente questo pensiero rivolto ai propri ‘genitori’. 

                                                                 
Christian Schad ‘Autoritratto’ 1927 cm. 76x61,5


 I comignoli fumanti nella notte, il vezzoso fiore bianco che spunta dietro il nudo provocante della donna, il nastro intorno al suo polso, la maglia trasparente di lui, il suo sguardo preoccupato, tutto suggerisce una inquietudine soffusa, indistinta e perciò più minacciosa.



Christian Schad ‘Agosta l’uomo alato e Rasha la colomba nera’ 1929
Agosta e Rasha sono due figuranti che si esibiscono ad una fiera di Berlino. L’uomo, Agosta, ha una malformazione, la cassa toracica invertita, la donna, Rasha, è una ballerina del Madagascar che danza con un boa. Entrambi, fuori dal palcoscenico, gettano sullo spettatore uni sguardo sicuro, quasi di sfida, sono così, una umanità imprevista, certo non maschere teatrali.  
                   


Heinrich Maria Davringhausen ‘Il Sognatore’ 1919 Hessisches Landesmuseum Darmstadt


Un breve periodo, poco più di dieci anni. 1933, Bauhaus, critica giornalistica, Nuova Oggettività, tutto finisce. Col suo ministro della cultura Adolf Hitler nuovo Cancelliere del Terzo Reich dichiara i nostri artisti “degenerati”. Un bel falò di quadri e carta stampata. Molte opere vengono distrutte, vendute, disperse. Molti riparano negli USA. La nuvola nera della morte non è più l’incubo di pochi ma il destino di molti. 

                                                                                                                 G. C. maggio 2015





 









San Girolamo 1485-90 ca. non finito Musei Vaticani

LEONARDO 1452-1519 - I disegni del mondo

La mostra inaugurata a Milano, al Palazzo Reale il 15 aprile, anniversario della nascita di Leonardo, nato a Vinci il 15 aprile del 1452, che si chiuderà Il 19 luglio, ideata e prodotta da Palazzo Reale e SKIRA, è una delle più importanti rassegne leonardesche organizzate in Italia. Quasi una prosecuzione di quella dedicata al periodo Visconti-Sforza. Il catalogo, a cura di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, è un’opera a sé di 614 pagine e XII sezioni, riproduzioni accurate e ricca bibliografia intorno ad un personaggio tanto grande quanto evanescente. E per stare nel mito del mito, inizio necessariamente con la Gioconda, il “miroir profonde et sombre” (Baudelaire) – come scrive Roberto Paolo Ciardi - arruolato di forza nelle squaLa mostra inaugurata a Milano, al Palazzo Reale il 15 aprile, anniversario della nascita di Leonardo, nato a Vinci il 15 aprile del 1452, che si chiuderà Il 19 luglio, ideata e prodotta da Palazzo Reale e SKIRA, è una delle più importanti rassegne leonardesche organizzate in Italia. Quasi una prosecuzione di quella dedicata al periodo Visconti-Sforza. Il catalogo, a cura di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, è un’opera a sé di 614 pagine e XII sezioni, riproduzioni accurate e ricca bibliografia intorno ad un personaggio tanto grande quanto evanescente. E per stare nel mito del mito, inizio necessariamente con la Gioconda, il “miroir dre condotte e ispirate da Ermes e da Prometeo (D’Annunzio) – miti di indefettibile fortuna nella cultura, non solo alta, dal Cinquecento al Novecento” (p. 491). Leonardo, il mito anche, ed è giusto che se ne sia già parlato e scritto molto. Vorrei partire da qui, dall’armatura mitologica, cresciuta già lui vivente, non sempre di aiuto. Provo a iniziare dal Bandello che scrive di un Leonardo sui quarantacinque anni, impensierito dal lavoro mai concluso della statua equestre di Francesco Sforza, impegnato a dipingere l’Ultima Cena nel refettorio del convento milanese di Santa Maria delle Grazie dove il Bramante ha da poco ultimato la tribuna che avrebbe dovuto contenere le future spoglie di Ludovico Sforza e della giovane moglie Beatrice d’Este.Così il Bandello nella novella LVIII (1497): Soleva Leonardo “dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto secondo che il crapiccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove”. Dunque genio ghiribizzoso, meditativo, imprevedibile. Delle sue lentezze i monaci lo rimproverano. Le nuove tecniche che sperimenta, la preparazione del fondo, i colori di tempera grassa, uniti alla umidità dell’ambiente, metteranno a repentaglio la futura conservazione del lavoro. Continui interventi successivi di ridipintura altrui aggraveranno le condizioni iniziali della scena, la cui notorietà comunque crescerà producendo  un gran numero di commentari, ammirazioni, copie sparse ovunque in chiese, corti e libri. Salto all’ultima guerra. La parete del Cenacolo è protetta da un tettuccio a da sacchetti di sabbia. Il 15 agosto del 1943 un bombardamento di aerei anglo-americani distrugge il refettorio. I due muri dei dipinti, quello di Leonardo e quello a fronte del Montorfano, pur indeboliti, si salvano. Inizierà nel 1977 l’eroico restauro di Pinin Brambilla Barcilon e durerà 22 anni. Dal 1999 il refettorio completamente e mirabilmente restaurato, anche nelle sue  quattro lunette, è uno dei monumenti più frequentati al mondo. Se ne impadronisce anche l’arte contemporanea da Andy Warhol al regista Peter Greenaway  sino al “The Last Supper. Contemporary sharings” , un tavolo di acciaio brunito con la forma dell’anello di Möbius e 12 sedute, di V. Bifulco Troubetzkoy e G. Pelloso alla Fondazione Stelline di Milano. Ma la massima fortuna è sempre quella della  Gioconda”, che accompagna l’autore sino alla sua morte in Francia, forse per il suo non finito, forse non finibile. La lista degli innumerevoli artisti che se ne sono occupati si trova nel saggio già citato di R. P. Ciardi. Io mi limito alla sfottitura di Duchamp, un ready-made  rettificato, in mostra nella versione ‘rasée, cioè senza baffi e barbetta, con la scritta “L.H.O.O.Q.” ‘Elle a chaud au cul’  (’Lei è eccitata’). Vorrei concludere queste indicazioni con una espressione del giovane Giovanni Papini sulle pagine del suo ‘Diario 1900’:  Leonardo “è veramente l’Uomo, l’Uomo universale, perfetto: l’Eroe. Egli riunisce in sé il bello e forte animale – l’artista impeccabile – il pensatore audace e profondo, dalle austere e misteriose parole. Egli è in fondo un dilettante – (e perciò forse piace ai moderni) ma non un infecondo e bizantino dilettante contemporaneo – ma un dilettante del Rinascimento – che ama e possiede la Forza, la Bellezza, il Pensiero – che vorrebbe far tutto, veder tutto, crear tutto ma che fa pur molto. A noi fiacchi ed abulici e pur avidi di tutto egli appare come Energia sempre viva e pronta, come l’Universalità vasta e possente. Noi l’amiamo perché voVorrei concludere queste indicazioni con una espressione del giovane Giovanni Papini sulle pagine del suo ‘Diario 1900’:  Leonardo “è veramente l’Uomo, l’Uomo universale, perfetto: l’Eroe. Egli riunisce in sé il bello e forte animale – l’artista impeccabile – il pensatore audace e profondo, dalle austere e misteriose parole. Egli è in fondo un dilettante – (e perciò forse piace ai moderni) ma non un infecondo e bizantino dilettante contemporaneo – ma un dilettante del Rinascimento – che ama e possiede la Forza, la Bellezza, il Pensiero – che vorrebbe far tutto, veder tutto, crear tutto ma che fa pur molto. A noi fiacchi ed abulici e pur avidi di tutto egli appare come Energia sempre viva e pronta, come l’Universalità vasta e possente. Noi l’amiamo perché rremmo esser lui e non sappiamo e possiamo esserlo”.


  • Ecco dunque il mito dell’Uomo del Rinascimento, Universale, artista sommo, inventore e scienziato anticipatore, architetto, musico, pittore, fortunato uomo di mondo, corteggiato da duchi e monarchi. Un mito che non andrebbe cancellato, così, con un bel gesto, ma renderlo meno intrusivo, messo cautamente da parte per individuarne pregi più vicini alla inquietudine sottile che rende la figura di Leonardo meno costruita e trionfante, più sfuggente, interrogativa, misteriosa. Il saggio di apertura del catalogo, a firma dei due curatori, Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, sembra metterci su questa strada. Il confronto tra il paesaggio in data 5 agosto 1473 – il pittore ha 21 anni – “impostato sulla visione prospettica fiorentina e su una concezione dello spazio misurato e misurabile…



                                  





Paesaggio, Firenze Uffizi


    
e un tardo disegno dei “diluvi” (1517-18 ca.), dove un cataclisma provoca la caduta di montagne con vortici di polvere, fumo e acqua, mostra un radicale cambiamento di concezione… Partendo dalla fiducia nella natura e dalla consapevolezza di possedere gli strumenti idonei per la sua rappresentazione, si conclude, a quasi cinquant’anni di distanza, in una visione catastrofica e pessimistica in cui l’uomo non ha più il controllo degli elementi naturali ed è costretto a soggiacervi rinunciando, quasi, a porvi riparo” (p. 29).

  
Diluvio 16 The Royal Collection 
       
E torno all’Uomo universale e perfetto, che ha stupito contemporanei e posteri con le sue strabilianti scoperte e anticipazioni. Anche qui una esagerazione mitologica. Molti schizzi di prospettive e macchine riprendono esempi già illustrati dai suoi contemporanei, Francesco di Giorgio Martini, il Filarete, Leon Battista Alberti. Sua personale polemica è invece il vanto di “essere omo sanza lettere”. Specialmente nel mondo fiorentino s’intendevano ‘letterati’ i cultori delle arti liberali del Trivio, grammatica, retorica, dialettica, e del Quadrivio, aritmetica, geometria, astronomia, musica. Arti meccaniche, quelle di secondo grado, erano invece proprie di chi lavorava con le mani e la materia in una bottega come quella del Verrocchio dove il padre aveva indirizzato il figlio Leonardo. Sì mani e materia, ma pure cervello. I due gradi dei letterati e degli ingegneri meccanici si stavano mescolando anche sull’esempio del Brunelleschi. La risposta di Leonardo è chiara, esclude il compromesso. “…Alcuno presuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere… Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza che d’altrui parola” (Proemio 6 Cod. At. f. 387). ‘Sperienza’ è vedere, toccare, ap-prendere la ‘natura’, decifrarne i misteri. La pittura è quest’arte e nella pittura il disegno è quel movimento, quella frenesia che meglio rivive le nervature naturali, le afferra e le comunica. Pittura e scienza, ciascuna con mezzi propri, spesso molto vicini, hanno nella natura lo stesso oggetto. Una scienza e una pittura s-naturata perdono ogni valore. Così la circolazione del sangue è come il flusso dei fiumi, la struttura dello scheletro come la durezza delle rocce, il respiro come il soffio dei venti. Così il volo degli uccelli potrebbe diventare il volo dell’uomo. Leonardo disegna e scrive. Tiene con sé i suoi foglietti. Quelli più grandi sono già pensati per una pubblicazione che non verrà. Alcuni scorrono tra le mani di collezionisti ammirati. Ma il più è parte del suo personale viaggio inquieto, accompagnato dai suoi giovani aiutanti. Quasi inutile aggiungere che la rivendicazione di una propria autorità riflette anche l’uscir a testa alta da quelle difficoltà familiari, figlio naturale, le figure invasive della madre e del padre ecc. che fanno parte di una biografia conosciuta (v. Freud) e che meriterebbe una nota a parte. I foglietti che porta con sé e tiene a portata di mano sono vergati da lui mancino con annotazioni varie e sparse, sovrapposte, mescolate con note di spese, frasi fulminanti, profili scoloriti. Difficile trovare definizioni: un fiume carsico, una brace rovente, un inarrestabile movimento. L’unità ordinata del mondo sempre desiderata e sempre sfuggente.
 
Nudi per la “Battaglia di Anghiari”, Torino Biblioteca Reale
          
   
Il mondo allontana da sé ogni sperata, limpida unità, che pure occhieggia e invita. Piuttosto traspare da vari, molti segni e disegni sovrapposti. Il tutto si richiama e si frantuma. Perciò il ricercatore prolunga la sua indagine anche se intravede il suo fallimento. L percorso non è lineare, non può esserlo.
                                                            
Cinque teste grottesche 1493 -95 ca.  The Royal Collection

Ala meccanica 1494 Milano Bibl. Ambrosiana                 
 
No. L’uomo non volerà con le ali di Leonardo, rimarrà un sogno affidato all’avvenire.  Già perché il confine tra visione e sogno non è sempre chiaro. Così che i suoi palombari subacquei, o i pinnuti camminatori sulle acque, o i paracaduti,  o i congegni distruttivi improbabili mescolano volentieri “il volo meccanico e quello della fantasia” come intitola il suo saggio Edoardo Villata (pp. 303-311). Né mancano facezie, rebus, allegorie per il diletto di corte: “Andranno li omini e non si moveranno, parleranno con chi non si trova, sentiranno chi non parla”. Sembrano scherzi, ma questi nonsenses sono uno spiraglio di qualcosa che sfugge a quell’ordine tanto rincorso, desiderato e alla fine mancato. Gli appunti frenetici e sovrapposti, i numerosi lavori non finiti, Il sorriso melanconico della Gioconda, assediata, dietro lo spessa lastra trasparente, dalla curiosità inutile di troppi turisti pigiati e frettolosi insieme al viso pensieroso del vecchio che si appoggia alla mano sinistra, è un segno (un senso) del non senso pazientemente accolto dal grande ricercatore, insieme al fragore dei crolli,  degli sconquassi, dei vortici diluvianti, anch’essi parte della contraddittoria vitalità.

                                                                           Uomo anziano pensoso seduto... a destra notazioni  su gorghi d'acqua 1506-8  ca.  
The Royal Collection  G. C. maggio 2015



   ARTE LOMBARDA DAI VISCONTI AGLI SFORZA


Il 12 marzo si è aperta a Palazzo Reale di Milano, la mostra che nel titolo, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, e nei contenuti intende riferirsi, rinnovandola, a quella del 1958 curata da Gian Alberto Dell’Acqua, diretta e concepita da Roberto Longhi, attento agli ambienti, alle realtà locali e non solo ai grandi nomi isolati, Amadeo, Bramante, Leonardo, da tempo largamente studiati e proposti al grande pubblico. Duecentocinquanta opere esposte, sino al 28 giugno, accompagnate da un nutrito catalogo ricco di illustrazioni e materiale documentario, introdotto dai curatori Mauro Natale e Serena Romano. Più di due secoli di storia, Trecento e Quattrocento, non solo di pittura e scultura, ma anche di oreficeria e di pagine miniate. Un volume pubblicato da SKIRA che ha pure coprodotto la mostra insieme al Comune di Milano.
Dico subito una mostra indispensabile per capire e apprezzare una storia brillante, spesso trascurata, una mostra non facile per la varietà dei prodotti e per l’intrico delle vicende: stati piccoli e dai confini mobili, radicate autonomie urbane,  categorie, associazioni gelose della propria indipendenza; discendenze aristocratiche complesse; committenze diverse, Signori litigiosi, grandi santuari, ordini monastici; il movimento continuo di artigiani e artisti alla ricerca di sempre nuovi committenti. Alle pagine 30 e 31 del catalogo si leggono la discendenza delle famiglie dei Visconti e degli Sforza e i confini del Ducato milanese che agli inizi del ‘400 arriva nel sud a Pisa, Siena e Perugia, e all’est sino a Padova e Belluno.



                                                               Bianca Maria Visconti  1460-80

                                                                                 
                                       Michelino da Besozzo, Madonna del roseto, 1450 ca.


Proprio per la sua varietà di offerta questa mostra è stimolante per un pubblico che è invece abituato ad una tranquilla, ovvia conformità: se si tratta di pittura sono quadri, tavole, tele di una dimensione media, né troppo grande né troppo piccola, firmate da un nome arcinoto, s’intende. Già la scultura è più rara, connessa com’è agli edifici, dislocata, fuori luogo. Se andiamo poi alle pagine miniate o stampate, si richiede un’attenzione, un occhio diverso: avvicinarsi, chinarsi, occhiali… Oreficeria, oggetti d’uso? Ma non si chiamava arte applicata? Come dire non quella vera, sola, libera, ma quella che serve ad uno scopo ‘altro’.  Uniformità, misura, nome noto. Questo è ciò che il pubblico medio, affrettato si aspetta. Tuttalpiù una fotografia per riferire poi il c’ero anch’io.



Ora la mostra Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza esce da questi criteri, richiede al visitatore uno sforzo di apprendimento. Imparare anche ad incontrare la molteplicità, a spingere i confronti: vetrate e affreschi, miniature, pergamene, pale religiose, medaglie, tavole dipinte, sculture. Imparare non è solo un piacere ma anche uno sforzo, due atteggiamenti, piacere e sforzo, che si aiutano a vicenda. Richiedono una disposizione attiva, curiosa di ciò che si ignora, desiderosa di un di più che difficilmente accompagna il visitatore distratto. E le differenti misure e materie degli oggetti giocano la loro parte. La nostra percezione è parzialmente plastica, cioè riduce o ingrandisce sino ad un certo punto, poi ti devi muovere, se puoi. Perciò mi serve spostarmi piuttosto sulle misure del catalogo, nel quale le immagini si uniformano: le grandi si rimpiccioliscono, le piccole s’ingrandiscono . Il passaggio dall’immagine alla pagina e di qui all’oggetto in carne ed ossa, e viceversa, è un utile esercizio di apprendimento, lasciando all’originale l’indispensabile fascino misterioso che lo caratterizza. Ma quanti studiosi hanno scritto egregiamente fondandosi su immagini stampate magari in bianco e nero!

                                                    

                                                                Maestro del libro d’ore 1440-50

Proprio la molteplicità degli oggetti riflette anche la molteplicità, le differenze dei committenti: la Signoria (i Visconti, gli Sforza), l’aristocrazia di second’ordine (i Borromeo, gli Arcimboldi), l’ordine religioso, la devozione popolare. La continuità degli ori gotici, della preziosità dei ricami, delle eleganze ondulate dei personaggi dipinti risponde alle richieste di una Corte esigente come quella milanese.


                                                                      

                             Orefice milanese, fine XV sec. Flagellazione e crocifissione di Cristo

E così giungo alle famiglie dei Visconti e degli Sforza e alle loro complicate parentele e discendenze tra le quali è facile perdersi, così scelgo solo alcune figure alle quali si connettono presenze artistiche di particolare rilevanza. Per esempio, tra i Visconti,  Azzone, che invita Giotto a Milano e con lui una schiera di giotteschi a cui seguirà lo scultore pisano Giovanni di Balduccio e, a lui vicino, il maestro di Viboldone. Fondamentale è poi l’attività di Gian Galeazzo (1352-1402) che tra le due capitali del Ducato, Milano e Pavia, inizia a Milano il cantiere del Duomo con maestranze internazionali, senza trascurare Pavia dove si occupa dell’università e di un altro cantiere lunghissimo, quello della Certosa. Si moltiplicano le botteghe di intagliatori, orafi e miniaturisti, quella dei de Grassi o quella degli Embriachi o quella di Michelino da Besozzo, autore anche della ‘Madonna del roseto’ , scelta come emblema della mostra. Né manca una piccola Madonna, per devozione privata, di Gentile da Fabriano.  Alla più tarda bottega dei Bembo si devono i tarocchi conservati a Brera e la medaglia del Pisanello. Si tratta di artisti capaci di passare dalla pagina al decoro d’intrattenimento alla tavola alla pala d’altare a figure come ‘modelli’ per scultori e architetti. Una varietà che accompagnerà anche le botteghe successive, quelle fiorentine, dalle quali crescerà il genio di Leonardo.

Come terzo nome di particolare spicco ricorderei di Duca (il titolo lo raggiungerà nel 1450) Francesco Sforza che sposa Bianca Maria, figlia dell’ultimo Visconti, Filippo Maria, di cui era stato capitano di ventura. I suoi progetti di rinnovamento interessano il Castello, che da lui si chiamerà sforzesco, e l’Ospedale Maggiore.  Alla sua Corte lavorano artisti di formazione toscana a cui si aggiungono anche i fiamminghi, molto richiesti dalle varie Signorie italiane. All’epoca del suo successore, Galeazzo Maria, il pittore  Zanetto Bugatto viene inviato a Bruxelles per imparare le nuove tecniche degli artisti nordici. A Francesco Sforza si deve il tentativo di pacificare le continue rivalità che dissanguano le casse dei piccoli stati, con l’accordo di Lodi 1454 firmato dai nuovi Signori di Firenze, i Medici, dalla repubblica di Venezia  e dagli Aragonesi di Napoli.




                                             Madonna col Bambino, Zanetto Bugatto 1470-75 ca.

Ma i tempi stanno rapidamente cambiando. Con le nuove turbolenze cresce la figura di Ludovico Maria Sforza detto Ludovico il Moro, nominato Duca dall’Imperatore Massimiliano d’Asburgo. Siamo nella seconda metà del ‘400.E’ tempo di ritornare ai grandi nomi degli artisti di area lombarda partecipi del nuovo clima rinascimentale: la lunga vita di Vincenzo Foppa, la nuova semplificazione di Giovanni Antonio Amadeo, con la cappella Colleoni di Bergamo e il tiburio del Duomo di Milano, le sculture di Cristoforo e Antonio Mantegazza, la instancabile produzione di Ambrogio da Fossano detto il Bergognone. Comincia a spandersi anche il nome nel nuovo ospite fiorentino, Leonardo da Vinci, alla corte di Milano dal 1482.


Bonifacio Bembo Adorazione dei Magi, seconda metà del ‘400

Ma un altro illustre straniero, forse di Urbino, dopo una tappa a Bergamo, arriva a Milano nel 1478 Donato Bramante , subito coinvolto nel cantiere di Santa Maria presso san Satiro, dove esegue uno spettacolare effetto ottico di falsa prospettiva. Nell’81, stampato dall’orafo Prevedari, incontra un immediato successo lo spaccato di un tempio, quasi un programma del suo lavoro successivo. Le sue vicende lombarde, il circolo aristocratico che frequenta –dipinge Uomini d’arme  e filosofi -, la sua partecipazione alla Fabbrica del Duomo sono state già oggetto di una recente mostra a Brera. Ludovico il Moro gli affida nel ‘92 la costruzione della tribuna di santa Maria delle Grazie, che avrebbe dovuto essere il luogo della sua magnifica sepoltura. Lascerà Milano per Roma, per diventare il celebre architetto di Giulio II. Con lui la semplificata e forte struttura prospettica rinascimentale sostituisce l’amore assoluto per il dettaglio, le puntature, il traforo prezioso e le sinuose ondulazione del gotico. L’altro prim’attore che, installatosi direttamente a corte, modifica con una sua particolare dolce e pervasiva sfumatura luminosa le asperità del gotico e a suo modo anche il contorno deciso del Bramante, è la figura di Leonardo, che abbandona Milano dopo la tragica sconfitta nel 1500 di Ludovico il Moro da parte dei francesi. Così si chiude il secolo e la mostra. In attesa di quella su di lui, il personaggio per eccellenza, Leonardo.



 [Aprile 2015]



                                                  

  

































                                                 HENRY ROUSSEAU IL CANDIDO



Nous sommes réunis pour célébrer ta gloire.
Ces vins qu’en ton honneur nous verse Picasso
Buvons-les donc, puisque c’est l’heure de les boire,
En criant tous en choeur: “Vive, vive Rousseau!”                                      
(Apollinaire Poèmes retrouvés)


Il festeggiato, la sedia su di una vecchia cassa, mentre Apollinaire alza il bicchiere del brindisi, è mezzo addormentato, aiutato dalle abbondanti libagioni. Ha già passato la sessantina. Siamo nel baraccone del Bateau-Lavoir a Montmartre, dicembre del 1908. Picasso gli aveva comperato per 5 franchi da un rigattiere  ’Ritratto di donna‘. Intorno sono gli amici Delaunay, Braque, Utrillo, Marie Laurencin e, naturalmente Apollinaire che insieme a Jarry e al giornalista e scrittore Remy de Gourmont avevano  da tempo introdotto la figura di Rousseau nelle cronache parigine. Leo e Gertrude Stein lo accompagnano a casa in carrozza.


Ora l’opera di Henry Rousseau detto il doganiere, ma in realtà il daziere, impiegato del dazio, è in mostra al Palazzo Ducale di Venezia dal 6 marzo al 5 luglio 2015, una grande esposizione dal sottotitolo Il candore dell’arcaico”, con centinaia di lavori e riferimenti al prima, spunti, e al dopo, influenze. Un uomo tutt’altro privo di cultura. Qui, nella sua particolare preparazione culturale e vocazione artistica, sta l’accento della mostra veneziana, nello specificare anche di ‘quale’ cultura ‘candida’ si tratti.


Vorrei fermarmi al significato dell’incontro non infrequente tra cultura ‘alta’ e cultura ‘altra’, sia ripescata dal passato, greca, egizia, cino-giapponese  ecc. sia da mondi estranei, cultura contadina, rivierasca,  montanara, africana ecc.  Incontro, prestito, citazione che segna una crisi nella cultura ufficiale e una inserzione di elementi di trasformazione e disturbo. La morte della regina Vittoria nel 1901 rappresenta quasi il simbolo del cambiamento. Antropologi, psichiatri, storici avevano cercato di fornire grandi disegni di orientamento sociale: una umanità in cammino, oppure in retromarcia, tra primitivi e civilizzati, decadenti ed emergenti, inconscio e coscienza. Il percorso positivista si stava frantumando. Persino il lombrosismo aveva riconosciuto che la spinta al cambiamento in società bloccate dalla paura del nuovo, il misoneismo, poteva giungere da certe forme caratteriali degenerative utili, “Genio e Degenerazione” 2° ed. 1907. E ‘Decadenti’ si chiamarono, e si vantarono di essere chiamati, artisti da Baudelaire in avanti. L’alterità poteva essere trovata in culture contemporanee distanti, il cino-giapponesismo, le maschere rituali dell’Africa e dell’Oceania, oppure nelle pratiche ‘artigianali’ sopravvissute nelle aree lontane dalla moderna città, i pittori di ex –voto o di icone, i mobili, le decorazioni e le costruzioni contadine. 1907 Picasso dipinge Les demoiselles d’Avignon e Kandinskij soggetti tratti dalle saghe russe. Tralascio il caso di Gauguin, già morto nel 1903 nell’isola di Hiva Oa. Artisti molto diversi, ma tutti uniti nella ricerca di stimoli lontani, utili a quel trasferimento fuori dalle Accademie ripetitive,  scavalcando quei moduli fissi, magniloquenti, sempre più vuoti e retorici. Dunque  “il primitivo” è opportuno perché lontano fisicamente, cronologicamente, linguisticamente, anche quando continuasse vivere  a Pont-Aven, dove si reca a dipingere Gauguin, o dietro il cimitero di Montparnasse, dove abita Rousseau. La conoscenza diretta, folclorica, attraverso le Esposizioni universali e i giochi circensi, è solo occasionale, breve.


La condizione, pur quando si verificassero contatti prolungati tra il pittore e il ‘primitivo’, non deve cancellare quella estraneità che costituisce per l’artista innovatore uno stimolo fondamentale.


Ora la situazione di Henry Rousseau è, si direbbe, mista. E’ avvicinato dagli artisti innovatori, Picasso in testa, e Soffici che lo introduce in Italia con un lungo articolo su “La Voce” del 1910, letto con interesse da Carrà e Morandi. Lui stesso ama questa vicinanza, a suo modo. Nella cena cantata da Apollinaire dice a Picasso: ”Noi siamo i due più grandi pittori del tempo: tu nel genere egizio, io in quello moderno”. La stranezza di quel genere egizio non è una fantasia del ‘Candido’, ma il modo con il quale alcuni critici avevano accolto le provocazioni de Les demoiselles d’Avignon e le opere picassiane di quell’anno. Rousseau dipinge e dorme in una stessa stanza. Sulla porta una targhetta: “Cours de diction, musique, peinture et solfège”. Sul muro un violino.  Dall’ 1886 espone al Salon  des Indépendants e nel 1905 al Salon d’Automne, quello che fa rumore intorno agli artisti battezzati Fauves, Belve. Lui non c’entra. All’unica sua mostra personale a Parigi presso un venditore di mobili mancano i visitatori. L’amico Uhde non aveva scritto l’indirizzo sull’invito.  Ma la sua notorietà si espanderà rapidamente in Germania e negli USA dopo la sua morte per cancrena alla gamba il 2 settembre 1910. Quasi un destino. Quattro persone seguono il feretro, sepolto nella fossa comune del cimitero di Bagneux. Un anno dopo Delaunay e l’amico, il formatore in gesso Queval, trasferiscono le spoglie in una sepoltura trentennale, poi trasformata in perpetua. Apollinaire scrive l’epitaffio, scolpito da Brancusi e Ortiz de  Zarate: ‘Gentil Rousseau tu nous entends / Nous te saluons /…. / Laisse passer nos bagages en franchise à la porte du ciel / Nous t’apporterons des pinceaux des couleurs des toiles / Afin que tes loisirs sacrés dans la lumière réelle / Tu le consacres à peindre comme tu tiras mon portrait / La face des étoiles’. Il poeta si riferisce ad un ritratto che precede le due versioni di ‘La musa ispirante il poeta’, le figure di Apollinaire e Marie Laurencin, 1909, con le piante fiorite in primo piano e gli alberi grandifoglie dello sfondo.



Molte leggende crescono intorno al personaggio sino a raggiungere uno stabile riconoscimento postumo. Ma la faccenda mi sembra un’altra. Se indiscutibilmente critici e artisti del rinnovamento modernista lo includono nel loro Pantheon non direi che succeda il contrario. Lui, il Candido, inizia a dipingere intorno ai quarant’anni, nell’84,  sotto i consigli di un pittore accademico vicino di casa, F.A. Clément, che lo aiuta pure a liberarsi dalle ore di lavoro al dazio, da cui si dimetterà nel ’93, quando potrà scrivere sul biglietto da visita “Artiste peintre et décorateur”. Jarry, compaesano, rientra tra i suoi protettori; è lui che lo presenta ad Apollinaire. Ho già ricordato la partecipazione al Salon  des Indépendants e al Salon d’Automne. Ambroise Vollard lo aiuta con un piccolo stipendio giornaliero di venti franchi e qualche acquisto. Le lezioni di solfeggio non gli risolvono i debiti contratti. La triste fine all’ospedale Necker dimostra la sua prolungata indigenza.



Rousseau ama la sua arte, ama alcuni pittori da Museo e  il pluripremiato pittore accademico William Bouguereau. Rimane estraneo alle novità moderniste. Lo accompagna una tranquilla fantasia. Tiene pennelli , matite e colori accanto al letto, così da adoperarli subito, al risveglio, per utilizzare i suggerimenti del sonno appena terminato. Dipinge delle foreste magnifiche e dichiara di averle conosciute nel suo viaggio in Messico con lo sfortunato imperatore Massimiliano d’Asburgo. Ancora Apollinaire:

“Tu te souviens, Rousseau, du paysage aštèque, / Des forêts où poussaient la mangue et l’ananas, / Des singes répandant tout le sang de paštèques / Et du blond empereur qu’on fusila là-bas.

Les tableaux que tu peins, tu les vis au Mexique, / Un soleil rouge ornait le front des bananiers, / Et valereux soldat, tu troquas ta tunique, / Contre le dolman bleu des braves douaniers…. “. (ibd. p. 661).

Ma erano sogni. “Per lavorare le foglie s’era costruito un metodo. Andava a cercarne in giro, per boschi e giardini, quante più potesse, di forme e varietà diverse. Ne portava rami interi nello studio, li denudava, ponendosene le fronde dinanzi. Poi le sovrapponeva, con pazienza infinita, una per una, sulla tela, copiandole minutamente” (G. Artieri, “Rousseau il Doganiere, Rizzoli 1978). Le sue foreste contengono anche araucarie, liane giganti, piante preistoriche tratte da ogni sorta di illustrazioni, da ogni sorta di epoche geologiche. Voleva essere riconosciuto come un vero pittore. Nel bel mezzo della  festa organizzata in suo onore da Picasso, tre colpi discreti alla porta interrompono il chiasso, ricorda Raynal (H. Rousseau cit. p. 86). “Era il Doganiere coperto dal solito feltro floscio, la canna nella sinistra e il violino nella destra… una specie di strumento per bambini”, con l’accompagnamento del quale canterà il suo repertorio, “mentre da una lampada la cera gli colava sul capo, sino a formare un’enorme cuffia”. Così gli amici ‘colti’ accoglievano il loro nuovo giocattolo. Nel momento del suo apparente trionfo Rousseau era riconosciuto nella sua fondamentale estraneità.


                                                             Incantatrice di serpenti 1907 cm.169 X 189,5



In questa incolmabile diversità sta il fascino di Rousseau. E’ lusingato dall’interesse che i pittori colti dimostrano verso di lui, ma non ne accoglie il loro modo di intendere l’arte. Per loro è un suggerimento, un invito ad approfondire la loro differenza, la distanza sia dalla pittura ‘pompier’ che dallo sfaldamento ‘impressionista’. Henry (Henri?), che non desidera la novità, è  convinto che il pittore deve esporre nelle grandi mostre, deve vendere, deve essere premiato. Meglio se è anche scrittore (scrive un vaudeville e un dramma) e musicista (compone alcuni valzer). Sforzi non tutti andati a buon fine. La derisione di molti - adamismo definiscono il suo stile - lo sfiora appena. La sua pittura cambia nel senso che si arricchisce di quanto ha stabilito fin dall’inizio. Qualche insegnamento lo accetta, per esempio la difficile connessione della figura, dei piedi, con l’ambiente, la distanza dei secondi e terzi piani. Ma senza preoccuparsene troppo. La sua pittura è metodica, accurata. Il Grande Maestro raffigura i propri sogni, le proprie visioni, il proprio mondo: Clémence, la prima moglie, il biroccino di papà Juniet, l’amico poeta, le macchine volanti, La giungla, le bestie feroci, il Messico dell’Imperatore.

Non smentisce la leggenda che le sue foreste vengono da una sua visita laggiù. E vi aggiunge una esplicita compiacenza. In mezzo al fitto fogliame Il gruppo delle leonesse guarda divertito verso lo spettatore, come in posa davanti al fotografo. Una luce fa uscire i loro musi dalla massa vegetale che li avvolge. Un amorevole teatrino di cui il pittore sa di essere il regista e sorride lui stesso di quei sorrisi che dipinge. Una consapevolezza che non mi aspettavo.

 Non c’è stacco tra visione e mondo. Vedere, fantasticare, ricopiare,  trasferire sul foglio (quando si sveglia) o sulla tela sono un unico problema. Un montaggio non facile, una specie di guerra, a fin di bene. La visione del Maestro è al di sopra di ogni bassezza. La cultura di Rousseau, ben solida nel suo stretto perimetro, ha poco da spartire con i grandi affanni della cultura colta, che pure guarda a lui come uno dei tanti esempi dell’altrove.










La Guerra; la cavalcata della discordia, 1894 cm 114 X 195


Il bironcino di Papa Junier (da una fotografia); a sinistra lo stesso Rousseau, 1908 cm 97 X 129


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                           TORINO CASORATI CAROLRAMA

 L’occasione di queste riflessioni è la pubblicazione “Carol Rama. Il magazzino dell’anima”, una elegante pubblicazione SKIRA sulla casa-studio di Calor Rama, curata con un lungo lavoro da Maria Cristina Mundici e dal fotografo Bepi Ghiotti, che si aggiunge, in completa autonomia, al catalogo della mostra a Palazzo Ducale di Genova (quindi solo ‘opere’) del 2008, sempre SKIRA, “L’occhio degli occhi” a cura di Marco Vallora.                             
Torino, vado indietro: anni ’50. In zona Po le strade sono ancora acciottolate con le guide centrali in lastre di pietra per i carri, da tempo scomparsi. Via della Rocca, via Mazzini. Il cortile è silenzioso. Al suono del campanello ‘Casorati’ il bassotto abbaia. Viene ad aprire la sorella Elvira. Dietro s’intravede l’altra sorella. Nell’ambiente degli allievi, ordinato e silenzioso, la luce filtra dal giardino interno, insieme al suono del pianoforte che discretamente suona il Maestro, Felice Casorati, nel suo studio, sempre in giacca a cravatta, anche quando dipinge con i pennelli e la grande tavolozza. Numero, mensura, , pondus il suo motto. Da Verona, dopo la parentesi della guerra (e del suicidio del padre), arriva a Torino nel 1918: “la città…mi apparve calma, regolare, tranquilla e silenziosa… Sentii che soltanto in questa città… dalle mansuete colline, dal fiume che sembra rallentare il suo corso per non turbare la calma di tutte le cose, in questa città ordinata, geometrica e misurata come un teorema, enigmatica ed inquietante come una cabala, astratta come una scacchiera, avrei potuto…riprendere la mia vita di pittore “ (F. Casorati, Electa 1990, p. 176). E’ la Torino che molto dopo Nico Orengo, citato nell’attuale ‘Magazzino’ di Carol Rama, ricorda: “in unaTorino grigia…di fabbrica, che poteva essere l’Einaudi come la Fiat tutto era rigoroso…”.
Nella casa spaziosa del pittore, accolti dal morbido sorriso della moglie inglese Daphne, si raduna un gruppo di giovani, Francesco, il figlio, Tabusso, Mauro Chessa, Noventa, intorno ad una rivistina “Orsa Minore”, forse in ricordo della paterna “Via Lattea”, quadro e pubblicazione del 1914. Al Liceo insegna filosofia un pittore e critico d'arte, suo allievo, Albino Galvano. All’Università si distingue un più giovane assistente di italiano, già allievo liceale di Galvano e poeta, Edoardo Sanguineti. Ne avevo firmato la richiesta della sua prima pubblicazione ‘Laborintus’, quasi laborem habens intus proprio in quel Cineclub dove Carol Rama (anche Carolrama, tutto attaccato) racconta di averlo incontrato.


Alla Torino del melanconico e rigoroso incanto casoratiano si contrapponeva una sotterranea sregolatezza luciferina, antica storia, circoli segretissimi, la coppa del Santo Graal, fughe, omicidi incomprensibili, magnetizzattori e sonnambule isteriche, la proibizione, firmata da Lombroso, pur interessato allo spiritismo, degli spettacoli ipnotici, lo smemorato di Collegno, smemoratezze e rimembranze. Forse erede di questa estraneità, sofferta e felice, si trova anche, oggi, un’artista con quasi un secolo sulle spalle; vive da sempre all’ultimo piano senza ascensore di un appartamento di via Napione. In quei lontani anni ’50 si parlava di lei con ammiccamenti, sorrisini, cenni a sessualità stravaganti, ammirazione sussurrata, anche.

Sembrerebbero due realtà separate, quella borghesamente affermata del pittore Felice Casorati, protetto dalla pubblica ammirazione e dagli affetti famigliari, stato sociale riconosciuto, pluriinvitato alle Biennali di Venezia, direttore del’Accademia di Belle Arti, amicizie e collezionisti solidi e quella invece di Carol Rama, discendente di una famiglia benestante poi caduta in miseria, il padre suicida, la madre in ospedale psichiatrico e lei pittrice quasi in segreto. “Ho sempre avuto un pezzo di carta per fare un disegno”. Le sue opere dal ’36 , a diciott’anni, al ’41 arriveranno al pubblico solo negli anni ’70. “Ho dipinto in quel tempo immagini di una autobiografia panica, oggetti-feticci quali dentiere o pennelli da barba, pissoirs maschili o scopini sfasciati, visti, “guardati” letteralmente da un testimone-ragazza, un volto desiderante, esibito con l’oscena evidenza delle sue molte lingue. Ho dipinto scarpe femminili, modelli accurati di scarpette femminili, abitate, non assurdamente abitate, da penifiore, da sessi invadenti e sicuri” (Lea Vergine, “L’altra metà dell’avanguardia”, 1980). Inutile sottolineare quanto la (auto)biografia dell’artista sia importante per cogliere il significato (almeno una parte del significato) della sua opera. La macchina da scrivere del padre in bella mostra nell’appartamento e la fotografia della madre accanto al letto, le forme da scarpe del nonno calzolaio  e dello zio ortopedico sono soltanto alcuni segni di questi affetti ed effetti duraturi.


L’Olivetti del padre. Sul muro un disegno dell’amico musicologo Massimo Mila con un animale, con dei denti veri sulla schiena,  che gli stringe la testa, e una fotografia di Carol giovane.

Ritorno, con Massimo Mila, alla Torino doppia: “E’ noto che Torino, la più regolare, la più pignola, la più svizzera città d’Italia, produce ogni tanto dei matti che più matti non ne esistono in tutto il mondo…In questa razza di matti subalpini un posto d’onore spetta alla pittrice Carol Rama” (citato ne “ Il magazzino dell’anima” da Lea Vergine, Carol Rama, Mazzotta 1985)

La separazione delle due realtà è una forzatura. Casorati seguirà sempre con interesse e partecipazione l’attività di Carol. Leggo ancora da “Il magazzino…”: “La famiglia Casorati, nelle due generazioni di Felice con la moglie Daphne e Francesco con la moglie Paola, ha accompagnato la vita di Carol Rama dagli anni quaranta ad oggi: con stima, affetto, sostegno”. Un ritratto di Carol dipinto da Daphne è appeso al muro dell’appartamento. No solo. Albino Galvano ed Edoardo Sanguineti (“L’ho conosciuto nel ’46 e da allora non ci siamo più persi di vista” dice Carol) sono tra i più attenti accompagnatori ed esegeti della pittrice. Lei ne subisce la sottigliezza culturale e restituisce loro una sulfurea, inesausta, drammatica spinta vitale. Insomma due realtà, e forse più di due si mescolano, si accostano, si annusano, si accompagnano, si riconoscono. Ora vengo più propriamente al prezioso volume de “Il magazzino dell’anima”, alle fotografie accostate a brevi commenti e citazioni, molto utili; anche perché tutta la sistemazione,  questo bene, “già definito opera essa stessa, sia molto probabilmente destinato a scomparire” (“Il magazzino…” p. 9). Leggo dalla presentazione: “un ‘magazzino’ secondo una sua definizione, allestito con opere e oggetti di memoria, da lei stessa strutturato come rappresentazione di sé”. La casa si è via via nel tempo gremita di oggetti, fotografie, scarpe, maschere, scatole, arnesi, gomme usate, da biciclette, una scatola piena di corna, boccette, pendenti, colori, libri, riviste…  “frammenti oggettuali e confidenti… segni ormai inconfondibili e attesi dell’usura e dello straniamento” (ibd. p. 173), quasi a temere un vuoto che potesse alludere ad una minaccia, un ‘altro’ non riducibile alla propria domesticità. Certo, questo accumulo voluto e concertato è pur sempre una “rappresentazione di sé”, ma parziale; per ri-conoscerlo (oltre a chi l’ha prodotto) sono necessarie altre conoscenze, altre rappresentazioni, e ci metterei almeno le tracce biografiche, il vissuto, per quanto trascritto, e i risultati artistici, le opere, fermate nelle loro conclusioni. E qui soccorrono le ri-produzioni ben isolate sulla pagina del catalogo sopra citato “L’occhio degli occhi”. Naturalmente il vissuto è sempre sfuggente, anche al soggetto che lo vive, ma ogni traccia, da quella più linguisticamente definita, l’opera, seppur riprodotta, agli scritti dei critici, ai discorsi riferiti, ai ricordi dell’autore, degli amici, dei conoscenti…  è pur sempre un aiuto. Mai abbastanza.Torno alle immagini della casa-magazzino. L’artista che la abita non ama la luce esterna. Grandi tende nere e vecchi sacchi delle poste italiane allontanano la luce diurna, l’ambiente circostante, l’esterno. E’ una interiorità che riempie ogni vuoto anonimo per riconoscersi ovunque. “C’è chi si toglie le angosce facendo shopping, io col buio in casa” (p. 176). Viene in mente lo studio di Bacon, chiuso, sigillato, con le lampadine pendenti, attaccate al filo della luce, i muri sporchi di colore e impronte  e un pavimento pieno di ritagli, fotografie, giornali, schizzi, appunti e…. Un lavoro improbo (e impossibile) da trasportare, dopo la sua morte, da Londra, dove si trovava, a Dublino, dove si trova ora.

Che tipi di oggetti sono quelli che riempiono il magazzino? Sono oggetti usati, scrostati, monchi, appena salvati, con (s)ragione, dalla spazzatura, vantano storie che non conosciamo, ‘oggetti d’affezione’. “Ho sempre amato gli oggetti e le situazioni che venivano rifiutati”. E oggetti sono anche parti delle sue opere, denti, occhi, gomme, superfici già trattate da altri. Sanguineti cita da Lévi Strauss, il termine ‘bricolage’: riuso di materiali e strumenti esistenti e disponibili per propri e altri scopi. “In questi ultimo anni (1992) cerco sempre di disegnare partendo da un supporto lavorato da altri, un foglio di architettura …vecchie mappe del catasto. Avere uno sfondo mi deresponsabilizza: mi fa coraggio” (ibd. p. 190). “Prendo pezzi di altri, perché ho bisogno di un suggerimento. Io, da sola, per tante cose che mi sono successe, sono troppo impaurita…Tutti gli artisti sono nevrotici, spaventati a modo loro” (in dialogo con Maria Perosino, citata da Emanuela Audisio, ‘La Repubblica’ 2010.4.17).  Appesi al muro anche tante fotografie in cornice. Quasi tutte riportano la figura di Carol nelle sue diverse età e compagnie. Se ci fosse stato un dubbio sulla senso di una scultura, pendolo, arnese, scarpa, la fotografia di Carol esclude ogni dubbio, è lei che così firma tutto quanto la circonda, le sue scelte di casa. E’ lei con la sua giovanile frangetta educata, col suo scoppio forestale di chioma adulta, con la sua treccia posticcia che la incorona. Nelle fotografie, tempi e luoghi diversi, la riconosciamo senza incertezze; in altre rimane quasi una impronta leggera, un po’ scolorita, perenne, senza età. Le prime figure sì individuate, ma fissate in un distante altrove; le seconde invece ritrovate, ma in una fantasmatica attualità. Eternizzata e insieme sfuggente. Anche nelle tracce una tensione. Una mancanza di sé, come gli oggetti che la circondano, pezzi di…, residui di…; ma sicura di averli succhiati, resi parte di sé, averne interrotto la rovina. Quando è fotografata da sola tiene sempre un oggetto in mano.” Ho sempre bisogno di un prestito: è come se mi mancassero le forze, da sola” (ibid..  Compagnia e solitudine. pagg.190). 








“Questa casa è sempre stata così, è una casa premeditata dove gli oggetti, tutti poveri (quelli meno poveri sono stati pignorati quando mio padre è fallito) posti l’uno vicino all’altro… diventano una storia, dove una casa non è più una casa ma una scenografia, una preparazione per girare un film, il tuo film” (M. Gregotti, L’oggetto sublimato di Carol Rama, “Elle Decor”, I n. 3, 1990). Ecco, una recitazione, uno spazio teatrale, una maschera non per celare ma per rivelare, e, come tutte le rivelazioni, anche un nascondimento.  Il personaggio in azione tra strazio e felicità, sfida e dolcezza, ripulsa e attrazione; il personaggio che si spande, si con-fonde in questi ambienti densi, eccessivi, sopraffollati, enigmatici, interrogativi. Torino, una città come una grande casa. La abitano gruppi diversi, parole e accenti si mescolano. L’elegante controllo e freddezza di Casorati si accosta alla ridente, esplosiva disperazione di Carol Rama. Reciproca ammirazione della differenza. Meno male!






                                                                                                                                             
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DIVINE  BOVINE

Sì, si tratta di mucche, o meglio di belle fotografie di Toni Meneguzzo, frutto di una sua ricerca antropologica lunga cinque anni sulla sacralità e i festeggiamenti della mucche nella tradizione indù; immagini inusuali, dai colori forti, ritagliate sull’immacolato biancore della pagina (Testo e immagini sono tratte dal volume appena uscito di SilvanaEditoriale). Inusuali perché gli animali sono addobbati e pitturati sulla loro stessa pelle, secondo antiche tradizioni religiose, oggi in via di estinzione. “La mucca portava il dipinto su di sé ed era essa stessa un dipinto”. Dunque un animale trasformato in quadro, oppure un quadro trasformato in animale? Né l’uno né l’altro. Ecco dunque la prima particolarità: il dipinto non è una trasposizione del soggetto su di una superficie con tecniche appropriate, quelle della pittura o della fotografia, ma una pittura diretta sul soggetto stesso, a sua volta riportato dal fotografo, il Meneguzzo, alla bidimensionalità della foto e della pagina-libro -la pagina bianca- con l’esclusione di ogni particolare ambientale che potrebbe distrarre dalla concentrazione sulla particolarità del soggetto. Nel ri-tratto il soggetto è tras-posto, nella pittura sul soggetto il dipinto è sul-posto. Soggetto e oggetto sono la stessa cosa.



“Adornate con ghirlande di fiori freschi e di addobbi variopinti, di paccottiglia luccicante – scrive l’Autore – le mucche vengono altresì preparate colorandone il manto e le corna con pigmenti organici, come il rosa…il colore della pelle di Radharani, compagna di Krishna, pastore delle mucche; il giallo curcuma, colore della divinità solare che illumina il mondo, e così via”. Il bovino, maschio o femmina (meglio se femmina) è espressione del divino, come il sole, il firmamento, le acque. La sua stessa esistenza lo di-mostra.





Nei giorni di ‘festa’ la mano dell’uomo ne esalta la sua particolarità, lo fa essere di più se stesso. Come le immagini della devozione cristiana si dicono ‘acheropoietiche’, non fatte da mano umana, perché la mano è guidata da Dio – comunque una collaborazione -  così le decorazioni umane sul vivo manto bovino si applicano al divino in sé, sono una preghiera umana sulla viva realtà divina, sempre una collaborazione. Qui però si tratta di due realtà vive, quella dell’uomo e quella dell’animale, l’uno che proietta la sua intenzione debole (precaria=preghiera), l’altro che l’accetta nella sua stessa inconsapevolezza e generosità: “il suo latte nutre, la sua urina purifica, i suoi escrementi santificano e fertilizzano la terra e servono come combustibile” (Rosalyn D’Mello).





Ma l’azione dell’uomo è una macchinazione mentre quella della mucca è una accettazione. Cancellare l’ambiente, la preparazione, come fa il fotografo, è allontanare la ‘macchina’ dell’intervento, le puzze, i clamori, ed esaltare il miracolo dell’apparizione, la divinità in sé, isolare il risultato finale (come il quadro dipinto nella mostra), affidando al lettore la capacità di ricostruire più o meno, mentalmente, se lo desidera, le modalità dell’intervento (i materiali e i movimenti del pittore). Giusta ambiguità dell’opera, che vale di per sé, l’animale nel miracolo delle sue decorazioni, come  la pittura nel miracolo dei suoi colori, e le modalità che lo hanno reso possibile. La differenza però non è poca. Nella pittura il tratto del viso o di qualsiasi altro soggetto è una esternità rispetto alla tela del pittore, nel caso della mucca divina, tela e corpo dell’animale sono tutt’uno, una messa in scena speciale giocata sul corpo dell’attore, e infine ricollocata, e in qualche modo esaltata, dall’abilità del fotografo, nel nulla ambientale, il bianco della pagina, che restituisce all’attore il mistero della sua recitazione. A volte le macchie del colore si confondono con le macchie del pelo naturale, a volte ne escono, lo contraddicono, si accomunano alla artificialità degli allungamenti delle corna, alle ghirlande, ai palloncini, ai drappi. Mai insofferenza , ma neppure orgoglio. Piuttosto l’infinita, dolce pazienza di chi sa di essere, di chi sa accettare ogni comp(l)imento, anche scherzoso.

 G. C.  febbraio 2015                                                                                                                                
                                                                                                                                 

Truffatori, bevoni, violenti nella Roma dei Papi

 ‘La sera del 28 maggio del 1606, durante la celebrazione del primo anno del pontificato di Paolo V… si svolgevano dei festeggiamenti che diedero luogo a fatti di sangue…. Secondo le cronache, “verso la sera a Ripa grande facendosi la festa, et combattendosi con le barche, nel festeggio e gara, uno diede uno schiaffo ad un altro, et questo con una ferita lo cavò di vita” (Corradini, 1993). È la stessa sera in cui Michelangelo Merisi da Caravaggio uccide in Campo Marzio, poco distante, Ranuccio Tomassoni, sua vecchia conoscenza…(E’) la Roma cauda mundi che convive con quella caput mundi, la Roma della gloria e quella dei pericoli, la Roma della cultura classica e della spiritualità cattolica intrecciata all’abisso morale della corte, alle tribolazioni della popolazione e alla violenza notturna’.                                                                       
Così scrivono Francesca Cappelletti e Annick Lemoine nel catalogo della mostra: “I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria (ed. Officina Libreria) aperta a Roma, all’Accademia di Francia, Villa Medici dal 7 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015, e dal 24 febbraio al 24 maggio 2015 al Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.

Caravaggio, Il Bacchino malato, 1593 ca.

Il Bacchino di Caravaggio, passato dalla bottega del cavalier d’Arpino alla collezione del Cardinale Scipione Borghese, nella sua degradata incoronazione bacchica, è un modello per i numerosi giovani pittori stranieri, specialmente fiamminghi, giunti a Roma alla ricerca di guadagni, avventure e fortuna. La cosiddetta Bent, La Banda, Bentvenghels, gli uccelli della Banda, o anche i Bamboccianti seguaci di Pieter van Laer, detto il Bamboccio, una confraternita con riti di ingresso e propositi di reciproca assistenza. La vita sregolata, notturna, il vagabondaggio, il gioco di azzardo, il trucco,  l’ubriacatura, il vino, gli stracci, la zingara, la prostituta, l’opposto dell’opulenza esaltata dal Bellori, i Carracci, il Bernini, Reni, Rubens, Van Dyck, Poussin…

Nicolas Tournier, Un concert

Cosa sta succedendo? Roma è una città dove scorrono molti denari. La nobiltà religiosa, colta e spregiudicata, gareggia nel finanziare grandi opere e nell’aggiudicarsi le firme migliori. Il modello classico, prevalente, non esclude la novità e la bizzarria. Per loro parte i pittori nordici, a seguito delle varie riforme religiose, hanno abbandonato cieli, santi e Madonne, dedicandosi ai vari gruppi  ‘borghesi’  in ascesa, banchieri, amministratori, città in crescita, dimore pulite, limpide e modeste. Ma regole, obblighi e persecuzioni non mancano. Meglio cercare fortuna altrove, magari in un sud favoloso, ricco di principi e briganti. Così si sviluppa questo curioso incontro nella Roma papalina: da una parte ambiziose famiglie cardinalizie in perenne competizione, ‘soggetti alti’, i Borghese, i Ludovisi, i Barberini e, dall’altra, pittori squattrinati, abituati a scene ‘di genere’, piccoli gruppi in luoghi chiusi, ombre e luci caravaggesche, ‘soggetti bassi’.

Pietro Paolini, I bari, 1625 ca.

Un teatro. Smorfie, colpi di luce a staccare volti stupiti, galleggianti su voragini di buio; una oscurità indefinita, minacciosa accompagna in controcanto i trionfi smaglianti del potere e della bellezza. I due mondi si annusano, si richiamano. In qualche modo si rinforzano, si completano a vicenda.

Bartolomeo Manfredi, Gruppo di bevitori

E per finire - riprendo dal catalogo - una Satira di Salvator Rosa, la Pittura (v. 235-250):
“V’è poi talun che col pennel trascorse / a dipinger faldoni e guitterie/ e facchini e monelli e tagliaborse, / vignate, carri, calcare, osterie, / stuolo d’imbriaconi e genti ghiotte, / zingari, tabaccari e barberie, / niregnacche, bracon, trentapagnotte: / chi si cerca i pidocchi e chi si gratta / e chi vende a i baron le pere cotte, / un che piscia, un che caca, un ch’a la gatta / vende la trippa, Gimignan che suona, / chi rattoppa un bocal, chi la ciabatta; / né crede oggi il pittor far cosa buona / se non / dipinge un gruppo di stracciati, / se la pittura sua non è barona.” 
[G. C. gennaio 2015]

                                                                                                                                


MIRO', L’IMPULSO CREATIVO LEGGERO

La mostra di Joan Mirò, ‘L’impulso creativo’,che si è aperta in novembre 2014 a Mantova alle Fruttiere di Palazzo Te e che rimarrà visitabile sino al 6 aprile 2014, è una buona occasione per ritornare su di una figura dell’arte del’900, certo ‘laureata’, certo popolare, ma forse meno frequentata di altre. Gli amici mi perdoneranno del ritardo con cui ne parlo, ma sanno che non corro sulla notizia, ma ne parlo come occasione per alcune riflessioni sul personaggio e la sua vicenda. La mostra, a cura di Elvira Càmara Lòpez, è benvenuta, ricca di olii, bozzetti, terrecotte, bronzi, documenti, fotografie, in gran parte provenienti dalla Fundaciò Pilar i Joan Mirò. Il catalogo del  240RE Cultura riporta interessanti saggi e interviste all’artista, che citerò nelle mie osservazioni. Il periodo considerato pone un dubbio: le opere riguardano il tempo dal 1966 alla morte del pittore, avvenuta a Palma di Maiorca nel 1983. Una vita lunga di novant’anni. Se si tiene conto che Mirò nasce nel 1893 e che i suoi primi disegni conservati risalgono al 1906 e nel 1911 decide di dedicarsi interamente alla pittura, un salto di sessant’anni e più per arrivare alla tarda maturità dell’artista, quel “dal ‘66” richiede al visitatore un certo sforzo conoscitivo di fronte ad un personaggio che ha condotto una vita tutt’altro che monotona e ritirata. La conseguenza è perciò una illuminante insistenza su di un particolare aspetto della sua pratica artistica, cioè sulle tecniche, le modalità del dipingere, una inesausta capacità e curiosità di sperimentazione. Certo, un lato un po’ trascurato, e perciò ora benvnuto, quel suo confronto con le alterità continuamente affrontate, la grafia tra Klee, lo Zen giapponese e il dripping di Pollock, il dinamismo del gesto, la causalità dell’impronta, l’eterogeneità dei materiali poveri, la tentazione del vuoto e il filo leggero del racconto. Così Elvira Càmara Lòpez tratta de Il gesto, La forza del nero, La sperimentazione con i materiali, Il trattamento dei fondi, L’eloquenza della semplicità.

1973-78 circa 
Ma rimanendo sull’ultimo periodo dell’attività di Mirò, quando tali aspetti risaltano con particolare evidenza - ed è importante perciò insistere sulla loro rilevanza - si presuppone la conoscenza di tutto il lavoro precedente che quelle modalità ha poco per volta indagato, adoperato, modificato. Cercherò perciò di riprendere alcuni aspetti del suo carattere (anche con opere non presenti in mostra) che forse aiutano alla comprensione della sua ricca curiosità del ‘fare’. 
Il suo sguardo. Mirò si guarda intorno con lo stupore del ‘fanciullo’: per me, un oggetto è qualcosa di vivo; questa sigaretta, questa scatola di fiammiferi racchiudono una vita segreta molto più intensa di quella di certi esseri umani. Quando vedo un albero provo una forte emozione, come se fosse qualcosa che respira, che parla. Anche gli alberi hanno qualcosa di umano. L’immobilità mi colpisce. Questa bottiglia, questo bicchiere, un grosso ciottolo su una spiaggia deserta sono cose immobili, ma scatenano grandi moti dentro di me” p. 34. 
Il gioco, la burla, la meraviglia. I profili, gli occhi, le bocche si disegnano quasi per caso. E’ la forza nascente, “la scintilla” che stupisce lo sguardo del fanciullo prodigioso, che scarta il troppo, ama il vuoto, la mancanza, il “senza” che apre lo spazio all’infinito della immaginazione, all’infanzia di sé e del mondo, a quel sorriso d’intesa che aleggia anche sul viso di Chagall. Ritorna nella vecchiaia a Palma di Maiorca, là dove aveva passato la giovinezza, e a Palma di Maiorca muore. Tutto ciò che non è potrà essere. “Un quadro non si finisce mai, e nemmeno si comincia; un quadro è come il vento: qualcosa che cammina sempre, senza fermarsi” p. 33.  Lo stesso procedimento mi porta a ricercare il rumore che si cela nel silenzio, il movimento nascosto nell’immobilità, la vita in ciò che è inanimato, l’infinito nel finito, le forme nel vuoto e me stesso”. Gli elementi contrari si cercano, non si escludono. L’opera, il manufatto può scomparire, ma i suoi effetti rimangono. “Non ha importanza se il quadro viene distrutto. L’arte può anche morire; quello che conta è che abbia sparso semi sulla terra. Il surrealismo mi è piaciuto perché i surrealisti non consideravano la pittura un fine in sé” p.38.


Interno olandese II 1928

Una mollezza delle forme, ondulazioni, figure biomorfe, Mirò si sta interessando ai balletti russi di Diaghilev, sorride ai sogni olandesi, agli interni-esterni di quelle linde case (come nei quadri dei maestri del ‘600), il viaggio in Olanda e in Belgio l’ha fatto davvero. Ogni ‘titolo’ è pensato e voluto. E’ il senso dell’opera, la guida del racconto. Come la musica nasce dal silenzio, così la individualità è il fondamento dell’anonimato. “Per diventare veramente uomini, bisogna però liberarsi del proprio falso io….Perché un gesto profondamente individuale è anonimo.
In quanto anonimo, esso permette di raggiungere l’universale. Di questo sono convinto: più una cosa è locale, più essa è universale. Da qui deriva l’importanza dell’arte popolare” e del Doganiere Russeau. P.38 Da qui l’interesse per il lavoro collettivo, necessario nell’incisione, nella ceramica, nella scultura, nel teatro. 
Anche l’eterno fanciullo soffre di melanconia. Il mondo, così com’è, funziona male. “Sono, dice Miró, di temperamento tragico e taciturno. In gioventù ho conosciuto periodi di profonda tristezza. Ora ho raggiunto un mio equilibrio, ma tutto mi disgusta; la vita mi sembra assurda. Non è il ragionamento a farmela apparire tale: è così che la sento. Sono pessimista; credo che tutto, sempre, andrà a finire malissimo. Se nella mia pittura c’è qualcosa di umoristico, non l’ho cercato coscientemente. Forse l’umorismo deriva dalla necessità di sfuggire al lato tragico della mia indole. È una reazione, ma involontaria". Gli opposti si richiamano. Anche il sorridente sognatore si disgusta. Nel 1936 in Spagna ha inizio la Guerra Civile. Mirò dipingePitture disperate’ come ‘Uomini e donne davanti a un mucchio d’escrementi’. L’anno successivo Il governo spagnolo gli commissiona un grande dipinto murale per il padiglione spagnolo all’Esposizione Universale parigina, al quale collaborano anche Picasso con Guernica, Calder con Fonte di Mercurio e Julio González  conLa Montserrat. L’opera di Miró, Il mietitore, è dispersa durante lo smontaggio del padiglione. Realizza il manifesto Aidez l’Espagne, destinato a raccogliere fondi per la Spagna repubblicana.
Ma il volo riprende, pur tra le minacce, un altro mondo è possibile: Sur-réalisme


Personnages dans la nuit guidés par le traces phosphorescentes des escargots 1940
“L’uccello viene forse dal fatto che amo molto lo spazio, e l’uccello fa pensare allo spazio. E lo metto di fronte alla notte; lo colloco in rapporto al suolo. È sempre la stessa tematica, la mia tematica” p.40.

Personaggio e uccello, 1976 Olio su carta vetrata, legno e chiodi, 175,5 x 125,5 cm

Aria, terra, fuoco, vita. Il suo respiro, il suo gesto, il suo sorriso e ironia, ha conquistato simpatizzanti, collezionisti, Musei. Il mondo delle capitali e dei capitali, da Parigi a New York, da Londra a Venezia a Kassell, lo riconosce 'maestro'. Ma l'artista, a 63 anni, preferisce lo spazio appartato di Palma di Maiorca, e lì si fermerà.

la vicenda di Mirò, lunga e complessa, si svolge ben al di là delle mie poche note. Ma ciò che manca è insieme l’invito a riempire il vuoto. Così la bella mostra di Mantova, ben specifica nella sua definizione temporale e contenutistica, l'ultima età dell'artista, è anche 'scintilla', invito a proseguire l’incontro, il prima e il dopo: una  esperienza artistica in(de)finita.



[G.C. dicembre 2014]







BRETON - MèARINETTI

Sulla rubrica di Agorà ho parlato di Arturo Schwarz in occasione dell’uscita di un suo importante testo “Il Surrealismo ieri e oggi”, ed. Skira, e mi pare interessante sottolineare la contemporanea riapparizione ‘fantastica’ nella ‘performance’di Bellini al MART di Rovereto, una riapparizione di Breton in compagnia di Marinetti, entrambi autori di fondamentali ‘Manifesti’, a 25 anni di distanza, Manifesto del Futurismo 1909,  l’uno, Manifesto Surrealista 1924, l’altro: ‘manifestazioni’ che hanno cambiato la vicenda artistica del ‘900.


Ecco dunque al Mart di Rovereto, mercoledì 3 dicembre, la Performance di Dario Bellini

La scultura teatrale ‘il Kouros’
  

Il testo, denominato Il Kouros si basa sullo scambio dialettico immaginato tra André Breton e Filippo Tommaso Marinetti e prende le mosse dalle loro ragioni poetiche fino a coinvolgere i relativi risvolti politici. Marinetti e Breton si incontrano in un improbabile luogo fuori dal tempo e discutono rinfacciandosi le proprie ragioni e i torti. Sconfitte e speranze traspaiono dal dialogo che comincia con toni comici da commedia dell’arte e si conclude con speculazioni accorate sull’arte e la vita. Vigile spettatore e proiezione dei due interlocutori, l’attaccapanni veste il ruolo dell’arte, modello di bellezza o sedimento di opere amate e odiate dai due artisti-teorici.Breton incalza Marinetti indicandogli i molti temi da lui ignorati, Marinetti gli rinfaccia di essere confuso e vago: Breton rinfaccia a Marinetti di aver cercato la guerra, Marinetti gli contrappone l’ispezione profonda nella materia: la situazione si ribalta e alla fine il futurista sembra indicare al surrealista quanto il malinteso di inizio secolo sia fruttuoso una volta che la storia riprenda il suo corso dopo il cosiddetto delirio del simulacro
Riporto le parole dell’autore Dario Bellini e vi aggiungo una sua delucidazione su ‘il delirio del simulacro’, “un termine ricavato dalle riflessioni di Deleuze  e corrisponde grosso modo al Postmoderno cioè il periodo culturale in cui la forma delle cose prende il sopravvento sulla sostanza. In pratica una specie di svuotamento delle cose in funzione del profilo disegnato, il linguaggio, la comunicazione, il simulacro, appunto. E’ una cosa all'ordine del giorno della cultura degli anni 80 in un certo senso superata dagli eventi, dalla ripresa della storia, ma che ha lasciato strascichi non del tutto inefficaci”.
Riprendo ora personalmente, con mie parole – e perciò rischiando di sfasare il senso col quale sono state adoperate dagli autori -, il contrasto tra “storia” e “delirio del simulacro”, tra ciò che avviene nei fatti e ciò che si rappresenta svuotato nella  pervasiva comunicazione mediatica. Ma ovviamene c’è comunicazione e comunicazione. Però il linguaggio, la comunicazione, in generale, è sempre un ‘trasferimento’. Le emozioni, i fatti non parlano, sono, e il loro essere è sempre ambiguo, multiplo. Il trasferimento in parole, in gesti controfattuali è sempre discutibile, cioè soggetto a discussioni, interpretazioni, travisamenti, accordi, polemiche. 'Simulacro' è un termine negativo: ombra (magari dei morti), parvenza, fantasma. Insomma, traccia maligna, ingannevole di una realtà diversa. Ovviamente 'il trasferimento' non è sempre di questo tipo. Traduce, articola, sposta nei termini della possibilità. Così anche i ‘Manifesti’ di Marinetti e Breton sono stati scritti e riscritti, soggetti di meravigliose polemiche, rotture, incomprensioni, condanne, entusiasmi, alle quali si aggiunge ora anche il Kouros di Bellini. Bene, un nuovo trasferimento!
[G. C. dicembre 2014]                                                                           




UNA GRANDE MOSTRA. MARC CHAGALL  LA COMPAGNIA AFFETTUOSA

                                                              

Fin da ragazzino andavo a riguardarmi quelle immagini di pesci volanti, di violinisti sul tetto  - Vitebsk, l’infanzia di sempre - di innamorati felici,  e lei, sempre, Bella, mazzi di fiori, mucche pazienti, gli impacciati Profeti con i rotoli della Toràh (Mosé, Moshe è parte del nome di Chagall Segal. “…Io non faccio altro che portare il suo nome, e ho tracciato e disegnato con dolcezza le sue tavole della legge” p.48) . La memoria, la curiosità, lo sguardo del ‘fanciullo miracoloso’, interrogativo, sornione, melanconico. Un sorriso dell’ebreo hasid  (cassidico=pio) che canta e racconta e sogna anche nel freddo della povera isba, e le sue fughe e i suoi trionfi. Una compagnia che non mi ha abbandonato negli anni.
E vorrei estendere questa continuità con la presenza, il riconoscimento esteso del valore di Chagall sia da parte di un pubblico generico sia da parte della categoria degli ‘esperti’, critici, collezionisti, direttori di Musei. Insolita eccezione da quando l‘arte cosiddetta ‘moderna, con le sue clamorose ribellioni,’ ha abbandonato  il favore dei più. E Chagall, in una lunga vita, con le mosse di una danza sempre rinnovata tra i resti di Vitebsk, occhieggianti  anche nei viali di Parigi, è rimasto sempre se stesso. Come Laozi, "un vecchio bambino". “Forse che la mia vita stessa non è un balletto silenzioso?”
    Io e il villaggio 1911


Già, una lunga vita, 1887-1985, più lunga di quell’altro grande vecchio di Picasso, 1881-1973, forse mai stato bambino, che Chagall non ama: “… la sua arte mi era così estranea. Tutto di lui mi era estraneo . Aveva una grande capacità lavorativa, ma a che serviva una simile passione per la quantità?... Può darsi che fosse proprio questa quantità a rassicurarlo in qualche modo. Aveva paura della morte… Con la quantità, forse, sperava di ripararsi dalla morte” “Memorie, p. 40). Picasso, veloce come un corridore, preciso come un ragioniere, voleva fare tutto, essere tutto, antico e moderno, classico e romantico, monumentale e raccolto, aggressivo e amoroso… voleva usare tutte le tecniche, l’affresco e il secco, il collaggio, la tela, il muro, la lamiera,  la fusione e la ceramica, il colore prezioso e la vernice industriale….Ma il tutto gli sfuggiva sempre, né poteva essere altrimenti,  un se stesso continuamente mancante. Continua Chagall: “Com’erano tremendi i suoi quadri! Nessuno mai, nella storia dell’arte, aveva avuto nei propri dipinti volti come questi. Forse qualcuno saprà comprendere perché fosse così infelice mentre aveva tanto successo” (Ibd.). Non sto parlando di meglio o peggio, di chi era primo o secondo, ma di una differenza importante: Chagall scava nella propria emotività, la coltiva, ne fa filtro di ogni vista-visione, legame di ogni rottura e moltiplicazione, che pure c’è. Risultato, una tensione tra fuoco unitario e dispersione. Picasso ama la rottura, la moltiplicazione, la dispersione e quel fuoco, una rabbia trattenuta,  che pur traspare nelle ripetizione dei gesti e dei soggetti, per es. “Il pittore e la modella”,  è quasi accettata controvoglia. Due direzioni, non potevano incontrarsi. Ancora una notazione. La molteplicità di Chagall non è solo la rottura della unicità di scena, ma è piuttosto il tempo-spazio nella prospettiva del racconto. Da qui il suo amore per il teatro, per il balletto, per la illustrazione di una vicenda: “Ma vie”, “Le anime morte” di Gogol, “Le Favole” di La Fontaine, “Petruška” e “L’Uccello di fuoco” di Stravinskij. Non solo i racconti dei vecchi nelle stalle di Vitebsk, ma l’incontro di Bakst e Djagilev nel suo primo viaggio a S. Pietroburgo, 1907-8.
                                                                                                                         Ma vie, L'insegnante del Talmud 1923
                                                                                               

 
E ora vengo alla bella mostra apertasi a Milano, che è l’occasione delle mie riflessioni:

MARC CHAGALL E LA BIBBIA

Una retrospettiva 1908-1985  Milano, Palazzo Reale  (Direzione artistica Claudia Zevi & Partners)
Museo Diocesano settembre 2014 - 1 febbraio 2015.   

Vita e opere di Marc Chagall sono note, ben documentate nel catalogo, e qui ne accennerò solo brevemente. Nasce a Vitebsk in Bielorussia nel 1887 da una famiglia di ebrei chassidici di modeste condizioni. Il padre è un venditore di aringhe, la madre gestisce nella piccola casa in legno, una specie di merceria. ”Sul serio, dove ho potuto nascere qui dentro? Come ci si respira, qui?” (“Ma vie”). Marc disegna le figure che ha d’intorno. Con difficoltà riesce ad avere il consenso di recarsi a S. Pietroburgo, dove, privo del permesso di soggiorno, viene chiuso in carcere per qualche giorno. Frequenta il pittore Léon Bakst e l’impresario di esposizioni d’arte e di musica russa Sergej Djaghilev, che guardano a Parigi dove l’intraprendente Sergej-Serge si è già recato più volte. Nel 1911 anche il 24enne Chagall raggiunge Parigi, dove si unisce ai gruppi d’Avanguardia e approfondisce nella sua pittura la tradizione russa ed ebraica che conta numerosi esponenti tra i collezionisti e gli artisti. ” Io ritorno con il pensiero alla giovinezza, quando nel 1911 ero arrivato qui per la prima volta. Già allora avevo notato questo caffè e  le ragazze in lontananza, come nelle opere dei pittori francesi. Che aria! Allora mi pareva che la pittura fosse inscindibile dalla Francia. Ero arrivato a Parigi con una disposizione interiore contraria a qualunque forma di realismo nell’arte, fosse impressionismo o cubismo. Una simile disposizione poteva persistere soltanto in Francia”p.22).   


                                                                              Parigi dalla finestra 1913


Nel 1914 ritorna a Vitebsk dove si ferma per lo scoppio della guerra. L’anno successivo sposa Bella Rosenfeld, con la quale si stabilisce a Pietrogrado, entrando in contatto con scrittori, critici e poeti.

Vitebsk e Bella rimarranno il perno del suo mondo, rimarranno nell’anima del miracoloso fanciullo. Quel miracolo di felicità originaria nutrirà tutta la lunga esistenza dell’artista, i suoi sogni, le sue immagini, dando ai passi successivi quel senso di scoperta di un Paradiso terrestre sempre diverso e sempre uguale. La curiosità del pittore, l’apprendimento delle tecniche cubiste, la libertà degli incastri, l’assenza di peso, il volo, la varietà squillante dei colori non è (quasi) mai la capacità quantitativa di Picasso, la conquista di un terreno in più, ma il ritrovarsi nella propria doppia sorgente, lui e Bella, la coppia, la sorgente doppia di ogni creatività.



                                                  Il compleanno 1915


Bella saranno i fiori, sarà Vitebsk, sarà Parigi, sarà l’esilio, saranno gli USA, dove Bella troverà la morte mortale, sarà Israele, sarà lo splendore di St. Paul de Vence. Forse direi meglio che la coppia potrebbe riassumersi in  Vitebsk-l’infanzia e Bella, l’amore, una polarità forte anche al sopraggiungere delle tenebre.
  

                                                                                                                     All'imbrunire - ma anche chien et Loup, cioè Il sopraggiungere delle tenebre, 1938-43



Il sopraggiungere delle tenebre. Naturalmente la vita di Chagall non è sempre stata un paradiso. Non solo i contrasti con i docenti della scuola d’arte di Vitebsk da lui fondata, 1918-20, in particolare il disaccordo con El Lissitzkij (Lisickij) e Malevič, che lo costringono allo spostamento a Mosca e poi, con altri e più definitivi contrasti con i costruttivisti e i politici all’abbandono della Russia sovietica per il ritorno a Parigi via Berlino, ma la ben più tragica follia Hitleriana, la guerra di sterminio, la Shoah. La coppia deve fuggire dall’Europa e rifugiarsi a New York.

Il Lungo lavoro su ‘La caduta dell’angelo’ accompagna la lunga sofferenza dell’artista e, insieme, del mondo. Lavora alla ‘Caduta’ in tre momenti diversi, 1923, ’33,’47.





                                          La caduta dell'angelo, 1923, 1933, 1947



Nel 1923, data del putsch di Monaco, Chagall è ancora in Germania. Nel 1933 nella Kunsthalle di Mannheim viene ordinato un autodafé di opere chagalliane, ‘arte degenerata’. Nel ’41 Chagall e Bella si trasfericono a New York.  1947, la guerra è finita, Chagall si prepara al ritorno in Europa. Anche il grande quadro è finito: un angelo di fuoco incendia il mondo, il pendolo segna l’ora del disastro, l’ebreo piccolo, in basso, fugge, un altro, in alto, perde il bastone e forse l’equilibrio, il rabbino cerca di salvare laTorah. In basso, a destra, un lume fa luce appena su di una madre col bambino, su di un Gesù ebreo crocefisso e sui tetti di Vitebsk. Questo lungo lavoro è anche elaborare un lutto (anche la morte di Bella), fare i conti con la tragedia, darle una forma. Una minaccia, l’occhio dell’angelo/diavolo, continua a fissarci. Forse il suono del vecchio violino lo ammansirà.  L’artista potrà  tornare al sorriso.


Il miracolo del sogno-realtà sta nella sua mobilità, una visione sempre uguale e sempre diversa. Il miracolo dell’artista Chagall è di ritrovare il sorriso anche dopo la tragedia, un sorriso che è più persuasivo in quanto ha incluso in sè anche la tragedia, non l’ha ignorata, l’ha trattenuta come un tono di sottofondo. Un sottofondo che toglie al (sor)riso la contentezza imbecille. Il sorriso melanconico.


 Una parte di quell’umorismo grottesco comune a tanta letteratura ebraica.


Mi accorgo che il mio discorso, di fronte al grande lavoro dell’artista ben esposto nella mostra di Palazzo Reale, rischia di lungheggiare troppo.Rimangono altri 35 anni di lavori e scoperte. Rimane l’Azzurrodella Costa, “il profumo dei fiori, una certa nuovaenergia (che) mi si iversava dentro… Chissà se sono gli anni che si fanno sentire, ma per me questa terra è diventatacome la mia citta di Vitesk. Come se fossi ringiovanito, e aspettassi qualcosa. E questo mondo fiorito ha colorato la mia nuova vita, miha attirato in unmondo biblico,che albeggia in lontanaza ,laggiù, dall’altra parte del mare…(p. 48).


 Rimane un invito ad andare a vedere le opere e a rimeditarle.
[G. C. settembre 2014]             

                                                                                                                  
MOSCA, STALINISMO. ANOMALO OSSERVATORE GEORGE COSTAKIS RACCOGLIE CON AMOREVOLE DETERMINAZIONE CIO’ CHE RESTA DELLA GLORIOSA AVANGUADIA  RUSSA
Potrebbe essere un bel racconto d’invenzione. 1900, la Russia, un grande paese arretrato, subisce tre cataclismi sconvolgenti, una rivoluzione, una dittatura spaventosa, una guerra feroce. Un modesto impiegato all’Ambasciata greca, G. C., Ambasciata che sparisce nel 1940, all’inizio della guerra, si sposta in quella canadese. Terminata la guerra comincia ad interessarsi ad una vicenda artistica che, per quanto chiassosa all’inizio del secolo, perseguitata ed esclusa dalla dittatura, era scomparsa, rifugiatasi nei depositi ermeticamente chiusi, nelle cantine e nei solai dei sopravvissuti. G. C. evita le polemiche pubbliche e s’inabissa nel circuito dei vecchi artisti o delle loro famiglie e amici. Si può immaginare che i prezzi delle opere si erano drasticamente ribassati. Compera tutto quello che può e lo trasferisce nel suo appartamento, prezioso rifugio di un grande lavoro oscurato. Un appartamento dove, scrive Nicoleta Misler nel 1973, “improvvisamente tutto ciò che avevo sperato di vedere e di studiare da mesi era esposto, persino con una certa noncuranza domestica, nella sua molteplice e rutilante varietà. L’avanguardia russa era lì davanti ai miei occhi, concentrata in tutta la sua forza, tanto tempestosa e gioiosa quanto erano tristi le opere d’arte ufficiali nei musei, coloratissima quanto quelle erano grigie e marroni, sperimentali quanto era convenzionale nel suo linguaggio la pittura sovietica tutta”.

                                              George Costakis nel suo appartamento

Cambia il mondo, l’appartamento-rifugio viene visitato da importanti studiosi, il tutto viene trasferito in un importante Museo. Quel gruppo di artisti, la più parte deceduti, vengono riconosciuti come Maestri dell’Arte Moderna e il modesto impiegato un benefattore della cultura mondiale.
Non solo un bel racconto, ma anche quello che è in gran parte accaduto. Mancano i particolari del personaggio, GeorgiJ Dionisovič Kostaki (George Costakis, nato a Mosca nel 1913 da famiglia greca), del suo gusto non improvvisato per l’arte e il collezionismo e la lunga vicenda che lo ha portato a lasciare alcune opere della sua collezione alla Galleria Tret’jatiakov per poter trasportare il resto, una buona parte,  in Grecia nel 1977, dove lui stesso si trasferisce e dove sarà acquistata ed esposta al Museo Statale di Arte Contemporanea di Salonicco dove si trova tuttora.

Tuttociò l’ho appreso alla mostra AVNGUARDIA RUSSA DA MALEVIČ  A RODČENCO – capolavori dalla collezione COSTAKIS – Torino, Palazzo Chiablese 3 ottobre 2014 – 15 febbraio 20015. Catalogo SKIRA. E dal catalogo ho ricavato le citazioni che trovate in questo commento.

Le opere sono divise in gruppi tematici, ‘Il nuovo impressionismo e il simbolismo’, ‘Il cubo-futurismo’, ‘Arte analitica’, ‘Il laboratorio di cultura organica’, ‘Il suprematismo e l’arte non oggettiva’, ‘ Il costruttivismo’, ‘Il portfolio dell’inchuk’ (Istituto di cultura artistica), ‘Il cosmismo’, ‘L’elettro-organismo’, ‘Il proiezionismo’, ‘La nuova rappresentazione’: una sparata di argomenti, ciascuno dei quali  richiederebbe  uno sviluppo a sé stante. Tra gli artisti, Kandinskji, Malevič, Rodčenko,  Tatlin, El Lisickij, Larionov, Gončarova sono soltanto alcuni dei più noti, uniti o divisi nei molti gruppi che si confrontarono in un periodo che si spegne intorno agli anni’30, con il trionfo dello stalinismo. Artisti che si sentivano portatori di un verbo nuovo, portatori di una bandiera, iniziatori di una realtà diversa, perciò  Avanguardia, rimasta poi sotterrata, salvo quanto rimaneva nelle mani degli esuli o degli autori russi liberamenti dimoranti fuori dai confini dell’impero sovietico. Avanguardia ritornata poi trionfalmente in piena luce, Costakis aiutando, con lo sfarinarsi di quell’impero. E’ curioso che un despota come Stalin amasse immagini oleografiche di ragazzine sorridenti, mazzi di fiori, pionieri con bandierine rosse sventolanti, muscolosi eroi di guerra o di fabbrica, tutti felicemente stupidi. E poi, ovunque, i visi dei capi. Tranquillità, sicurezza. Queste erano le immagini che dovevano sostituire le invenzioni pericolose, inquiete, imprevedibili delle Avanguardie.

3

Ma torniamo a nostri artisti della mostra; ne sceglierei due, non dei più rinomati, PAVEL FILONOV e MICHAIL MATJUŠIN

4

Pavel Filonov, fine anni venti, testa 85,7 x 60,7 cm

  Filonov, 1883-1941, non appartiene a una corrente, né come primo né come ultimo. “Sono un artista della fioritura universale, e sono dunque un proletario”(p. 77). Proletario, cioè uguale a ’tutto’, un tutto che unisce uomini e cose, l’organico e l’inorganico, un tutto sminuzzato nella infinita varietà dei suoi frammenti che solo la pazienza di uno sguardo attento ai particolari dei particolari dei particolari….riesce a connettere, con fatica, in forme significanti, pezzi sparsi, profili, visi, occhi, dita, arnesi… La cristallografia, di cui è appassionato, l’aiuta. Frantumando l’oggetto la percezione “sub e sovracosciente” raggiunge l’energia che ne è l’origine. Il mondo si mostra come flusso di punti luminosi che lasciano intravedere quelle ‘forme significant’i di cui dicevo. Coltivare una percezione sottile,  penetrante è un esercizio che Filonov cerca di insegnare ai suoi allievi, “il collettivo dei Maestri dell’arte analitica”. Tra i vari progetti l’illustrazione dell’epopea finlandese del Kalevala. Cerca di sostenere che la conoscenza della legge cosmica, “l’analisi assoluta”, è un aiuto al progresso sociale, ma sia le autorità che i gruppi più attivi dell’Avanguardia non sono d’accordo. Filonov scioglie il suo gruppo nel ’33.Proseguirà da solo la sua analisi. Anche se più giovane rispetto ad altri artisti di cui parlo qui di seguito, mi sembra un caso che meriti una sua precedenza.

A Filonov è avvicinabile il lavoro di Michail Matjušin, 1861-1934.

5

         Costruzione pittorico-musicale 1918  51,4 x 63,7 cm

Ecco cosa scrive della percezione: “ L’artista deve perseverare senza indugi nella nuova percezione della vista e non deve dimenticare mai che si tratta solo di una massa fluttuante di parti interrelate… che costantemente e senza interruzione cambiano forma, colore, dimensioni, peso e volume” escludendo “l’intermittenza dell’oggettività”, la separazione degli oggetti, chiusi nei loro artificiali contorni (p. 81). Importante il riferimento alla musica, capace di trasmettere “la pulsazione del mondo in movimento”. E’ “il suono interiore” di cui scrive Kandinskij, che nel ’21 lascia Mosca per contrasti con i costruttivisti, è “la quarta dimensione” di Uspenskij. “Questi lavori sperimentali, dice Matjušin, …sono concepiti in uno stato mentale superiore in cui l’artista può ‘vedere’ la forma organica del mondo”.

Il “cosmismo” diventa una moda, che si estende dallo spazio fantastico, alla mancanza di gravità, al volo, al soprannaturale. L’aspirazione al volo contagia anche il più tecnico e politico dei ‘costruttivisti’, Vladimir E. Tatlin, il quale agli inizi degli anni ’30, poco prima dell’interdizione stalinista, progetta, senza successo, una specie di bicicletta per volare, la Letatlin (letat’=volare).                                                                   
 Ivan Kudrjašev, Luminescenza 1926, 106,6 x 71 cm 

Ma l’autore della eliminazione drastica di ogni riferimento rappresentativo in nome di un ‘altrove’ cosmico ricco di una nuova religiosità (anche lui legge Uspenskij) è quello di Kazimir Malevič che nella mostra a Pietrogrado del 1915 espone un quadrato nero su fondo bianco e lo appende inclinato sull’angolo in alto della sala, il luogo proprio delle icone casalinghe, ad attirare lo sguardo dell’osservatore e insieme tutte le altre opere appese sui due lati verso quell’angolo, il punto della svolta. E’ il Suprematismo.

 7  
                                                Mostra di K. Malevič, Pietrogrado 1915

Nell’attuale mostra sono presenti dei seguaci di Malevič, tra i quali il prolifico Ivan Kljun e Ljubov’ Popova.
Esperienze diverse, accomunate tutte dallo  slancio nel progettare l’uomo nuovo, o scavando nella interiorità per attingere ad una energia che, dal piccolo al grande, coinvolge la totalità infinita, oppure impegnate nella socialità, nel sogno di una società perfetta, forte di tutti gli espedienti della modernità. Una volontà di cambiamento che si era sviluppata, tra gli anni ’10 agli anni ’20, anche attraverso una terribile guerra ‘mondiale’, in molte altre capitali europee.
Dal suo angolo di osservazione George Costakis capisce che un’età stava finendo e che il meglio rischiava di perdersi. Così dà inizio alla sua collezione, dove appunti, diari, stampati, manifesti, stoffe, ceramiche si uniscono a bozzetti, progetti architettonici, pitture, consegnandoci, nella sua varietà, un mondo che diversamente sarebbe quasi totalmente scomparso.
L’attuale mostra è qualcosa di più che uno spostamento di opere da un museo ad un altro. Sono immagini e documenti di una età gloriosa e sfortunata. Oggi almeno restituita nel ricordo e nella sua esuberante presenza e qualità.
[G.C. ottobre 2014]


SEGANTINI UNA GRANDEZZA MULTIPLA
 
Ritorno dal bosco, 1890. Olio su tela 64,5 x 95,5 cm
La montagna, il gelo, i tronchi sulla slitta tagliati e contorti, la schiena della fatica, le piccole case accucciate, appena i lumi, pochi, dalle finestre. Una trasparenza palpabile e allucinata, un ambiente che mi riguarda, mi assorbe nella sua lontananza. La montagna, un profilo frastagliato, un brusio soffuso, compagno del silenzio. La tecnica sapiente nella stesura del colore la rende trasparente e irremovibile. Una barriera, un residuo più che un futuro, ma un residuo resistente, estraneo a qualsiasi umana meccanica, a qualsiasi tecnica di riduzione, di spiegazione, a qualsiasi soggettività. Una tensione, una permanenza che stupisce, inquieta.
Segantini ha 32 anni. Una giovinezza già matura. Ha scelto la montagna, ma non la solitudine. Val Bregaglia, Svizzera, la conca di Maloja, 1800 metri, case alpine ma anche un Grand Hotel, il Maloja Palace, dove il pittore può incontrare giornalisti, turisti danarosi, politici, collezionisti. Segantini veste con ricercatezza, si circonda di mobili raffinati, costruiti dal fratello della moglie (mai sposata) Bice Bugatti, spende e si indebita senza preoccuparsene.
Nel ’97 lavora in collaborazione con Giovanni Giacometti, Cuno Amiet e Ferdinand Hodler ad un enorme impresa: il padiglione svizzero per l’esposizione universale di Parigi, un Panorama, un edificio circolare al cui interno è prevista una pittura che esalta le grandiose montagne del Paese, “un compendio reale di tutta l’alta Engadina… la più grande attrazione artistica della mostra parigina”. Si fa costruire anche un modello in legno presso lo chalet dove abita. Ne riferisce la stampa europea. L’impresa risulta troppo costosa, non andrà in porto. La riduce ad un Trittico: La Vita, La Natura, La Morte.
Settembre 1899, al Trittico vi lavora in una baita del ghiacciaio dello Schafberg, dove muore per un attacco di peritonite.

Mucche, casupole montane, sport raffinato sul lago, un grande albergo, il Palace Hotel. Una foto pubblicitaria ritoccata su ”Engadin Press”, 1900 circa, sottolinea questa contraddizione del ‘luogo’.

Il quadro e la illustrazione sono due immagini che riporto dal bel catalogo SKIRA, in relazione alla mostra ‘SEGANTINI’ al Palazzo Reale di Milano, 18 settembre 2014-18 gennaio 2015, in collaborazione con la Fondazione Mazzotta: saggi di Annie-Paule Quinsac, Pietro Bellasi, e lettere da Casa Segantini a cura della pronipote dell’artista Diana Segantini. Scritti, documenti, riproduzioni che presentano uno vivace spaccato della cultura tra 800 e 900 intorno ad una figura d’eccezione, Giovanni Segantini 1858-1899, che in quarantun’anni accende, con travolgente risolutezza, le incandescenti contraddizioni di ‘un mondo’, di una ‘Natura’ amorevolmente indagata, amorevolmente inventata. Le edizioni Skira con “Vittore Grubicy e l’Europa” 2005 e Mazzotta con “I Giacometti” 2000 sono particolarmente benemeriti per la conoscenza di quel mondo.
Ho cominciato dalla fine, e ora torno al principio. 1858, Giovanni Segatini nasce ad Arco Trentino, impero austriaco, in una famiglia povera. La madre muore nel ’65, il padre l’anno seguente. Affidato alla sorellastra, si sposta a Milano, Regno d’Italia, con un permesso di ‘emigrazione’ che non verrà più ritrovato, tanto da essere dichiarato renitente alla leva. Una mancanza di cittadinanza che lo renderà apolide suo malgrado. Arrestato per vagabondaggio, viene accolto da un fratellastro che lo avvia alla fotografia e gli permette nel 1875 l’iscrizione all’Accademia di Brera. A diciassette anni comincia una nuova vita, col cognome di Segantini, una n in più, forse pensando al lavoro del suo amico ebanista e decoratore Carlo Bugatti, fratello di Bice, la compagna di una vita, ma il rischio dell’abbandono e il sogno di un affetto materno mancato non lo abbandonerà più.

IL PANORAMA-VEDUTA COMPLETA
La città moderna abbatte boschi, sposta fiumi, appiattisce rilievi. Tecniche raffinate innalzano edifici, moltiplicano fabbriche, allargano strade e vetrine ricche di luci e di merci. La popolazione, ricca e povera, aumenta rapidamente. Il verde di alberi e prati, il bruno di terre, rocce, le vertigini di strapiombi, cascate, bufere, la natura nella sua ciclica varietà e imprevedibilità si allontana nel sublime altrove. E’ oggetto di desiderio e di timore. La si vorrebbe a portata di mano, verosimile ma non ingombrante, rimpicciolita, innocua. S’inventano effetti speciali ottici e acustici, cosmorami, diorami, panorami… Le montagne sono le più lontane e imprendibili, terribili e smaglianti, minacciose e mirabili, riducibili però ad una proiezione casalinga, nel buio di una sala, ben vestiti e comodamente seduti, a guardare da uno spioncino oppure ad essere avvolti da una natura selvaggia, animata da scoppi e bagliori. Ma altri vogliono toccar con mano e coi piedi. Scienziati, pittori, camminatori coraggiosi cominciano ad avvicinarle, queste immensità, anche per ridurne il pericolo, vero o immaginario che sia. “L’invenzione delle Alpi” intitola il suo bel saggio Pietro Bellasi. E Giovanni Segantini è tra questi “inventori”.


Il Kaiserpanorama di Berlino, seconda metà del xix sec.


Tra i suoi ultimi sforzi , come dicevo, si trova un Panorama, anzi IL PANORAMA più grande di tutti: una circonferenza di 220 metri, un’altezza di 20, un diametro di 70, una superficie di 400 mq).”Un’opera grandiosa – scrive Segantini – dove potessi chiudere, come in una sintesi, tutto il grande sentimento delle armonie alpine”. Un punto fermo, una conclusione impossibile. L’esaltazione di una patria, l’Engadina Svizzera, sempre sfuggita e anche questa volta, nonostante il parossistico ingrandimento, rifiutata. Mi piace ricordare che a quest’opera irrealizzata Luca Vittone ha dedicato nel 2007 al MART di Rovereto la sua installazione “Gli occhi di Segantini”.

LA MONTAGNA
Ma l’Engadina Svizzera è veramente una patria? Segantini mantiene i contatti con gli amici di Milano e in particolare con la Galleria dei due fratelli Grubicy. Non è solo. Anche la sua famiglia gli è vicina. Ma la città, la storia della città, lui necessariamente apolide, non è il suo luogo. Il consumo veloce, l’attualità sempre rincorsa e sempre invecchiata non è il suo scopo. Cerca un tempo diverso, nel quale la permanenza, per non dire la immobilità, non esclude il movimento. La luce, l’aria, l’acqua si unisce alla roccia; la ripetizione alla fissità. Vittore Grubicy gli insegna le tecniche del “divisionismo”, del colore puro, che anche altri artisti dell’ambiente milanese come Previati, Longoni, Pelizza da Volpedo e Morbelli stavano sperimentando. Il giovane allievo le applica con grande libertà, stende i colori in striscie sottili, a volte grattando la tela, studiando con cura i tagli d’orizzonte, i profili degli animali e dei contadini. “Io continuo così a lavorare – scrive Segantini – alla mia opera poetica dell’intimo sentimento delle cose della Natura, accarezzando col pennello i fili d’erba, i fiori, gli animali e l’uomo; salendo col pennello alle rocce dei monti ed al cielo, concedendo a tutte le cose che tocco la parte migliore di me stesso”. I prati, le nevi brillano di luce propria. Tutta la scena è illuminata in una vibrante fermezza. E’ il silenzio che il pittore cerca, ma ricco di un brusio ininterrotto. Questa è l’accoglienza che cerca. Non lo sguardo che dice e contraddice, il gesto che saluta e minaccia, il cambiamento che lusinga e tradisce, ma la grandezza dell’esistente che ti accetta senza chiederti nulla. Qui poi, nella scena dell’alpe, c’è qualcosa di più. Un cucciolo, un vitellino che si dirige, forse preoccupato, verso la madre che bruca tranquilla.

Pascoli di primavera”, 1896, 9 x 195,5 cm


LE MADRI
Giovanni aveva sette anni quando perde la madre. A Milano passa i giorni tra vagabondaggio e riformatorio. Sono anni che lo segnano per sempre. Crescerà grande, anche di statura. Amerà ritrarsi quasi come un profeta: fitta capigliatura, baffi, barba, sguardo intenso. Una rivincita. Ma quella iniziale mancanza d’affetto non lo abbandonerà più. Quella natura così limpida, cercata nelle alture dell’Engadina, sicura nella sua perennità, nella sua traccia di Paradiso, nasconde anche dei tradimenti, “Le cattive madri” , sbattute sugli alberi contorti, nel gelo di un inverno implacabile.

Le cattive madri’ 1894, olio su tela, 120 x 225 cm

Certo il ‘Simbolismo” europeo è presente, ma tutto calato nella biografia emotiva del pittore. Basta poco e la luce abbagliante della neve si trasforma nel freddo mortuario dei corpi, come i rami secchi in cui sono aggrovigliati, come la donna che si è rifiutata al dono della vita. Anche le evanescenti dolci madri, ”Angeli della vita,” in-tronate nei nodi contorti dell’albero spoglio con il lago scuro di sotto e quell’amore alla fonte della vita, con l’immancabile albero mezzo secco e le radici minacciose scoperte, uno scheletro, e l’angelo imbronciato a fissare l’acqua della fonte che scompare sottoterra, senza contare quella mezzaluna smorta, che non sai se di alba o di tramonto, tutto il positivo naturale nasconde dubbi, insinua contraddizioni.

L’amore alla fonte della vita” 1896, 70 x 100 cm

L’opera di Segantini s’interrompe con la sua morte improvvisa. Il suo mondo , l’altrove inseguito nei suoi profili lontani, nelle sue altezze finali, limpido come un cristallo, promessa di integrità, è ricco di fessure, di crepe dalle quali fuoriesce l’odore di una minaccia, di una ineliminabile oscurità, là dove anche il vortice nuvoloso assume l’aspetto della valanga mentre i piccoli uomini piangono il morto.

La morte”, part. 3° del Trittico, 1896-99

No, non voglio dire che quest’ultima ‘morte’, l’ultimo quadro di Segantini, sia anche una specie di testamento. La sua fine nella baita sul ghiacciaio fu un evento del tutto imprevisto. La terza parte del Trittico rimane per puro caso l’ultima parte dell’insieme, dove l’inseguimento dell’altrove, della più lontana delle lontananze, di una limpidezza pacificata, “accarezzando col pennello i fili d’erba”, non poteva ignorare la fatica del percorso, il pericolo dell’abbandono, il rotolare del tempo. Mi sembra che in questa instabile compresenza, accettata e trasformata in destino, consista la grandezza dell’artista.


                                                                                                                      G.C. settembre 2014


                                               



  IL FANTASTICO

 “For your eyes only can see me through the night”
“Solo per i  tuoi occi puoi vedermi attraverso la  notte 

Il  ‘FANTASTICO’  indica un settore sfumato nel quale fantasia e sogni allargano la percezione del reale, e già in questo sconfinamento godiamo di un particolare piacere di onnipotenza:  inferni o paradisi, incubi o trionfi, siamo fuori dai confini ristretti della quotidianità.  Volo, assenza di gravità, trasparenza, sovrapposizioni ci cullano in una infanzia  prolungata. Anche l’orrido ha la sua attrattiva. Religioni e miti hanno raccontato di figure mostruose o sublimi compagne di tutte le più  diverse organizzazioni  sociali. Alla descrizione realistica delle cose qui e ora la mente desta o nel sonno, ha sempre prodotto immagini ir-realistiche. Non sempre dello stesso peso. Infatti nella loro ricca irrealtà le immagini hanno rappresentato non solo la forte credenza ufficiale ( il potere, le divinità, l’oltretomba, paradisiaca o infernale), ma pure gli interrogativi, le  stranezze, le speranze,  le  minacce, le fughe. Non il centro solido, ma  i bordi.  Non la luce tranquilla, ma  la penombra, l’oscurità inquieta. E più la società era (è) scissa e scomposta, più le immagini interrogative, ambigue  e minacciose aumentano. Così al piacere della immaginazione si è unita l’ambiguità del significato (un particolare tipo di piacere-timore). Anzi, il  rifiuto della società così com’è aumenta l’importanza della immaginazione, quella che Gianni Celati chiama “la pura narrazione”.

Una premessa per giungere al bel titolo For your eyes only” che andrebbe completato col seguito della  canzone “can see me through the night” , “puoi vedermi attraverso la  notte”, titolo della bella mostra della collezione di Richard e Ulla Dreyfus-Best di Basilea, curata da Andreas Beyer, al Museo Guggenheim di Venezia, sino al 31 di agosto. Non solo ‘un vedere’, ma un passare attraverso l’oscurità della notte, una notte illuminata. E il sottotitolo, “dal Manierismo al Surrealismo”, ci aiuta: l’Europa è scossa da due terribili guerre, quella degli Ottant’anni del 1568-1648 e quella ‘mondiale’ del 1914-18. “La Maniera” di Pontormo, Rosso, G. Romano, Parmigianino, Primaticcio, Tibaldi, Cambiaso, parte dai due Modelli di Raffaello e Michelangelo per esagerarne le contorsioni, le luci artificiali, le decorazioni ‘grottesche’, le deformazioni ottiche. Questo nel Centro  e Sud d’Europa. Al Nord la ‘maniera’ è più  raffinatamente popolare, in punta di pennello. Hieronimus Bosch mescola i generi, uomini- vegetali, beccuti, ingoiati da rospi o vomitati da pesci giganti, impalati, bruciati, immersi in tenebrosi pantani… Un secolo dopo, in modi meno drammatici, Pieter Bruegel il  Vecchio ne prosegue i racconti.

                                                                       Seguace di Hieronymus Bosch:  ‘Il giudizio universale’ ca. 1515-20

Anche l’immagine singola, il volto, gode di una arguta ambiguità. Ne è maestro alla corte di  RodolfoII d’Asburgo, il lombardo Giuseppe Arcimboldo, che inserisce l’argomento del soggetto dipinto nei pezzi stessi in  cui il soggetto è formato, come ne ‘L’inverno’ costruito di arbusti secchi, spogli, invernali. Un sottile  indovinello nel  clima della trasformazione degli elementi, proprio dell’alchimia.
cerchia di Giuseppe Arcimboldo, ‘Inverno’

L’ambiguità dell’immagine si  complica. Il divertimento non è più individuare il profilo di un  volto  dall’intrico di rami,  foglie, lumache ecc., ma di proiettare sulla stessa immagine due significati inconciliabili, il primo, un promontorio con mura e case e il secondo, un profilo  d’uomo, uno voltato a sinistra e l’altro voltato a destra.
Maestro tedesco del XVII sec., Paesaggio  antropomorfo in forma di una testa maschile



Ignatius Müller (1745-1802), Paesaggio in  forma d’uomo giacente

Non si tratta qui,  come accade nelle immagini dell’Arcimboldo, di attenuare la forza dei particolari – che pur  continuano a vivere per conto loro – e di insistere sul valore e significato dell’insieme, il volto umano. Ma di manovrare la nostra attenzione spostandola da cespubli, rocce, prati a naso, occhio, bocca (aperta), capelli. E’ la nostra attesa che carica l’immagine, opportunamente trattata, di un significato o di  un altro del tutto incongruo con la prima. C’è qualche vicinanza con l’immagine di una figura piccola e di una più grande che percepiamo simili perché ‘immaginate’  in una diversa distanza spaziale. Ma sempre figure sono, dello stesso tipo, non l’improvviso salto da un paesaggio ad un volto.
Diversa la situazione dello svizzero Füssli (o Fuseli), ben rappresentato in mostra: ordinato pastore luterano a Zurigo, ma poi , dopo un lungo soggiorno a Roma, 1770-78, innamorato di Michelangelo, lettore appassionato di Milton e Shakespeare, su consiglio di Reynolds si trasferisce a Londra dove raggiunge un duraturo succcesso. E' il pittore dei sogni, degli incubi,dei fantasmi. Le sue figure neo-manieriste, esagitate e contorte, rientrano in una grammatica illustrativa teatrale di forte impatto emotivo. 



J















Johann Heinrich Füssli, ‘La cacciata dal paradiso  terrestre, 1802


Con il Surrealismo del ‘900 entriamo nella seconda ‘Maniera’. L’esaltazione e l’esecrazione della guerra ha distrutto il vecchio e ormai fragile ordine mondiale. La formazione dei gruppi di  Avanguardia e la loro dispersione nel  dopoguerra ha concluso  una spaccatura che già i  movimenti di fine ‘800 avevano iniziato: la caduta di autorevoli schemi artistici di riferimento e l’introduzione di nuove modalità d’intendere l’operazione artistica nella ‘modernità’ invocata da Baudelaire. I linguaggi si mescolano, parola, suono, gesto, colore. Stupire, provocare. Le speranze che la nuova cultura possa offrire una invocata rinascita s’infrangono nei massacri delle trincee e dei fili spinati.  Il ventenne  André Breton, militare nel ’16, frequenta il  ‘Centre Neurologique’ di Wantes e con l’amico Jaques Vaché (che morirà nel ’19), riflette sulle voraggini, i  salti, le metamorfosi della psiche umana, l’inconscio. E’ la nascita del  ‘Surrealismo’, un movimento che,  com’è noto, con ampie e diverse alleanze,  si  svilupperà nei decenni seguenti attraverso i più differenti mezzi espressivi.
La mostra espone un buon numero di illustri esempi (De Chirico, Ernst, Dalì, Tanguy, Bellmer, Miro…), ma io  vorrei fermarmi soltanto  su due esempi molto diversi tra loro, “Il modello rosso” di René Magritte e “Il dono” di Man Ray.

René Magritte, “Il modello rosso” 1937

Qui i due termini inconcigliabili del ‘modello’ sono uno  il prolungamento stravolto, il falso completamento dell’altro. Il contenuto, il piede, è il completamento del contenente, la scarpa, in una ovvietà sottolineata dalla accuratezza dei particolari. La tecnica è volutamente nitida e tradizionale, una buona pittura, a rendere persuasivo  il soggetto assurdo. Il rosso del titolo, non dell’immagine, è forse un riferimento ironico alla fiaba, ‘scarpette rosse’.
Il salto più consistente della nuova ‘maniera’ è quello del ‘Dono’ , ‘Cadeau’ di Man Ray, in linea con la sottile ambiguità di  Duchamp. La tecnica esibita da Magritte è del tutto abolita.  Anche l’oggetto ha la banalità  del  quotidiano: un ferro da stiro, un objet trouvè, trovato da un rigattiere . Già,  ma come  la scarpa che termina col  piede, qui c’è un ferro da stiro armato di 14 chiodi in bella vista, che ovviamente impediscono ogni stirare. Inoltre si propone come ‘dono’, una gentilezza contraddetta rudamente dall’ assurdità dell’offerta. Infine l’opera è un multiplo (la prima era stata rubata), uscito nel ’21 e rifatto più  di quarant’anni dopo.

Man Ray, ‘Dono’, 1921 – 1963

In quessto caso forse quel ciclo del ‘fantastico’ a cui la collezione dei due coniugi Dreyfus-Best si rivolge, si chiude. Quel  lungo percorso di fantasia manteneva pur sempre, nella ‘prima Maniera’,  un qualche rapporto con la realtà e con i diversi modi di rappresentarla,  pur giocando sui bordi, sui capovolgimenti, sulla sorpresa. L’objet trouvè di Man Ray no. Ferro da stiro, chiodi, dono non hanno nulla a che vedere con la realtà e i modi dell’arte, se non per il fatto che si collocano in uno spazio espositivo, in una galleria d’arte e pretendono un giudizio ‘artistico’ e anche un prezzo artistico. E’ un diverso capitolo del FANTASTICO col quale termina la ricca esemplificazione di una mostra che invita ad una meditazione più approfondita della pur piacevole percezione dei sorprendenti ghiribizzi della fantasia.

                                                                                                                                                                                                                                                                                            G.C. agosto 2014




IL VERONESE : L’ILLUSIONE DELLA REALTA’ O LA REALTA’ DELL’ILLUSIONE


Quasi  a seguito della mostra londinese “Veronese. Magnificence in Renaissance Venice” si apre quella veronese “L’illusione della realtà” a cura di Paola Marini e Bernard Aikema, 5 luglio – 5 ottobre, catalogo Mondadori  Electa,  un volume di 398 pagine e molti saggi interessanti. Grandi mostre, grandi nomi. Il risultato è un riscontro sempre più puntuale di date, ambienti,  confronti, attribuzioni. Non  basta una  rassegna di opere importanti e molto conosciute, un nome dall’effetto sicuro, ma si aggiungono radiografie, analisi chimiche, bozzetti, aiuti, parentele, committenti. Il profilo dell’opera e del suo  autore ne escono con sempre maggior  chiarezza.
Ma qui mi limiterò, come sempre,  soltanto ad alcune considerazioni.
Siamo a Venezia, metà del ’500. Tiziano è maestro  indiscusso. I più giovani Tintoretto e il Veronese si contendono le  commissioni. Né mancano abili comprimari; si parla infatti di scuola veneziana, il colore contro il disegno. Stiamo  ai primi tre: al fuoco avvolgente di Tiziano che incanta ‘i grandi’ d’Europa, ai voli sconvolti, notturni di Tintoretto, cresce la serenità certa, il teatro solido, la lucentezza perlacea del più giovane Veronese. Come dire Matisse da una parte, Picasso dall’altra.
Non decorazione  contro passione, ma un diverso tipo di forza  emotiva,  segnalata anche dalla felice nervosità dei disegni, dalle pose contorte, dalle prospettive sghembe, ma infine pacificate in una superiore armonia. Un risultato, non un punto di partenza.
La personalità netta,  concreta del Veronese sembra confermare questa differenza. Nasce nel 1528 come Paullo Spezapreda, lapicida, il mestiere dei suoi antenati  luganesi, ma prende il cognome più autorevole della madre, Caliari.  Sposa Elena Basile, la  figlia del suo ‘principale’. Lascia la provinciale Verona per la capitale  Venezia. Costruisce una florida azienda famigliare, fratello,  figli, nipoti. Introduce nelle grandi scene religiose e mitologiche i visi dei suoi conoscenti  e committenti. E’ abile negli affari, acquista terreni, chiede prestiti e anticipi.

Le architetture dipinte. Gli architetti studiano il passato classico, i templi, le terme, le  ville, i libri di Vitruvio. A Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Venezia Giulio Romano, Palladio, Sanmicheli, Serlio, Sansovino, con un occhio alla romanità, progettano palazzi, chiese, basiliche, ville di campagna,  dimore nobiliari, e invitano i  pittori a decorarle. Il Veronese ammira quegli architetti, ne tiene conto: dispone le sue figure tra colonne, porticati, scalinate, balconi, torri. L’architettura scandisce la scena, separa il movimento dei corpi, crea profondità di  spazi (1). Nelle cornici aggettanti di pietra degli interni dipinge finte porte socchiuse da cui occhieggiano paggi curiosi, personaggi in lontananza, vedute di paesaggi. La gara divertita tra l’architettura dipinta e quella vera, la colonna, il cornicione, l’arco, il gradino, trae l’occhio in inganno, il tromp l’oïl, incerto tra volume  e finzione. E’ un inganno piacevole. Così, nel confronto, le parti s’invertono: l’architettura costruita si alleggerisce tanto quanto acquista peso quella dipinta. Sulla parete, dietro la balconata dipinta si sporgono figure dipinte, anche di animali. Guardano  il pubblico di sotto. C’è contiguità con il teatro. I personaggi (persona = maschera), su piani diversi (il palco), sempre in ricchi  costumi e panneggi, agitano mani e sguardi. L’architettura, vera o dipinta, li  divide e li compatta. Ciascuno, con turbante o mantella d’ermellino, recita la sua parte. L’identità fissa è un’invenzione. Persino il  pappagallo partecipa: gracchia ‘Ave’ o, forse,’Eva’.

Cena in Casa di Simone, 1556 ca. cm. 314 x 451 (Torino, Galleria Sabauda)
  
L’inganno leggero può colpire non solo l’occhio ma anche l’anima. L’Inquisizione  non  gradisce una ‘Ultima Cena’ nella  quale la figura del  Cristo, invece di esibire il pane-ostia, si mescola a una folla variopinta di nani, servi, negretti, turchesi, animali. Convocato dai giudici il Veronese si scusa: “Nui pittori ci pigliamo la licentia che si  piglino i poeti  e i  matti”. E poi basta cambiare il titolo: “L’Ultima Cena” diventa  “La  Cena in casa di Levi”.


Cena in casa di Levi, 1973  m. 5.55 x 12.8    (Venezia Gallerie dell'Accademia)


No, non c’è nessuna intenzione polemica. L’artista è  in ottimi rapporti  con gli ordini religiosi e aderisce  senza sforzo alle indicazioni  del  Concilio di  Trento, ma è  ben  lontano, per indole, dal pietismo sentimentale dei due Borromeo. Non ci sono anime da  salvare, peccati  da espiare, torture da soffrire. Lo svago, le cene  affollate, i banchetti animati, le vesti  lussuose, lo splendore di Venezia, la vacanza perenne, in villa o  nei palazzi di città, non è l’eccezione, ma  la regola. Gesù, le Madonne e i Santi non sono una rottura della norma, l’irrompere dell’al di là, ma la varietà del quotidiano, del di qua, dove si mescolano in amicizia figure della  religione, della mitologia e della vita giornaliera. In questa arguta  mescolanza, anche la leggerezza dell’immagine,  ‘immaginata’ e dipinta, si accompagna senza sforzo al peso della figura viva (un borghese colto, un nobile potente, gli amici, gli estimatori) che si muove concreta, ma che guarda il vicino  con gli occhi del pittore, lo vede in immagine, nei suoi vestiti di gala, nella sua distinzione sociale. Il mondo dell’immagine è il mondo dei significati, dei riti laico-religiosi del potere dogale: balaustre, colonne, nuvole, cieli. Il mondo della regalità  veneziana, diffuso dal sapiente pennello del Veronese, si spande trionfante nel  Paradiso laico del palazzo, il Palazzo Ducale.

 L’illusione della realtà si è trasformata nella realtà dell’illusione.

Apoteosi di Venezia, Palazzo Ducale, sala del Maggior Consiglio, soffitto
                                         

Anche l’erotismo è teatro.
Nel suo saggio nel catalogo Dal Pozzolo ricorda come il nudo muliebre, nella cultura veneziana del ‘500,  introdotto dal Giorgione, era stato abbondantemente sviluppato da Tiziano e Palma il Vecchio (e a Mantova da Giulio Romano). Il Veronese lo rinchiude tra le deità e gli eroi del mito. Ovidio era da tempo utilizzato dai pittori. Rara la scoperta nudità maschile. Eppure, la nudità femminile, spesso volteggiante tra nuvole e cieli, panneggiata con  misura in pieghe luminose, un accenno di collana, espone una nudità  chiara, ben tornita, soda, pettinatura impeccabile, non schiva, non solitaria, non ammiccante, ma sicura di sé, immersa nella  ricchezza degli ambienti (quella grossa  testa di cavallo - forse il cavallo di Marte - guidato dall’amorino alato su di una scala improbabile! A loro guardano, sorpresi, i due amanti).

Un erotismo  composto, soddisfatto, elegante, ben recitato,  lontano dalla duplicazione degli  specchi, dai fremiti  e tremori  tizianeschi.

Marte e Venere, 1570-77 ca.  cm 47 x 47 (Galleria Sabauda, Torino)
                                                                    

San Marco incorona le virtù Teologali, Parigi, Museo del Louvre
                                                      

Il volo, i cieli.
In questo scambio tra realtà e illusione, in questo prevalere della forza immaginativa si pone anche la torsione prospettica dal basso in alto. La costruzione, l’architettura, le pareti  scompaiono, i soffitti  si aprono all’infinità  del cielo, al gioco delle nuvole, al volo dei personaggi. Non è più lo scambio tra realtà e illusione, tra cosa e immagine, ma il  trionfo  della immagine totale nel segno della leggerezza, un nuovo modo di dare realtà alla illusione: uomini, donne, guerrieri, dei, santi, angeli, Madonne sono scorciati  verso l’alto, liberi nella trasparenza dell’aria. Anche il cielo fa parte della terra. Un secolo dopo Tiepolo partirà da  qui.
Una eleganza spontanea, una  complessità mai  forzata, che sembra naturale, una lucentezza sapiente, non ricevuta dai cieli ma emanata  dalle figure stesse e dalle cose. La festa, la gioia di vivere non nell’eccesso,  nella dismisura, nell’attimo, e perciò sempre mescolata alla  melanconia e al dolore, ma nel piacere controllato e permanente, in una socialità compiaciuta che si traduce in connessione armoniosa di corpi, cibi, vesti,  architetture, cieli. Un gesto di danza che trasforma ogni ostacolo in facile salto, ogni guerra cruenta in spettacolo interessante, ogni smorfia in sorriso.
Sì, perché è il sorriso anche dell’ironia che accompagna la scena affollata del suo teatro (Il Veronese ha pure disegnato costumi per il  Teatro Olimpico di Vicenza).  Faccio alcuni esempi. Le “Quattro allegorie dell’Amore”, 1565-70 c.a, dove quattro figure femminili, di cui due  nude, sono accompagnate da possibili scelte ambigue,  con due uomini le une,  un uomo e una donna le altre due, più amorini  vari. Il nudo della donna di schiena (il fondoschiena era particolarmente apprezzato) tiene in mano un foglietto nel quale si intravedono delle lettere: “ Che u (oppure ‘m)…possede”.  I due  maschi, come i due amorini, se la contendono. Una mitologia ironica che sorride e insieme interroga i misteri dell’eros.
Ma pure la scena della “Cena in casa di Simone”  manca di ogni seriosità.  Gesù è confinato nell’angolo destro, nell’ombra, come spesso in altre scene religiose. Col piede accarezzato dalla Maddalena, che vi spalma l’unguento profumato, sembra quasi sfiorarle il florido seno. Dall’alto del  balcone l’uomo del turbante indica col dito qualcuno, non si sa chi. Il pappagallo l’ho già ricordato. Giuda, con in mano il sacchetto dei denari, si disinteressa di quell’angolo, e discute con gli ospiti, uno  dei quali, - la sua  figura è interrotta  da una bianca colonna (la mano  che tiene la sua mercanzia spunta dietro di essa) sulla quale è conficcato, ben visibile, un chiodo nero. Ricordo di ‘spaccapietre’? Fragilità del marmo? Minaccia di crollo? Un vaso, ben stagliato contro il cielo, traballa pericolosamente sul  vassoio.  E alla destra si mescolano  pagliacci, scimmiette, poveracci…  Una’altra scena, piena di piacevoli assurdità, è il “Riposo durante la fuga in Egitto”. Ma gli esempi  si potrebbero moltiplicare ad indicare una sottile, voluta contraddizione nei temi più seri del racconto mitologico, religioso o politico che sia. Non un  contrasto drammatico, ma neppure una descrizione interna all’autorità della tradizione. Uno sfasamento, questo sì, spesso trascurato dalla critica, che dimostra il sorriso arguto dell’autore, la sua distanza dall’ovvio, il punto interrogativo anche in mezzo alla più consolidata certezza. Altro  che pacifismo melenso, obbedienza pronta alle regole dell’armonia e della ‘bellezza’, genuflessione cauta alla religione dominante. Piuttosto un lieve, vellutato passo di lato, per scuotere  il fatto compiuto e lasciar scorrere liberamente  una esuberanza irrefrenabile nella quale forma e vitalità trovano un accordo sempre, e l’occhio si stupisce di tanta perfetta armonia: il miracolo di una civiltà veneziana, specificamente veneziana, forse esistita solo nella acutezza dei gesti , nell’ironia, nelle pitture di un  artista  venuto da fuori.

(1) Il 12 settembre si aprirà al Museo Casa Giorgione, Castelfranco Veneto (TV,) la mostra Villa Soranzo, una storia
G. C.  luglio 2014













PAESAGGIO O SPAESAGGIO?

Banditi dal giardino per antonomasia  [il Paradiso Tterrestre], siamo entrati da banditi nel paesaggio e da allora non abbiamo  smesso di farne luogo di perdizione, di danni irreparabili, di rovine materiali e spirituali”.
Vorrei partire da queste parole del Direttore del MART Cristiana Collu, per proporre alcune  riflessioni su  di una intrigante mostra aperta al MART di Trento e  Rovereto sino al 31 agosto, dal titolo volutamente ambiguo Perduti nel paesaggio”. La cura è  di Gerardo Mosquera. Il catalogo è ricco di interventi interessanti.
Dunque “Perduti”, un plurale, uomini, tutti, o molti, una condizione  generale. Il paesaggio-natura è uno, ma fatto di molte cose.
 Prescindo dal significato letterale di ‘paese’, di ‘paesaggio’ come paese abitato. Si tratta di un certo tipo di ambiente, anzi di una  immagine di ambiente, prodotta o solo immaginata, o  magari sognata, desiderata; doppiamente connessa perciò alla mente umana, che incontra l’ambiente e lo con-figura. Non un ambiente in sé, separato, non una natura matrigna, una sorpresa malevola, una minaccia inespugnabile,  né un ambiente costruito, regolato, fisso, noto, una città ordinata, un campo coltivato. Sia ‘immagine’ che ‘ambiente’ sono termini che significano qualcosa, uno spazio, una cerchia, che sta al di là del soggetto. Il paesaggio-immagine ha sempre un referente esterno, quella naturalità che fornisce alle fronde dipinte o immaginate, nella loro stessa indeterminazione, la forza di esistenza,  di alterità, di interrogazione, una spinta a uscire dal conosciuto, a infrangere ogni limite, a spingersi oltre ogni confine.
                                                                                                                                                               Io Io e natura, indisgiungibili.

Ma allora perché perduti? Cos’è che si perde? Ci troviamo spaesati dentro un cumulo di rovine? L’uomo ha perso la via, la direzione, uno scopo, un motivo per essere lì? E’ lui la ragione di questo spaesamento distruttivo? E anche se così fosse,  non rimane, nel buio della distruzione,  una luce che lo  attrae? E quindi si perde nel paesaggio perché vuole perdersi, cancellare i  confini, le separazioni, e non importa se il luogo sia un cumulo di rovine o/e uno sbocciare di fiori? Io e natura si respingono e si richiamano. La fine dell’uno è anche la fine dell’altra.  

Chiudere l’immagine di paesaggio nella propria singolarità, nella propria corporalità, un tatuaggio sulla propria pelle, significa alterare la sua avvolgenza, la sua forza, la sua alterità. Non è solo la produzione di una immagine che, come  tale, si offre ugualmente a tutti i guardanti, ma è una vera appropriazione che, con forte suggestione straniante,  ne muta completamente il significato. Una scommessa impossibile: io sono il paesaggio. La natura mia e la natura altra diventano (vorrebbero  diventare) un’unica realtà. Non c’è natura separata.  
                
Huang Yan Jilin, Cina, 1966. Shangshui Tattoo Series 1. 1999.   120 x 150 cm
Credere di potersi impadronire della alterità è una illusione. Alludere al paesaggio  con il proprio viso “abitato” può diventare una battuta, un sorriso. Un modo leggero per indicare la impossibilità, “consapevoli di una incolmabile distanza tra noi e la natura da cui ci sentiamo da sempre e per sempre separati”, come scrive ancora Cristiana Collu.
                                                 Luis Camnitzer.  Lubecca 1937  Landscape as an Attitude, 1979. Foto b/n, laminato
31x 28.5 cm
Le due immagini, la pelle tatuata, il viso abitato, ci indicano una mancanza di “natura” e una predominanza, una invasione dell’ “io”. La solitudine superba dell’io non è solo perdita del Paradiso  Terrestre, ma perdita di  sé. Siamo perduti in  quel paesaggio che abbiamo  distrutto, mutato in una piega del mio corpo.
Eppure ci muoviamo ancora in un ambiente “altro” che come tale non smette di chiamarci: una “dimensione residua” di appartenenza, vicino/lontana , un tenue ricordo del Paradiso perduto che ci invita ad un dolce naufragio, in quella profondità  infinita tra sogno e realtà che annulla ogni confine di tempo e di spazio, ogni superbia dell’io distruttore anche di sé.


“Ciò che ho  rappresentato, afferma Davide Tranchina, che ha fotografato la notte all’isola  di  Montecristo, l’ho visto, o l’ho sognato?” E se entrambi gli atteggiamenti, il vedere e il  sognare, andassero insieme (Borges)?
  Davide Tranchina, Bologna, 1972, “40 notti a Montecristi”, 105 x 150

Non è immobilità ma assenza di direzione, mancanza di scopo. Non uni-verso ma pluri-verso. Il paesaggio non è un paese, il pagus che marca, perentorio, il proprio territorio, ma piuttosto “la rovina” di ogni costruzione, la lontananza delle montagne leonardesche, grembo materno, leggerezza, mollezza di una interminabile fanciullezza prenatale. Così la pittura veneziana del 4 e 500 aveva cominciato a cancellare le chiusure, a guardare oltre alle figure, a esaltare le lontananze. Le frange dello spaeggiamento si distribuiranno sempre più frequenti ai bordi della grande rappresentazione.
Aggiungerei anche un’altra notazione, che richiederebbe una riflessione per conto suo (e mi scuso della brevità). Allo  slargamento, allo spaeggiamento indefinito si contrappone la concentrazione indefinita, il rimpicciolamento del giardino Zen. Un paesaggio portatile, un sasso, un solco: eliminare, svuotarsi per far posto al granello cosmico, no, neppure il pesodi un granello, ma punto, scatto d’energia, che non ha peso, non ha estensione. Un cammino al contrario per raggiungere un simile abbattimento del confine e della  separazione.
Così  ritorno alle parole di Cristiana Collu: “Ancora una volta solo la necessità e l’urgenza di un sogno, di un’utopia, di un paradiso terrestre e di un altro pianeta riempie il vuoto tra il Paradiso Perduto e la Terra Promessa. Meglio dunque servire a questa utopia perché non sia perduta”.
Spaesaggiarsi, perdersi nel paesaggio per respirare il profumo della libertà.
giugno 2004 Giorgio Colombo




 



PER GRAZIA RICEVUTA   [P.G.R.]

Nei momenti più difficili della propria esistenza l’uomo si è rivolto per un aiuto a delle figure superiori a qualsiasi altro consimile, abitanti spazi difficilmente raggiungibili, divinità, eroi, forze indistinte, benevole e/o minacciose. La richiesta è stata spesso accompagnata dalla promessa di un dono nel caso fosse stata esaudita. E’ uno dei tanti scambi con i quali si costruisce ogni società umana. Un caso dove lo scambio avviene tra due grandezze molto differenti, una grandissima, l’altra minuscola, ma  pur sempre in reciproco contatto.
La morte, propria o di un congiunto, è il massimo della pena, e di  sfuggirvi è il massimo della richiesta. In aggiunta il  timore che i morti insoddisfatti possano tornare a inquietare i vivi spinge i vivi ad ammansirli con  promesse e donativi.
Donare piccole statue come voto agli dei è pratica antica, documentata in Mesopotamia ed Egitto. Importanti fonti  letterarie, Virgilio, Cicerone, Orazio, Properzio,Tibullo, Giovenale riferiscono di “donaria” etruschi e romani. Riprendo da un testo pubblicato nel 2001 a Milano in relazione ad una mostra di  ex-voto realizzata dalla dalla Fondazione P.G.R. (la stessa di cui mi occupo più avanti  in questa nota) nella Sacrestia di Santa Maria delle Grazie: “Figurazioni in oro, argento, rame, bronzo, legno, terracotta, arenaria, raffiguranti corpi interi, singole parti o  organi particolari, offerti alle divinità come pegno o riconoscenza. Nei templi i donaria venivano appesi alle pareti… oppure presso un albero sacro,o  sotterrati in fosse vicino alle edicole ove si compivano sacrifici. Accanto agli ex-voto anatomici, presso i greci  e i romani appaiono le prime offerte di tavolette dipinte…”. Si tratta di  manufatti personali, che insistono su di un rapporto intimo tra l’offerente e la  potenza invocata, raccolti in luoghi  sacri scelti con cura: cima dei monti (vicinanza col cielo) o caverne sotterranee, rocce vulcaniche (vicinanza con la terra). Luoghi che un segno, cippo, colonna , statua o tempio ne confermerà pubblicamente la sacralità.

La conferma materiale di questo speciale rapporto tra uomo e divinità passa direttamente dal mondo pagano al cristianesimo, in particolare al cattolicesimo bizantino e romano, con la devozione nelle  immagini della Madonna, la Grande Madre, e dei Santi, sovente localmente definiti. Se ne asterranno le Chiese Riformate, attente alla ‘parola’ ma diffidenti verso le immagini sacre, troppo vicine alla condanna biblica. Al contrario, il Concilio di Trento favorisce il culto delle reliquie e delle immagini, delle feste, delle processioni, della devozione popolare in genere.  Alcuni Santuari ricchi di ex-voto, la Madonna della  Consolata a  Torino, il Santuario di Oropa, Santa Maria delle Grazie presso Mantova, la Madonna di Montenero presso Livorno, Santa Maria del Monte a Cesena, la Madonna di Loreto,  la Madonna dell’Arco presso Napoli, sono soltanto alcuni dei molti, più di cento, sparsi in Italia dalle Alpi alla Sicilia.

Una piccola aggiunta. Si parla di arte naif, ingenua, naturale, semplice. Rispetto a  che cosa? Alle opere di Raffaello o Michelangelo? E’ come paragonare una bicicletta a una Ferrari. Le tavolette di ex-voto hanno un proprio  scopo:  comunicazione facile, immediata, pochi elementi ben individuati, colori netti, disposizione ripetitiva. Per alcune immagini, specialmente in area germanica, viene usato il vetro per ricopiare lo schema precedente. Non si vuole inventare, non si vuole essere originali, ma ribadire sempre gli  stessi gesti. Le iscrizioni sono sigle, date, un nome. A volte qualche riga di scrittura o, specialmente in area ispanica, un foglietto incollato racconta.

Con il passare degli anni la  situazione delle tavolette votive cambia: se ne interessano  gli studiosi come Giuseppe Pitrè o Ernesto de Martino, ne scrivono gli storici delle piccole patrie, se ne disinteressa la Chiesa e diminuiscono i fedeli committenti.  

Così  vengo all’oggi.
Al primo piano della Casa Manzoni, via G. Morone  1, Milano, , la Fondazione P.G.R. (che citavo prima) presenta la sua seconda mostra di ex-voto, 70 tavolette dal XV secolo agli anni 20  del 1900, Navigando tra gli Ex-Voto, “Trattieni i venti e placa le tempeste” (5 maggio - 20 dicembre) al seguito della prima, Le stanze degli Ex Voto. Una collocazione inusuale, fuoritempo, la casa, un po’ appannata, quasi a scusarsi di essere lì, un angolo silenzioso in una città frastornata, la casa di uno scrittore illustre, Manzoni, un monumento nazionale, rispettato, per carità, ma non si muova troppo dal suo piedistallo. Anche gli ex voto sono fuoritempo, fuori dal tempo della agitazione, del perenne colpo di scena (meglio se in inglese), del rumoreggiare continuo, dell’effetto-flash (in inglese, appunto). L’ex voto parla di un mondo lontano, un mondo di sofferenze evidenti che sperano in un riscatto, di pericoli, di malattie, di incidenti chiari, di Santi e Madonne a portata di mano. E c’è una corrispondenza, per contrasto,  tra i soggetti della prima mostra, il letto del malato, con quelli  della seconda mostra, le tempeste di mare. Quanto è fermo, protettivo il letto a baldacchino, dove il pericolo, il male, è tutto interno al corpo, invisibile, subdolo, medico impotente, al contrario è furiosa, visibilmente terribile l’onda minacciosa, l’acqua profonda, senza fondo, il silenzio infinito del mare, e l’uomo piccolo, sbattuto su quel misero legno, la vela scossa oppure ormai strappata, inservibile. Meglio aumentare le sacre protezioni.


Ma vorrei ricordare una scena della precedente mostra di Santa Maria delle Grazie, un ex voto al contrario, dove il soggetto non  vuole fuggire la morte ma incontrarla. La Madonna gli rifiuta la richiesta. E’ questa una grazia? E vengo alla scena dipinta che possiede l’assurdità felice e incomprensibile della sequenza:
data, 1873, a) l’aspirante suicida poggia il fucile sul gradino di una scala e fa fuoco, ma sbaglia la mira, b) s’impicca al ramo di un’albero, ma il ramo si spezza, c) si getta nel pozzo, ma ne ritorna indenne, d) si lancia dal tetto, non un osso rotto. Possibile che la Madonna di Itri sia stata così paziente con un cocciuto suicida? Il pittore ha dipinto un desiderio? un incubo?



Anche la Fondazione P.G.R. ha per fortuna  la gentilezza del fuoritempo. Passione della collezione - una passione di  famiglia - garbo dei modi, precisione e semplicità nella presentazione. 
Aggirarsi in quelle stanze dai muri carichi d’anni, con quei teatrini lontani, gesti minimi, un’infanzia dell’umanità, disperata e sorridente.
Lunga vita alla Fondazione P.G.R. , Per  Gentilezza  Riconosciuta
                                                  
                                                        G.C.  maggio 2014





 PIERO MANZONI, LA SERIETA’ DEL GIOCO

In relazione alla mostra “Piero Manzoni 1933-1963” al Palazzo Reale di Milano, 26 marzo-2 giugno 2014, organizzata in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni, e al bel  catalogo SKIRA che l’accompagna, con testi di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo, già seguita con attenzione dalla stampa, mi limiterò, come al solito, di alcune considerazioni. L’opera breve e significativa del giovane Manzoni si inserisce nella risposta “fredda” agli eccessi emotivi  dell’ Informale, insieme ai compagni di  strada come Castellani e Bonalumi, e alla galleria milanese Azimut (dall’arabo, misura astronomica=direzioni) con la rivista omonima (2 numeri). Ma alla tecnologia esibita degli amici (la tela tirata nelle shaped canvas) riponde con una diversa inquietudine: la tela  è stropicciata o cucita senza alcuna rigidità  geometrica, il bianco non è l’annullamento polemico dei colori, il gelo ospedaliero, ma un non-colore, un Achrome, una luminosità,  una polvere sovrapposta di gesso o caolino (la materia della ceramica), oppure una morbidezza, batuffoli  di cotone o un cibo imbiancato, michette di  pane! Una scelta curiosa. L’esempio sono i diversi gesti di  Fontana, riconosciuto maestro. 
E’ il gesto che conta, non l’anonimato della materia o della struttura (tela, telaio), ciò che sarebbe  la materia prima della pittura, la freddezza della riduzione, ma oggetti che hanno a che  fare con la  vita quotidiana: il pane, la pelle di coniglio, la paglia, il cotone... Il gesto è il rapporto tra l’artista e l’opera, senza riguardo alla soggettività dell’artista oppure alla autonomia ‘artistica’ dell’opera. E’ qui che  diventa fondamentale la lezione di Duchamp che trasforma in “opera” un qualsiasi readymade, aggiungendovi anche un’ironia nel  titolo (orinatoio=Fontaine) e nell’autore (Duchamp=Rrose Sélavy). Né l’ironia può mancare nei gesti di Manzoni che firma il corpo delle sue modelle, che legittima l’opera, l’uovo, con l’impronta digitale, o  “Le sculture viventi” con “certificati di autenticità”: “Si certifica che…Tizio(a)…è stato(a) firmato(a) dalla mia mano e perciò è considerato(a) dalla data sottoscritta vera e autentica opera  d’arte….”. Persino i “Corpi d’aria” hanno una vaga origine nel gesto duchampiano de l’Aria di Parigi, una ampolla che l’artista si procura da una farmacia come regalo per il  suo collezionista americano Walter Arensberg. Il gesto impossibile  dell’artista è nella sua presunta e ridicola onnipotenza: trasformare un personaggio vivente in una statua (il  contrario del racconto mitico) oppure appoggiare il mondo, con tutto  il suo peso e dimensione reale, allo zoccolo capovolto (“Socle du monde”), un pensiero dedicato a Galileo (rotondità della terra). Ma di più, dare in pasto al pubblico una parte della propria corporeità: impronta, sangue, fiato, feci. Manzoni  parla di reliquie, un pezzo di corpo, corpo dell’artista, che diventa oggetto di culto. E’ uno sgarbo alla sacralità o una sacralità sgarbata? Certo una trasposizione, l’impronta sull’uovo da mangiare (che trasforma il contenuto dell’uovo in contenuto dell’artista).  Oppure un residuo presunto, il  palloncino che è stato gonfiato dal soffio dell’artista (rimane la pellicola sgonfiata del palloncino e la targhetta con firma e titolo). O ancora una scatola di comune cibo conservato (manzo-tin= scatola di manzo = scatola di manzo-ni) trasformata in scatola con feci di Manzoni. E infine una fiala con  sangue dell’artista (non realizzata). Si tratta di sorprese fondate sulla parola dell’artista, come la parola scritta su  di una ricevuta che muta la persona vivente in piedi sulla “Base magica”  in una statua.
base magica per scultura vivente 1961

 L’ultima, la “Merda d’artista”, quella più discussa, in particolare dopo la mostra postuma del 1971 (Manzoni era morto da otto anni) curata da Germano Celant per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e la esilarante interrogazione di un deputato democristiano alla direttrice Palma Bucarelli (“…Poiché l’interrogante ha  ritenuto finora, anche se erroneamente, che una simile  creazione artistica… fosse quotidianamente prodotta da tutta l’umanità, chiede se non sia il caso di dare la massima divulgazione a questa forma d’arte in modo che le masse popolari, finora ignare portatrici di tanto valore artistico sempre avviato verso le fogne cittadine, prendano rapida coscienza degli sconfinati  orizzonti che i su lodati Manzoni e Bucarelli hanno loro aperto…”, lettera tutta da leggere nel mini-saggio Skira di Flaminio Gualdoni).
merda d'artista n. 53, 1961
                                                           
Anche qui una scommessa di  fantasia, non solo per la equiparazione sostenuta dall’autore del valore-merda con il valore-oro, ma  per il fatto che nessuno può verificare il contenuto della scatoletta, la quale va conservata ermeticamnte chiusa, mai  da aprirsi. Ne fa fede unicamente il suo involucro con l’etichetta, “contenuto netto gr 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”, firma autografa e numero. È la stessa ermetica chiusura che Manzoni adotta per le diverse ‘Linee’ che produce a partire dal 1959. Scrive: “Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione….: l’unica dimensione è il tempo” (Libera dimensione). L’idea di tracciarla su di un rotolo di carta da svolgersi progressivamente come un rullo di rotativa gli  viene dal “Rotolo di pittura industriale” che Pinot Gallizio, dal suo Laboratorio di Alba,  taglia in varie lunghezze, secondo i desideri del compratore. E’ un accostamento all’Internazionale Situazionista di Debord che ha i suoi punti  di riferimento in Italia, oltre che ad Alba, a Torino e Albissola. Un aspetto che forse dovrebbe essere approfondito. Ma qui vorrei sottolineare solo due punti: 1) il rotolo breve, lungo o lunghissimo è sempre sigillato in un involucro, con etichetta o  scritte (titolo, luogo, data, firma), che non si deve aprire. La Linea di lunghezza infinita,1960, è un cilindro di  legno pieno munito di un’etichetta. La linea, anzi La linea bianca, come scrive nel ’62, è un puro stimolo concettuale, come la merda o il fiato d’artista. “Vorrei anche tracciare una linea bianca lungo tutto il meridiano di Greenwich”. 2) L’unica realtà è la firma dell’artista, una specie di mago povero, che lascia degli indizi, delle impronte, dei suggerimenti di ciò che si potrebbe o si vorrebbe sognare.

linea di lunghezza infinita 1960

Un’ultima osservazione. I gesti di Manzoni non sono rivolti ai pochi specialisti delle arti, sempre gli stessi, sempre in ritardo. Occorre soltanto liberare la mente dai pre-giudizi. Tutti sono invitati al gioco: mangiate le mie uova, timbrate col mio  pollice, salite sul mio zoccolo statuario, fatevi una scultura d’aria, immaginate una linea infinita, entrate nel mio Placentarium,”teatro pneumatico per balletti di luce,  di gas ecc…”, che non realizzerà.
La serietà del gioco: spostare la figura del sorridente, paffuto Manzoni, giovane, sempre giovane, fuori da una  cornice forse troppo seriosa, per  restituirgli quel senso del divertimento, quella coraggiosa libertà del gioco che è parte non trascurabile della scoperta e della creatività.
                     
                                                                                Aprile '14   G.C.



                                                  

KLIMT NUDA VERITAS


Torino 1969. Mostra: “Il sacro e il  profano nell’arte dei simbolisti”. Il presentatore Luigi Carluccio scriveva: “Abbiamo accettato come un dogma di fede che l’arte contemporanea, cioè quella che dovrebbe esprimere…una secolare stagione di crisi, si  specchia  nell’inerte felicità del mondo pittorico degli impresionisti”, quando invece questa felicità “è quasi un accidente… (nel) campo tanto più  vasto delle zone che solo per contrasto chiamo zone dell’ombra”, quelle degli “uomini  fragili, nervrotici, insoddisfatti; facili prede delle esaltazioni e  delle cadute”. Le ultime opere riprodotte nel catalogo della importante esposizione erano  quelle di Gustav Klimt.
Da allora sono passati vari anni e varie Biennali. Gli architetti guidano i più espliciti cambiamenti nell’ambito del cosiddetto postmodernismo.  Negli Usa Robert Venturi, Michael Graves, Charles Moore. In Inghilterra James Stirling. In Italia Paolo Portoghesi cerca di tirarne le fila con la  Biennale di Architettura, Venezia 1980, La presenza del passato” e le diverse facciate della  “Strada Novissima”  firmata da vari architetti,  allestite negli spazi restaurati dell’antico Arsenale. La “Strada” sarà replicata a Parigi e a San Francisco.
Ma già nel ’63, con il “Mito asburgico” di Claudio Magris, si  era cominciato a  rivedere il passato. Parigi aveva da un pezzo perso la sua centralità, a cui pretendeva New York. Inutilmente, perché il mondo non riconosceva più nessuna guida capitale. Dal presente, allegramente smarrito, lo sguardo retrospettivo era, è diventato più  adatto, più sensibile a scorgere la molteplicità anche in quel tumultuoso vortice di rinnovamento che  aveva interessato il mondo, specialmente europeo, tra Otto e Novecento. Le capitali della cultura erano molte: accanto a Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Berlino, Mosca, Monaco, Vienna…  Anche il concetto  di  “Avanguardia” sfuma la sua radicalità e militarizzazione. I diversi centri, pur avvicinati  attraverso grandi iniziative internazionali, mostre, spettacoli, concerti, riviste, manifesti, grandi magazzini, rimanevano purtuttavia legati ad abitudini, rapporti  sociali, forme educative peculiari e distanti. Le rivoluzioni del ’48 avevano  avuto un significato ben diverso a Parigi e a Vienna. Così  come la rivolta contro il comformismo era differente se espressa da un anarchico apolide oppure da un borghese benestante, magari cittadino  di un Impero multietnico. Invece le mode del giapponesismo e dell’Art Nouveau o Iugendstil, la linearità nervosa, il colpo di  frusta,  schioccata sul mobile, sulla parete,  sulla tela dipinta, anche se con qualche anno di differenza, trionfano ugualmente a Londra come a Parigi, a Bruxelles come a Berlino, a Monaco come a Vienna. Insomma differenze e uniformità, lontananze e vicinanze sono compagne di strada.
Erano le premesse che mi parevano necessarie per iniziare il discorso su Klimt, non certo poco conosciuto in quell’Italia che visitò più volte, sia da giovane curioso dei mosaici di San Marco a Venezia e ancor più di quelli di Galla Placidia a Ravenna, che da adulto alla Biennale del 1899 e del 1910 (acquisto della ‘Giuditta’) e alla esposizione romana del centenario del 1911 (acquisto del ‘Le tre età della donna’). E ora, dopo un lungo intervallo, al culmine della sua mondiale popolarità. Non per questo di facile comprensione. Ben venuta perciò una mostra che intende mettere in  luce l’esordio di questa complessa personalità: Klimt. Alle origini di un mito’, Palazzo Reale, Milano, sino al 13 luglio. Catalogo 24ORE Cultura. Cercherò di sottolinearne soltanto alcuni aspetti (e già andrò troppo poer le lunghe).  
Gustav Klimt, secondo di sette figli, nasce il 14 luglio 1862 a Baumgarten, un sobborgo di Vienna. Il  padre Ernst, originario della Boemia, è un orafo incisore, la madre Anna ama la musica e il canto. Nel 1877 Gustav e il fratello Ernst si iscrivono alla  “Scuola d’arti e mestieri del Museo austriaco per l’Arte e l’Industria” e sotto la  direzione dei loro maestri eseguono pitture e decorazioni nei grandi  palazzi del Ring, L’Anello. Si  tratta della imponente ristrutturazione ‘simbolica’ del  centro città, con il Rathaus, il municipio, in stile gotico, il Reichsrat, il Parlamento, in stile neoclassico, l’Università, in stile Rinascimento e il Burgtheater, in stile barocco. Un collage storicista voluto e finanziato da una nuova borghesia, rispettosa del rigido potere imperiale, attiva, individualista, affascinata dalla creatività artistica. Molti ebrei, ‘liberati’ (ma non del tutto) dal  1867, ne fanno parte. L’ io non è uno, ma doppio, triplo, multiplo. Lo scrive un dottore non ancora molto conosciuto. Fatica a trovare il posto a cui aspira, il dottor  Freud. Ma il gusto estetico abbandona presto i facili attaccamenti al passato, propri del Ring. Il futuro è incerto. La dinamica sociale è in costante movimento. L’impenetrabilità delle caste aristocratiche, la litigiosità delle pretese etniche, la minaccia dei gruppi sociali  emergenti, operai, artigiani, slavi, antisemiti, mette in crisi la tranquillità borghese (in realtà mai esistita). Il rifugio nella psicologia e nell’arte non dà i frutti sperati. L’erotismo non è la pacificazione del desiderio. La frattura, la contraddizione, la inconciliabilità diventa un mobile stato  di fatto. Non c’è ingegneria sociale che possa venire in soccorso. Non è la debolezza, ma la ricchezza di questa cultura..“Dobbiamo congedarci  dal mondo prima che crolli…Sono i poeti a interpretare questo sentimento indefinibile” (Hugo von Hofmannsthal 1905).
Dopo questa breve premessa posso tornare ai due fratelli Klimt che, terminati gli studi,  decidono di fondare, insieme all’amico Franz Matsch, una propria ‘Società’, la ‘Künstler-Compagnie’ che lavora negli edifici del Ring ancora coi  caratteri ‘storicistici’. L’essere parte di un gruppo sarà attitudine costante di Gustav.

Nel 1892 muore il fratello Ernst, lasciando una figlia, Helene Emilie, di un  anno, di cui Gustav viene nominato tutore. Nello stesso ‘92 era morto il padre. La Compagnie si soglie e Gustav Klimt entra in un grave periodo di depressione. Helene, crescendo, rimarrà affettuosamente vicina al suo tutore, insieme ad un lungo legame intellettuale e amoroso, documentato da un fitto epistolario, con la cognata Emilie Flöge,  animatrice di un raffinato salone di  moda, la “Casa piccola”.          
         
Gli Jungen, i giovani dell’Associazione degli artisti vogliono un cambiamento, una separazione dai vecchi, una Secessione. Gustav Klimt è con loro. Il passato ora è la Grecia dei miti, Athena e Teseo (Edipo per Freud). Teseo ammazza il Minotauro. 1898, Il nuovo spazio è  come un tempio. Lo progetta Josef  Maria Olbrich , lo finanzia l’industriale Karl Wittgestein. Sulla facciata la scritta: “A ogni  tempo la sua arte, a ogni arte la sua libertà”. La cupola è un tripudio di foglie dorate.  Ver sacrum è il nuovo annuncio. Sul primo numero della rivista Klimt disegna NUDA VERITAS. Ne farà un dipinto provocante, anche nella citazione da Shiller: “Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia  a pochi. Piacere a molti è male”. E’ l’attacco esplicito alla vecchia cultura, ai suoi  nemici. La dea greca si è trasformata in una donna il cui erotismo si spande dalle carni fosforescenti ai lunghi capelli ondulati, al pube, alle onde del fondo azzurro, agli steli dei fiori, alle spire del serpente. Tiene  in mano uno specchio vuoto. Sei diventato invisibile oppure sei invitato a specchiarti? O a trasformarti, assorbito dagli occhi di lei? O da quelli del serpente? Verità e nudità si confondono. E’ la nudità che  corrisponde alla verità o la verità che è svelata? "La verità è fuoco...che illumina e arde". Conoscenza e vita, linguaggio e passione, parola e desiderio, ambiguità allucinatoria. La  crisi  non è la perdita dei compagni ma la perdita della  certezza. Il sesso è insieme il fascino e la paura di questa perdita. Un vortice che esplode e implode.                                                                                    
Le due figure femminili che ne approfondiscono il significato sono  le due ‘Giuditte’, una del 1901 e l’altra del 1909. Giuditta con la testa di Oloferne, che appena appare nell’angolo in basso a destra, ricordata anche come Salomé dal dramma di OscarWilde/Richard Strauss, passa dal fascino seduttivo della prima versione alla crudeltà grifagna della seconda, assorbimento e minaccia della castrazione.  “Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme” (Baudelaire). La trasparenza acquatica delle carni  della prima si raffredda nei labirinti, nei tagli  giapponesi della seconda. La presenza della decorazione, rigida e luminosa, isola, assedia, conserva, sega, ripone il fremito dei visi, il tremito delle mani, carezza e  graffio. Una contraddizione fastosa che l’artista sviluppa con gioia e sofferenza. Cielo e abisso.




                                     
Sembra che Klimt attendesse l’arrivo del ‘900 per compiere la sua virata più impegnativa, che coincide con la commissione ministeriale per dipingere il soffitto dell’Aula Magna dell’Università. Soggetto: Filosofia, Medicina, Giurisprudenza. I committenti si aspettavano il  trionfo della ragione, le conquiste della ‘Scienza’. Ma il risultato è il contrario: un mondo che si sbriciola in profumi velenosi, in abbracci disperati, in rimpianti inconsolabili. Altro che  natura regolata dalla cultura dei  ‘professori’! Un moto ascensionale  fluido e viscoso trascina, succhia corpi nudi e indifesi. Nonostante la Kunstwollen di Riegl, “a ogni tempo la sua arte”, e la difesa dei docenti guidati dallo storico Franz Wickhoff, i lavori vengono rifiutati. Klimt li ritira e restituisce il suo onorario. Saranno  esposti con successo in giro per il mondo. Trasportati infine nel  castello di Immendorf, verranno distrutti da un incendio nell’ultima guerra. Rimangono le  riproduzioni fotografiche in bianco e nero.                                                                                                 
La Medicina.

Nella figura di primo piano, Hygeia, che, separata fondo, si rivolge al pubblico con un atteggiamento  di sfida, regge un serpente dalle spire geometriche cui fornisce una bevanda nel calice che tiene con l’altra mano. Dietro di lei sale il flusso dei corpi doloranti guidati dalla morte. A sinistra si stacca, sospeso, provocante, il corpo nudo di una donna, la guarigione.


La Giurisprudenza.

L’atmosfera cupa ritaglia le figure avvolte da filamenti astratti. Al centro l’uomo colpevole è imprigionato dai tentacoli di un enorme polipo: la coscienza? E’ circondato da tre inquietanti figure femminili, le tre Parche o Moire, due tirano il  filo della vita, la terza, Atropo, lo taglia. Da un piccolo spazio si intravedono le teste dei giudici. In alto, su di un piano diverso dello scenario, due donne, La Legge e la Verità, affiancano Il  Diritto. Nulla incoraggia l’affermazione di quel lontano idolo, rigido nella sua geometrica decorazione.                                                                     




































Il rifiuto dei politici e dei burocrati determina una svolta in Klimt. C’è ancora un gesto semipubblico nell’ambiente amico della Secessione, Il Fregio di Beethoven (anche riprodotto nella attuale mostra). Si tratta di un’opera pensata nei minimi particolari e sviluppata con grande suggestione narrativa, in occasione di  una imponente festa musicale intorno alla statua del musicista scolpita da Max Klinger. La funzione è aperta con la Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Gustav Mahler, che alcuni vedrebbero anche nella figura del guerriero del ‘Fregio’. L’arte come totalità, architettura, pittura, scultura, musica. “Le arti ci conducono nel regno ideale, dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta, l’amore assoluto” (Klimt). Il piacere estetico come risoluzione delle contraddizioni individuali e sociali. Si  scatena la solita polemica. No, l’arte non può fornire soluzioni collettive né spezzare poteri costituiti. Non c’è spazio pubblico per l’artista. Il privato è il suo rifugio.



Dalla sinfonia alla musica da camera. Nel suo studio, coperto da un camicione monacale, Klimt,  ricercherà  soltanto singoli interlocutori, o meglio, singole interlocutrici. Di nuovo, un gruppo protettivo di amici e amiche. Non mancano riconoscimenti importanti a Vienna e nelle altre capitali d’Europa. E, nello stesso tempo, cresce lo spazio decorativo, si moltiplicano  cerchi, quadrati, spirali, ondulazioni, punte, occhi, vetri colorati, inserti diversi, argento e oro, tanto oro. 


Il bacio, 1907-1908

Il Compimento,1905-1909, 
                                                                            part. Fregio Palazzo Soclet

Ne Il bacio’  la coppia cresce quasi in bilico sull’angolo del prato fiorito.                                              
Ne ‘Il Compimento’ la coppia risponde alla figura di sinistra, ‘L’Attesa’, uniti dalle volute de L’albero della vita. Sono le pareti della sala da pranzo del palazzo costruito a Bruxelles per l’industriale Stoclet da parte di Hoffmann e degli artisti della Wiener Werkstätte. Non delle figure singole, come ne ‘Il bacio’, ma un intervento ambientale, come nelle pitture rifiutate per l’Università, senza però narratività emotiva, senza sfondo. Una decorazione parietale è una decorazione, e basta. La donna de ‘L’Attesa’, nel suo accentuato giapponesismo, è di una inespressività  gelida. Nella invasione decorativa, la coppia mantiene a stento, in una piccola striscia, un’accenno del viso  e della mano di lei e della schiena e nuca di lui: una inclinazione, un reciproco sostegno che sa più di morte che di amore, di soddisfazione, di ‘compimento’. Qui Klimt si rende conto che la decorazione, pur ricca di una sua specifica narratività  (la ripetizione, il contorno, l’interruzione, la pluralità materica ecc.), non basta. La sua rigidità e invasività va interrotta, contraddetta con la sfumatura, il palpito, lo sfondamento della espressività. Il ritorno successivo ai ritratti e alle figure simboliche (Bisce d’acqua I e II, Danae, La Vergine, il finale Adamo ed Eva) restituirà un respiro, un calore di carne e di sguardi,  circondati però sempre dalla minaccia (o dal trionfo) dell’intrigo decorativo, cosmicità fluttuante o/e gelida impronta di morte. ‘Il bacio’, a lungo elaborato, ne è un massimo esempio, là dove l’impronta decorativa si moltiplica e si sfalda, là dove il palpito della carne si racchiude e si esalta.
Contraddizione magnifica. L’immobile, ricca, forte, debordante decorazione è una minaccia, non un trionfo; il viso trasparente, smunto, la mano rattrappita, lo sguardo spento è ciò che rimane della vita.

“Dobbiamo congedarci  dal mondo prima che crolli”.

Gustav Klimt muore a 56 anni colpito ad un ictus cerebrale il 6 febbraio 1918. Lo stesso anno in cui finisce un mondo, non solo la guerra. 
[marzo 2014]
                                                                                                                                                                                    ***                                                                                                                   



UNA RAGAZZA TROPPO SOLA

Una mostra dedicata a ‘Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese’ con otto quatri di Vermeer (su di un magro numero totale di 37 pitture) era stata aperta con successo alle Scuderie del Quirinale, Roma, settembre 1912-gennaio 1913 (me n’ero occupatonell’Odissea cartacea) e ora si ripresenta a Vicenza un soggetto simile, febbraio-maggio 1914, a cura di Marco Goldin e Linea d’ombra, col titolo La ragazza con l’orecchino di perla” e il sottotitolo “Il mito della Golden Age. Da Vermeer a Rembrandt. Capolavori dal Mauritshuis”. Tralascio la descrizione della esposizione in corso, a parte la dicitura di un ‘Rembrandt’ dopo un ‘Vermeer’, nonostante Rembrandt  appartenga ad una generazione precedente (l’uno è del 1606, l’altro del 1632); questa seconda mostra esp0ne solo due quadri di Vermeer, anzi, considerando ‘Diana e le sue  ninfe’ un’opera giovanile estranea al suo stile più noto, uno soltanto è il quadro che dà titolo a tutta l’iniziativa: “La ragazza con l’orecchino di perla”. Si vuole cioè fare di questo piccolo ritrattto, cm. 44,5 x 39, un unicum, un miracolo che sta per conto suo, nonontante che, nel catalogo, il presentatore scriva, a p. 218, che “dipinti di questo genere, definiti “tronie”, non miravano a raffigurare modelli specifici … ma presumibilmente lo studio di un tipo immaginario” (neretto mio). Dello stesso Vermeer ne rimangono altri esempi, come “Ragazza con velo” o “Ragazza con cappello rosso” .


La particolarità del vestito o del copricapo o  della perla era  comune in questa serie di ‘esempi’, molto richiesti dalla clientela. Ma, al di là delle abitudini mercantili, un singolo quadro difficilmente può avvicinare lo spettatore – che non sia già un conoscitore - al lavoro, alla qualità, al significato di un autore, di qualsiasi  autore. Giusto inserirlo nel suo ambiente, come fa la mostra vicentina, le ricche collezioni del Mauritshuis dell’Aia, ma fuorviante insistere su di un’opera singola, come già accaduto  a Bologna, da cui proviene, trasformarla in un mito, una superiore estraneità, che le fa perdere quella ricchezza ambientale, quel percorso che infine la distingue. Strumenti musicali, carte geografiche, rispecchiamenti, scritture, tendaggi, pavimenti quadrettati, luci soffuse, sguardi (in)discreti, questi sono l’accompagnamento silenzioso di  quel nitore incantato che Vermeer ci  ha trasmesso. “Una ragazza troppo sola”. Isolare una singola opera, farla diventare un marchio pubblicitario, uno slogan televisivo non è soltanto deformare uno  stile, ma svilire l’opera stessa. No, non  mi  pare un buon modo di invogliare, stimolare la comprensione, anche solo un inizio di comprensione.
 24 marzo,  G. Colombo


LÉGER, LA SCOMMESSA DEL LINGUAGGIO REALISTA

La città, una  comunità organizzata sotto un unico principio o potere, il papa, un principe, un sovrano, dipinta e diffusa da mani esperte di incisori e maestri illustri, la imago urbis esposta al Museo Correr di Venezia,  ‘L’immagine della città europea dal Rinascimento al Secolo dei Lumi, e la città moderna, dalle mille facce, invasa dai soffi dei fumi e dai rimbombi dei motori, ciò che segue ai ‘Lumi’ dell’intelletto settecentesco  per diventare i  ‘lumi’ , la luce dell’energia elettrica. Ecco allora la seconda mostra del Museo Correr: Léger  1910-1930. La visione della città contemporanea.  Entrambi le esposizioni aperte dall’8 febbraio dal 2 di giugno.
Ed è su questa seconda città che vorrei fermarmi.
La città non è il luogo in cui si raggiunge un centro fisso e predominante, chiesa o palazzo, ma un sistema di ‘flussi’ incanalati da “arterie” e “vene”, secondo la  terminologia seicentesca del “De motu cordis” di William Harvey. Il  movimento segna la nuova città: si arriva e si parte, i  luoghi si  moltiplicano, le periferie si allargano, gli edifici del potere si allontanano dai centri, sovente poco affidabili. Basta sfogliare le pagine di Henry Mayhew o di Dickens, oppure le incisioni di Doré sulla Londra ottocentesca, invasa da carrozze e carretti tirati da cavalli, colmi di sacchi, che si trasportano su e giù dai magazzini, abitata da venditori ambulanti, ladri, prostitue, straccioni e mendicanti rissosi, strade maleodoranti… Insomma la Londra vittoriana descritta dalla sua immensa letteratura. Ma intanto il mondo muta rapidamente. I cavalli diventano cavalli-vapore, i treni sbuffano nelle nuove stazioni (ancora) in stile neogotico, le lampadine di Edison a filamento di carbone sostituiscono la illuminazione a gas, sui nuovi viali  si aprono café- chantans, caf’conc’, caffè concerto, cabarets, bistrots,  gallerie, vetrine. Gli artisti  si ritrovano in luoghi deputati, Montmartre, Montparnasse. Grandi magazzini offrono di tutto. Au Bon Marché a Parigi (Zola  gli dedica “Au Bonheur des dames”), Harrods a Londra, Macy’s a New York. Il ‘dentro’ e il ‘fuori’, l’interno e l’esterno si scambiano le parti. Dalle fiere internazionali si levano in volo palloni aerostatici, dai quali la macchina fotografica riprende panorami mai visti prima. Nella e Esposizione Universale del Centenario, quella del 1900 a Parigi, il visitatore può salire con scale mobili, muoversi  su tapis roulant, vedere films sonori, ammirare la potenza dei motori e i miracoli della elettricità, che già avevano animato i  veli nella “danza serpentina”  di Loïe Fuller. E può pure, questo visitatore, sentire notizie e musica dalla radio, parlare al telefono,  attraversare la città con la prima linea della sotterranea  ‘metropolitana’. Già al suo sorgere, a metà del secolo, Baudelaire aveva amato  “la transitorietà, la fuggevolezza, la contingenza” della vita moderna.
1900, è l’anno nel quale il diciannovenne Fernand Léger arriva a Parigi dal suo paese in Normandia. Macchinismo, velocità, movimento, simultaneismo sono gli interessi della nuova pittura che sviluppa una grammatica genericamente cubista: negazione della rappresentazione naturalistica, scena multipla, scomposizione dell’oggetto, libertà ricompositiva. Permane la tensione tra spinta soggettiva e intenzione oggettiva, tra  emotività e indifferenza. Da una parte la espressività dei Futuristi o la liricità di Kandinskij e Delaunay, dall’altra l’oggettività di “De Stijl”, di Mondrian o di Van Doesburg. La spinta  verso l’oggettività, la sola superficie colorata,  è la sparizione della pittura, il muro; la spinta della soggettività è la spiritualità smaterializzata. Ma attenzione, sia Kandinskij che  Mondrian sono interessati alla teosofia di Steiner e della Blavatskij. Una componente spiritualista nel mondo dell’oggettività. Né manca oggettività didattica nelle lezioni di Kandinskij al Bauhaus. Dunque le  definizioni vanno sempre prese con cautela.

Gino Severini, La danza al pan Pan Monico,  1909-1959 cm.280 x 400
  Robert Delaunaynay, Omaggio a Blérioz, 1914 cm.48 x 46

E Léger? Il suo macchinismo? La riduzione a materia rigida, tubolare, lucida nella formazione dei personaggi è certo carattere sia di Léger che di De Pero. Ma in De Pero c’è il divertimento di un teatrino infantile, di una macchina scherzosa, che passerà pure ad un illustratore come Rubino. Chissà se per entrambi c’è un eco de “L’Uomo di latta”senza cuore, da “Il meraviglioso mago di Oz”. Ma in Léger non c’è scherzo, e neppure c’è vicinanza con le macchine di Duchamp e Picabia, macchine contraddette, sfottute da un titolo, da una scritta: la ben nota “Mariée mise a nu par ses célibataires, même”, o di Picabia uno stantuffo intitolato “Fille née sans mère” . Un ingranaggio rotante nel manifesto di Léger per il film “La Rue” (1920) di Abel Gance è una composizione perfetta di cerchi e lettere che si legge e si ammira così com’è, senza sottintesi più o meno ironici. 


Certo,  il ‘com’è’ va letto come un meccanismo rotante che indica, simil- orologio, e vanno lette anche le lettere di contorno, LARUE ABELGANCE. Dico ‘letto’, perché si tratta di un linguaggio autorappresentativo. Il riferimento esterno è il modello pubblicitario, ma perfezionato, integrato in  una coerenza interna che appartiene a quello che Léger intende come “legge dell’equivalenza”. E qui viene in aiuto una citazione di Michel Foucault, introdotta nel bel saggio di Anna Vallye nel catalogo della mostra: “Il grande valore del presente è indissociabile dall’accanimento con cui lo si immagina… diversamente da com’è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è...Una libertà che rispetta quel reale e, al tempo stesso, lo violenta” (p. 51). Un certo tipo di realismo. “Uso di proposito la parola realistico – scrive Léger – nella sua accezione più propria. Giacché la qualità di un’opera pittorica discende direttamente dalla sua quantità di realismo” . E prosegue: “Solo il realismo di tipo concettuale è capace di realizzare…gli effetti di contrasto”, quegli effetti che garantiscono la equiparazione tra pittura e vita. Le proprietà della pittura, linea, forma, colore, devono essere sottoposte alle opposizioni più nette, con il risultato di un “contrasto multiplo” dalla intensità moltiplicata. Di una scena metropolitana abituale non si darà una falsa ri-produzone, secondo la visibilità morta tradizionale, ma se ne catturerà un equivalente del suo “spirito creativo”.

Fernand Léger, Fumatori 1911

Fumo, fumatori, tavoli, tetti, comignoli, alberi sono tagliati, incastrati, sovrapposti in contrasto secondo una tecnica di origine cubista, non lontana da quella usata da Severini. Dunque si tratta di un realismo diverso dalla geometria semplificata di Mondrian che vorrebbe annullare la differenza tra dipinto e ambiente. L’ambiente mosso, rotto, rumoroso, confuso della città moderna non è trasponibile come tale, sarebbe impossibile. Si tratta invece di una trasformazione linguistica, l’uso di un segno che si riferisce a qualcosa d’altro e di un interprete al quale il segno si rivolge. Se il colore può diventare muro, la città non può diventare pittura se non si trasforma in linguaggio. Si tratta perciò di individuare il tipo di linguaggio ‘realistico’ che poco per volta Lèger inventa e modifica, un linguaggio anti-soggettivo, privo di emozioni, pieno di oggetti pesanti, che hanno i bagliori del  metallo, la rotondità del tubo, la forma, la forza dell’ingranaggio. La figura umana partecipa di questa oggettività, è parte dell’ingranaggio, ma senza senso diminutivo o deprecatorio, dove invece l’uomo è stritolato dalla macchina. Anzi, con la serenità di far parte intrinseca di una gioiosa trasformazione che si chiama modernità.

F. Léger, Soldati che giocano a carte, 1917

E’ tempo di guerra, Léger è sotto le  armi, ma non siamo in presenza di cannoni o bombardamenti, che i futuristi italiani dipingono, ma di giocatori di carte e fumatori di pipe. Una pausa di pace. Il soldato-robot  è simile a qualsiasi altro meccanismo, come il gioioso uomo-macchina del tipografo del ’19, ormai nel dopoguerra, quando l’uomo è sì una macchina, più macchina del soldato, ma non per distruggere o essere distrutto, ma per diffondere notizie di pace e di allegria. La persona-macchina è asettica, inespressiva, batte i colpi dello stantuffo, non del cuore, è macchina particolare, con i suoi tagli  rigidi, come ne “Il  tipografo” o  “Uomini in città”, oppure riprende, in calme ondulazioni,  chiare sembianze umane,  però nella veste altrettanto inespressiva dei bambocci, come in “Composizione con tre figure”.
F. Léger, Uomini in città 1919, cm. 145,7 x 113,5

 F.Léger -Il tipografo 1919

 Qui le forme si addolciscono, perdono il ferro, ma rimangono nella lontananza del burattino,  non per il gioco di De Pero, ma per la tranquillità degli oggetti, di tutti gli oggetti, non solo quelli della meccanica, ma pure quelli della vita comune, fiori, corda, legni, stoffe. E oggetti umani inaffettivi (con affetti simulati) sono quelli dello spettacolo di Léger, nel teatro e nella pellicola cinematografica. Già, perché i nuovi mezzi del teatro, della  danza ( con i Ballets suédois), del  cinema (con Dudley Murphy), là dove la figura umana potrebbe riprendere, sulla propria pelle, la propria biologia, i battiti del  cuore, Léger la tratta invece come scenario mobile, imprigionando i corpi “in strutture sovradimensionate e rigidamente geometriche, che si muov(ono) piano sul  palcoscenico, creando  uno spettacolo in cui tutto si incentra sulle macchine, e sui giochi di  luce” (Ibd. p. 33). Cioè la realtà visiva animata che le tecniche dello spettacolo potrebbero consentire, viene trasformata nella realtà linguistica del meccanismo, dell’oggetto meccanico. Insomma ‘la pittura’ del mondo meccanico corrisponde, è l’equivalente della vita nella città moderna, di quell’enorme e tumultuoso e affascinante meccanismo che è la città moderna.

F. Léger, progetto di sipario per Skating Rink 1922, cm. 40,6 x 47,6

La soggettività dei sentimenti non  ha posto nella scena teatrale come nel tipografo o nel lavoratore in generale. Il cuore non batte nella figura del fabbricatore, dell’operaio che costruisce il nuovo mondo, figura che Léger svilupperà specialmente negli ultimi decenni della sua attività.                           
Ma forse anche questo progetto si fondava su di un sentimento, il sentimento della speranza.
                                           
                                                                                                            


                                                     “IO  PROTESTO”, E VOI?

Sul  Corriere della Sera del 19. 02. 2014 a firma di Guido Santevecchi,  comparivano due serie di fotografie che raccontavano la la vicenda di due artisti. Il primo, Ai Weiwei, è un artista dissidente cinese, molto noto nel mondo, presente all’ultima Biennale di Venezia, chiesa di Sant’Antonin, con dei  ‘teatrini’ che ricostruiscono l’interrogatorio e la sua detenzione in carcere. Nell’opera qui riprodotta (sempre dal Corsera), esposta al museo di Miami, sono collocate in primo piano sedici antiche urne Han  sulle quali  gocciolano i colori aggiunti da Weiwei , “Coloured Vases”, dietro alle quali l’autore, fotografato  in tre grandi pannelli, lascia cadere un altro vaso antico che si frantuma a terra: “Dropping a Han Dinasty Urn”. Antico-moderno, fragilità della conservazione etc…


Il secondo, l’artista di origine dominicana residente a Miami, Maximo Caminero, alla vista di quell’opera,  “ci ho letto  - afferma – una forte provocazione intellettuale e ho voluto replicare la performance di protesta”, rivolta ai curatori  del museo che privilegiano autori stranieri rispetto ai creativi locali. Un altro vaso antico in frantumi. Caminero è stato  arrestato e rischia un processo.  Weiwei  non  l’ha presa bene: “E’ stato un artista, allora non va  bene, nessun artista ha il diritto di rovinare l’opera di  un collega”.


Teniamo conto che Weiwei non è  un artista qualsiasi. Dopo essere stato acclamato con opere come il  “nido d'uccello" per lo stadio dei Giochi Olimpici di Pechino 2008, ha passato un periodo di carcerazione e gli è stato ritirato il passaporto per le critiche alla mancanza di libertà nel suo Paese.     Ora io mi chiedo e vi chiedo: è ammirevole distruggere documenti antichi e preziosi, anche se di mia proprietà,  a scopo dimostrativo, scopo,ovviamente, in sé lodevole? E’ criticabile, con conseguenze penali, un artista che ripeta un gesto effettuato da un altro artista, spostandone il significato?
[marzo  G. C.]                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

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SAN GENNARO, IL TESORO DI  NAPOLI                RITO E RITMO

                    Matteo Treglia, Mitria con infule 1713, argento dorato, diamanti, rubini, smeraldi, granati     

La mostra “Il Tesoro di Napoli – I Capolavori del Museo  di San Gennaro”, aperta sino al 2 marzo presso la  Fondazione Roma, Palazzo  Sciarra, è un buon motivo per alcune riflessioni sulla devozione popolare e le sue più radicate manifestazioni, con l’aiuto del  catalogo Skira e i testi dei curatori Paolo Jorio e Ciro Polillo.                                                                                                           San Gennaro e Napoli, un legame indissolubile “tra il santo protettore e le pulsioni psicologiche di un popolo periodicamente minacciato da catastrofi naturali” e artificiali (P. Jorio). E, tra tutti, il Vesuvio, il “Vesevo” leopardiano che “Dall’utero tonante / Scaglia al ciel, profondo / Di ceneri, di pomici e di sassi / Notte e ruina…”.
                                                                                                                                                 
Il dono e la risposta. 
I doni per propiziarsi le grazie del santo, preziose teche, smeraldi, diamanti, busti, sculture sopraffine che re, duchi, potenti e impotenti hanno accumulato nei secoli, il  Tesoro di San Gennaro
La risposta, il miracolo, il sangue di San Gennaro di nuovo vivo, mobile, liquefatto. Solo per la festa. Ritornerà fermo, duro, spento,  notturno, morto per poi, al richiamo dei fedeli, al sorgere dell’anno dopo, di nuovo gocciolante, caldo, energico, luminoso. Ciclo cosmico e umano, come  le stagioni, come i  giorni e le notti, la luce e il buio, come la morte e la rinascita, l’amore e l’odio.

                                                                                                                                                                                                                         Etienne Godefroy, Milet d’Auxerre, Guillaume de Verdelay. Busto reliquiario di San Gennaro, 1305

L’incontro di due storie.
La prima, la storia di San Gennaro. Già nel nome, Ianuarius, gennaio, come Giano bifronte, fine di un anno e principio di un anno nuovo, sempre uguale e sempre diverso. La sua  riconoscibilità visiva è incerta. Il busto viene cesellato mille anni  dopo la sua morte. Il volto è più una soglia che una scena. L’espressione inventata, fatta uscir fuori (ex-pressio) dai pittori e dagli scultori-orafi si ri-volta all’indietro, entra dentro, sprofonda: mi sta di fronte nella sua inconoscibilità, nella sua diversità, un Dio nascosto (E. Lévinas, citato da Jorio). San Gennaro ha tanti volti, “uno, nessuno e centomila”; non tutti lo riconoscono, occorre pazienza, pregiera, blandizie  perché metta in moto la  sua forza misteriosa, questa sì unica.
                                                                                                                              
              Manifattura napoletana, Croce episcopale 1878, Oro, diamanti e smeraldi


Vengo alla sua vicenda.                                                                                                                            Quarto  secolo, il secolo  dell’imperatore Diocleziano, persecutore dei cristiani. 305, Gennaro, vescovo di Benevento, si reca verso capo Miseno per incontrare dei confratelli. E’ zona vulcanica: fiamme, soffi, scosse, borbotii. Il gruppo dei cristiani, tutti insieme presi prigionieri, vengono condannati a essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro di Pozzuoli. Ammansiti magicamente i felini, il vescovo viene decapitato nella vicina solfatara, Forum Vulcani. E’, noi diremmo, un uomo prestante, alto un metro e novanta, ha poco più di trent’anni. Eusebia, una pia donna, raccoglie in due ampolle il sangue dal capo mozzato. I resti vengono inumati sul posto, che diventa oggetto deviozionale. Dovrebbe essere il 19 settembre, che diventerà il giorno  miracoloso del Santo. Passa poco più di un secolo. Giovanni I duca e vescovo di Napoli trasporta i resti nelle catacombe di Capodimonte. Intorno alla tomba di Ianuarius, al quale si atribuirebbero i primi prodigi,  si sviluppa un grande complesso cimiteriale, le Catacombe di San Gennaro. Nono secolo, Sicone I, perfido principe longobardo di  Benevento, da Napoli riporta le ossa a Benevento. Passano i secoli. 1154, il normanno Guglielmo “il Malo” sposta le reliquie nel Monastero pugliese di Montevergine, ma a Napoli sono nascosti il cranio e le ampolle col sangue. Altri duecento anni, 1305 Carlo II d’Angiò commissiona agli  orafi francesi un busto reliquiario in oro e argento. Il figlio Roberto vi aggiunge una teca dove riparare le ampolle col sangue. Nel 1337 la prima  processione, nel 1338 la prima liquefazione del sangue, nel 1646  la inaugurazione della Cappella di San Gennaro, 1341 anni dalla uccisione del vescovo Santo! Una lunga vita da morto e un morto che si  fa periodicamente vivo.
E ora passo alla seconda storia, la preghiera rituale, e mi riferisco al  testo esemplare di Paolo Jorio (pag. 171-175 catal.) “Le parenti: il  mito  dell’eterno  ritorno”. Le parenti di San Gennaro sono le donne che officiano il rito del sangue che risuscita. E’ un rito cruento, il sangue di un morto ammazzato e il sangue di un morto risuscitato. Il tempo come progressione, come processo, si  ferma, è sospeso. Anni, millenni non contano. Non conta quando sia vissuto e morto il  vescovo Ianuarius. E’ diventato “un modello esemplare” (M. Eliade). Il gesto  si ripete, morte e nascita si richiamano, sempre. Il rito non è un ricordo ma un fare, far vivere e rivivere. L’officiante è donna, colei che dà la vita.  E’ parente di San Gennaro, simile alla sacralità della morte-vita, parente di Eusebia, colei che conserva e rinnova il sangue, ma anche mostra (pareo), chiama alla luce: Jesce sole, jesce sole nun te fa’ cchiù suspirà! Faccia ’ngialluta facci o’ miracolo! Le parenti si chiamano per nome dalla strada,  modulano il nome come una melodia; nell’invocazione a San Gennaro  battono le  mani, dondolano la testa, un accenno di danza, come nelle antiche trenodie, e quando il sangue si sciogle alzano il  tono, “credo! Credo!”  Faccia ’ngialluta è il colore dorato del busto di San Gennaro, è la faccia  splendente del sole che sorge dietro il vulcano, dietro il  Vesuvio distruttore, dietro la minaccia, sopra la minaccia. Le parenti sono eredi delle Prefiche. La lamentazione funebre si rivolgeva anche alle “anime  pezzentelle”, alle anime dei morti di morte violenta, dei giustiziati. Il Santo decollato è più santo  del  santo invecchiato. L’evidenza della morte dà splendore alla vita, il grumo  di sangue è pronto  a sciogliersi. Il nome ripetuto, Sangennà, invocato, spremuto è l’appello (ad pello), la messa in moto, la riapparizione, a suo modo, dello scomparso. Morte e risurrezione.
Il rito è ripetitivo, la stessa processione, ritmico (sempre d’accapo, le stesse pause), comunitario, consolatorio: “Tu ‘o vvide e Tu ‘o ssaje arrimmierece chisti guaje”. Le parenti siedono in prima e  seconda fila nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, dal giorno che precede la cerimonia del miracolo, il 19 settembre. Per otto giorni, l’ottavario, seguono l’esposizione delle ampolle, invocando il miracolo e cantando una antica nenia: Pe’ lu sanghe e pe’ la testa liberace d’’e tempeste!....        L’obbedienza alle regole è la garanzia che funzionano (anche se non sempre il miracolo si compie, proprio per tener desta la sorpresa).
Non si potrebbero riprendere queste riflessioni senza fare i nomi che cita lo stesso Jorio, quelli di Mircea Eliade, Ernesto de Martino e Roberto De Simone.



Ignoto argentiere napoletano, Santa Maria Egiziaca 1699. Tre pani, il magro cibo e il segno della Trinità. La mano destra forse teneva un crocifisso.

Così, riassumendo queste due storie, non mi rimane che rimandarvi  alla mostra romana, alla Cappella di Napoli e alle belle riproduzioni del  catalogo, a dimostrazione di un Tesoro che è tra i più ricchi  del mondo.
                     
[Febbraio 2014  G.Colombo]

ESAGERATI GRATTACIELI VETRO-CEMENTO. ALLAGAMENTI, FRANE, CREPE, CROLLI. DOVE PROCEDERE, COME CONSERVARE IL PASSATO?

Chi guarda solo al super-nuovo, o, viceversa,  al super-vetero, ha una visione monca. Ovvio. Ma non è facile bilanciare le due direzioni,  che si  richiamano sempre, in diverso modo, l’un l’altra.
Re-staurare ha sempre a che fare col tempo e col doppio: ri-tornare su qualcosa. Ogni epoca è un ‘post’ di un prima, si svolge in un suo presente e si rivolge a un suo passato. Ma ‘epoca’ non è una cosa omogenea, ma una pluralità di cose unite in un certo tempo, e perciò anche il suo passato è una pluralità di riferimenti. Questo non significa negare standard prevalenti nei gusti, nelle credenze, nelle memorie ecc.
Premessa, anche questa, ovvia, che mi serve per ritornare sul tema del restauro, che avevo già affrontato nell’Odissea cartacea a proposito della città vecchia di Varsavia, distrutta dai nazisti e ricostruita  nel dopoguerra, aiutato anche dall’interessante studio su “Il restauro” di Bruno Zanardi, autore ora di un altro intervento su di “Un patrimonio senza” per le edizioni di Skira, con riferimento, sempre, agli esemplari insegnamenti di Giovanni Urbani. Uno sguardo ampio sulla conservazione e l’ambiente, tenendo conto delle profonde trasformazioni che si sono verificate nell’Italia dagli anni ’50 in poi, con le fratture e gravi ‘dimenticanze’ più recenti: il  disordinato sviluppo industriale e la cementificazione selvaggia. Il dissennato sfruttamento del suolo, la speculazione e corruzione diffusa, non certo ridotta, come si auspicava, con l’avvento delle ‘Regioni’, ma anzi aumentata, capillare e irrefrenabile, ha messo in piedi un sistema costruttivo-distruttivo  ben difficile da sconfiggere, o, per lo  meno, da contenere.  Lo riscontriamo giorno dopo giorno. Casermoni abbandonati occupano terreni un tempo agricoli. Basta una piovuta abbondante, un tremito di terra, e crollano argini e campanili, villette e ferrovie, opere antiche e nuove. Soffitti vetusti gocciolano, crepe si aprono su pareti illustri, affreschi sfarinano. Restauratori improvvisati ridipingono, ingabbiano, puliscono, scoprono, ritagliano, ricoprono.
E Zanardi  ne dà, da par suo, terribili esempi.
 Ma vorrei aggiungere che contrapporvi un passato esemplare, edenico, mi pare esagerato.  Leggo nel ‘patrimonio senza’ tutela,  che l’attuale pessima trasformazione cancellerebbe “la precedente e nei fatti intatta Italia, il Paese rurale e “senza tempo” la cui morte invano piangerà Pier Paolo Pasolini” (p. 106). E l’Autore cita Heidegger a sua volta citato da Urbani, circa la tecnica che è “salvezza” quando consente all’uomo di essere il giardiniere dell’Eden, cioè colui che custodisce l’essere nascosto di ogni essente, ed essenti per eccellenza sono le cose della natura e quelle dell’arte” (p. 61). Eppure sappiamo bene quanto il sano contadino, non certo tenero con le sue ‘bestie’, al sud come al nord d’Italia, è stato svelto a trasformarsi nel padroncino più efferato. E ricordiamo pure quanto guerre e politici di ogni tempo e colore abbiano requisito grandi opere d’arte, per sé, per i propri Musei e collezioni, per venderle o distruggerle, abbiano chiuso chiese e palazzi illustri, abbattuto vecchie mura, onorabili strade, per farne boulevard adatti all’ambizione delle grandi parate, ecc. ecc.
Ma ridurre la nostalgia  del passato non vuol dire accettare le pessime condizioni del presente, quando si voglia giustamente allargare lo sguardo all’ambiente in cui il manufatto artistico è situato, il rischio sismico e idrogeologico, il paesaggio e lo stesso ambiente museale, non sempre idoneo nei suoi recenti ammodernamenti. E allora qui sì occorerebbe analizzare l’impatto del turismo, sempre invocato, sulla conservazione dei beni storico-artistici. Zanardi ci ricorda che è sbagliato paragonare gli  introiti del Louvre a quelli degli Uffizi, facendo presente che l’offerta a Firenze e in Italia in generale, non si limita ai grandi Musei, ma a tante minori e preziose collezioni, sparse ovunque (a volte persino troppo ‘sparse’), insieme a chiese, cappelle, edicole, monasteri, palazzi, residenze, borghi… Rispetto al Museo, mi pare sia stato giusto affidare a privati certi esercizi supplementari, come il ristoro e la vendita libraria, ma non l’organizzazione e ristrutturazione di spazi museali e monumentali, né la trasformazione improvvisata di piazze ed edifici storici. Il privato punta sempre al grande nome, al monumento famoso. Non è interessato all’insieme. E così assitiamo alle code chilometriche per un Raffaello, ‘La Madonna di Foligno’, esposto nelle sale del Comune di Milano, con sponsorizzazione privata, e la pace silenziosa del Raffaello esposto nella Galleria di Brera, accanto a Piero della Francesca e Bramante! Vorrei anche aggiungere quanto sia un calcolo affrettato puntare sul turismo,  un turismo di  qualsiasi tipo, come soluzione di tutti i mali di un Paese, un tempo ‘Bel Paese’, oggi più sbrindellato che bello. Un accenno aVenezia, e mi piacerebbe che Zanardi se ne occupasse, al di là del ponte di Calatrava. C’è una gara sui milioni di turisti in città, ogni anno più numerosi, e il calo degli abitanti veneziani: ancora 60.000? Navi da crociera sempre più nemerose e colossali, dieci, dodici piani, sfilano nei fragili canali della laguna e sbarcano in pochi minuti, negli stretti calli, migliaia di persone, in cerca di un souvenir  a poco prezzo, un pezzo di Murano fatto in Cina, una borsa contraffatta, un giro stanco (dopo una lunga fila) in San Marco o in Palazzo Ducale, per poi sedersi affaticati su qualche gradino o in groppa ad una vecchia statua (i popolari Leoni di fianco alla Basilica) per l’ennesima fotografia o a mordere una fetta di pizza. Musei come Ca’ Pesaro o chiese come la Madonna dell’Orto (il più eccelso  Tintoretto) vuoti. E, per carità di Patria, non mi fermo a descrivere le scolaresche ridanciane e vocianti che sfilano indisturbate, tra custodi annoiati, nei corridoi delle Gallerie dell’Accademia. A suo tempo un Ministro aveva magnificato il turismo come il petrolio italiano, forse pensando alle esalazioni di Marghera. Per fortuna vigilano gli amministratori della città, ben contenti di affidare all’architetto straniero di turno la trasformazione del Fondaco dei Tedeschi, sul Canal Grande di fianco al ponte di Rialto, in grande magazzino con terrazzo bar sul tetto, oppure ricavare guadagni dai gigantgeschi cartelli  pubblicitari che foderano il Palazzo Ducale o le Procuratie del Sansovino. Basta! Queste lamentele rischiano di oscurare i tanti temi affrontati da Zanardi, a iniziare dal parziale fallimento della legge Bottai-Brandi del 1939 per la  “tutela delle cose di interesse Artistico o Storico”, il cui impianto, riferito al manufatto  singolo, da restituire nella sua proprietà estetica, poteva essere accettabile per una prima indagine nell’Italia ancora poco industrializzata, ma del  tutto insufficiente in un Paese sconvolto dalle distruzioni belliche e dalle ricostruzioni del dopo-guerra. Né basterà il  pur benemerito Istituto Centrale del Restauro, di cui diventerà direttore nel 1973 lo stesso Urbani, dieci  anni dopo però dimissionario perché critico del nuovo Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, voluto  da Spadolini, non  in grado di formulare un piano serio di garanzia nel rapporto tra bene culturale e sistema territoriale. Debolezza aumentata con i titolari successivi, mai specialisti del settore, come Bondi (acquisto del finto Michelangelo), Galan, oppure Ornaghi, esperto in Diritto Internazionale, ai quali si uniscono la debolezza nelle professioni attinenti, come  quella dello storico dell’arte, del restauratore e dell’architetto, in parte confluiti nelle schiere dei soprintendenti, responsabili di interventi pericolosi se non dissennati. Alcuni esempi: durante un restauro complessivo e molto costoso della Cappella Scrovegni di Giotto a Padova, per cosiddette ragioni di consolidamento, viene costruito un grosso cordolo di cemento rigido e inamovibile e sostituite le vecchie capriate in legno con pesanti  capriate d’acciaio, che il fuoco di un incendio fonde facilmente, né vengono rispettate le norme di sicurezza che vieterebbero la cementificatione di un’area vicina:  Leggo da Zanardi a p. 52: “Nei 143.000 metri cubi di cemento che l’architetto Boris Podrecca ha piazzato in quell’area ci sono anche due torri alte una 110 (centodieci) metri, l’altra 80 (ottanta). Ai piedi di tutto ciò si sta scavando una buca larga circa 12.000 (dodicimila) metri quadrati e profonda una quarantina (quarantina) di metri dove collocare un migliaio (migliaio) di pilastri in cemento della sezione di circa 1 (uno) metro quadrato che dovranno sorreggere un garage ipogeo a due piani con 2000 (duemila) posti auto”. Con tutti i permessi delle soprintendenze. Rispetto ambientale? E sui restauri inutili la lista è interminabile. Due casi emblematici e simili, i cosiddetti restauri a pioggia di frammenti, “informe sciame di farfalle”, briciole raccolte e ricomposte sia sulla vela di Cimabue, Basilica di Assisi,  caduta durante il terremoto del ’77 e resa peggiore proprio dal  precedente riempimento cementifero nel retrofacciata, che nella cappella degli Ovetari agli Eremitani di Padova, affrescata dal Mantegna e bombardata nel ’44. Risultati incomprensibili, costi astronomici, centinaia di frammenti inservibili, sia sulle pareti che rimasti nelle casse.
E allora? Tra i numerosi  suggerimentidi  di Zanardi ne riporterei due: primo, la necessità di un catalogo generale del patrimonio artistico mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, in modo da poter usare un sistematico quadro di  riferimento sulle  urgenze, le mancanze, le possibilità di serio intervento e di riuso. Secondo, smettere di eseguire puliture e ritocchi inutili, quando non dannosi, su opere stranote,  ma “mettere le opere d’arte” di ogni grado e importanza, “ nella condizione di non essere restaurate” (p. 138). E pazienza se alcune mostreranno i segni del  tempo. Meglio che  vantare una fasulla giovinezza.
Facile dirlo e scriverlo. Ma Zanardi sa anche muoversi nei labirinti di una complicatissima  burocrazia, non estranea alle lusinghe dell’onnipotente speculazione edilizia.
 Auguri!
                                                                              Febbraio 2014 G. Colombo

 



El Lissitzkij, la complessità esteriore


Nel 1918 la rivoluzione vittoriosa nomina Marc Chagall, poco più di trentenne, Commissario per le Belle Arti e direttore della Scuola d’arte nella sua  città natale di Vitebsk, il quale a sua volta invita Eliezer Lissitzkij, lauretao in architettura e già noto come illustratore e appartenente alla ebraica KulturLige. Abitanti di Vitebsk, avevano insieme frequentato La Scuola prerivoluzionaria fondata da Yehuda Pen, un esponente della rinascita ebraica russa, uniti dall’interesse verso l’arte popolare ebraica (già vicino all’opera dell’etnografo An-skij, nel 1916 Lissitzkij si era dedicato alla copiatura dei vecchi dipinti delle sinagoghe  Bielorusse), ma in seguito  divisi nel modo di interpretarla. Indicative sono le illustrazioni che Lissitzkij compone per una filastrocca ebraica relativa alle festività di Pesakh, “Una capretta”, disegnata a Mosca e stampata a Kiev, con un occhio ai terribili pogrom del 1918 in Ucraina. E’ lo stesso mondo di Chagall.

 Una capretta, Kiev 1919 

 Riprendo queste notizie dall’utile catalogo ed. Electa, che accompagna la mostra, “El Lissitzky. L’esperienza della totalità”, a cura di Oliva María Rubio, aperta al MART di Rovereto sino all’8 giugno, con saggi di Valery Dymshits, L. artista ebraico, di Isabel Tejeda Martín, I progetti espositivi tedeschi, di Victor Margolin, Da artista d’avanguardia a designer di Stato. 
Iniziativa importante, perché introduce un complesso aspetto della visibilità  artistica che esula sia dal racconto rappresentativo, realistico o fantastico, che dalla interiorità emotiva, quel colore musicale declinato con tanto acume da Kandinskij. Una visibilità artistica che si esprime nella metodologia operativa, nel  progetto’, gettar fuori, rendere possibile, termine vicino al neologismo ‘Proun’, adoperato Lissitzkij, che ora, dismesso il nome Eliezer di cui conserva le prime due lettere, diventa El Lissitzkij. 
“Noi chiamiamo ‘Proun’, scrive, la costruzione di una nuova forma: il quadro inteso come icona per il borghese è morto. L’artista da riproduttore si è trasformato in costruttore di un nuovo universo di oggetti”.


Proun P 23 n. 6, 1919


Ma vorrei tornare indietro, al momento in cui Lissitzkij, già invitato da Chagall, invita a sua volta alla Scuola di Vitebsk Kazimir Malevič, il maestro del ‘Suprematismo’, e insieme decorano per il 1° maggio del ‘20, utilizzando sistemi  grafici astratti,  il centro della città. Il mondo fantastico  di Chagall è accantonato. La collaborazione di Chagall, Lissitzkij e Malevič  s’interrompe. Tutti e tre si trasferiscono a Mosca. La città è in piena trasformazione. Chagall si  dedica alla pittura murale, esegue affreschi per il Teatro ebraico, ma il frastuono delle fabbriche non l’aiutano. Architetti, pianificatori, pubblicitari guidano i lavori. Entrato in contrasto con i vari ‘costruttivisti’, Tatlin, Rodčenco, Stepanova, Popova ecc., nel ’22 Chagall ritorna a Parigi. Se ne va pure Kandinskij, che sceglie il Bauhaus tedesco (vedi il mio intervento precedente).  Anche El Lissitzkij predilige la Germania, senza dimenticare però la lezione del Costruttivismo (dedica una tavola a Tatlin e riconosce agli amici di Mosca il progresso “nel dimostrare e siegare che la creazione è un diritto di tutti”). I nostri tre artisti, nei loro spostamenti ad occidente, non dimenticano la Russia,  ma ciascuno la declina in modo diverso: il sogno del mondo infantile ebraico per Chagall, le spinte emotive dell’interiorità per Kandinskij, la progettualità per El Lissitzkij. 
Un progetto non è un gesto, ma una espressione linguistica che rappresenta una particolare disposizione di spazi e, quando è operativo, un modo per realizzarli. Rappresenta = l'uso di segni del tipo 'iconico' (C. Morris). 
Questo è quanto vorrei intendere per 'esteriorità' complessa in El Lissitzkij.
L''interiorità' riferita a Kandinskij, è pur sempre linguaggio, anch'esso composto di segni 'iconici', diretto ad un altro scopo, la con-posizione di forme/colori secondo le spinte delle energie emotive.
So di adoperare termini come 'esterno'e 'interno' in modo rozzo, ma spero di  aver suggerito alcuni aspetti di una differenza che individua due personalità molto diverse, entrambi impegnati nell'innovazione e a teorizzare il proprio operato, offrendolo nelle opere e nell'insegnamento.
E ora torno al El Lissittzkij e ai suoi appuntamenti in Germania. Nei centri di Berlino, Dresda, Hannover, Colonia  entra in contatto con l’Avanguardia europea ed elabora forme nuove di esposizione e valorizzazione del prodotto sovietico. Non si tratta di un lavoro puramente strumentale, ma di riconsiderare l’attività dello sguardo in sè. Il vedere non è un esercizio fisso, il  visitatore di  mostre non è un ricettore fermo e passivo così  come lo  spazio non è un contenitore neutro. Si tratta di elaborare un luogo  magnetico di forze nel quale interagiscono tutti gli elementi in gioco. Anche l’editoria partecipa di questo dinamismo. Particolarmente fortunata è la Storia di due quadrati”,  il quadrato rosso, quello della rivoluzione, che manda in frantumi  il quadrato nero, quello della reazione.

”Crac, tutto è disperso”, 1922

Si avvicina al Bauhaus e a De Stijl, conosce Moholy-Nagy, Theo va Doesburg, Mies van der Rohe, Hans Richter, Viking Eggeling, Hans Arp, Mondrian, Man Ray. Esperimenta diverse tecniche fotografiche, esposizioni multiple, sovrapposizioni, stampe a contatto, collages, anche applicate all’editoria. A Berlino crea la “Stanza Proun” (Prounenraum). Costretto ad entrare in un sanatorio a Locarno, conosce Schwitters col quale collabora alla rivista “Merz”. Nel ’25 pubblica a Zurigo insieme ad Arp “Gli ismi nell’arte” (anche il Prounismo) e l’anno dopo progetta con Dorner il museo di Hannover, dedicato all’arte astratta, l’Abstraktes Kabinett, che sarà distrutto dai nazisti. Era un buon esempio di arte degenerata.

Nel 1925 ritorna a Mosca, sperando un maggiore coinvolgimento nell’architettura.

Nuvola 1925, progetto

Ma il grattacelo orizzontale, la “nuvola”, rimane solo un progetto. Continua ad occuparsi delle grandi esposizioni internazionali, che si configurano sempre di più come propaganda sovietica. E’ il tempo dei ‘Fronti popolari’ all’estero e delle ‘Grandi purghe’ all’interno, insieme al secondo Piano Quinquennale a cui seguirà un più duro terzo Piano. 
Ancora un respiro con il cinema  di Dziga Vertov, ma i costruttivisti sono emarginati. El Lissitzkij cerca di rinchiudersi nel  mestiere di ‘grafico’: curerà per diciassette numeri, sino alla morte, avvenuta nel 1940, il mensile di propaganda URSS in costruzione”.


Alle immagini di Lenin sostituirà poco per volta quelle di Stalin. 
Triste finale di un grande artista- e quanti con lui in quel terribile periodo - la cui serietà del lavoro, sempre, in contrasto con un realismo becero-popolare in ascesa, non poteva sottrarlo da una corresponsabilità, per quanto indiretta. 
Né poteva cancellare il grande contributo a livello mondiale che aveva dato al fare artistico: non lo scavo nella interiorità, non la mistica di un assoluto supremo e suprematista, non la purezza di una geometria semplificata, non l’architettura come trionfo della tecnica e ripetizione conveniente – tutte proposte serie che gli erano cresciute intorno -, ma la freschezza di uno strumento sempre diverso, dal piccolo schizzo allo spazio più elaborato: offerta, progetto di comunicazione, di sorpresa, di coinvolgimento, di vivere-dentro, di essere-parte. Varietà, complessità, socialità. 
Con lui il fare, la creatività artistica aveva aperto nuove strade, il  meglio della modernità.

                                                                                                                                                                         febbraio 2014 G. Colombo
                                                                                                                                                                                     

Wassily Kandinsky, la risonanza interiore

Una prospettiva meccanico-materialistica, che aveva accompagnato lo sviluppo industrale del secoloXIX, era entrata in crisi alla fine di  quello stesso secolo. La psicologia e le scienze fisiche ridefiniscono il mondo e i poteri  della mente umana: atomismo, elettricità, magnetismo, ipnotismo spalancano nuovi universi. Mentre a Parigi Charcot cerca di controllare l’isteria, e Marie Curie se ne interessa, Bergson fa una distinzione tra “Matière et Memoire”; a Vienna Klimt fonda la nuova ‘Secessione’ e due medici , Freud e Schnitzler pubblicano, l’uno “L’interpretazione dei sogni”, l’altro, a proprie spese, “Girotondo” , che subito incappa nella censura. A Parigi un gruppo  di pittori vengono definiti Fauves, Belve. Su di un terreno più tranquillo uno storico dell’arte,Wihelm Worringer, scrive un testo  di grande successo, ‘Astrazione e empatia’, “Abstraktion und Einfühlung. Ein Beitrag zur Stilpsychologie”. Einfühlung(empatia) e Stimmung (consonanza, umore) diventano nozioni correnti. I riferimenti si  possono  moltiplicare, i periodi e i luoghi dividere, ma risulta un comune sforzo di rompere la crosta di una superficie consolidata, di stereotipi solidi, materiali, tranquillizzanti, che si pesano e si misurano, e di liberare una energia sotterranea, che nell’uomo ‘interiore’ può trovare uno sbocco sia nella anomalia psichica che nella creatività. La liberazione creativa può essere una risoluzione della malattia, oppure le due condizioni possono unirsi, una malattia creativa (Kandinsky critica Max Nordau di "Degenerazione" 1895), o dividersi o far  parte di stadi successivi: embrione-infanzia-maturità.  Sapienza orientale e sciamanismo, fantasia infantile e primitivismo popolare aiutano. Si tratta di stadi psichici dai comportamenti specifici, che le apparenze ‘materiali’ non sono in grado di spiegare: interiore/esteriore, profondo/superficiale, conscio/inconscio, spirito/materia, anima/corpo, astratto/concreto, contenuto/forma.
Ora posso arrivare a Kandinsky. Nato a Mosca nel 1866, laureato brillantemente in legge, ha deciso di dedicarsi alla pittura. Ha trent’anni, conosce il tedesco e decide che il posto utile è  Monaco,dove incontra la coppia di pittori russi Marianne von Werefkin e Alexej Jawlenskij. Mantiene i contatti con Mosca e Diaghilev. Nel 1910-11 conosce Klee, Macke, Arp, Shönberg. Con Franz Marc fonda il gruppo del “Cavaliere Azzurro” (Der Blaue Reiter), pubblica nel 1912 l’Almanacco e scrive “Lo spirituale nell’arte” (Über das Geistige in der Kunst), un’opera maturata negli ultimi dieci anni. Cita la Teosofia di Rudolf Steiner, la signora Blavatzky, gli Indù e il Lombroso delle sedute spiritiche. Sente l’urgenza di un cambiamento totale, sente di essere parte responsabile di questo  cambiamento. Già nel 1901 scriveva: "Ci sono epoche in cui la natura svela ai pittori, all'improvviso, interi territori incontaminati e ricchi di bellezza". Letteratura, musica,  arte “si allontanano dal contenuto senz’anima della vita contemporanea e si rivolgono a cose e ambienti che lasciano via libera alle aspirazioni e alle ricerche non materiali dell’anima assetata….. E’ l’apparire di una mano che addita una via e offre un aiuto…Chiunque s’immerga nei reconditi tesori interiori della sua arte è un invidiabile collaboratore nella costruzione della piramide spirituale,  che si che si eleverà sino al cielo” (traduz. it. ediz. De Donato 1968).
La musica è un esempio e una guida, perché l’uomo “ha la  musica in se stesso”. E’ il “suono interiore” che il pittore fa rieccheggiare nella sua opera. Un suono sacro che illumina il verbo e i colori. Kandinsky cerca di formularne  una grammatica e una sintassi. La luce ottica deve trasformarsi in illuminazione interiore: di qui la  sua polemica contro l’Impressionismo ottico, ma, nello stesso tempo, il suo entusiasmo per i ‘Covoni’ di Claude Monet. La tastiera luminosa di Scrjabin è citata spesso.

Prove di copertina per 
                                                                                            

                                                l’”Almanacco del Cavaliere  Azzurro”                                         
(Der Blaue Reiter), Monaco  1911



L’occasione  di riparlare di Kandinsky è la  bella mostra apertasi al Palazzo Reale di Milano in collaborazione al Centre Pompidou, ricco della donazione della moglie Nina Kandinsky, visitabile sino al 27 aprile prossimo. Curatrici e  autrici del catalogo 24ORE Cultura,  Angela Lampe e Ada Masoero, strumento eccellente per seguire le varie parti, i diversi volti di una vita complessa e di straordinaria creatività, svolta tra Mosca, Monaco, Weimar-Dessau, Parigi.
Il nome di Kandinsky è tanto noto quanto  trascurato. Pensando all’arte astratta ci vengono in mente forme rigide, chiare geometrie, ben delimitate: eliminare gli aspetti transitori per raggiungere una struttura stabile. Tutto il contrario delle Improvvisazioni e Composizioni che Kandinsky dipinge negli anni’1911-14,  l’epoca del Blaue Reiter. Trasparenze, sovrapposizioni, sfrangiature, spinte, energie, cenni di figure. Il Cavaliere è San Giorgio contro il drago,  cavallo e cavaliere sono immagini di movimento, come il ponte, la barca, i rematori, la vela. Movimento, passaggio, congiunzione; così la figura si trasforma in una curva, una connessione, con-posizione, come in “Quadro con macchia rossa”
La forma rossa di sinistra è il punto di maggiore intensità, che si connette a destra, tramite due segni a ponte,  con un mondo incerto, che sta sprofondando  nel buio. Forze di contrasto e di ascensione spingono verso l’alto. Siamo nel 1914. Scoppia la guerra, la Germania è  contro la Russia, Kandinsky deve tornare in patria. Il giorno prima di partire scrive a Herwarth Walden: “Ci siamo! Non è terribile? È come se fossi stato svegliato bruscamente da un sogno. Nel mio intimo, ho vissuto nella convinzione che fosse assolutamente impossibile che simili cose accadessero. La mia illusione mi è stata strappata” Catal. P. 82).

  "Quadro con macchia rossa", cm. 130 x 130 – olio, 1914                                                                                                                        
Nella Russia squassata prima dalla guerra, poi dalla guerra civile e infine dalla sovietizzazione, Kandinky si trova impegnato nella riorganizzazione rivoluzionaria delle scuole d’arte e della nuova sistemazione museale, accanto  a Aleksandr Rodčenco. Ma il suo orizzonte di un’arte puramente espressiva, la risonanza interiore, non può accordarsi alle urgenti progettualità funzionali del costruttivismo, perciò nel 1921 accetta volentieri l’invito di un insegnamento alla Bauhaus di Walter Gropius, prima a Weimar e poi a Dessau, e infine a Berlino. Il compito didattico, in un ambiente di amici e stimatori, la varietà degli insegnamenti , balletto, teatro, fotografia, tessitura, design, favorisce le sue riflessioni teoriche (pubblica Punkt und Linie zu Fläche) e una maggiore stilizzazione di segni e forme, senza cancellare una vivace rimembranza narrativa, come si ricava da

‘Giallo,rosso,blu’, i tre colori primari ai quali corrispondono i tre secondari, verde, arancione, viola, e le tre forme, il triangolo, il quadrato, il cerchio, con allusioni ad un profilo a sinistra e a una lotta tra la lancia di San Giorgio e il drago a destra.

   "Giallo, rosso, blu", cm. 128 x 201,5 – olio, 1926

E così, con la chiusura nazista del Bauhaus nel 1933, Kandinsky si trasferisce con la moglie Nina a Parigi. La vista del nuovo appartamento con vista sulla Senna, “la sua luce meravigliosa”, lo affascina. Il mondo artistico è guidato da Picasso e dai Surrealisti. Trombe di guerra squassano l’Europa. Kandinsky non cerca alleanze, la politica non l’interessa; piuttosto pensa alle fantasie di Klee, in Svizzera molto malato, e ai lavori di Mirò, che va a trovare nel suo studio. Legge libri sull’evoluzione e sviluppa un allegro  balletto di forme biomorfe, un galleggiamento di nuclei vitali divertenti e divertiti. 
Non il teatro, ma il music-hall, il circo, i giocolieri, i fuochi d’artificio (Christian Deroulet). 
Azzurro cielo. Un sogno dell’infanzia. Giochi di amebe e cavallucci marini. Potrebbe essere l'infanzia dell'umanità? Kandinky difende la  sua interiorità da ogni  pericolo estraneo. Non sente le bombe che scoppiano, le urla dei deportati. Il Cavaliere è stanco, non cerca ponti da attraversare, mondi da trasformare, menti da persuadere. E’ diventato un eremita sereno, il suo occhio interiore cerca le origini, con eleganza, con discrezione. Gli è vicino Nina, la sua affettuosa compagna. E’ il suo modo di concludere, di spegnersi nel terribile inverno del ’44.



"Azzurro cielo" , cm. 100 x 73 – olio, 1940

[gennaio 2014, G. Colombo]                                                                  
                                                                                                                      
                                                                                                                                               
                                                                                                           
DE PER AD AOSTA IL TEATRO DEI SUOI BURATTINI

“Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo totalmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli  equivalenti astratti di tutte le  forme e di tutti gli  elementi dell’universo, poi li combineremo  insieme, secondo i  capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto… 
Complesso plastico 1. Astratto, 2. Dinamico, 3. Trasparentissimo, 4. Coloratissimo e Luminosissimo, 5.  Autonomo, 6. Trasformabile, 7. Drammatico, 8. Volatile, 9. Odoroso, 10.  Rumoreggiante, 11. Scoppiante…”                                                                                                                                            
Seguono i titoli:  La costruzione materiale del complesso plastico.  MEZZI NECESSARI: Fili metallici, di cotone,lana, seta, d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carteveline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni  genere, coloratissimi, tessuti, specchi, làmine metalliche,  stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiatissime. Congegni meccanici, elettrotecnici; musicali e rumoristi; liquidi  chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc…”.  “ La scoperta-invenzione sistematica infinitaIl giocattolo futuristaIl  paesaggio artificialeL’animale metallico.                                                                                                                                                                                                                                                                   Roma-Milano 11 marzo 1915
                             
Il Manifesto “Ricostruzione  futurista dell’universo” è firmato da un ‘maestro’di lungo corso, Balla, 44 anni, e da un giovane entusiasta allievo, Depero,  23 anni, appena arrivato a  Roma dall’austro-ungarica Rovereto, con Rosetta Amadori, instancabile “adorabile  compagna” della sua vita. Per entrambi (lui e Balla) è invocata l’ala protettrice di Marinetti. Il Manifesto segna alcuni punti di novità rispetto alla impostazione boccioniana:  non più la tensione drammatica, emotiva, conflittuale sotto la guida di due forme artistiche collaudate come la pittura e la scultura, ma una trasformazione  totale della  realtà attraverso tutte le tecniche e i materiali disponibili in una infinita, immaginifica scomposizione e ricomposizione. L’anno dopo Depero ripeterà: “con l’aiuto capricciosissimo e svariatissimo-magico di ogni mezzo meccanico-fisico-chimico-elettrico”. Un teatro sui generis, ricco di sorpresa, immaginazione, ‘capricci’, divertimento. E proprio in questa dimensione di gioco e magia scherzosa si sviluppa la partecipazione dell’irruente neofita Depero.Vi rientra quello che ‘i fiorentini’ Soffici e Papini avevano chiamato  con disprezzo ‘Marinettismo’, ma non quella eredità di Boccioni (che muore nel ’16), il quale per lungo tempo verrà indicato come il vero e unico interprete del Futurismo, facendo  scadere come Secondo Futurismo, una lunga stagione di creatività, ovviamente connessa col Fascismo, guardata nel dopoguerra con sospetto e sufficienza, di  cui fu vittima, tra gli altri, lo stesso Depero. Aggiungo che anche il Futurismo nel suo insieme, Boccioni compreso – che pure per anagrafe non poteva rientrare nel Fascismo -, fu considerato in Italia dopo il ’45, da critici e galleristi, con fastidio, una cattiva compagnia di cui quasi vergognarsi, favorendo quei collezionisti stranieri che facilmente si aggiudicarono alcuni capolavori di quel periodo.
Tempo passato. Da anni il meritevole lavoro del MART di Rovereto, la città  di Depero e della sua Casa d’Arte,  guida una attenta riconsiderazione di quel periodo con mostre, cataloghi, archivi, e ora collaborando con la nuova esposizione di Aosta, che proprio dal Manifesto del ’15 prende il titolo: Universo Depero. Catalogo ‘Silvana Editoriale’. Durerà sino all’11 maggio. Una buona occasione per ritornare su di una invenzione allegra, bizzarra, onnicomprensiva che si sviluppa ben prima degli anni ’20 a cui ci si riferisce solitramente.
Ma, come al solito, mi fermerò soltanto su qualche aspetto. Per intanto sugli  anni romani 1916-17 successivi al Manifesto della Ricostruzione. Nella Francia in guerra Serge Djagilev, con i suoi Ballets Russes, non fa affari. Lui e i suoi amici sono stranieri, non hanno obblighi militari. Col suo gruppo, il giovane scenografo, ballerino e collezionista d’arte Léonide Massine (Leonaid Mjasin), gli artisti Larionov e Goncharova, a cui  si aggiungono saltuariamente Picasso, Cocteau e Stravinskij, si sposta prima in Svizzera e poi a Roma. Djagilev Incontra Marinetti, il compositore Casella e alcuni pittori futuristi. A Balla commissiona scene e costumi per Feu d’artifice (3 minuti,  musica di Stawinskij) e a Depero Le Chant du Rossignol (da una novella di Andersen, musica di Strawinskij). Spera di organizzare spettacoli e nel frattempo si avvale di vari aiuti per dipingere il sipario del balletto Parade (testo di Cocteau, musica di Satie, costumi e scena di Picasso). Depero ne costruisce i costumi. Feu d’artifice va in scena al Teatro Costanzi: niente balli, ma solo forme geometriche e luci, battimani e risate. Già di breve durata, finisce nel buio per un corto circuito. Le Chant du Rossignol, nonostante i vari bozzetti e modellini (oggi ricostruiti), non va in scena. Si parla della malignità di Cocteau, o della difficoltà dell’allestimento. Djagilev, abbandonata Roma, lo rappresenterà a Parigi in pace,  nel ’20, con scene di Matisse.
 Ma la via del teatro, per Depero, non è finita. Anzi. Vicino al gruppo di Djagilev si trova anche il poeta, cultore di esotismo e di egittologia, lo svizzero Gilbert Clavel che, affascinato dalle prove e pitture di Depero, lo invita nella sua villa a  Capri, dove il pittore elabora quei Balli plastici che verranno messi in scena il 15 aprile del 1918 al Teatro dei Piccoli di Roma.





 Con l’aiuto della compagnia marionettistica Gorni dell’Acqua, fantastici burattini meccanomorfi danzano al suono delle musiche di Casella, Tyrwhitt, Malipiero, Chemenov (= Béla Bartòk).  Lo spettacolo è un successo di pubblico e di critica. “Un teatro plastico che è alla sua  volta un mondo poliespressivo, ricchissimo di sorprese, di trovate e di magie pittoriche, foniche, plastiche (“Il Mondo 27 aprile 1919). Gilbert Clavel, finanziatore, è “un signore piccolo, gobbo, con naso rettilineo come uno squadretto, con denti d’oro e scarpette femminili, dalle risate vitree e nasali. Un uomo di nervi e di volontà, dotato d’una cultura superiore” (‘F: Depero…’,  Rovereto 1940).




























    F. Depero “I miei balli plastici” olio su tela 1918, cm 180 x 189

Il suo modo (mondo) duro, ben tagliato, dai contorni netti e i colori piatti, burlesco, fantasioso, grottesco, favolistico è ormai riconosciuto, apprezzato. Depero è  invitato a Viareggio, Milano, Roma.
In giugno, finita la guerra, il pittore con la moglie torna in Trentino diventato italiano e nella sua città di Rovereto apre la sua Casa d’Arte Futurista, una piccola fabbrica di arti applicate, oggi si direbbe di ‘design’: cuscini, arazzi, mobili, suppelletili, architettura d’interni, pubblicità. Per le tarsie di stoffe, tutte donne ai tavoli di lavoro, attente a riportare i suoi bozzetti.
Depero avrà  ancora una lunga vita davanti a sé (muore nel 1960), punteggiata da risultati sempre di alta qualità: la pubblicità, “l’arte dell’avvenire”, la lunga collaborazione con Campari, l’auto-pubblicità, la partecipazione alla Exposition Internationale des Artes Décoratifs, Parigi 1925, e prima  a Monza, le Biennali e Quadriennali, il viaggio a New York (’28-30), il libro imbullonato e l’editoria… Ma io vorrei fermarmi al teatro delle marionette che, in qualche modo, accompagna e impronta, coi  suoi caratteri burleschi, tutta la produzione successiva. Provo a indicarne alcuni: filastrocche di personaggi-caricature, ritagliati in materie dure, proprie di una gioiosa meccanica; semplificazione di forme e rigore grafico che ingegnosomente si conmbinano; scambi positivo-negativo di forme nette e colori piatti; geometrie impossibili onnipresenti; divertimento, facilità di far uscire dal cappello del mago personaggi sempre uguali e sempre diversi, un sorriso, una favola senza fine che unisce l’innocenza della fanciullezza alla tradizione dell’intagliatore trentino allo scatto meccanico  dell’avanguardia, un insieme che forse si può ritrovare, ma senza quell’acutezza,  in alcune produzioni russe di quegli anni.
Ed è con ilsorriso della matita Presbitero (Uomo-matita 1926-29) che vi  faccio i miei più sentiti auguri di  buone feste



                                                                                                                   Dicembre 2013 G. Colombo

PIRANDELLO, CHI?

Anticoli, estate 1936. Fausto P. sta dipingendo “Siccità”. “Mentre vi  lavoravo, mio padre ci si veniva a sedere dietro, e così, invisibile, cominciava a parlarmi: “Vedi, tu  stai facendo un errore estetico. Quel verde è troppo verde, ecc…”. Ne nascevano delle lunghe discussioni e, naturalmente,  non  venni a capo di nulla.” All’ingombrante padre, al quale terrà nascosto a lungo il suo matrimonio con la modella Pompilia d’Aprile, era il Pirandello famoso, quel Luigi che morirà nello stesso anno di quel colloquio estivo.
C’è un altro motivo che penalizzava, e penalizza tuttora Fausto Pirandello. Non aver mai fatto parte di gruppi, consorterie, movimenti. Scuola romana? I due Mafai, Scipione, Cagli, arriva anche Guttuso… Sì, li conosceva, ma….;  i fiorentini, Soffici, Maccari…, i milanesi, Carrà, Birolli, Sironi,  il fu ‘Novecento’, Corrente…, i torinesi, Casorati, ‘I sei’… E poi c’era il fascismo. Sì, ma… 
Un esempio: il regime esalta lo sport, nel ‘Foro Mussolini’ muscolosi giovanotti, nei loro quattro metri d’altezza, gonfiano bicipiti marmorei. E lui? Il Pirandello pittore? In uno spazio ristretto, sghembo, tre nudi di schieda gesticolano in modo non subito chiaro.

                                                       Palestra, ca. 1934, cm. 163 x 113                                      

Non visi spavaldi, non glutei  marmorei, non bellezze pseudo greche. Quasi per umorismo vengono indicati come ‘atleti’: uno  è tagliato a metà, l’altro  prende a pugni, senza convinzione, una palla penzolante, il terzo saltella con una improbabile ombra sugli assi di un pavimento in rialzo. Scopriamo che si è  staccato, forse, da due anelli appesi al soffitto. Tutto il contrario di muscoloni, baldanza, sfida, gioventù fascista. Piuttosto stanchezza, spaesamento, enigma.

Faccio un salto al 1940. Pirandello partecipa con quattro grandi  bozzetti (cm. 76,5 x 151) bozzetti
 al concorso per i mosaici del costruendo palazzo dei Ricevimenti e Congressi dell’E42. Si capisce bene che non vengono accettati. In questo, qui riprodotto,  ‘Primordi di Roma’, gruppi scomposti si sparpagliano su di uno sfondo indeterminato, abitato da uccellacci poco auguranti. Una coppia di buoi distratti cercano di tracciare il solco: il famoso confine di fondazione?
Torno indietro, al tempo della Palestra del ’34. Il pittore dipinge uno strano ‘bagno’. Mezzo nascosta  da un rozzo trabiccolo una donna svestita porge un sapone che tiene in mano. In mezzo, seduto, di schiena, l’uomo si  volge faticosamente buttandoci, di traverso, con fastidio, un’occhiata. Il pittore? Lo abbiamo interrotto? Il terzo personaggio, una donna rigida, di fronte,  in piedi, fissa un’ampolla appoggiata ad una sedia, aprendo le due mani come per uno scongiuro. Dislocazione e parentela. Ognuno sta per sé, ma è pure insieme con gli altri, dispone del medesimo spazio. Nella Palestra i personaggi esprimevano, distrattamente, esercizi congruenti. Qui no. Cosa fanno? Dove sono? La impossibilità  di individuare un significato plausibile insinua  una sottile inquietudine nello  spettatore; un passo più in là rispetto alla scena  degli atleti per finta.


                                                           Il bagno, ca. 1934, cm. 100 x 130

Arrivo così al 1939, “Il tempo della guerra”, una mostra dedicata a Fausto Pirandello, Agrigento (sino al 2.02.2014), Fabbriche Chiaramontane, a cura di Fabrizio D’Amico e Paola Bonani, con l’Associazione Fausto Pirandello, catalogo Silvana Editoriale.

 Anche se l’Italia di Mussolini aspetta ancora un anno per partecipare alla guerra nazista, Pirandello apre il suo personale mondo ‘tragico’. L’enigma  si trasforma in disastro. I nudi non  sono più l’abbondanza totemica della carne, come pure li aveva prima concepiti. Sono invece corpi denudatie straniti: si spargono o si accumulano su  spiagge deserte, ormai esangui o stretti nell’ultimo rifugio.
Scrive l’autore:
Mistero dei personaggi del vento
a far visita nel silenzio.
Sono da chi sa quanto nei paraggi
aggregati chi sa a qual cosa;
rischiano di diventare stolidi,
di cresparsi nella calura.
Sulla soglia dubitano: per non ardire, calpicciano
mormorano, si rammemorano,
mi si riscontrano: vorrebbero accoglienza. ( F. Pirandello, Scritti inediti,  p. 231, Giuffrè, Roma 1984)


                                          ‘Composizione’, cm. 50 x 60, 1939

                                   disegno, "Uomini distesi in terra", cm. 70 x 100  ca.1039 

La scena è un anticipo - siamo nel 1939 - di quello che sta per accadere. Sì, penso  a quello che accadrà e che verremo a sapere molto più tardi, penso ai campi di sterminio. E’ un caso straordinario, che non conosco simile in quegli anni. Si possono invocare le sue esperienze parigine del 1927-30, le conoscenze del surrealismo e dell’espressionismo tedesco. Ma questa condanna senza scampo, che risente pure dell’inferno dantesco, è un bruciore unico, tutto giocato su colori di terra, scivolato poi, nei tempi successivi, silenziosamente, nel dimenticatoio di un pubblico distratto. E di una critica distratta. Ancora una contraddizione: suo amico e  collezionista è il fondatore e direttore del sciagurato periodico "La difesa della razza". Intendiamoci. Fausto Pirandello non è un discriminato, un artista guardato con sospetto. Riceve premi, partecipa a Biennali e Quadriennali. Qui sì, mi pare, si dimostra quella doppia personalità che Fabrizio D’Amico ricorda come eredità del suo grande padre. Un artista riconosciuto, solido, magari  senza i gesti clamorosi e le calcolate vicinanze del più giovane amico Guttuso, ma apprezzato nella sua presunta dura sicilianità. Eppure, al contrario, lontano da qualsiasi retorica, da qualsiasi appartenenza e soggezione di regime, anche di quello più illuminato di Bottai. Destinato così ad una permanente estraneità.

              
                                              

                                                        Antonio 1943,  cm 52 x 37

 Il sibilo della  colletiva tragedia, si attenua nel riparo degli affetti domestici, pure accompagnati da una cupa melanconia. Il figlio Antonio guarda senza gioia ad un futuro che non desidera.
La fine della guerra è anche la fine di quel rovello, di quel terrigno furore che aveva occupato, spronato e in qualche modo sconvolto la mente del pittore. I suoi amici scoprono la gioia di nuove bandiere e di nuovi schieramenti. Finalmente! C’è una liberazione anche nelle parole. Nessuno è mai stato fascista. Le bordate di critici e di scrittori autorevoli sono assordanti ma non pericolose; piuttosto il segno  di una gioia collettiva, barricate di carta. Ma anche un mercato nuovo e promettente. Pirandello non vi partecipa, come sempre, non abbraccia programmi, non cerca alleanze, ma le pressioni delle nuove mode lo trovano stanco e indifeso. Cerca un suo modo, con i suoi temi di sempre,  di rispondere a quelle sollecitazioni con con una dose di quel neocubismo che andava per la maggiore: bene i nudi e le  nature morte, ma più tagli e angoli, più astrazione, più pittura pittura, più...
Io credo che il meglio Pirandello lo  aveva già dato. E per quel ‘meglio’ meriterebbe,  nell’attuale disattenzione, un posto ben più rilevante di  quanto l’oggi gli riconosca.


                                                                                                                          novembre 2013


VENEZIA - UNA FAMIGLIA AV-VEDUTA

Venezia, Cà Rezzonico, 7 dicembre 2013 – 28 aprile 2014, ‘Pietro Bellotti’, un quarto ‘vedutista’ di famiglia, a partire da Bernardo Canal, al figlio Givanni Antonio, detto ‘Il Canaletto’ (1697-1768), il più famoso, ai due nipoti, i fratelli Pietro – attualmento riscoperto – e Bernardo, entrambi attivi in Europa, Pietro in Francia, Bernardo in Germania e in Polonia (muore a Varsavia). Sui nomi vige una certa confusione, perché  i due fratelli, utilizzando la notorietà dello zio, si facevano chiamare anche loro ‘Canaletto’, e le  guide oggi continuano questa abitudine, confondendo l’ignaro  turista. Poco male. 

                               Pietro Bellotti, Venezia, 'Il Campo SS. Apostoli'                                                                                                                                                      

Nel ‘700 il ‘vedutismo’ diventa una vera industria, un tema per collezioni private e musei. Così le grandi capitali si facevano ricordare dai visitatori, così i turisti danarosi ordinavano i panorami di Roma, Parigi, Vienna, Varsavia, e naturalmente di Venezia. Per Varsavia, distrutta dai nazisti in fuga, le pitture del Bellotto/Canaletto furono fondamentali per la ricostruzione. Vedremo se i quadri dei vari Canaletto saranno necessari anche per Venezia, in questi anni sottoposta ad una usura violenta da parte di una insensata invasione, sbandierata come ricchezza turistica, grandi navi in testa. C’è rischio di trasformarci anche noi stranieri a casa nostra: teniamoci  almeno 
***

Renoir, il mito della bellezza

A Torino, alla GAM, Galleria civica d’Arte Moderna, 23 ottobre 2013-23 febbraio 2014, Renoir catalogo Skira, pp. 175, euro 34, con una particolare attenzione al suo viaggio in Italia. Sessanta opere dai Musées d’Orsay et de L’Orangerie, quasi a seguire, dopo un anno, quella di Degas. Se si aggiungono le Gemme dell’Impressionismo all’Ara Pacis di Roma e il Monet ou coeur de la vie al castello Visconteo di Pavia, si può riscontrare la fortuna che continua a mantenere il tema dell’Impressionismo francese. Va tenuta in conto la facilità con la quale  si spostano le opere in relazione alla chiusura temporanea dei Musei che le contengono. Alcuni anni fa questi viaggi erano puntualmente  deprecati, per i rischi conseguenti: urti, distacchi di colore, cambiamenti delle temperature ecc. Ora forse queste eventualità sono ridotte  con l’aumento delle tecniche protettive. Vantaggi e limiti. I vantaggi, per noi spettatori, sono evidenti. Gli svantaggi: la scelta da un’unica fonte, anche se prestigiosa. E’ più facile che manchino alcuni pezzi importanti (per Renoir per es. La première sortie o Le mulin de la Galette) e che abbondino alcune ripetizioni.
Qualche parola ancora sulla intramontabile fortuna dell’Impressionsimo, fenomeno  franco-parigino, la  cui estensione altrove (“Impressionismo italiano” e “Impressionismo europeo”) non mi pare abbia avuto particolare fortuna. Fortuna invece che accompagna sempre ogni mostra che rientra in questo neologismo, nato, com’è noto, con senso derisorio, dal quadro di Monet “Impression. Soleil levant”, esposto in una mostra di  giovani artisti indipendenti presso i locali dell’amico  fotografo Nadar nel 1874: quella che viene ricordata come la prima mostra degli ’Impressionisti’. L’ultima porta la data del 1886. Questa, di Renoir a Torino, rientra negli avvenimenti di successo, nei  canoni trionfali del ‘movimento’, sul quale esiste un’ampia bibliografia. Perciò mi limiterò soltanto ad alcune osservazioni marginali.
E’ stato veramente un movimento unitario? E poi, nella gara delle novità culturali, non è accaduto altro paragonabile in Europa, che abbia contribuito a cambiamenti importanti?
Si capisce, quando si parla di gruppi e di movimenti che durano nel tempo, le diversità sono di prammatica. Persino la durata è oggetto di controversie. Ma, a Parigi, le accese discussioni erano  incominciate circa dieci anni prima di quel ‘74, quando Manet, che non farà mai parte del gruppo, aveva esposto nel ’63 “Le déjeuner sur l’herbe” e Zola l’aveva vivacemente difeso.  Intorno a lui si erano ritrovati gli amici Monet, Renoir, Bazille e Sisley. La mostra di Nadar giunge quando le scosse della guerra ’70-’71 si erano quietate e la compagnia dei pittori, tutti rifiutati all’ufficiale Salon, tutti pressappoco trentenni, non è particolarmente omogenea. Bazille è morto, Degas e Cezanne rappresentano vicende molto diverse. Il gruppo più solido, per il momento, è il duo Renoir-Monet. L’etichetta ‘Impressionisti’, nonostante l’avversione degli ‘Accademici’, si diffonde rapidamente, serve ad attirare l’attenzione dei galleristi e dei collezionisti; si ripeterà per ben otto volte, anche se ciascun artista andrà per la propria strada. All’ultima edizione dell’86 non parteciperà né Renoir, né Monet, né Sisley. Cezanne era da tempo ritornato in Provenza, offeso dall’Oeuvre di Zola, 1876, un tradimento del vecchio amico. Nella sud, tra mare e boschi, si ritroverà amichevolmente con Renoir. La “Grande Jatte” del giovane Seurat, esposta all’ultimo appuntamento del ’86, era ormai  su di un’altra strada. E ancora di più lo erano le vicende di Gaugin e Van Gogh, che pure sovente saranno presentati come stars nel gruppo degli ‘impressionisti’.
Alla seconda domanda, cosa d’altro succedeva in Europa, è facile riferirsi a centri come quelli di Vienna, Monaco, Berlino,  a quei “metafisici paesi di tedescheria”, come scriveva Soffici, per riscontrare linee di ricerca altrettando innovatrici di quelli franco-parigini. Basti pensare ai nomi di Munch, Klimt,  Kandinskij. Sentieri che si moltiplicano in quel  passaggio tra Otto e Novecento che si dimostra nodo cruciale per qualsiasi ‘modernità’.
Ma le etichette sono etichette: impressionismo, cubismo, espressionismo, Jugenstil. Liberty… Organizzano periodi, suggeriscono parenetele, aiutano  la memoria e la pubblicità. Occorre soltanto non mitizzare un’etichetta, non farne un tocco magico, non appiattire in una parola delle significative diversità.

                                            P. A. Renoir, ‘La balançoire’, 92 x 73, 1876


Con queste cautele, il gruppo di giovani artisti che si riuniscono intorno alle mostre dell’’Impressionismo’ portano indubbiamente aria nuova. Spesso si cita Baudelaire (che però muore nel ’67) e alla sua lode per il “pittore della vita moderna”. Ma questi giovani  ( Manet sta per conto suo) sono tutti dei modesti ‘provinciali’ estranei alle operazioni immobiliari e bancarie della grande borghesia, estranei a ogni macchinismo e serialità. Nella città guardano al ‘teatro’, ai balli popolari, ai caffè  rionali, oppure alla mobilità delle nuvole,  dei vapori, dei fiumi, delle acque. Molti di loro, appena possono, vanno in campagna, amano le  gite in barca, studiano l’aria e il vento, coltivano fiori e piante con l’occhio ai giapponesi. Certo, uscire dal chiuso  degli studi vuol dire abbandonare l’eccesso dell’artificio, l’idolatria del già fatto, i modelli dell’Accademia. Vuol dire quello sguardo nuovo in cui gli storici hanno individuato la  principale loro novità.

                             P. A. Renoir, Chemin montant dans les hautes herbes, 60 x 74, 1876-77

Due parole ora sul longevo Pierre-Auguste Renoir (1841-1919). Sia per educazione che per indole il pittore non ama gli  intellettuali, i discorsi complicati. Questo non significa che non si arrovelli sul ‘modo’del dipingere, sia guardando e riguardando gli esempi del Museo sia, in pratica, provando  e riprovando modalità  diverse di scrittura colorata. “Il trattato della pittura” del quatroccentesco Cennino Cennini è la sua lettura preferita. Si è parlato spesso di un rapporto non  facile tra razionalità e istinto. Certo una volontà di ferro: vecchio, inchiodato alla sedia a rotelle, sino agli ultimi giorni muove a fatica sulla tela il pennello fasciato alla mano artritica. Si fa aiutare da modelle e familiari, pur di tenere in vita il sogno di un Eden con ninfe (e)stese su erbe e acque gorgoglianti. E’ l’ultima tappa di un desiderio formulato fin dagli anni giovanili: cantare il piacere dell’essere che, come una soffice pelle femminile, una morbidezza affettuosa, si allarga su tutte le cose, arricchendole di una diffusa sessualità.
…Si clair,                                                                                                                                         Leur incarnat léger, qu’il voltige dans l’air                                                                               
 Assoupi de sommeils touffus… (Mallarmé)

Eliminare gli spigoli, le rigidità, le contrapposizioni. Quasi un respiro, un profumo che la tecnica visiva deve tradurre, riportare, restituire. Far brillare la luce, ridurre il colore mescolato. Il programma di molti amici ‘impressionisti’. Una modulazione di tocchi, di tratti netti, puliti che si ripetono, si rincorrono, su tutta la superficie visiva, pur con frequenze diverse. Si veda
 l’eccezionale rtitratto di Monet, 85 x 60,5 - par., 1875


Il verde sulla mano, nei capelli,  il rosa nel giaccone, nell’ambiente. Oppure macchie, chiazze,  espansioni e contrazioni che fanno palpitare il fogliame, i vestiti, i corpi (‘Le mulin de la Galette’ e, con la stessa modella, ‘La balançoire’, in mostra) . 
Non sempre. Quando il piacere diventa far piacere, piacevolezza, accondiscendenza, gusto salottiero, smanceria, la tecnica s’inaridisce, s’imbamboleggia, diventa aigre. Sono gli anni ’80, che preludono ai grossi ‘nudi’opulenti, alle ‘Baigneuses’, una ‘Natura’ al megafono, ingrandita, enunciata, ‘dichiarata’ su tracce acquisite, ma non ri-inventata: le Ninfone, che il ricordo di Rubens non riesce a riscattare.

Baigneuses, 110 x 160, 1923


Insomma una mostra complessa, in cui lo spettatore è chiamato ad analisi sottili, ad entusiasmi e dubbi: esempi eccelsi e accondiscendenze discutibili, abilità tecnica strabiliante e icone stanche. Il mito della bellezza e del sorriso non deve offuscare le crepe, i dubbi, gli sforzi. Proprio nei punti di frizione sbocciano i risultati più interessanti. Liberare l’artista dai cliché che rischiano di banalizzarlo. E’ giusto? Ogni spettatore avrà modo di confrontarsi di fronte agli originali ora esposti a Torino

                                                                                                                         G.C. novembre 2013


MOLTIPLICARE  IL DOPPIO – QUATTRO ESEMPI

A costo di annoiare, ritorno sul ri-tratto, ripensando anche a un riferimento che avevo un po’ affrettatamente  dato per scontato: “L’Annunciata” di Antonello da Messina, il soggetto principale  di una mostra su Antonello che si tiene al  MART  di Rovereto (sino al 12 gennaio 2014), catalogo Electa,  a cura di  Ferdinando Bologna e Federico De Melis, accompagnata da una serie di conferenze tuttora in corso. Mostra che si svolge in parallelo a “L’altro  ritratto”, di cui pure avevo dato conto in questa stessa rubrica.
Riprendo dall’osservazione che il tratto del ri-trattato, è sempre almeno un doppio, la figura dipinta e il  modello , cioè l’altro, l’assente.  Ma lo sguardo  che lo ritrae rimbalza dalla figura ritratta su di me, autore, che lo ritrae. Siamo  quindi in tre: figura, modello,  autore. Quel  viso è  come uno specchio nel quale io vedo un me/altro, o, per meglio dire, un altro che rimbalza su di me,  che per primo ho lanciato  quello sguardo. Perciò avevo convenuto (per es. con Jean-Luc Nancy) che il  ritratto è sempre anche un autoritratto. Tanto è vero  che quel modo di guardare e di figurare, ripetuto su molti soggetti, costituisce un segno di riconoscimento, lo stile dell’autore. Sovente il ritrattato risponde al ritrattante (i soliti ri-) col suo sguardo, un ammiccamento, un incrocio di  sguardi, quasi a dire: siamo parenti. E’  il caso  dei ritratti di Antonello: ritratto virile, ca. 1474-75


Gli occhi guardano di lato, quasi a nascondere la risposta dello sguardo. La bocca accenna a un sorriso ironico. Il viso è tagliato netto, il  bordo della camicia bianca in basso, il bordo del berretto nero in alto, il  nero del fondo. La risposta dello sguardo ci introduce, noi spettatori,  nella parte dell’autore. E’ anche un nostro specchio. Lo sguardo dell’autore si moltiplica nei vedenti presenti e futuri. Guardano un ‘altro’  sfuggente, assente, e sentono la propria vista alla origine di quell’interrogativo: chi è che guarda?
E allora arrivo all’autoritratto  vero  e proprio: io che guardo è lo stesso che guarda me, è una andata e ritorno. E’ l’immagine dello specchio? Non del tutto. L’immagine dello specchio si muove con me, si azzera al mio allontanamento. Il gesto  infantile la cerca dietro lo specchio. L’autoritratto è una figura stabile, è la mia percezione-immaginazione di me fatta oggetto. E questo farsi oggetto non è la rifacitura di me soggetto, del mio io, comunque lo  voglia considerare, ma una trasposizione, un doppio che reclama la sua autonomia. Ecco allora l’autoritratto di De Chirico, che non è  solo  doppio, ma triplo. Uno  dei cento auttoritratti, espressione del suo narcisismo:
 
Autoritratto 1924                                                                
Il viso è, si può dire, a memoria ( spesso si è  servito di fotografie o di precedenti ritratti); di spalle la figura di Ermes, l’annunciatore oniropompo (conduttore di sogni) che regge la lira (della quale aveva fatto dono ad Apollo), e dietro la lira le foglie di alloro che uniscono i due nel segno  del trionfo. E poi le mani, nel gesto dell’Annunciata. Non solo lo sviluppo dello specchio,  ma  una dichiarazione di intenti. Si tratta del se stesso profondo che intende svelarsi, oppure quello stesso sé che cerca di utilizzare altri e più depistanti figure e maschere? Forse non è un ‘oppure’, una opposizione, ma piuttosto uno sviluppo del narcisismo, una sua articolazione ben controllata, utilizzata con sagacia, che certo lascia intravedere, ma non può risolvere quell’invisibile sprofondamento che gorgoglia in ciascuno di  noi, e in lui con più forza che in altri.




E’ il contrario di questo ritratto di Giulio Paolini, “Giovane che guarda Lorenzo Lotto”.
Giovane che guarda Lorenzo Lotto”, 1967

Qui il oggetto non prende nulla su di sé, ma rimanda freddamente lo  sguardo allo spettatore/autore. Rifiuta ogni introspezione, ogni segreto, ogni compiacimento su di un io straboccante, su di ogni maschera compiaciuta. Non io, ma tu sei il soggetto. I miei occhi ti seguono,  sono il tuo specchio, la risposta al tuo sguardo. Io sono  una figura che parla di un ri-guardo verso ogni spettatore. Interpello tutti i vedenti, presenti e futuri. Loro sono i soggetti.
E ora passo al contrario, vengo a questa giustamente famosa “Annunciata” di Antonello, il ritratto della Vergine che ascolta l’annuncio. Eppure non pare attenta all’ascolto. Pur volgendo le pupille di lato, come gli altri ritratti virili, non guarda nessuno, con un gesto ambiguo nella sua semplicità. Non si rivolge allo spettatore o interlocutore per proclamare la propria eccezionalità, come in De Chirico. Non si cura dello spazio esterno, né dell’angelo annunziatore, né di ‘Chi’ ha inviato il messaggio. Non c’è guardante verso cui dirigersi, né autore a cui rispondere. Con la mano saluta, invita,  oppure, viceversa, pur con cautela, allontana? Con l’altra mano non indica se stessa, come eventuale scopo di una voce ‘altra’ in procinto di parola, ma chiude il manto con cui si copre quasi interamente. Chiude insomma, non apre. Il banco sul quale poggia il  leggìo e il libro aperto divide, separa, crea uno spazio privato, nel quale si ferma una pausa, una interruzione piuttosto che uno scambio di sguardi: come dire, stavo leggendo, che vuoi? La mancanza di uno sguardo sull’esterno crea una severa intimità con se stessa. Il proprio sguardo difende il proprio mistero.
Annunciata ca. 1475-76
sguardo sull’esterno crea una severa intimità con se stessa. Il proprio sguardo difende il proprio mistero.

L’ALTRO RITRATTO

"L'altro si ritira nell'abisso del suo  ritratto - ed è in me che risuona l'eco di questo ritiro - l'Annunciata di Antonello da Messina guardava il mistero divino, il ritratto di oggi guarda verso il suo misterioso ritiro"

Al MART di Trento e Rovereto si è aperta una mostra, “L’altro ritratto” (5 0ttobre 2013 – 12 gennaio 2014, catalogo Electa), che interloquisce, per puro caso, con “Il Volto del ‘900”. Mi pare una buona ragione per riprenderne il discorso, utilizzando il bel saggio di Jean-Luc Nancy, che è anche il curatore della esposizione. Un ritratto altro della contemporaneità, ma pure un’alterità presente nel ritratto tradizionale, con il suo gesto di ri-trarre quel segno distintivo della persona che è il volto (anche quello dell'Annunciata di Antonello da Messina, in una contemporanea esposizione al MART di Rovereto).
Che il ri-tratto sia doppio, lo sappiamo: a) un trarre fuori la figura dal modello, b) un trarre dentro, ritirarsi, sparire dietro la figura (fingo, fictum). L’immagine figurata sostituisce il viso del modello, ne stabilisce la sua assenza (che rimane pure l’essenza della figura). La doppiezza del ri si ripete nella ra (ri) presentazione e nella ri-produzione, tutti modi di indicare un ritratto.
Giacometti, buste de Diego, 1955 ”
un giorno il ritratto si ritira,
si guarda, si diffrange”
L’assenza del modello è un segno di morte? In un certo senso sì: è l’imago, la maschera mortuaria, sempre uguale, è pegno dell’eternità, è la fotografia che si pone sulle tombe. In un altro senso no, non è segno di morte, ma il suo contrario: ogni caratterizzazione del ritratto, ogni singolo ritratto rimanda ad una alterità sempre sfuggente, quel personale, quella profondità insondabile che accompagna tutti i vari, diversi ritratti che possono moltiplicarsi intorno allo stesso viso, al di quel viso. La mimesis, la somiglianza dà visibilità a quel soggetto, quel se stesso che rimane invisibile. Se l’immagine coincidesse con il suo proprio , con il proprio “spirito”, sarebbe completa e immobile, come l’icona bizantina e il velo della Veronica (‘la Vera Icona’) sul quale si stampa il viso divino di Gesù. Una immagine religiosa troppo piena, la maschera-volto, e una immagine ricordo troppo vuota, la foto-maschera mortuaria, la maschera senza volto. In ogni caso la fine della forma dell’uomo come soggetto, come svelamento infinito. E’ proprio con la sua doppiezza che nasce il ritratto moderno: rappresentare il viso di un uomo determinato e rivelare la sua non figurabilità, il suo nascondimento, un sempre disposto a sfuggire e a nutrire altre ri-presentazioni. Vedi i molti ritratti di Giacometti del fratello Diego. 
Jackson Pollok, Portrait and a Dream, 1953
In quella invisibilità essenziale s’incontra l’energia nascosta di chi guarda, l’artista, e l’energia nascosta di chi è guardato. Perciò un ritratto è sempre un po’ un autoritratto. Eppure, poco per volta, quella riserva nascosta va in esaurimento. E’ il processo che, secondo Nancy, segna la fine del ritratto ‘moderno’ e nasce l’altro ritratto, quello della contemporaneità. Sarebbe la fine dell’invisibile mistero del , la fine dell’aureola, la scomparsa della forma dell’uomo in quanto ‘soggetto’ e la vittoria dell’involucro, della superficie: la sensibilità che nel ‘moderno’ rimandava ad una invisibile interiorità, diventa piena visibilità, sensazione costruttiva, “forma auto iconica”, prevalenza del gesto pittorico in sé, “autoritratto della pittura”, scrive Nancy, che cita Cezanne, la sua spinta in una superficie sfaccettata, mobile, onnipervasiva (e qui mi permetto di dissentire, e ne dissentirà, proseguendo il discorso, lo stesso Nancy). I due esempi di Giacometti e di Pollock sono sulla strada di questo cambiamento. 
Douglas Gordon, Monster, 1997

Saltiamo così in un altro tipo di ritratto, quello della nostra vita odierna, che si muoverebbe, sempre secondo Nancy, dalla ‘de-figurazione’ di Picasso alla ‘sur-figurazione’ dell’iperrealismo, della pubblicità e del film. L’altro appare in superfice, si fa conoscere, sprovvisto del suo essere essenziale. Quel racchiuso nella profondità del doppio sarebbe scomparso.
Laurie Anderson, Self-portrait
into the edge of a mirror, 1975
Ma il racconto non finisce qui. Anche in queste forme impoverite “vi è il bagliore di una presenza sorpresa nell’assenza”, un’impressione fugace quanto tenace. Non la certezza di , ma l’apparizione della sparizione, l’eclissi. L’altro ritratto procede da una identità evocata “nel suo ritiro”, identificazione desiderata, sfuggente, ma non eliminata . L’altro ritirato. Questo sottrarsi della essenza non è altro che la esistenza, ex-istenza, essere-fuori-di-sé, un se stesso in ritirata, quel residuo mobile del soggetto, prima sicuro nella sua invisibilità, ora insicuro nella sua fuga.
Una specie di lungo tramonto della identità. C’è rimpianto? E’solo una perdita? E’ la vittoria della superficie sulla profondità? Può un’identità essere mobile? Più che appannamento, un assottigliamento: forse non una fermata, ma un insieme di passaggi, un percorso. E di questo percorso, ecco alcuni esempi in mostra.

Thomas Schütte, Innocenti, 1994




IL VOLTO NEL '900

Il volto del ‘900 (da Matisse a Bacon, capolavori dal  Centre Pompidou) è il  titolo di una mostra al Plazzo Reale di Milano ( 25 sett. 2023 – 9 febb. 2014) ed è pure il titolo del catalogo Skira (pag. 176, euro 38).

Amedeo Modigliani, Ritratto di Dédie (1918)
‘Volto’, parola nobile, indica un’azione (part. passato di voltare), indirizzato, ri-volto. Io mi (ri)volto.     
‘Viso’, con significato simile, indica una passività, visto, cosa veduta. Io sono visto.


Trattandosi di pitture il volto-viso diventa un ‘Ri-tratto’. Anche qui part. passato di ri-trarre. Il ‘ri’ significa sia il raddoppio (di nuovo)  sia il contrario (ritirarsi). ‘Trarre’ di nuovo, trasferire, lo stesso in altra veste. 
E’ così che trovo il doppio del ritratto dipinto nel catalogo stampato (che ha ormai acquistato un significato ben più ampio dell’originario elenco). Se il ritratto dipinto è il doppio del volto in carne ed ossa, il catalogo stampato è il ritratto della mostra: la mostra in altra forma. E’ un oggetto facilmente maneggiabile, portatile, perciò diverso in misura e nei materiali, e aggiunge molte pagine di scrittura. Per es. il piccolo ritratto di Michel Leiris di Francis Bacon, 34x29 cm  occupa uno spazio appena minore del grande ritratto (viso e busto) di F. Iturrino di André Derain 92x65 cm. Il senso della materia e delle dimensioni originali sono evidentemente alterati in favore di una reiterata e plurima utilizzabilità, espressa  anche nell’aggiunta degli apparati scritti: “schede delle opere” , “biografie degli artisti”, e infine due eccellenti saggi, “La profondità del volto” di Jean-Michel Bouhours e “Il Novecento e le ragioni del ritratto” di Flaminio Gualdoni. Senza togliere nulla alla visione diretta delle opere, sovente le veloci recensioni sui quotidiani (ma pure la memoria successiva) si affidano al ritratto della mostra, al catalogo. Ne consegue anche una sempre più attenta cura della pubblicazione nella quantità informativa e nella precisione delle riproduzioni a colori, impensabile in passato.

Pablo Picasso, Donna con cappello (1935)
Se ora mi sposto al  ritratto-immagine, tipico caso di doppio, il primo  esempio è quello di   Narciso, lo specchio, raccontano in vari modi dagli scrittori dell’antichità greca e romana (v. J. Bouhours): Narciso, giovane di  particolare bellezza, amato dalle donne, non riamate, riflettendosi su di uno specchio d’acqua, s’innamora della propria immagine e muore tentando di riunirsi ad  essa. Sul luogo cresce  un fiore bianco, il narciso, il fiore della pittura (L. B. Alberti).Il narcisismo, secondo la psicoanalisi, è l’impossibilità di uscire dal proprio io, nel tentativo di riportarsi al seno  materno: rivalità coi fratelli e confronto col padre. Nel seguito degli studi psicoanalitici, con la individuazione dello “stadio dello specchio” viene riconosciuta la positività dello sviluppo infantile che nell’immagine specchiata costruisce la sua unità e persistenza corporale: ma essere io non esclude essere con. E’ ciò che si verificherà poi nell’artista, in particolare con l’autoritratto, dove il narcisismo si esercita in una esternazione, un’opera che è insieme un chiarimento per sé ed un esempio affidato alla visione e al giudizio degli altri: io e con. Inoltre, contrariamente allo specchio, la pittura del volto continuerà ad esistere anche quando il soggetto originario si sarà allontanato o addirittura morto: una patente d’ immortalità.


Henri Matisse, Odalisca in pantaloni rossi (1921)
Sull’origine tecnica del ritratto Bouhours introduce un altro racconto, quello di Plinio il Vecchio: una fanciulla di Corinto, volendo conservare il volto dell’amato che si allontanava per un lungo viaggio, ne proietta l’ombra sulla parete e ne disegna il contorno, il tratto. Sarà il padre vasaio a darne, in creta, il volume.  Ombra-luce (fos)- fotografia. E’ una strada piena di sorprese. Quell’ombra che ci segue minacciosa, anche senza il nostro consenso, viene fermata, resa innocua e studiata nella Silhouette,  sino a farne una popolare disciplina, la Fisiognomica, lo studio del volto, sino alla ‘fotografia segnaletica’, cara a Lombroso e alla polizia.


René Magritte, Lo stupro (1945)
Il volto del vasaio, liberamente ricostituito, trova una puntuale riedizione della vita e della sua immortalità nella maschera mortuaria. Morte-immortalità, vedi contraddizione dei vocaboli. Una traccia a contatto, come l’impronta nella neve. E da questa maschera si passa alle statue di cera sino a quelle di Madame Tussaud. 
Meglio ancora, alla statua femminile d’invenzione, trasformata dall’amore del suo autore, Pigmalione, con l’aiuto di Venere, in  viva e palpitante fanciulla (v. F. Gualdoni). Qui il ri del tratto si muove al contrario,  dalla pietra al corpo vivo. Siamo ovviamente nel mondo della immaginazione, dove si muove pure il più recente e popolare ‘Ritratto di Dorian Grey’. Tralascio il capitolo  del cinema, col quale inizia un altro mo(n)do di rappresentare.


Anche se il ‘900 trasforma profondamente il modo di rendere il viso/volto, sia auto che altro, il rapporto con lo schema di fondo, Il pittore e la modella, per adoperare un titolo di Picasso, rimane. E rimane pure il piacere di vederne tante diverse declinazioni in mostra a Palazzo Reale e nella mostra portatile del catalogo Skira.





ANCORA FORTUNATO SCARPA

Tre sedie di Scarpa
In riferimento ad alcune domande che mi sono state rivolte sulla collocazione delle sedie-sculture di Fortunato Scarpa, arte? artigianato? passatempo? cura? avevo cercato di introdurle in un nuovo e diverso campo di operazione artistica, non solo sua, al di fuori di ogni consolidata tradizione e maniera di ‘fare arte’. In relazione a quegli  interrogativi che pur nascevano da questi strani oggetti, mi  viene incontro una pagina dell’Espresso  del 26 sett. scorso nella rubrica “Arte Passioni”.  Al titolo ‘Ci voleva il caos’ il critico Germano Celant  ritorna sulla  Biennale veneziana, che avrebbe mancato di separare “la logica delle forme atipiche” , magari connesse a disturbi psicologici, (v. Jung e Breton), dalle “immagini elaborate in rapporto alla conoscenza della storia dell’arte”. Si tratterebbe – se ho capito  bene - di una differenza espressiva e di contesto, estranea ai valori di mercato. Da una parte l’Arte seria, professionale, dall’altra “creatività autodidatta e oscura”. Insomma una confusione, un caos appunto.
Nella stessa pagina del settimanale si parla di una mostra tenutasi  a Merano nel novembre scorso  “sul rapporto tra  arte e oggetti  a partire da chi l’oggetto lo rese santo,Dchamp”, l’autore, a New York nel 1917,  di un gesto clamoroso: l’esposizione (rifiutata) di un orinatoio di ceramica capovolto, col  titolo “Fontaine”. Il primo di una serie di readymades firmati ed esposti, da quel momento in poi,nelle Gallerie d’arte di tutto il mondo.
Sempre nella stessa rubrica “Arte Passioni”, Massimiliano Fuksas ricorda l’artista americano Walter De Maria,  morto il 25 luglio scorso, con alcune sue opere o ‘installazioni’ che rientrano di quella che si è chiamata Land Art. Per esempio 400 pilastri di acciaio piantati nel deserto nel Nuovo Messico, “The Lighthing Field” “per attirare i fulmini, riprenderli e fotografarli”. Anno 1977. Oppure “The Vertical Earth Kilometer”, “una barra d’acciaio di 5 cm di diametro e 
Non penso qui di sviluppare  temi complessi, propri di alcune esperienze, quelle citate, che hanno segnato le diverse imprese artistiche del ‘900. Misono servite soltanto per sottolineare le  grandi differenze che hanno caratterizzato quelle imprese, la moltiplicazioni delle strade, alcune più fortunate altre meno, ma, nel loro insieme, capaci  di esprimere una ricca pluralità che nessuna  “conoscenza della storia dell’arte” può ridurre a traccia unica e privilegiata, con il monopolio dell’A maiuscola di Arte. Non certo il glamour o il mercato e il collezionismo che vi è pure connesso. Non perché il mercato rappresenti  ‘il maligno’ mentre  l’arte bella voli beata tra le nuvole, ma perché le capacità  d’invenzione, la sorpresa di un incontro, di una imprevedibile novità vanno colte  dovunque, nel laboratorio dello sconosciuto Scarpa come nella brillante Factory di Warhol, nella passione di Artaud come nell’algida intelligenza di Duchamp: una conquista per tutti, un respiro di libertà e di futuro di cui tutti sentiamo il bisogno.mille metri di lunghezza, infilata quasi del tutto  nella terra”.




FORTUNATO, COLPI D'ASCIA GENTILI

Vorrei cominciare con un cenno alla 55esima Biennale veneziana, tuttora in corso, curata da Massimiliano Gioni. Il suo titolo, “Palazzo Enciclopedico” è ripreso da un modello costruito negli anni ’50 dall’artista autodidatta Marino Auriti, “un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità”.

Il Padiglione centrale inizia con le pagine de “Il Libro Rosso” che Carl Gustav Jung elaborò a partire dal 1915 ca., un insieme di visioni, incubi e fantasie personali, che lo psichiatra cercò di fissare e commentare per più di 16 anni. Una introduzione che giustifica le varie presenze, solitamente estranee alle rassegne e compendi d’arte, come le figure grottesche e apocalittiche del prussiano Friedrich Schöder-Sonnenstern, il simbolismo medianico di Augustin Lesage, i disegni degli Shakers americani. Fogli, tele, ricami, sculture di prigionieri, ricoverati in ospedali psichiatrici, visionari, anomali di varia natura, che già avevano interessato Jean Dubuffet , a cui si deve la definizione di “Art Brut”. E già, molto prima, avevano interessato gli amici di Rousseau il Doganiere e gli appassionati di maschere africane. Ora, non si tratta soltanto di espandere la figura dell’artista nei territori dell’estraneo, dell’irregolare, in una società apparentemente onnivora come la nostra, ma di accentuare la fine dei modelli, la fragilità delle guide ufficiali, dei riferimenti costituiti. Cosa che mi sembra sempre opportuna, considerando la facilità con la quale si costruiscono (e si dismettono) monopoli, figure, opere, sorrette dalle aste e dalle disponibilità dei collezionisti. Questa comparsa di elementi nuovi, assenti dalle pagine dei rotocalchi o delle riviste specializzate, comporta però anche una fatica maggiore da parte dello spettatore: una informazione preventiva, un breve inquadramento dell’autore, del personaggio, dei suoi strumenti, dei suoi mezzi, che ci metta nelle condizioni di entrare nel suo mondo. Così i pazienti visitatori della Biennale incollano il viso sulle piccole schede a muro che accompagnano le opere di autori sconosciuti ai più. Molti non guardano neppure e ripetono il gesto del turista: col braccio allungato fotografano le scritte.
Le leggeranno poi. 
Ecco, questa breve introduzione forse ci aiuta ad incontrare i lavori di Fortunato Scarpa. Occorre spostarci in un luogo appartato della periferia veneziana, là dove s’impone, all’uscita di una strettoia, la facciata chiara e geometrica di San Pietro di Castello, chiesa palladiana dal cui sagrato si ammirano le antiche mura dell’Arsenale. Di fronte al bel campanile bianco, che sale di fianco, per conto suo, gentilmente inclinato, si apre, facendo intravedere un chiostro un po’ malandato, il portone dell’ex Palazzo del Patriarca, con tanto di stemma. Sì, perché questa chiesa era la sede del Patriarca di Venezia (v. immagine di Scarpa), sino a quando Napoleone non lo trasferì a San Marco, la basilica dei Dogi.
Entrando nella chiesa, le opere di Scarpa sono quasi nascoste negli angoli delle grandi navate o accumulate in sagrestia: sono… non semplici sedili, ma seggiole stravaganti, scolpite, rimontate, dipinte, riformate (v. le immagini), ospiti inquieti piuttosto che riveriti ausilii di natiche riposanti.
La storia dell’autore è raccontata dai familiari perché lui, il mastro- scultore, ancora in vita e presente nel suo laboratorio, per l’età avanzata e gli acciacchi relativi non è più in grado di comunicare facilmente. Dunque Fortunato Scarpa, terminata negli anni ‘20 l’attività lavorativa come carpentiere nei Cantieri navali veneziani, cerca come celebrare la sua libertà dipensionato. Inizia con la pittura, copia riproduzioni di Ligabue e paesaggi di Venezia. Riprende i suoi vecchi strumenti e si diverte a intagliare Pinocchi di varie dimensioni sui quali dipingere le sue particolari visioni lagunari. Quando il parroco di San Pietro gli chiede di riparare banchi e seggiole della chiesa, entrambi ci prendono gusto. Perché non rifare tutto e meglio? Comincia così una nuova attività, la ricerca dei materiali di scarto, docili al riuso: dipinti accantonati di Madonne e Gesù, stemmi, croci, ma anche pezzi da ri-sagomare, residui di mobili, decorazioni, lastre di marmo. Le strutture di partenza sono le ‘Savonarola’ con le zampe leonine, sia nella forma grande che in quella di sgabello: traforate, ingrandite, colorate si trasformano negli angelici ‘troni’ e ‘dominazioni’. Fortunato, consultandosi con Don Bruno, raccoglie, pialla, incide, incolla, colora, lucida e infine regala alla sua chiesa , che ne conserva circa 25. Ma pure ne fa dono alle due chiese vicine, sempre nel sestiere di Castello, San Giuseppe e San
Francesco di Paola. Accanto alle sedie anche tavolini, alcuni con piano di marmo inciso. Fuori sede sono state collocate una nel Palazzo dell’attuale Patriarcato e sei, più semplici, nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Questo non significa che i lavori di Scarpa siano particolarmente conosciuti e apprezzati.

Con i loro rilievi ingombranti sono sedili scomodi e troppo pesanti. Non sai dove metterli. Sono nate strane e rimangono estranee. Fortunato non obbedisce a progetti, a idee preordinate che non siano ri-fare un sedile e connetterlo genericamente ad un gusto chiesastico. Fortunato è un bricoleur; non crea, non vuole puntare sulla novità, su di una differenza che lo distingua, ma neppure continuare un passato, definire uno stile. Il modo in cui assembla è suggerito dagli oggetti che trova, dalle illustrazioni che sfoglia, dai frammenti abbandonati nei ripostigli che, secondo il colore e la collocazione possono diventare un’ostia o un pomo di un bracciolo: non compone ma ri-compone. I suoi troni non hanno un tempo e uno spazio definito. E qui sta la vicinanza con alcuni artisti presenti in questa Biennale: non rappresentano uno stile, non appartengono ad una scuola, non aspirano ad una Galleria d’arte. Una vicinanza anche con la impostazione del Palazzo Enciclopedico: non si tratta di rincorrere un post o un pre o un anti-moderno. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano i nostri e altrui passaggi che noi con presunzione chiamiamo ‘storia’. Curiosità, collezionismo, ossessioni accompagnano anche la storia minima, i passaggi, le trasformazioni, le congiunzioni dell’artigiano-scultore Fortunato, estraneo ad ogni presunzione culturale, mastro d’ascia e di sorprendenti mescolanze combinatorie.


CHAIM SOUTINE (CHAIMAS SUTINAS), UN PITTORE LITUANO A PARIGI.


Autoritratto con tenda (1917)
Una coincidenza particolare: dalla Lituania, dalla confinante Bielorussia e Polonia, tutti Paesi sotto il potere della Russia zarista e un tempo uniti in una “Repubblica dei due stati”, artisti ebrei lasciano le loro case per raggiungere la città delle arti, delle sfide, degli incontri desiderati, Parigi, la Ville Lumière. Un esilio desiderato per gruppi già abituati alla mobilità, spesso forzata, propria delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. ‘Essere fuori’ per alcuni non è una perdita, ma un modo, forse l’unico modo per elaborare quel ‘dentro’ che hanno lasciato, di sé, della propria infanzia, del proprio paese, della propria lingua. Per gli artisti ebrei valevano forse due altre ragioni principali: esclusi per il loro ‘status’, la scarsezza degli insegnamenti artistici aggiornati a cui potersi iscrivere (anche Bakst e Diaghilev lasciano S. Pietroburgo per Parigi) e le vessazioni a cui erano spesso sottoposti, senza ‘patrie’ di protezione. Ma pure l’ambiguità del ghetto, dello shtetl, le gerarchie rigide, le costrizioni, i divieti rituali. Dice Chagall: soltanto “qui, nella “Ruche”, a Parigi, in Francia, in Europa, io sono un uomo” (p. 103). Cito alcuni nomi nella trascrizione francese: Moïse Kisling, Pinchus Krémègne, Michel Kikoïne, Aizik A. Feder, Ossip Zadkine, Jaques Lipchitz. Altri, più giovani, come il lituano Mark Rothko (Markus Rotkowiis), esule negli USA. Riprendo la figura di Chagall e la paragono a quella dell’appena più giovane Soutine. Due storie simili e opposte. Chaim (Chaimas) nasce nel 1893 o ‘94 a Smilovii, un povero villaggio di contadini e piccoli artigiani ebrei, e i Sutinas sono tra i più poveri. Salomon, il padre, fa lavori di rammendo mal pagati. Chaimas, decimo di undici figli, svogliato a scuola, vive un’infanzia di punizioni e di stenti. Al contrario Moishe Segal (e poi Šagal-Chagall), il primo di nove figli, cresce in una famiglia modesta ma benestante: il padre, molto religioso, lavora presso un mercante di aringhe, la madre organizza una drogheria casalinga. Vitebsk è una bella cittadina di circa 60.000 abitanti, la metà ebrei. E’ il mondo di Chagall che sempre ritorna nelle sue pitture. Ci sembra di conoscerlo: slitte, carretti, samovar, violinisti sui tetti, barbe di rabbini e profeti, pesci volanti, rotoli della Torah, coppia di amanti, il viso di lei, l’amata. La lunga vita del pittore (1887-1985), fortunata e creativa, continuamente nutrita dai sogni della sua infanzia e giovinezza (ma pure l’incubo del pogrom cosacco alla sua nascita), è ben documentata da mille pubblicazioni, cartelle di incisioni, vetrate, mostre, dalle sue memorie, e dalle memorie dell’indimenticabile compagna Bella Rosenfeld, scritte in yddish nel 1939 e pubblicate dopo la sua morte a New York nel 1944 (ora, per Donzelli 2012, “Come fiamma che brucia”), insieme fuggiti dalla Francia e dalle persecuzioni naziste. E da lei la descrizione del viso di lui, il giovane incontrato dall’amica Thea: “…Un viso bianco quanto la parete.
La pazza (1919)
Ha i capelli scompigliati. I suoi ricci ricadono giù, si arrotolano, si incollano alla fronte, nascondono occhi e sopracciglia. Ma quando gli occhi si aprono un varco sono blu, venuti dal cielo. Occhi stranieri, non come quelli di tutti, lunghi, a mandorla. Ogni occhio guarda dal proprio lato, barchette che si allontanano una dall’altra. Non ho mai visto occhi simili da fauno, se non in un bestiario illustrato. Bocca spalancata, non so se intenda parlare o mordere con i suoi denti bianchi e taglienti. Tutto in lui è movimento, come in un animale a riposo pronto a spiccare un balzo in qualunque istante” (p. 227). La tradizione favolistica e popolare innestata nella libertà rappresentativa delle ‘Avanguardie’, incontrate a Parigi nel 1910, ne faranno un personaggio affettuosamente ben’accolto sia dai collezionisti e specialisti raffinati sia dal vasto pubblico. E tanto basta per una figura d’eccezione, ben conosciuta, saldamente collocata nel Pantheon dei grandi. Tutto il contrario per Chaim Soutine, nomi che adopero nella trascrizione francese con la quale l’artista si firmerà e sarà riconosciuto. Per notizie dettagliate rimando agli scritti di Marc Rastellini e in particolare all’ultimo catalogo pubblicato quest’anno, in occasione della mostra di Palazzo Reale di Milano, tuttora in corso, “Modigliani-Soutine e gli artisti maledetti”, Ediz. 24ORE Cultura.
Una spinta a disegnare e colorare, a cercare una via di fuga da un gruppo familiare misero e oppressivo. L’esecuzione di un ritratto, forse del rabbi di Smilovii - un insulto alla tradizione aniconica ebraica – e la risposta violenta, una scarica di botte, conduce in ospedale il giovane Chaim. La somma del risarcimento è il denaro necessario al viaggio a Minsk, dove, al corso di disegno, incontra Michel Kikoine, col quale torna a Vilnius iscrivendosi alla Scuola di Belle Arti. Insieme all’aspirante pittore Pinchus Kremegne, il terzetto, sempre in cerca di un piatto di cibo e di un letto per dormire, partecipa alla vita di una ‘vera città’: teatri, concerti, mostre, feste. Decidono di raggiungere Parigi: nel 1912 Kremegne, l’anno dopo Soutine e Kikoine. body artists, alle Performances di oggi. Ed ecco cosa dice Jean Leymarie del pittore quando la crisi era passata: “Seguiva un rituale segreto e complicato, simile alla preparazione materiale dei mistici: nella scelta della tela, intanto, che doveva essere vecchia e già dipinta, come vivente, per meglio innestarvi la nuova energia; nella scelta di un modello o di un motivo appropriati, della luce o della espressione propizie. Al momento di gettarsi sulla tela, i colori erano tutti disposti attentamente, e per ogni sfumatura, per ogni intensità c’era un pennello apposito. Cominciava con una quarantina di pennelli e li gettava uno dopo l’altro in terra, appena li aveva adoperati: era tale la sua frenesia che un giorno, nel bel mezzo del lavoro, si slogò un pollice. “Tutto – diceva – dipende dal modo di mescolare il colore, di prenderlo e di posarlo sulla tela”… Se il risultato non gli sembrava assoluto… distruggeva senza pietà. Collezionisti e mercanti senza scrupolo hanno a volte rovistato nella sua spazzatura per ricostruire abusivamente opere lacerate” (Ibd. P. 28). Più tardi Drieu La Rochelle conferma: “attorno a lui, tubetti e pennelli son disseminati a terra, sventrati o spezzati”. “Era capace di stendere la pittura sulla tela con le sue stesse mani intrise di colore, e gliene rimaneva sotto le unghie. Terminato il lavoro, collocava il quadro contro una parete in modo che se ne vedesse solo il retro; non tollerava che si osservasse ciò che aveva dipinto “ ( M.Restellini, 24Ore, cit. da Garde, Gerda G., p. 170).
Scalinata rossa a Cagnes (1918)
Chaim s’iscrive all’École des Beaux-Arts e frequenta l’ atelier di Cormon. Nelle visite assidue al Louvre è attratto dalle opere di Fouquet, Rembrandt, El Greco, Tintoretto, Goya, Courbet, Cezanne e dalle antichità greche ed egizie. A la Ruche, “l’arnia” di Montparnasse, incontra altri artisti ebrei, Chagall, Zadkine, Lipchitz; sarà quest’ultimo, anche lui lituano, che nel 1915 lo presenta a Modigliani. Dovrebbero questi brevi cenni cancellare una delle frequenti osservazioni che lo riguardano: persona tutto istinto e passione, scarsa la preparazione tecnica e culturale. Tanto più incolto, insofferente di ogni vicinanza, quanto più ardente. Al contrario. Nonostante la pesante, difficile quotidianità, che lascerà gravi tracce nella sua salute, nelle periodiche, dolorose gastriti, il pittore è pervicacemente, disperatamente concentrato sulla propria preparazione artistico-immaginativa. Uno scavo attento ad ogni suggerimento, che provenga dal Museo o da alcuni contemporanei (che però, salvo Bonnard e Rouault, non cita) o dai sogni e incubi personali. Ma vorrei continuare con gli incontri che coinvolgono Soutine nel circuito ebraico di Parigi. Siamo nei tempi duri della guerra, quando però gli stranieri sono meno coinvolti. Casuali lavori in fabbriche o scavi per trincee, ai quali Soutine però è congedato per motivi di salute. Modigliani si prende subito cura dell’amico e lo presenta con calde raccomandazioni al suo mercante polacco Leopold Zborowski, lungamente riluttante. Peggio la moglie Hanka, che lo trova “brutto e sporco”. Né basterà il ritratto di lui che dipingerà sulla porta di casa della coppia. Anche Krémègne insiste. Più efficace sarà il finanziamento del collezionista alsaziano Jonas Netter, pure lui ebreo, che agisce con discrezione dietro l’impulsivo Zbo. Bisognerà attendere altri sette anni prima che Soutine incontri il collezionista di Philadelphia Albert C. Barnes, gli acquisti del quale cambieranno le sorti di un pittore che con fatica aveva già scavato la propria strada. Dicevo prima della mobilità degli artisti di origine ebraica. Non vorrei insistere troppo su fatti spesso casuali. Mi pare però di poter aggiungere un altro carattere: superato il divieto religioso delle immagini (che per contrasto acquistano un valore superiore, quasi a includere il valore della ‘parola’) aumenta la libertà di sviluppare lingue e forme inusuali, privi di una tradizione vincolante come quella dell’Accademia. Forte invece l’impronta di un’infanzia, sovente conflittuale, altre lingue, l’yddish e
Il bue (1920)
l’ebraico, scuola primaria separata, l’héder, il pasto rituale, il gesto dello shochet sull’animale, il fiotto di sangue… Lo ricorda Elie Wiesel in ‘C.Soutine’ dell’Electa 1995. La coppia Chagall-Soutine è indicativa: alla favola ridente del primo si contrappone la sofferta ripulsa del secondo, la prevalenza insistita dell’immagine umana, vietata dai rabbini, nelle figure degli umiliati, la serva, il valletto, il chierichetto ‘cattolico’, l’animale esaltato e violato, il pollo capro-espiatorio, il potere dello sguardo, il malocchio. Un lavoro estenuante contro e dentro la prima età. Ecco dunque un aspetto che sembra caratterizzare la differenza modernista, il rapporto tra arte e vita. Mentre l’artista del passato appartiene a una ‘scuola’riconosciuta, esibisce il proprio mestiere e per questo è riconosciuto maestro (spesso la cronaca che lo riguarda è tendenziosa, stereotipata o nulla), l’artista moderno, forse a partire dal tardo romanticismo, cresciuto fuori o contro ogni ‘scuola’, mescola l’impulso interiore col movimento degli occhi e della mano, la tensione nervosa con la curva della pennellata: sogni, bi-sogni e realtà. Persino la malattia come rottura delle regole vitali. Lo scrive bene Marcel Duchamp: “Mi sono voluto servire dell’arte per istituire un modus vivendi… fare della propria vita, del proprio modo di respirare, di agire e reagire di fronte agli individui, che si potesse fare di tutto ciò, un tableau vivant…(“La vita a credito”). E Marcelin Castaing, scrivendo di Soutine: “Viveva aspettando l’emozione che gli venisse dal modello. Allora, invasato, non permetteva più a nessuno di avvicinarlo, ma è proprio grazie a questa sua comunione assoluta con gli esseri e con le cose, che noi possiamo oggi conoscerlo (“Soutine”, Silvana Edit. d’arte 1963). Una forza, una energia che diventa la forza, l’energia dell’immagine. Tanto l’accumulo è lento (una lunga pigrizia), quanto l’esplosione è violenta, travolgente. Ma il luogo comune è in agguato: da una parte l’impiegato modello, ma anche il manager di successo, compassato, elegante, controllato, impeccabile, obbediente ragionatore, dall’altra parte lo strano (estraneo), irregolare, imprevedibile, stravagante, passionale, l’artista. La contrapposizione è falsa; la mescolanza può aiutare, essere insieme l’una cosa e l’altra (Kafka). Mai contrapposizioni forzate, utili solo per gli schemi. E’ ancora Duchamp che ci viene in soccorso. Non farsi succubi delle emozioni, affidarsi alla ‘vita’ così come viene, ma fare anche di essa uno strumento appropriato: “non dovevo caricare la vita con troppo peso, molte cose da fare, con quello che si chiama avere una donna, dei bambini, una casa in campagna, l’automobile… [ma piuttosto] ridurre i propri bisogni. Possedere il meno possibile, per poter restare davvero libero” (Ibd.).

Paesaggio di montagna (1920)
Non dunque negare gli stimoli da Rembrandt o dalla ‘uccisione rituale’ (shechital), da Courbet o dalla antica fame patita, ma inserirli nella grammatica vorticosa dei rossi e dei bianchi, il sangue animale, il pollo morente, il bue squartato e la stoffa dei chierichetti, i paesi sconvolti, i grandi alberi rutilanti. Un equilibro non facile: trasferire un minimo di controllo nel dinamismo vitale, articolare il flusso in una grammatica di segni senza interromperlo, senza snaturarlo. Saper cogliere il momento giusto, forzare l’inerzia del colore. Confusione e maniera, i due estremi pericoli. Che questo instabile equilibrio fosse la sua strada, la sua conquista cercata e raggiunta, lo dimostra la costanza con cui venne mantenuto, anche quando muore nel ‘20 il suo amico e protettore Modigliani, ma specialmente quando la sua vita muta nel ‘22, dopo l’intervento di Barnes, accompagnato dal mercante Paul Guillaume: 3.000 dollari di acquisti. Persino il dubbioso Zborowski lo fa accompagnare da un autista con macchina e gli paga un salario. Il pittore “brutto e sporco si trasforma in un dandy” (M. Restellini, p. 166 24Ore). Ma la depressione e gli attacchi di ulcera non l’abbandonano. Non sopporta di stare da solo. Paulette Jourdan, ex modella di Modigliani, lo segue e l’aiuta. Nel 1927 Waldemar George scrive la prima monografia nella collana “Gli artisti ebrei”. I coniugi Madeleine e Marcellin Castaing, appassionati collezionisti, lo proteggono e ospitano in una bella residenza di campagna a Lèves. Con essi si comporta, nota M. Sachs, “come un bambino viziato, mostrandosi non solo depresso e imprevedibile, ma capriccioso e maleducato” (Ibd. p. 169). La sua pittura non conosce particolari rasserenamenti. 1937, al café du Dôme, a Parigi, Soutine incontra Gerda Groth, nata Michaelis, una ebrea tedesca in fuga dalla Germania nazista, che si prende cura di lui, malato e mal nutrito. Forse l’ulcera è degenerata in cancro. La chiama “Mademoiselle Garde”. Frequentano il cinema e incontri di box e catch. Scoppiata la guerra, nel 1940 Garde viene internata a Gurs, nei Pirenei, da dove, dopo l’armistizio di giugno, riesce a liberarsi. Non rivedrà il suo compagno, che forse cerca la fuga a New York, senza risultati. Unitosi a Marie-Berthe Aurenche, ex moglie di Max Ernst, è segnalato al Commissariato parigino come “rifugiato russo…ebreo”. Insieme continuano a cambiare indirizzi. Meglio la campagna che la città. Tormentato dai dolori Soutine viene trasportato d’urgenza in ospedale con un’ambulanza mimetizzata. E’ l’agosto del 1943: ulcera perforata, l’operazione, la morte… Nella Parigi occupata, sfidando il controllo nazista, poche persone partecipano ai suoi funerali al cimitero di Montparnasse: tra queste Picasso, Max Jacob, Jean Cocteau. Non ci sono conclusioni generali a questo tragico racconto. Arte e vita, difficile separazione, difficile congiunzione.
Bambina con vestito rosa (1938)
Quante volte si è parlato di ‘linguaggio’ artistico, insieme un percepire e un rivolgersi a….; quante volte si è polemizzato sul ‘tipo’ di questo linguaggio. E, d’altro canto, prima o fuori dal linguaggio, si è invocata una ingenuità originaria, un impulso senza senso, dissennato. La vicenda di Soutine ci narra invece di un faticoso confronto, il tentativo di tenere insieme le due spinte: un massimo di impulso che vuole prendere una direzione, formulare un’immagine, calarsi nel linguaggio, che a sua volta da questo impulso è scosso, smembrato, illuminato. Una vita dunque prolungata ad ogni costo su quell’unico scopo, una vita forzata a scontrarsi continuamente con la promessa di un resoconto, il messaggio del naufrago, il progetto di un ‘altrove’: diventare una apertura, essere quella speranza, quella ‘parola’.





MANET RITORNO A VENEZIA

Venezia. Devo confessare che iniziare questa forma di comunicazione telematica, per me, non è stato così facile come pensarmi, scrittore o lettore, su di una pagina stampata, là dove regna(va) la lentezza, il ritorno, la pausa. Vorrei scusarmi perciò di trasportare in questa, per me, nuova forma alcune abitudini e fronzoli delle abitudini precedenti.
Ora vengo al soggetto che vi propongo, la mostra di “Manet ritorno a Venezia”, accompagnata dall’ottimo catalogo pubblicato da Skira, di cui mi servirò io stesso, saggi scritti e mostra progettata da Gabriella Belli e Guy Cogeval, curata da Stéphane Guégan, aperta al Palazzo Ducale sino al 18 di agosto. Catalogo e mostra di grande qualità. Il punto centrale è costituito da due dipinti , uno modello dell’altro: la “Venere di Urbino”, Tiziano 1538, la “Olympia” di Manet, 1863, accostati, in mostra, l’uno accanto all’altro. Modello? Omaggio? Provocazione?

"Olympia" di Manet, 1863

Comincio con uno scritto di Savinio del 1947: “Fine dei modelli”. “Coloro che a quel tempo [alla vista della Olympia] gridarono allo scandalo, sarebbero stati ben meravigliati di apprendere che quell’opera di modesta apparenza, raffigurante una magra giovinetta coricata nuda su un letto e assistita da una fantesca negra, aveva una importanza “cosmica”, in quanto era la prima manifestazione pittorica d’un profondo rivolgimento avvenuto nel concetto dell’universo […] il primo segnale che l’uomo aveva perduto gli augusti modelli che fino allora lo avevano guidato, e che d’ora innanzi gli toccava di camminare da solo e privo di un’altra guida”. Il suo diventa uno sguardo orizzontale, continua Savinio, senza sensi obbligati, senza picchi verticali ben visibili, raccogliendo qui e là pezzi, residui, echi, flussi come nella scrittura di Proust o di Joyce. Così è l’Olympia di Manet (e qui continuo io): alle orecchie le perle di Venere, al braccio il braccialetto di Venere, invece delle trecce un fiocco, invece di un mazzo di fiori in mano, i fiori stampati sullo scialle di cui ha liberato la propria fredda nudità. I fiori veri, ben disposti nel bianco delle carte, sono l’omaggio che qualcuno ha affidato alla servente perché vengano consegnati alla giovinetta. L’annuncio di uno scambio tranquillamente pattuito. Poi quel filetto nero sul collo, un collare, e quelle scarpe, una calzata e l’altra vuota, a segnare la causalità della posa e lo stacco del viso appoggiato su di un corpo libero da pensieri. E trascuro l’ovvia contrapposizione tra il gatto nero minaccioso e il fedele cane dormiente ai piedi della Venere. Con la più abile replica il modello è stravolto. Non la negazione totalizzante, clamorosa delle avanguardie future, l’aspirazione ad un mondo rifatto tutto daccapo, tutto/niente, ma il gioco silenzioso dello scarto, del passo di lato, un ricordo a metà, un vedere e non vedere, un citare per dimenticare, un tra-vedere e omettere. Simile rimando e lontananza ne Le déjeuner sur l’herbe rispetto all’altro Tiziano del Concerto campestre. Giovane elegante, compassato, discretamente ambizioso, Manet, senza urla e fanfare, segnava così una delle più importanti rivoluzioni del gusto. Giustamente il curatore Stéphane Guégan cita Jean Clay del 1983: “Non siamo più nel registro della citazione riverente, ma in quello del prelievo e del riutilizzo. Manet preleva alla rinfusa: ribalta, assembla, modifica. In questo rapporto del tutto prosaico con la tradizione, la storia dell’arte […] si vede contestare il magistero silenzioso che esercitava su ogni giovane pittore, fin dal suo primo colpo di pennello”. Ogni autorità riconosciuta, ogni guida sicura è scomparsa. Da questo momento i riferimenti significativi l’artista ‘moderno’ li assumerà a suo rischio e pericolo.
Altro punto, la direzione degli sguardi. E qui mi riferisco alle belle pagine di Michel Foucault di ‘Le parole e le cose’e di alcune conferenze successive. In quasi tutti i quadri di Manet ritrovi lo stesso rimando esterno: due occhi ti guardano. C’è uno spazio invisibile, fuori dal quadro, che, non visto, indirizza i movimenti della scena dipinta. In precedenza la scena della pittura cercava di ritagliarsi, di spiegarsi tutta dentro il perimetro dipinto. Il dialogo, le luci, gli spazi si radunavano all’interno dell’opera, che in questo modo portava con sé il proprio significato. Ora c’è un vuoto. Il centro dell’attenzione si concentra fuori, nella invisibilità dello spettatore. A lui è demandato il completamento della scena: sciogliere l’enigma. Cosa dice, e a chi, il personaggio maschile a destra del Déjeuner? E la modella nuda, sbiancata da una luce frontale, che ti guarda? L’insieme dipinto, non più garantito dai ‘maestri’, è incompleto, disturbato, interrogativo, e lo sarà sempre di più negli anni futuri: il segnale di quel rivolgimento di cui parlava Savinio. Ritorno agli sguardi, ora al plurale. Spesso infatti la invisibilità è doppia, come ne Le chemin de fer, dove la donna si rivolge al guardante fuori dal quadro e la bambina, di schiena, a qualcosa dietro al quadro, nascosto dai fumi della stazione. C’è poi una invisibilità parziale, come ne La Serveuse de bocks”: lei si volta a guardarti, ma il cliente con la pipa e quello con il cilindro guardano altrove, là dove s’intravede appena un particolare, un braccio e un profilo di gonnella, forse il suggerimento di un teatrino (il quadro è stato tagliato, ma dall’autore). Ecco dunque il particolare che introduce un altro spazio del tutto diverso dal soggetto centrale: in Lola de Valence attori e pubblico sono appena accennati dietro il profilo delle quinte, in Bal masqué à l’Opéra i piedi e le gambe della balconata, in Jeune dame à son piano la pendola (il tempo) riflessa nello specchio. Dal piccolo specchio della Jeune dame a quello grande de Le Bar aux Folies-Bergère. Entrambi, specchi dipinti, restituiscono lo spazio davanti o dietro al soggetto: una pittura che riflette la pittura, sbilanciandone l’unità con la pluralità dei punti di vista. La ragazza centrale del Bar, i palmi delle mani sul tavolo, ti guarda trasognata di fronte, pressappoco alla tua altezza, mentre nello specchio il tavolo aumenta la vista dall’alto, la ragazza riflessa di schiena e, ancora di più, l’uomo che sembra interloquire con lei (quindi non sei tu), tutti e due rappresentati più grandi, di lato e dal basso. I piccoli spettatori della balconata guardano dalla parte opposta verso, si presume, un invisibile palco. Insomma la finzione dello specchio invece di chiarire, ancor più della foto, la scena, ne frammenta l’unità, moltiplicando a sorpresa le persone, gli angoli, le grandezze. Lo specchio non serve a riconoscermi ma a disconoscermi. Sguardi obliqui, rimandi, riferimenti interrotti, trabocchetti. Una scena dipinta con piglio sicuro, con sfumature ben calibrate, mossa su vari piani da gran maestro, insinua non una via sicura ma un labirinto, non delle forme chiuse ma delle mancanze, non la tranquillità della conclusione ma l’inquietudine dell’incertezza. Ho cercato di riprendere soltanto alcuni dei molti aspetti che una personalità solo apparentemente lineare ci offre con le sue opere e la sua biografia, che qui ho lasciato da parte; con la sua formazione accademica presso Couture; con i suoi viaggi di apprendimento in Europa e specialmente, come nel caso di questa mostra veneziana, in Italia, a Venezia, due volte, a Firenze e forse a Roma; con i suoi rapporti non facili con gli amici ‘imprressionisti’, con le sue modelle, con Zola, con i collezionisti, con i politici ecc. Una figura complessa della quale spero di aver dato almeno un invito ad approfondire.






                                
QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo


CEZANNE. I TRE INSEPARABILI
Claude (Cezanne), Sandoz (Zola), Dubuche (Baille), “i tre inseparabili… si erano legati subito e per sempre, spinti da segrete affinità, il tormento ancora vago d’una comune ambizione”, scorrazzavano in gite  anche di parecchi giorni, “fughe dal mondo, istintivo abbandono al seno della buona natura… Claude si portava già  dietro… un album  dove disegnava scorci di paesaggio, mentre Sandoz aveva sempre in tasca il libro d’un poeta… In quella provincia arretrata,  nel cuore della torpida stupidità, erano vissuti dai quattordici anni , così, isolati, entusiasti, divorati dalla febbre della letteratura e dell’arte”. I tre giovani corrono per la campagna provenzale, nuotano nei fiumi, compongono versi, sognano destini gloriosi, recitano brani di Hugo e de Musset. (E. Zola, L’œuvre 1886).
Sono passati trent’anni quando Zola, autore di successo, scrive, voltandosi indietro, della sua adolescenza insofferente nell’assolato meridione, della sua stretta amicizia con un coetaneo bizzarro, predominante, Paul Cezanne, già pittore. Questi, inquieto nella sua produzione giovanile, “con la brutalità dei  timidi”, recalcitrante compagno degli “Impressionisti” a Parigi, dalla fine degli anni ’80 alla morte, nell’ottobre del 1906, vive e dipinge nelle terre della sua infanzia “in una reclusione ostinata” (G.  Geffroy), con la rara visita di qualche ammiratore. La sua pittura della maturità, contrariamente alle sue prove giovanili, viene lentamente, poco per volta considerata base fondamentale delle innovazioni del ‘900. 
Spero che si ricavi da queste poche righe la vicinanza di questo ‘caso’ Cezanne con quelli di Morandi e di Opalka, dei quali mi sono occupato nei numeri precedenti di “Odissea”: la forte spinta pulsionale, la varietà delle strategie di difesa etero e auto-dirette, lo spostamento su immagini accettabili, vibranti, forti della pressione inconscia. L’espressione artistica, lo stile che ne risulta si divide in due periodi diversi: il primo rozzo, esagerato, romantico, il secondo raffinato, controllato, classico. Su questo secondo si è più spesso  concentrata, in positivo, la riflessione: la complessità della percezione visiva, la sua inusuale attenzione orchestrale, l’equilibrio delle forme (v. M. Denis o  R. Fry o L.Venturi). Dualità che andrebbe connessa a due diverse strategie difensive, una estroflessa, aggressiva, scoperta, l’altra introflessa, riflessiva, nascosta. In entrambe lo sforzo paga un prezzo nella quotidianità: i tic, le paure, la solitudine scontrosa.                                                                                             
Il suo aspetto di trentenne, scosso da un tremito nervoso, barbuto, un cappello malandato di feltro a coprirgli la pelata, è trasandato. Sotto un cappotto troppo grande, macchiato dalle strisce verdognole della pioggia, dai pantaloni troppo corti e gli stivali spuntano le calze blu. Al café Guérbois, dove s’incontra con i suoi amici pittori, sospettoso, parla poco, lo distingue l’accento meridionale; si allontana dal suo angolo prescelto, indispettito da un argomento che non gradisce. Conosce gli scrittori latini, recita a memoria Baudelaire, ama Flaubert e Wagner (M.L. Krumrine,“Cezanne The Earky Years”, London 1988).                                              
“…Ci si rivelò immediatamente a tutti [Monet, Rodin, Mirbeau, Clemenceau] come un personaggio singolare, timido e violento, straordinariamente emotivo…” [A proposito di Clemenceau, avrebbe detto] “È che son troppo  debole… E Clemenceau non mi potrebbe proteggere!… Non c’è  che la Chiesa che mi  possa  proteggere” (G. Geffroy).                                        
Pochi riferimenti cronologici. Paul Cezanne nasce a Aix nel 1839 da padre benestante e autoritario. Iscritto come interno al collegio Bourbon, dove riceve una solida educazione umanistica, si lega con profonda amicizia ai compagni Emile Zola e Baptinstin Baille. Superata l’opposizione del padre, si dedica alla pittura e nel 1861 si reca a Parigi, dove si iscrive ad una scuola privata, l’Académie Suisse. Rifiutato all’École des Beaux-Arts, dopo un breve rientro ad Aix, ritorna a Parigi, dove frequenta Pissarro, Bazille, Renoir, Monet e Zola, che difende il “Déjeuner sur l’herbe” di Manet, esposto con scandalo al Salon des Refusés. I suoi quadri sono regolarmente inviati e rifiutati ai Salons per sei anni di seguito, dal ’64 al ’69. Durante la guerra del 1870 si rifugia in un piccolo villaggio del sud, l’Estaque, vicino a Marsiglia. Di nuovo a Parigi con la compagna Hortense Fiquet, gli nasce nel 1872 il figlio Paul. A Pontoise dipinge con Pissarro ‘sur le motif ’. Ha 33 anni, è il momento della svolta.     I suoi dipinti del primo periodo, gli anni Sessanta, presentano una ossessiva  insistenza sulle figure del gruppo famigliare e la violenza sessuale. Il trio che  si ripete in queste opere, il maschio all’attacco, la femmina seduttrice-vittima e l’osservatore, si ritrovano nei primi romanzi di Zola. Nel dipinto “La tentazione di S. Antonio” (un accenno a Flaubert), il santo, alla sinistra, è tentato non dai demoni, ma da quattro nudi femminili: tre sensuali e seduttivi, ma il quarto, accanto al fuoco, androgino e in posa melanconica. Un aspetto che alcuni critici (v. The Earky Years cit.) hanno ravvisato nel giovane Zola, ma pure in una ambiguità dello stesso Cezanne tra la separatezza del monaco,  l’attrazione del nudo femminile e l’inserzione del fuoco ermafrodito. Il  successivo “Déjeuner surl’herbe”, titolo ironico da Manet, è un indovinello. Il soggetto seduto sul prato (Cezanne), bruno e stempiato accanto alla tavola, punta con il dito alla figura bionda di fronte, un giovane dall’aspetto femminile, il suo ‘doppio’, e alla donna in piedi con un frutto in mano, la tentazione di Eva. È con lei che si allontana alla sinistra della scena. La donna a destra, simile alla sorella, è la temperanza. Una duplicità che ritorna sino a “Jouers de cartes. In seguito, invece di comparire come partecipe dell’evento, Cezanne si ritrae come osservatore. Ne “L’Eternel Féminin nelle vesti del pittore che dipinge il grande nudo sotto un monumentale baldacchino, un anticipo degli ultimi ‘Mont de S. Victoire’. Nella “Une moderne Olympia”, più che a Manet pare vicino, per sua stessa ammissione, al Frenhofer del “Chef-d’oeuvre inconnu” di Balzac, una infinita “moltitude de lignes bizzarres.
La forza della pulsione erotica si ricava da altri soggetti dello stesso periodo: ‘L’Orgia’, ‘Satiri e Ninfe Il ratto’, La toeletta funebre’, Assassinio’, La donna strangolata’, ‘Bagnanti’, Pomeriggio a Napoli (con servo negro). La materia pittorica spessa, schiacciata con veemenza dalla spatola, ne accentua il furore. Frequenti anche i ritratti dei famigliari, di sé e degli amici più stretti, il cerchio di protezione. L’interrogazione allo specchio, l’autoritratto, chi? quasi sorpreso da un incontro inaspettato, lo accompagnerà sempre. Il tema della natura morta è ancora incerto. Quelle col teschio non richiedono commento. ‘La pendule noire’, appartenuto a Zola, è  un elogio dell’amicizia, della sua permanenza -l’orologio manca delle lancette , della vivacità d’affetti- la conchiglia mossa con i suoi  labbroni. Amicizia che s’interrompe con la pubblicazione de ‘L’œvre citata. Claude, il pittore protagonista, tenta invano una congiunzione tra il potere dell’immagine artificiale e la pulsione erotica, tra il nudo provocante dipinto e la modella e moglie Christine. L’impossibile ‘vita’ dell’una, dell’immagine, dovrebbe crescere sull’annullamento, altrettanto impossibile, dell’altra. La doppia impossibilità spinge Claude al suicidio. Cezanne, riconoscendosi in Claude, rompe l’amicizia con Zola. Per entrambi è la fine di un’adolescenza prolungata.  Dicevo della svolta del ’72. Cezanne guarda all’ “umile e colossale” Pissarro. Non c’è nero nell’ombra, non c’è contorno negli oggetti, negli alberi, nelle rocce. Dappertutto, anche sul viso, nelle mani, brilla la luce del cielo. Nel ’74 espone con gli “Impressionisti”, ma non ne condivide la felicità del plain air. La passione non si placa esaltandola, ma spegnendola nello spessore della immobilità, spandendola ovunque, rendendo di  sasso il viso (povera madame Cezanne ferma, in posa per ore!) e trasparente la roccia. Lo spazio diventa una vibrazione, “una transizione” di toni, il pennello  scorre in obliquo, cogliendo i punti della tensione e ritornando  a cancellare, a svuotare e riprendere. Le “piccole sensazioni” coloranti tastano “il motivo”. La tela sul cavalletto, il  lavoro è lento e faticoso. Disegno e colore sono la stessa cosa, “ogni oggetto partecipa dell’oggetto vicino”. Il pittore si ferma, guarda intorno pensieroso, valuta i rapporti e all’improvviso ritorna sulla tela (Emile Bernard). I due sessi, schizzati alla brava, nessun particolare anatomico, non combattono più. Addio “Lutte d’Amour”. Leggeri, tra alberi e acque, da una parte la femmina, le bagnanti, dall’altra il maschio, i bagnanti. Gli oggetti, le figure, i profili si richiamano, il sentiero sprofonda nel verde, il fondo si ribalta in primo piano, le nuvole in rocce, le rocce in corpi, lo spesso in leggero e viceversa. La geologia onnicomprensiva del paesaggio e delle case non prevede l’individualità, tanto meno l’uomo. Un silenzio, un brusio ad orecchio attento avvolge il mondo. C’è qualcosa sotto. Resiste appena il profilo della Sainte-Victoire, quante volte interrogata nell’ultimo anno, protettiva, materna. Strati sempre più sottili, memorie, percorrono il vuoto, un vuoto inquieto quanto un pieno, un tacere che sostituisce il sopratono di gioventù. Qualche segno di matita, qualche tocco d’acquerello. Cezanne forse alla terza tappa. Un soffio. Ceneri leggere, profumate, filtri del sottosuolo, di un vulcano non mai spento. Un temporale gelido di ottobre 1906 gli fermò il respiro e la mano sino  all’ultimo attenta all’ocra e all’azzurro del capanno nel bosco, le cabanon de Jourdan.





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