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SEGNALI DI FUMO

La transizione 
di Giovanni Bianchi

La transizione non è finita
Dunque la transizione infinita non è ancora finita; non solo: non è neppure “quasi finita”, come dice un bel libro sulla riforma costituzionale di Stefano Ceccanti, architetto capace e mica tanto occulto del testo di riforma costituzionale bocciato dal referendum del 4 dicembre. Dimentico del suo Al cattolico perplesso. Chiesa e politica all'epoca del bipolarismo e del
pluralismo religioso, Ceccanti si rifugia nell’evocazione di un Duverger digerito e tradotto con maestria. E scrive nel titolo del libro dedicato alla riforma che la transizione è (quasi) finita. Al modo di quella signora della barzelletta che conduce dal medico la figlia debilitata e in sospetto di esaurimento nervoso e quando il medico la sorprende: “Sua figlia è incinta”, non trova di meglio che reagire: “Sì, ma soltanto un poco”…
E invece dalla transizione – quella evocata da Gabriele De Rosa – si è usciti oppure no: il quasi non è ammesso. La fase è infatti complessa e confusa a livello internazionale e nel Belpaese. Giudico perciò sia meglio mantenere l’abitudine, che fu dei nostri maggiori della prima Repubblica, di aprire il discorso con uno sguardo sul mondo. A partire dall’Europa. E’ meglio guardare l’Italia dall’Europa che viceversa. Lo faceva De Gasperi. Lo faceva Dossetti. E lo faceva anche Togliatti. Ci sono cose antiche destinate a ritornare, perfino arcaismi. Non fu questa del resto l’attitudine del cattolicesimo democratico, che vide non a caso Jacques Maritain recuperare l’antimoderno per una più profonda intelligenza del moderno? Giuseppe Lazzati aveva sintetizzato il punto di vista recuperando una celebre massima di Sant’Ambrogio: “Cercare sempre cose nuove, mantenendo il meglio delle antiche”. I guasti, e soprattutto i vuoti del nuovismo, stanno infatti producendo un inevitabile risucchio.


L’Europa com’è
Dico subito, per evitare equivoci, che l’Unione Europea non soltanto mi appare in crisi, ma in decadenza. Studiosi e storici asiatici ce lo rammentano in continuazione. E non è buona abitudine ripararsi dal loro giudizi ignorandoli. Come breve divagazione, mi si consenta di citare la circostanza recente per la quale l’Italia è più presente in Europa con Antonio Tajani, neopresidente dell’europarlamento, che è uomo senza dubbio berlusconiano, già stato suo portavoce, stabilmente collocato a destra, fin dagli inizi romani e monarchici.
Non conosciamo questa Europa, che nel giudizio corrente dei nostri connazionali corrisponde a un po’ d’Italia, un bel po’ di Germania, un po’ di Francia… Non esistono nel nostro orizzonte né i Paesi Baltici né i Paesi Danubiani. Non esiste la Polonia e il gruppo di Visegrad. Per i quali bisogna ritornare a riflettere sul prevalere degli Stati Nazionali.
Pensate a un’eventuale vittoria della Le Pen in Francia. Il ponte con il gruppo di Visegrad partirebbe dal cuore dell’Europa. Includerebbe Urban, il premier polacco, il superstite dei  Caczinski (molti ignorano che i due gemelli furono stretti collaboratori di Walesa) e tanti altri. 
Ci sono stati in Polonia e nei Paesi che appartenevano al blocco orientale i cosiddetti fenomeni di lustrazione, l’introduzione della non cittadinanza (con la scritta alien sul passaporto) e la Via Baltica, quando approssimativamente 2 milioni di persone, tenendosi per mano, formarono una catena umana lunga circa 600 km passando attraverso Tallinn, Riga e Vilnius, le capitali delle Repubbliche Baltiche, impressionando l’opinione pubblica mondiale per la forte carica simbolica della dimostrazione. Significativa la data scelta: il 23 agosto 1989. Esattamente in quel giorno di cinquant’anni prima, veniva firmato il Patto Molotov-Ribbentrop.
Inutile stracciarsi le vesti e gridare al populista. Il populismo è infatti una piovra in continua metamorfosi. Ve ne è uno secolarmente stabilizzato: il peronismo in Argentina, con i Chirchner alla Casa Rosada e Firmenich, il leader dei montoneros, ad insegnare economia all’Università di Barcellona. Il vero guaio dei populismi è che non restano tali: aprono in fretta la strada ad avventure autoritarie. Un rischio diffuso e tutto sommato sottovalutato.


Un lungo percorso ignorato 
Ci troviamo di fronte a processi che prendono le mosse dalle riforme di Gorbaciov – dimenticato autore di un discorso al Consiglio d’Europa sulla “Nostra casa comune Europa” (6 luglio 1989) – capaci di provocare più di uno smottamento istituzionale, ma anche economico e sociale.
Parallelamente ai “Fronti popolari baltici” sono sorti sul Vecchio Continente i movimenti nazionalistici, che, insieme alla radice etnica, promuovono un nazionalismo autoritario e forme di apartheid nei confronti delle minoranze. Un Mar Baltico da correlare strettamente ai residui dell’occupazione sovietica.
La già ricordata lustrazione nasce così come una serie di misure rapide di de-sovietizzazione. Il termine curioso ha un sapore insieme penitenziale e un’origine che risale ai riti di purificazione dell’antica liturgia cattolica, che prevedevano aspersioni mediante l’acqua benedetta. È anche da dire che leggi eccessivamente punitive sulla cittadinanza sono state in seguito mitigate grazie alla pressione internazionale.
Una misura inevitabile dal momento che la de-sovietizzazione implicava come si è visto la qualifica di non-cittadino o addirittura di alieno. Questa dunque la scena presentata sulle rive del Baltico dall’ etno-nazionalismo e dai suoi deliri. Una preoccupazione in più, e per di più davvero fondata, per la UE confrontata con i flussi biblici delle nuove migrazioni, ancora più problematiche nelle implicazioni etiche e politiche. 


L’impatto delle migrazioni
Perché la fase è così confusa e pericolosa? Perché quest’Europa è letteralmente squassata dalle migrazioni: un fenomeno inarrestabile e incontrollabile. Non basta proporre e allestire l’accoglienza, bisogna approfondirne le ragioni, insieme alle opportunità e ai rischi.
Provo a semplificare al massimo: è la globalizzazione che sollecita le grandi migrazioni e le rende inarrestabili. Le sollecita con lo sviluppo economico diseguale, con il moltiplicarsi delle disuguaglianze, con l’attrattiva pubblicitaria dei modelli di vita esaltati dai media, ma soprattutto non si cura di accoglierle.
Sulle disuguaglianze e la nuova piramide della casta vedi Forbes. Bill Gates, il patron di Microsoft, è sempre al primo posto tra i super ricchi, confermandosi per la ventitreesima volta il più ricco degli Usa. Trump invece è sceso al gradino n. 156, avendo perso 35 posizioni in classifica, molto distante dalla vedova Ferrero e da Nutella, al 32º posto, dopo Del Vecchio, 40º scalino, e poco più sopra Silvio Berlusconi, collocato al gradino n. 188… Vedi anche le 928 pagine di Thomas Piketty: Il capitale del XXI secolo. (“Il rifiuto della contabilità ha raramente giovato ai più poveri”.)
Chi è di fatto deputato e costretto all’accoglienza? Solo gli antichi Stati nazionali. Un arnese del Seicento europeo, che gestisce i confini, la sicurezza e il Welfare. Che reagisce secondo la propria antica natura – che resta quella nazionale – non superata né da un progetto né da un confine europeo. È perché ha ceduto il confine europeo che si erigono i muri per salvaguardare gli antichi confini nazionali.
Non basta gridare che i confini debbono essere abbattuti. La Somalia è senza confini dalla fine di Siad Barre. Non ci sono più confini tra la Siria e gli Stati limitrofi. Per l’Iraq è la stessa cosa. E soprattutto si aprono guerre che non si è più in grado di chiudere.
Lo chiamano multipolarismo… È la confusione e l’anomia totale. Dopo la fine dell’idea imperiale americana di neocon e teocon.


Ha ragione Berta quando osserva che c’è uno sviluppo economico e finanziario sempre più estraneo alla democrazia. L’epoca moderna, contraddistinta dal rapporto tra mercato e democrazia, vede il mercato in continuo sviluppo, mentre la democrazia è in continua ritirata.
L’idea di governabilità è nata in questo modo alla metà degli anni Settanta. E a Kyoto si disse che l’Italia in particolare presentava un “eccesso di partecipazione”. Gli atti sono pubblicati da noi con la prefazione di Gianni Agnelli.
Il problema dell’Europa non è a quante velocità. Il problema è che dopo il progetto dei padri fondatori (De Gasperi e Spinelli in primis), ci fu la proposta di un’Europa delle patrie da parte di De Gaulle e il dialogo sulla “nostra casa comune Europa” tra Gorbaciov e Giovanni Paolo II.
E dopo?
L’Europa non può restare senza progetto e senza anima. Ha bisogno di una leadership. Di fatto chi può gestirla è la Germania, che tuttavia è renitente e pensa anzitutto a salvaguardare il proprio livello di benessere e le proprie esportazioni. E’ l’euro, lasciato a se stesso, che fa da insufficiente parafulmine. Il problema non è la presenza dell’euro. E’ l’assenza di Europa.
Tutto ciò ci riguarda molto da vicino perché grandissima parte della nostra legislazione  corrente muove dentro i binari stabiliti a Bruxelles. E non importa se i legislatori che siedono a Montecitorio non lo hanno ancora capito.


E in Italia?
Tutti d’accordo sul cambiamento. Ma quale, e a partire da dove e per dove approdare? Con tutto il complicatissimo problema delle fasi intermedie per raggiungere la nuova meta, dove oltre agli esercizi d’intelligenza e di stile, le passioni, anche quelle meno encomiabili, hanno finalmente modo di esercitarsi. Tra le diagnosi più coinvolgenti e chiarificatrici metterei al primo posto l’intervista rilasciata dall’ex premier Romano Prodi a “la Repubblica” di mercoledì 22 giugno, dopo le ultime elezioni amministrative:
“Non basta guardare il voto di questa o di quella città. C’è un’ondata mondiale, partita in Francia, ora in America. Lo chiamano populismo perché pur nell’indecifrabilità delle soluzioni interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo: l’insicurezza economica, la paura sociale e identitaria… La paura di non farcela è tremenda ma non immaginaria. La chiami iniqua distribuzione del reddito, ma per capirci è ingiustizia crescente… Nel senso più ampio possibile, chiunque avesse una sicurezza anche modesta sulla propria vecchiaia e sul futuro dei figli. Ma il pensionato che diceva orgoglioso: “io non ce l’ho fatta, ma mio figlio è laureato”, ora non lo dice più. L’ascensore sociale si è bloccato a metà piano e dentro si soffoca… La disonestà pubblica peggiora le cose, ma la radice è la diseguaglianza. Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga… Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale”.
Niente da aggiungere. Una mappa utilissima per orientarsi nelle successive tornate elettorali, Brexit britannica ed elezioni presidenziali americane incluse.


Altra bussola preziosa quella rappresentata dall’articolo di Bernie Sanders, Addolorato, ma non sorpreso, apparso su “la Repubblica” di domenica 13 novembre 2016.
“Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta,  ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato per  Trump perché sono nauseati e stanchi dello status quo economico, politico e mediatico. Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende”.
Come a dire che sessismo e razzismo e xenofobia sono indubbiamente parte del bagaglio culturale (si fa per dire) di Donald Trump. Ma quello che l’élite democratica statunitense non ha voluto capire assomiglia molto e troppo – è addirittura sovrapponibile – a quello che Romano Prodi diagnosticava in giugno come un malessere generale, con profonde radici sociali e la voglia di votare con rabbia.
Una condizione sociale e democratica che, per dirla con linguaggio antico, richiede interventi strutturali e non voucher. Una condizione sociale che assurge a rabbia globale. Per queste medesime ragioni gli inglesi hanno votato la Brexit dicendo di volersi togliere dagli occhi pakistani e polacchi, che rubano loro il lavoro e li infastidiscono. Qualche anno fa comparvero cartelli con le scritte“English job for english workers”, rivolti ai nostri emigranti siciliani. Ma ci siamo affrettati a dimenticare tutto e in fretta.
Per queste ragioni la middle class impoverita delle città americane e farmers e rednecks (i cosiddetti “colli rossi”) del Paese Profondo statunitense hanno votato un populista. È mia convinzione che lo stesso disagio sociale e le stesse paure agitino i populisti di tutta Europa, italiani inclusi, populisti e no.

Una crisi davvero globale
Concludo questo troppo breve inquadramento della questione con un richiamo al destino (dimenticato) dell’Europa. Tra i padri fondatori in particolare due – entrambi italiani – De Gasperi e Spinelli (il maggior estensore del Manifesto di Ventotene) sostengono, in numerosi discorsi che l’Europa deve considerarsi “una tappa verso un governo mondiale”. Non bastano cioè gli Stati Uniti d’Europa: perché la forma dell’Unione allude a una dimensione ulteriore, cioè oltre se stessa.
È curioso notare come i due partissero da punti di vista non soltanto diversi, ma specularmente opposti. De Gasperi, già deputato al parlamento di Vienna, pensava a un primato delle istituzioni fondato sulla sovranità europea. Spinelli si batteva contro l’idea di sovranità e voleva un’Europa dei popoli, ovviamente toto coelo diversa da quella che poi patrocinerà il generale De Gaulle, alfiere del ritorno delle patrie.
Un’Europa come tappa verso un governo mondiale non può che essere – al di là degli effetti collaterali e perversi della globalizzazione – un’Europa accogliente, multietnica, “meticcia”: non probabilmente un melting pot  come quello statunitense, ma in maniera inedita sicuramente accogliente e multietnica.
Come? Con quali tappe e quali questioni concrete da sciogliere?
Bisogna avere chiaro che il Vecchio Continente si trova all’interno di una crisi globale. Dopo trent’anni di globalizzazione le democrazie dell’Occidente – Stati Uniti in testa – vivono una crisi profonda, come mai nel dopoguerra. Siamo in affanno di fronte alle sfide che stanno emergendo e al fallimento degli strumenti sin qui approntati per governarle. Sul piano delle società civili europee la stessa quotidianità è attraversata da paure contagiose e da processi apparentemente inarrestabili di disgregazione, ben oltre una competizione considerata sopportabile.


Il clima politico evocato e descritto da molti analisti può essere sintetizzato con un termine nietzschiano: “risentimento”. Un sentimento diffuso che Aldo Bonomi ed altri hanno provveduto a rintracciare con le sociologie nel tessuto quotidiano di volta in volta come rancore, disintermediazione, incomunicabilità, narcisismo acquisitivo, incapacità di ascolto, aggressività nei confronti dell’altro… Quando cioè la solidarietà abbandona i luoghi di lavoro superstiti, i territori urbanizzati, le relazioni sociali e interpersonali, siamo confrontati non con un tessuto solidale allentato e per così dire smagliato, ma con un atteggiamento sociale personale che il rancore nietzschiano sintetizza al meglio. Salvo forse il ricorso a Kant, più pacato, comunque preciso ed attuale, che parla di “insocievole socievolezza”, che produce indubbiamente vantaggi cumulativi (Carlo Sini) ma ci lascia vuoti di identità e culturalmente stremati.
Se ne individuano gli agenti nella politica, nella magistratura e nei media, tutti in qualche modo responsabili di avere malinteso il proprio ruolo. Al di là delle responsabilità é tuttavia utile constatare che questa condizione di risentimento e di rancore avvelena i rapporti delle nostre giornate, non soltanto nelle istituzioni e nelle organizzazioni del politico, ma anche nella vita quotidiana. Una situazione che comunque chiede di essere governata e superata e che proprio per questo ripropone duramente il rapporto tra governabilità e democrazia.
Con un’osservazione preliminare: che una democrazia non governata deperisce, ma che il massimo della governabilità coincide con il minimo della democrazia. Un rapporto quindi complesso che chiede di essere valutato sul campo da entrambi i corni del dilemma.

La fatal serata
Veniamo adesso al caso italiano. Torniamo alla fatal serata del 4 dicembre. Matteo Renzi dice da par suo che lascerà il campo. Si commuove, e mi commuove. Annoto che, dopo la sconfitta alle primarie con Bersani, è la seconda orazione autofunebre con la quale il Nostro mi inchioda al video. Un lutto destinato comunque a durare poco perché, dopo un solo giorno passato in Toscana in famiglia a giocare alla playstation con i figliuoli, il Matteo resuscita direttamente a Palazzo Chigi, dove inaugura in fretta e furia una sorta di consultazioni parallele a quelle del Quirinale. (Devo subito confessare che mi è venuto in mente che uno così in Germania o nel Regno Unito avrebbe chiuso con la politica.) Ma, la rapidità e lo scarso rispetto delle prerogative altrui sono universalmente riconosciuti come connaturati al suo innato dinamismo.
Renzi comunque mette mano – probabilmente sgomitando con il compassatissimo (ma, ce ne accorgeremo, correttissimo e coriaceo) “muto di Palermo”, eletto sul colle più alto – al governo Renzi-bis, con il capace Paolo Gentiloni, in riserva agli Esteri.


Un governo volutamente fotocopia, con un Premier dal profilo volutamente così ostentatamente low e probabilmente programmato per far rimpiangere i fasti del precedente governo, che di diverso – si capirà a governo definitivamente completato – aveva soltanto il marchio renziano, le luci e l’eloquio abbagliante, gli effetti speciali. Visto così, il Renzi-bis, appare, nella scia luminosa del suo precedente autentico, una sorta di governicchio: una squadretta di periferia che ebbe, nella precedente incarnazione, al vertice dell’attacco un Maradona (vero, o sedicente, secondo le interpretazioni). Come fossimo tornati a una città dell’Est e della DDR, dove la differenza più eclatante la facevano di notte l’assenza delle insegne luminose.
Proprio questa del resto pare a me la forza di Paolo Gentiloni, destinato prevedibilmente a durare a dispetto delle sue intenzioni. E progressivamente avviato ad essere apprezzato per differenza. E Renzi? Molti si stanno tuttora interrogando sulle sue reali intenzioni, sul vero temperamento, sulla capacità di gestire un’altra maschera e un’altra politica. Molti hanno anche l’aria di atteggiarsi, soprattutto dalle colonne dei giornali, a suoi precettori o direttori spirituali.
È davvero monocorde e monosmorfia il Renzi come Clint Eastwood? Qualcuno ha scritto dopo la prima direzione e la prima assemblea susseguenti alla sconfitta referendaria che, rimasto al vertice del partito – che fin  dagli inizi aveva provveduto ad ibernare – avrebbe inaugurato un nuovo corso zen

Non si tratta tuttavia a mio giudizio né di versatilità, né di capacità di prendere atto delle sconfitte e degli errori, tantomeno di azzardare giudizi etici o morali. Gli psicoanalisti hanno mantenuto aperti i loro studi nonostante la minore liquidità dei pazienti in seguito alla crisi, e i confessori continuano il loro ministero, che subisce tuttora buone impennate nella prossimità delle feste religiose. Il fenomeno politico Renzi è e resta tale al di là delle sue intenzioni e dei giudizi, benevoli o malevoli, dei critici. Il mio avviso è che nella fase di gestione delle rappresentazioni e di politica dell’immagine e della leadership che attraversiamo il vero Renzi è quello che ha imperversato nei quasi tre anni di governo. Un altro “Renzi politico” probabilmente non esiste, non serve a lui e forse neppure al Paese. Soprattutto, pure al netto della conclamata smemoratezza italica, non mi pare ricostruibile e ripresentabile just in time.  
Il problema soprattutto non è chi sia il vero Renzi: quello nato a Pontassieve, quello che vinse 48 milioni al telequiz, quello che si recò ad Arcore da Berlusconi premier, quello che gioca alla playstation con i figliuoli…
Giudichereste la politica di Cavour dalla sua vita privata? Hanno fatto lo scout da ragazzi Mazzini, Garibaldi, Aldo Moro o Pertini? L’europeismo di De Gasperi discende forse dalla sua pietà religiosa trentina? Il Pci di Togliatti dal cattivo carattere del leader? Il vero Marlon Brando – quello che ci ha impressionati e segnati di dentro, spingendoci al cinema –  è quello di Fronte del porto, di Apocalypse Now, o di Ultimo tango a Parigi, o quello di vicende private non sempre eclatanti e che comunque riguardano lui soltanto? Non è la stessa cosa per Dustin Hoffman, Vanessa Redgrave, Meryl Streep, Leonardo Di Caprio?


Soprattutto i cantori della narrazione e della leadership si rassegnino: la coerenza di questi leaders è quella del format politico piuttosto che quella della realtà personale.
Per questo mi auguravo che Matteo Renzi lasciasse davvero: tutto, partito compreso, almeno per due anni. Ignoravo forse il rischio della dimenticanza? Certamente no: ma la leadership che Matteo ha impersonato richiedeva lo stacco e il rischio. Forse il giovane toscanaccio un po’ bullo che presume troppo di se stesso non ha avuto sufficiente fiducia in se stesso… e comunque il rischio valeva la candela.  Anche la politica dello spettacolo ha sue regole che non patiscono di essere sconvolte o calpestate. Non è che hai deciso di recitare il Macbeth e, arrivato alle ultime scene dell’ultimo atto, introduci le mossette di Totò e una battuta di Checco Zalone. Non a caso Donald Tramp – incombente esempio negativo – avendo deciso di impersonare la parte del leader caterpillar, mantiene, anche da presidente eletto, la faccia feroce e le promesse più assurde e violente, a dispetto non dico del politically correct, ma anche del più tradizionale buonsenso repubblicano e americano. Comunque vedremo.


Intanto davanti ai nostri occhi c’è un governicchio (lessico renziano). Renzi aveva promesso, legittimando la sua corsa costante al maggioritario: “Non faremo governicchi”! E questo che cos’è? Aveva promesso e spergiurato in tutta una serie di incontri pereferendari (che la tv ci ha poi riproposto in sequenza) “Se perdo, me ne vado”. E invece eccolo lì di nuovo, in posizione calcisticamente più arretrata per rilanciare la ripartenza, a meritarsi l’epiteto che il grande Indro Montanelli coniò per un suo celebre e dinamicissimo conterraneo, Amintore Fanfani: «Rieccolo!».
Come a suggerire che la velocità dei tempi fa sì che sia già venuta la stagione che chiede di rottamare i rottamatori. Perché il Renzi attuale archivia e contraddice la rottamazione, e il suo pathos necessario. Con l’augurio, per il bene del Paese, che Gentiloni si faccia apprezzare proprio per la mancanza di effetti speciali e la solidità di una politica più “tradizionale”, che insegua meno i talkshow e stia più nascostamente “al pezzo”.


Renzi contro Renzi
È Renzi che ha seppellito il renzismo. Durante l’addio in tv la sua commozione (e la mia per quel che conta) erano reali. Quella sepoltura di fronte al grande pubblico poteva contenere una speranza di resurrezione. Il renzismo viene definitivamente archiviato con il tempestivo  ritorno di Matteo, instancabile, nel ruolo del boss facitore di governi e di governicchi a Palazzo Chigi. Troppo evidente l’allusione e troppo rapido il ponte verso il Renzi prossimo e venturo. Dopo i giuramenti d’addio ripetuti, l’opzione e la caparra sul dopo Gentiloni, che nient’altro è agli occhi di tutti che un Renzi-bis, deve fare affidamento sulla smemoratezza e l’imperituro guicciardinismo degli italiani. (Nessuno lo ha meglio analizzato di Salvatore Natoli.)
Sparito il cambio di passo la cui fiducia poggiava sul noi abbiamo rottamato, e siamo legittimati a farlo e a governare perché non siamo come gli altri…
Si può osservare che il guicciardinismo sia la costante del Bel Paese, destinato ogni volta riemergere. Ma le obiezioni che insorgono non sono poche né sottovalutabili. Renzi e il suo decisionismo si sono presentati come l’altro rispetto all’andazzo abituale. Anche la legittimazione della subordinazione della logica della Costituzione a quella della governabilità poggiava su questo assunto e sulla fiducia conseguente. Di più, la spinta a lasciarli governare discendeva da un’osservazione fattasi senso comune: che i tempi e i riti del guicciardinismo fossero giunti a un punto tale di cancrena da mettere in pericolo la salute stessa della Nazione. Il guicciardinismo nella sua fase ultima minacciava di trasformarsi nella tabe di se stesso, facendosi insopportabile oltre che pericoloso. Resuscitarlo, dopo avere sepolto il renzismo e le sue speranze, è più un’enorme delusione che un guadagno.


Proviamo la vena narrativa. Ho assistito con mia moglie il pomeriggio di Capodanno, inchiodati davanti al televisore, alla proiezione del vecchio capolavoro disneiano su Pinocchio. È come se il burattino collodiano, subito messo nel mirino dalla critica spietata ma efficace di Crozza, avesse ancora una volta scelto di riportarci nel Paese dei Balocchi dorotei, invece di farsi politicamente uomo ed adulto. Con tutte le ulteriori scivolate, che non conseguono tanto
dalla crisi del renzismo, quanto dall’irreversibile deterioramento del guicciardinismo giunto a uno stadio terminale (disincanto e apatia degli italici, occupazione dello Stato da parte delle forze politiche, cancrene irriformabili della burocrazia, uso della cosa pubblica per fini costantemente privati, ecc.)  che gli impedirebbe di proseguire nella logica abituale e secolare di spingere il Paese ogni volta sull’orlo del baratro, e lì trovare ogni volta la capacità di arrestarsi. Soprattutto Renzi sta cessando di essere l’antemurale dei riformisti nei confronti dei “populismi” di Salvini e di Grillo: i due concorrenti. Attori anch’essi, ovviamente a modo loro. Uno per lunga professione, l’altro per un frenetico mutar di felpe.
Potrebbe anche accadere, e lo temo, che un buon numero di italiani pensino allora sia meglio votare un comico che prova a fare politica, piuttosto che un politico che ha provato a fare le comiche. Insomma, Renzi è caduto perché ha creduto nell’onnipotenza della leadership: un devoto assiduo della religione dei neopoteri, assai più diffusa nelle nuove generazioni (Erasmus incluse) di Scientology. Matteo, nel connubio ogni volta inevitabile tra politica e potere, ha scelto il potere al posto della politica.
E non importa dal mio punto di vista – che si sforza di essere sistemico e si ostina a non diventar tifoso – se nel caso specifico la leadership coincideva con la sua leadership e la sua persona. Per questo ribadisco che le mie critiche alla mesta epifania del renzismo sono tutte successive alla sconfitta. E non mi tocca il rimprovero della disillusione. Perché rivendico il diritto, anche in politica e per la passione politica, oltre che nel tifo sportivo o negli affetti, di essere seriamente disilluso.
Si può perdere e bisogna saper perdere. Meglio il refrain di questa canzone che la struggente nostalgia melodica del grande Sergio Endrigo: la musica è finita, e gli amici se ne vanno… (I compagni lo hanno fatto da tempo.)  

Renzi oltre Renzi?
Renzi contro Renzi. E adesso: Renzi oltre Renzi? Questo è l’enigma. Le politiche moderne, anche quelle sgangherate e senza fondamenti, non interrogano l’oracolo, ma aprono –   dovrebbero aprire – il confronto critico e propositivo. Anche nella fase in cui lo slogan e le ripartenze calcistiche (ma la politica continua ad essere altra cosa rispetto alla partita di calcio e al contropiede) vorrebbero sostituire il confronto aspro, perché interessato a capire e non al tifo, e la decisione collettiva. Il resto è azzardo, comunque legittimato. La fretta fa i gattini ciechi e li allena alla sconfitta. Prima di riprendere la rincorsa ci vuole il coraggio di fermarsi. Occorre quello che papa Francesco, come il cardinale Martini e tutti gesuiti chiamano discernimento. Il dibattito, documentato e non affrettato, di un organismo collettivo, che funzioni non soltanto come ufficio pubblicitario che inonda il Paese di Tweet, ai quali iscritti e simpatizzanti (li chiamereste ancora militanti?)  dovrebbero balzare in piedi come ai primi squilli dell’inno nazionale, è una pratica assolutamente normale, sicuramente utile ed indispensabile per un organismo collettivo che continui a pensare insieme e a decidere di conseguenza. Il resto ha poco da spartire con la saggezza di un politica democratica, ed anche con il rigore del decisionismo. Viene in mente Mino Martinazzoli, non proprio un ottimista, che in un’assemblea disorientata mi diede di gomito: “Per questi qui l’autocritica è la critica delle auto.”


L’esaurimento delle narrazioni
È affiorato d’un balzo alla mia memoria politica tutto l’armamentario analitico che mi sono costruito in una vita non breve e tutto sommato attenta ai casi del mondo.
Prima conferma. L’uomo, l’homo italicus, ha bisogno di rappresentazione e di spettacoli: li chiamavamo circenses.  Seconda conferma. Lo spettacolo mantiene e rinnova i propri apparati e le proprie regole. Terza conferma. Il successo dello spettacolo e il suo persistere dipendono dall’osservanza di  regole non tutte scritte, ma efficaci. Quarta conferma: quella fondamentale. La politica, che sempre più si è fatta spettacolo, per vincere e per persistere deve osservare queste nuove regole. Quinta conferma: la rottamazione non basta a se stessa, ma deve alludere a un passo ulteriore. Perché la velocità introdotta nel sistema non risparmierà i rottamatori medesimi. E perché la testa dura dei fatti avrà prima o poi ragione delle rappresentazioni.  Può disturbare il mio riformismo sgangherato, ma Ronald Reagan, non sarà forse stato il massimo degli attori di Hollywood (provare il confronto con Marlon Brando), ma anche da presidente degli Stati Uniti ha recitato la sua parte – e solo quella – con grande rigore e senza evidenti deragliamenti.
Grazie alla coerenza della recita, Ronald Reagan è passato alle cronache della politica e alla storia come il presidente delle reaganomics, senza essersi laureato in economia e probabilmente senza aver mai letto von Hayek, Polanyi e neppure Milton Friedman. Grazie alla coerenza e al culto dell’immagine e della leadership, Reagan è nell’olimpo della destra globale e fa la sua bella figura in coppia con Lady Thatcher.

Si pensi invece alla disavventura comunicativa e storica di papa Pio IX. Dopo avere esordito come filopatriota agli occhi degli italiani, compì una  brusca virata verso la reazione, lasciando perplessi gli italiani religiosamente pii, e pieni di livore i patrioti devoti …
Rimetto in fila sinteticamente tutto l’armamentario teorico in mio possesso. In principio il passo del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Il prevalere della rappresentazione sulla realtà (fino al dilagare dei nuovi miti che hanno malamente sostituito le antiche ideologie) costringe le politiche a gestire anzitutto la rappresentazione, lo storytelling, sia dal proprio versante come da quello dei consumatori-spettatori.
Avendo in ogni fase storica la politica regole proprie, ancorché mutuate da altri contesti, ne discende in questa congiuntura che la politica assume le regole della rappresentazione. Se le osserva ne è premiata, se devia, viene punita. (C’è dunque una coerenza perfino nell’universo della cosiddetta postverità.)
In particolare nel postmoderno la leadership, avendo prima interpretato e poi subordinato gli apparati del politico – i partiti e i loro dintorni –, ne consegue che le regole dello spettacolo legittimano il senso e il profilo di una politica, ne garantiscono l’affidabilità, vuoi all’interno della propria parte, vuoi rispetto alla platea generale e nazionale (e globale) degli spettatori sempre-meno-cittadini.
Posso mettere in campo o semplicemente citare il Walter Benjamin del Trauerspiel e il molto più abbordabile Raffaele Simone di Il Mostro Mite.
Dalle frequentazioni di testi e films resistenziali emerge addirittura un sorprendente caso di studio dovuto all’intelligenza storica di Indro Montanelli, che anche in questa circostanza si staglia come uno dei più grandi giornalisti del secolo.

La vicenda, intrisa di elementi autobiografici in quanto Montanelli fu realmente imprigionato come partigiano nel carcere di San Vittore, è quella di Giovanni Bertone, un piccolo truffatore che estorce soldi alle famiglie dei prigionieri dei nazifascisti promettendogli di far ritornare a casa i loro cari pagando dei soldati tedeschi per la loro liberazione.  “Alla fine – recita Google – da spia Bertone si trasforma in patriota, fino al rifiuto di continuare a collaborare, finendo fucilato”.
In questo caso la coerenza con l’immagine, la narrazione e il personaggio finisce per fare premio addirittura sullo spirito di conservazione e spinge all’eroismo patriottico chi era vissuto di truffe ed espedienti.
Lontana da me la proposta di una sorta di martirologio dell’immagine; mi limito ad analizzare, per quanto mi riesce, le regole e le coerenze, comunque operanti, all’interno delle vigenti narrazioni politiche. Per questo le mie critiche sono tutte e dichiaratamente datate dopo l’esito referendario del 4 dicembre. Anzi, dopo il discorso di addio in televisione del Premier.
E mi convince ulteriormente dell’approccio il riferimento a regole dello spettacolo assai meno paludate e addirittura oratoriane.
È risaputo che, ai tempi del mondo cattolico ambrosiano trionfante, quasi ogni parrocchia amava dotarsi di una propria filodrammatica. Versatile, appassionata, applauditissima, sicuramente dilettantesca e dialettale. Era così anche nella chiesa prepositurale di Santo Stefano in Sesto San Giovanni dove papà calcava in qualche modo il palcoscenico. Tra i suoi racconti ricordo quello relativo a una performance di Edo Calderini.
Era l’Edo personaggio particolare e certamente fuori dal comune. Pittore – dava il meglio di sé nei ritratti di Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi –, scultore, architetto di “porte trionfali” per le processioni solenni, costruttore di grotte di Lourdes per l’oratorio San Luigi e non pochi cortili di quella che allora veniva denominata Stalingrado d’Italia. A tanta versatilità nelle arti plastiche e figurative Edo Calderini accompagnava esibizioni filodrammatiche, in un personaggio tutto suo e da lui inventato. Ruolo quindi da mattatore nelle serate a far ridere; successo che gli impediva però l’accesso alle rappresentazioni drammatiche.
Fu così che una sera, escluso da non so quale tragedia, volle prendersi la rivincita. E comparve travestito da cinese, proprio durante la scena madre del dramma, e attraversò tutto il palco con un cesto colmo, ripetendo la cantilena commerciale clavatte clavatteGrande canestro di lui!, commenterebbe Dan Peterson, e grande e improvviso flop   della rappresentazione corale. Tutto per dire che le trasgressioni alle narrazioni, anche a quelle politiche, è bene evitarle.


Bisogna saper perdere
Bisogna saper perdere. Il giovane Churchill fu sconfitto la prima volta che si presentò in una costituency britannica. Non risulta che pronunciasse nessun memorabile discorso d’addio. Provo a ipotizzare che si preparasse seriamente alla rivincita, rispettando i tempi e le modalità, ivi incluse quelle etiche e comunicative, della democrazia di allora.
Ci deve pur essere un modo per farlo anche oggi, e per farlo collettivamente: perché sto sempre pensando in termini di tendenze e di partito, di “autobiografia della nazione”, e non di grandi firme. Considero difatti tutte le leadership, a qualche titolo, “autobiografia della nazione”. E da questo punto di vista mi pare utile orientare la diagnosi.
Una prima tappa sarebbe incominciare a riflettere insieme sulla solitudine della leadership. Per porre rimedio prima alla solitudine e poi alla leadership.
I democratici e gli italiani sono stati generosi e non prevenuti con Matteo Renzi. E infatti non gli hanno chiesto spiegazioni sul “Patto del Nazareno”: un autentico ritorno e il ripescaggio degli  arcana imperii, all’interno di una politica tutta comunicazione. Ma anche in politica, diversamente che nel tifo sportivo, il credito non è a prescindere e non può essere illimitato.
Ho già chiarito il rischio cui stiamo correndo incontro. Ovviamente non si tratta dell’unica sortita possibile.
Ma si è fatto tardi e devo concludere con l’abbozzo almeno di una proposta, volendo evitare il rimprovero di papa Francesco, che mette in guardia contro l’“eccesso diagnostico”.
Mentre il governo Gentiloni prova a governare senza durare, il segretario del PD non riesco a vederlo intento a ricostruire il partito. Non gli importa, o forse non ci crede. Il risultato è il medesimo. E il Nazareno assume nell’immaginario collettivo il ruolo dello spogliatoio che prelude al rientro in campo a Palazzo Chigi. Forse, se Gentiloni riuscirà a fare bene e in qualche modo a portare la nave nel porto delle elezioni, potremmo assistere a un cambio risarcitorio: Renzi a Palazzo Chigi, suo luogo naturale, e Gentiloni segretario del partito.
Può funzionare? Fantapolitica? Nell’epoca della postverità, della postdemocrazia e della narrazione totale non è un’ipotesi scorretta né impensabile. È comunque un’ipotesi come tante altre, utile e inutile come tutte le altre.


Che Renzi il partito non lo voglia lo ha dimostrato da quando è stato eletto segretario o almeno da quando si è dovuto trasferire a Palazzo Chigi. Il PD lo ha “scalato”, sottomesso, soprattutto gli ha impedito di funzionare. Da partito tradizionale si è progressivamente trasformato nella catena di montaggio audiovisuale che trasmette inviti pressanti agli “eventi” programmati dall’alto. O forse sono io a dovermi scusare per la miopia, perché probabilmente questo è quantomeno il prototipo del postpartito.
La proposta? E’ come sempre noiosamente sistemica. Sono anni che stiamo inseguendo la ristrutturazione veloce della nostra democrazia a partire dalle regole, in particolare quelle elettorali, non a caso sospinte verso sistemi comunque maggioritari. (Per quelle costituzionali  invece leggo pronostici che parlano di un letargo almeno decennale.) 
Non è una deriva inaugurata da Renzi. Nell’Ulivo ha un mentore in Arturo Parisi e nel Partito Democratico trova una tappa significativa nella proposta di un “partito a vocazione maggioritaria” avanzata da Walter Veltroni.
Nonostante le spiegazioni di amici valenti, ho sempre faticato a pensarla plausibile, per la lapalissiana ragione che non mi risulta sia mai comparsa la proposta di un partito “a vocazione minoritaria”: che probabilmente non avrebbe senso né presentare né votare.
Devo anche aggiungere di avere schierato da presidente nazionale le Acli con Mariotto Segni sul referendum abrogativo del 9 giugno 1991: il referendum che ha ottenuto il più alto consenso degli italiani in tutto il dopoguerra. Nostri consiglieri erano il costituzionalista Leopoldo Elia e Roberto Ruffilli, sciaguratamente abbattuto dai terroristi rossi. Il mantra di Roberto Ruffilli era che il cittadino dovesse essere arbitro dei processi.
Con queste sbrigative risoluzioni reiteratamente riproposte e con il taglio dei tempi di ogni discussione ho francamente l’impressione che al cittadino non venga assegnato neppure il ruolo del raccattapalle. E allora pover’uomo? Proponi il ritorno al proporzionale? No. Propongo di cambiare ottica e campo, e soprattutto soggetti.
Anziché lavorare costantemente alle regole, che hanno ampiamente dimostrato di essere incapaci, quanto meno in Italia, di maieutica in ordine alle forze in campo, la mia proposta è di ricominciare dai soggetti della politica.



Tornare ai soggetti. Ricostruire i partiti
Beppe Grillo ci si è cimentato: scambiando purtroppo la fossa delle Filippine per il Cervino e, con una pensata tutta postmoderna e tecnologica: sostituire Montesquieu e Tocqueville con gli algoritmi, non avvedendosi neppure che, soprattutto rispetto alla popolazione anziana, l’esclusione che ne discende è più grande di quella che vigeva elettoralmente agli inizi del Regno d’Italia con il voto censitario.
Conosco a menadito tutte le critiche da sinistra: non c’è più popolo, siamo messi peggio che all’epoca del popolaccio leopardiano del 1824, è tempo di oligarchie, il ricorso al voto premia soltanto i populisti, alle nazioni si sono sostituite le moltitudini di Toni Negri e Michael Hardt…
Eppure, si concederà, questo neopopolaccio, soprattutto a partire dagli under 25, è corso in massa al voto referendario sorprendendoci, vuoi positivamente (per la frequenza), vuoi negativamente per l’esito. E infatti la prima cosa da chiarire è che non siamo stati battuti da una porzione tafazzista della sinistra, ma dal popolo attuale degli elettori italiani.
Che fare? Vecchio interrogativo e vecchio titolo di una politica desueta.
Provo a partire a mia volta dai giovani. È risaputo che molti di essi hanno trovato lavoro e occupano posti eminenti nell’ambito della ricerca in Paesi dell’Unione o in altra parte sviluppata del globo. Da dove il successo?


Credo che il merito vada attribuito per la gran parte al nostro sistema scolastico, non certamente inferiore a quello degli altri Paesi progrediti. Una scuola tuttora segnata dall’impronta gentiliana, e non ancora diroccata da una serie di interventi governativi recenti, più attenti ai problemi economici e burocratici del corpo insegnante che alla natura e all’aggiornamento dei programmi.
Comunque il sistema funziona e i frutti sono sotto i nostri occhi. Ne discende una domanda niente affatto maliziosa: come mai il Bel Paese produce ricercatori in grado di spopolare, mentre il ceto politico e la classe dirigente in generale non sembrano, anzitutto ai nostri connazionali, all’altezza della situazione?
La proposta mi sembra perfino obbligata e del tutto naturale. La politica, oltre che occuparsi delle scenografie, dovrebbe tornare a occuparsi delle strutture che promuovono la classe politica. E siccome non sto pensando alla traduzione dell’Ena transalpina in italiano, siamo di nuovo al discorso dei partiti.


Organizzazione del politico, organizzazione della cultura politica e della selezione della classe dirigente: tramite per questo tra la società civile e le istituzioni. Insomma, siamo sempre all’articolo 49 della Costituzione, che nessuno ha mai voluto cambiare e che tuttavia continua ad essere disatteso. Mi rispiego: anziché continuare a mettere mano alle regole, ri-proviamo a organizzare i soggetti della politica, scontando tutte le difficoltà del caso e facendo tesoro delle esperienze passate e recenti.
Non i vecchi partiti ovviamente: nessuno, tantomeno i nostalgici, è in grado di resuscitarli. Partiti nuovi, neopartiti, postpartiti, in grado di ridare senso e vigore a quella che i nostri maggiori, Togliatti in testa, definirono la “democrazia dei partiti”.
Che cosa hanno fatto funzionare gli inglesi dopo l’esito di Brexit? È bastata mezza giornata a Cameron per sgomberare il campo e una settimana per trovare il successore in Theresa May. Il tutto all’interno del sistema maggioritario più compiuto del quale si abbia contezza. Ma nel momento di massima crisi è stata la funzionalità della democrazia dei partiti a togliere il Regno Unito dai guai. Non ci sono meno moltitudini che da noi a Londra e dintorni; ci sono regole elettorali che possono essere invidiate o meno: quel che ha tratto la politica inglese dalle secche è dunque il funzionamento della democrazia dei partiti.
Non serve a niente guardarsi in giro e applicare il metodo comparativo? Come funzionano in proposito le cose nelle coalizioni tedesche e addirittura nella “formula magica” degli svizzeri – democrazia piccola, ma stagionata – che vede da oltre 25 anni tutti partiti al governo…
Non sto suggerendo ammucchiate, ma semplicemente che si ricreino e si facciano funzionare i postpartiti della postdemocrazia. Perché ancora una volta mi sorprende che non si metta a tema l’uscita, per tutti, dalla solitudine della leadership.


Oltre l’uso spettacolare della leadership
Drastico il giudizio di Gianfranco Brunelli sul n. 20 di “il Regno attualità”: “È saltato l’intero quadro politico”. E poi: “Se Renzi vuole ricominciare dal PD, lo deve fare democraticamente, con il congresso e con le primarie. In caso contrario porterà a sbattere anche il PD. Rimaniamo esclusivamente interessati alla stabilizzazione democratica del paese, non all’occupazione del potere di un uomo solo. Chiunque sia.” Perché? Perché la fragilità della leadership, di tutte le leadership, è sotto gli occhi degli italiani. Perché  il tentativo di concentrare in esse la biografia della nazione è giunto al punto di rottura e di frantumazione. Perché è saltato il gioco delle narrazioni e della loro contesa, e la politica reale non è quella dove le leadership amano confrontarsi come in un torneo (si fa per dire) cavalleresco. Né Lancillotto, né Ivanhoe...
Possiamo anche evitare il nome partito, purché se ne mettano in atto le funzioni: l’organizzazione di una cultura politica, la creazione di un progetto, l’individuazione di un programma da proporre prima agli iscritti e poi agli elettori, la selezione della classe dirigente.  E poi, per evitare ogni riferimento ed ogni contaminazione con le vecchie ideologie, chiamiamolo “motociclismo”: così incorporiamo una promessa di velocità…
Ma c’è una cosa soprattutto che chiede di essere recuperata: un partito democratico ha bisogno come dell’ossigeno di una dialettica interna. E’ questa che rende sapido il dibattito sulle idee, che rende possibile la creazione e l’avvicendamento delle leadership. Che dà senso alla formazione di quadri e dirigenti. Senza queste caratteristiche non si ha partito moderno (e neppure postmoderno).


Sono questa natura e questo funzionamento del partito che lo rendono vivo e vegeto, vivibile all’interno secondo regole condivise, credibile all’esterno. Tutti i partiti democratici del Vecchio Continente e del mondo che funzionino, si comportano così. E questo al di là della forza e dello smart della leadership.
Così non hanno fin qui funzionato le cose nel PD di Renzi. Non per mancanza di tempo, ma perché questa è la matrice reale  oramai fattasi manifesta del partito. Al confronto dialettico è succeduto di fatto il dileggio dell’avversario, secondo un copione che si esercita dentro i confini del partito e fuori di esso, nei confronti dei competitori esterni.
Così il  Bel Paese risulta diviso. I pozzi sono avvelenati, e somiglia a una Siria disarmata e corsa da fazioni intente anzitutto a delegittimarsi reciprocamente. Quanto può durare? Può una democrazia subire quotidianamente questo stress?
Credo che si stia facendo largo lentamente – troppo lentamente – tra gli italiani il senso di un idem sentire oramai irrimediabilmente lacerato. Mentre il tempo dei divisori dovrebbe essere augurabilmente finito. Ma non si vede sulla cresta dell’onda un gruppo di unificatori, distribuito sotto le diverse bandiere e nelle aree politiche in concorrenza. I partiti democratici del nostro dopoguerra, con tutti i difetti poi sfociati in Tangentopoli, gestivano il proprio profilo ma anche la salvaguardia delle ragioni altrui. È infatti noto che Giuseppe Scelba, autore di un ordine nelle piazze italiane che non disdegnava dal ricorrere all’uso forte della polizia, fu sempre tra i più contrari a mettere fuori legge il Partito Comunista.


Ma vi è anche un elemento che riguarda la quotidianità. I vecchi partiti – da non ripetere – strutturarono il civile con le loro culture e le loro pratiche democratiche. L’antagonismo anche duro presupponeva la presenza dell’avversario come necessario alla convivenza democratica sul territorio e nelle istituzioni. Tutto questo non è stato fatto e non viene neppure oggi perseguito. È come se la leadership, senza il fondamento di una cultura politica consolidata, senza un progetto e senza un programma che fidelizzi gli appartenenti, abbia preferito semplificare il campo eliminando sul nascere ogni possibilità di concorrenza e di alternativa. Come se un partito inerte forse l’unico in grado di seguire e sostenere la leadership.
Siamo stati sconfitti, ma chi sta seriamente pensando e lavorando a ricostituire una presenza partitica? I partiti non si fanno né da Palazzo Chigi né dal Quirinale: si possono scalare solo quando esistono sul territorio e tra la gente. Non si dà democrazia senza partecipazione (i famosi “corpi intermedi” della dottrina sociale della Chiesa) neppure dove le forme partito sono quelle del partito elettorale. La stessa organizzazione delle primarie e dei caucus negli Stati Uniti recupera elementi di partecipazione senza i quali nessuna democrazia può continuare ad essere tale.
Nessun partito può sorgere dall’accumulo e dalla sommatoria di esperienze locali. Ma la leadership che lancia il progetto e il programma deve farsi carico dell’organizzazione sul territorio. Altrimenti la democrazia diventerà progressivamente altro da se stessa e il partito la seguirà in un malinconico tramonto.
La democrazia può patire, in nome della governabilità, parziali e temporanee restrizioni della partecipazione, ma non può prescindere da essa all’infinito. La passione politica, la sequela sono tutt’altra cosa rispetto al tifo sportivo.
Ovviamente ignoro se questo film sia in programma da qualche parte, in quale studio, e neppure se qualcuno si stia già occupando della sceneggiatura. Mi limito a dire che un percorso politico che insista unicamente sul mutamento delle regole senza curarsi dell’organizzazione della partecipazione democratica, della sua antropologia quotidiana – della sua identità e, uso un termine ostrogoto, soggettivizzazione – esula totalmente dal mio attuale e futuro sogno di mondo.
La testa dura dei fatti e la vanità delle narrazioni
Aiuta e sorregge in questi casi il metodo usato da Machiavelli nel Principe: interrogare la storia e interpretarne gli esempi. Si potrebbe cominciare prendendola biblicamente molto alla lontana e cioè osservando che gli ebrei hanno vagato quarant’anni nel deserto alla sequela del loro profeta più grande: Mosè. Ma entrarono finalmente nella terra promessa al seguito di Giosuè, che con i punteggi solitamente riservati ai calciatori dagli opinionisti della televisione potrebbe forse valere sei o sette, là dove Mosè vale almeno dieci…
Ma veniamo più vicini a noi e interroghiamo l’epoca moderna. Credo che il giudizio storico assegni a Winston Churchill la palma del più grande tra i vincitori del secondo conflitto mondiale. E’ Churchill che, dopo l’invasione dell’Europa continentale iniziata nel 1939 dalle armate hitleriane con la campagna di Polonia e continuata con l’invasione del Belgio, dei Paesi Bassi e della Francia, impugna il vessillo della democrazia non consentendo che il Vecchio Continente sia ridotto a steppa desolata sotto il tallone di ferro della dittatura nazista.
È Churchill il più lucido tra i grandi di Yalta. È Churchill che convince gli inglesi a mettersi sulla strada delle lacrime e del sangue, che vuole Londra coventrizzata, che fa pagare ai sudditi di sua maestà britannica un prezzo altissimo pur di conseguire la vittoria delle libertà democratiche contro la barbarie.

Eppure, terminata la guerra, fu il laburista Clement  Attlee che chiese e ottenne la convocazione delle elezioni, da lui vinte a sorpresa con la maggioranza assoluta. Il suo primo impegno come premier fu la partecipazione alla Conferenza di Potsdam. Attlee diede avvio alla politica di decolonizzazione e concesse l’indipendenza al subcontinente indiano, che era considerato la gemma dell’impero britannico…
Ingratitudine degli elettori inglesi nei confronti del vincitore vero della seconda guerra mondiale? Sono convinto che molti tra quanti votarono Attlee nell’estate del 1945 non avessero dubbi sulla statura dei due leader in lizza: anche ai loro occhi Churchill era il vero vincitore del conflitto mondiale e quindi indubbiamente il più grande. Eppure non tradirono nessuno, dal momento che a spingerli a votare laburista fu l’esigenza di una politica più attenta al welfare e ai bisogni minuti dalla gente e meno disponibile al gesto titanico (ma anche agli immani sacrifici) che la guerra impone. Più sanità, Beveridge, politiche keynesiane, aumenti salariali e pensionistici, più Stato Sociale.

In politica interna Attlee nazionalizzò la Banca d'Inghilterra, le miniere e le ferrovie, rafforzò il potere dei sindacati. Insomma un’attenzione più quotidiana e attenta ai bisogni della gente, che la solida cultura conservatrice di Churchill assai meno garantiva.
Non a caso, raggiunti gli obiettivi e comunque assicurata loro una solida base, gli inglesi torneranno a votare Churchill come primo ministro nel 1951 (carica che mantenne sino al 1955). Il quale, come i successivi governi conservatori, si guardò bene dallo smantellare lo Stato Sociale instaurato da Attlee. Bisognerà infatti attendere gli anni Settanta e l’avvento di Margaret Thatcher per assistere al forte ridimensionamento dello Stato Sociale che i laburisti di Attlee avevano voluto.
Credo non esista nel Regno Unito un solo monumento a Clement  Attlee. Ignoro se abbia scritto le proprie memorie (mentre quelle di Churchill sono inevitabili). Insomma, la contesa non è tra grandi biografie – o supposte tali – ma tra i progetti che vengono proposti ai cittadini, per rispondere alle loro attese nella maniera più efficace, e che non sempre coincidono con il carisma e la brillantezza della leadership.
In politica non è il vigore del pensiero a produrre tsunami. Piuttosto all’evocazione del baratro contribuisce grandemente la debolezza del pensare in corso e l’assenza di progetto. Che è nel contempo distanza ed estraneità dai problemi del Paese. Mentre non consola più di tanto la pur bella riflessione di Valerio Onida: “La Costituzione ringiovanisce vivendola”.
Provo ad esemplificare, per aggirare l’accusa di sociologismo astratto. Su un territorio dove le scosse dei terremoti occupano costantemente l’ordine del giorno, sarebbe probabilmente bene evitare di promettere a legislature alternate la costruzione del ponte sullo Stretto. C’è piuttosto un Paese da mettere in sicurezza lungo tutta la dorsale appenninica. Ed è finalmente bene che qualcuno ci abbia riflettuto: sto pensando agli studi e al piano dell’ex ministro Fabrizio Barca.
Mi chiedo conseguentemente, senza competenze né studi in proposito, se un centro di ricerche, una sorta di unità di crisi, con una eventuale joint-venture con esperti giapponesi, non rappresenterebbe una presa di coscienza dell’Italia e di noi stessi, quantomeno all’altezza della famosa e secolare inchiesta dello Jacini: un progetto realistico e insieme ambizioso, tarato sui bisogni del Paese, che eviti finalmente il marinettismo degli slogan per prendere di petto la realtà di quel che effettivamente siamo: un paese telluricamente ballerino, dove la politica è chiamata, fuor di metafora, a rimettere i piedi per terra… 
Se la svolta, augurabilmente brusca, non avviene, la nuova cultura politica continuerà ad assomigliare in maniera preoccupante all’avanzata del vuoto di La storia infinita di Michael Ende. Avendo da tempo le favole abbandonato quell’ottimismo al quale la politica continua interessatamente a concedersi. Come a dire: meno promesse, e più speranze fondate.

***
In ricordo di David Maria Turoldo 
nel centenario della nascita
Etica della memoria, cantico della speranza
di Marco Garzonio

 
Marco Garzonio
Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.
Giuseppe Ungaretti

Ricordare Turoldo è pegno di amicizia, ma non può consistere in un atto privato, di singoli o di gruppi ristretti che l’hanno letto, conosciuto, amato. Padre David è patrimonio prezioso di tutti, cittadini e cristiani. È, in particolare, risorsa per i giovani, verso i quali noi abbiamo una grande responsabilità: individuare i modi adeguati per trasmetterlo, farlo intendere e apprezzare quale è: un contenuto vivo.
Riandiamo a Turoldo, evocando vicende e cercando ragioni di un’esperienza che è stata ed è messaggio che dura. La memoria è radice e futuro: dà linfa al presente, spessore all’esistere, conforto alla fatica. Si ricorda quando si è in grado di reggere il peso di ciò che è trascorso. Si ricorda per compensare una contemporaneità inadeguata e distratta, che suscita imbarazzi e inquietanti domande, che turba, che procura smarrimento. Si può e si deve ricordare per tenere acceso il lume del senso, per ribadire che una scala di valori è condizione di vita, per rialzare lo sguardo, per riportare di continuo l’oggi a misura di visioni ideali, per smentire che tutto sarebbe comunque uguale a tutto.
Ripensiamo Turoldo, rivisitando una vicenda personale con amore critico e recuperando motivi validi per ripartire da essa come purificati proprio dalla memoria, con slancio. La memoria rigenera, è un modo per sconfiggere la morte. La speranza si nutre di memoria. Senza memoria il futuro manca di progetto, è oscuro, esposto a spinte irragionevoli e a ripiegamenti. Amnesie o difetti di memoria, revisionismi storici o rimozioni feriscono la verità e producono notti cupe per la convivenza civile. L’oblio della coscienza porta dissociazione sia nella persona singola, sia nel collettivo e può condurre al caos. L’allentamento dei legami genera disgregazione dentro gli individui e nelle loro relazioni, provoca tale insicurezza interna non riconosciuta, e tanto meno ammessa, da divenire luogo di coltura per egoismi soggettivi e di gruppo, che vivono di prevaricazioni, di malessere proiettato all’esterno, su altri indicati quali causa di ogni guaio quindi da perseguitare, humus per regimi politici che garantiscono le appartenenze e penalizzano l’intelligenza, la solidarietà, la ricchezza che sgorga dalle diversità. Ricordiamo, insomma, per essere liberi, non dimentichiamo per essere forti, teniamo viva la memoria per poter cambiare.

Turoldo
Scelta morale
Padre David ha praticato l’etica della memoria. Grazie a una scelta morale rigorosa ha trovato la forza di levare l’ispirato cantico della speranza. La sua biografia è intessuta d’un paradosso costante. Due forze in lui si tendono, sino allo spasimo, come l’albero che tanto più cresce e protende i rami verso il cielo, quanto più trova una terra profonda e fertile in cui affondare le radici. Le tappe del cammino terreno di Turoldo procedono appunto secondo due istanze: uno slancio verso orizzonti sempre più dilatati, lontani, rischiosi e, insieme, uno scavo pensoso delle fondamenta solide su cui edificare ogni gesto e il percorso tutto. Qualche flash sul suo percorso aiuta a capire.
Turoldo cerca l’“Uomo”, l’“uomo nuovo” che deve uscire dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione. Ma è un umanesimo germinato sulla sequela di Cristo quello che lo infiamma dentro. Inventa la “messa della carità”, nella chiesa di San Carlo, per rendere credibile il Vangelo di cui, con il suo amico Camillo e i frati e gli amici e i compagni di avventura tutti, si fa novello, appassionato annunciatore, e lo sorregge una storia personale e civile antica, che rievoca con queste parole: “L’eredità della povertà come una delle più grandi ricchezze che uno porta con sé”. Sogna quel misto di “Città del Sole” e di piccolo anticipo di Gerusalemme Celeste che è Nomadelfia e scuote i benpensanti dal pulpito del Duomo, non potendo non sapere che pagherà tanta tumultuosa dedizione con il sacrificio: “sacrum facere”, l’offerta suprema delle pretese dell’Io. Lui, infatti, è “servo di Maria”. Riflette della Madonna, di cui reca le stigmate anche nel nome, David Maria, oltreché nella scelta dell’ordine religioso, l’icona millenaria della madre che contempla il figlio appeso alla croce con la corona di spine sul capo.
Ha l’ardire di eleggere Sotto il Monte a casa, ma è consapevole di non compiere un gesto isolato, frutto magari di un po’ d’inflazione. Nel paese di papa Giovanni si porta dietro la tradizione dei monaci che ponevano la loro dimora presso i luoghi santi, perché la fiaccola non fosse riposta sotto il moggio.
E si potrebbe continuare con gli esempi, per dire insieme a lui, a padre Davide, che la speranza sarà sempre uno scandalo e che la memoria fa davvero problema. È un binomio che inquieta la falsa pace delle coscienze; che revoca in dubbio l’ordine costituito; che sottopone a vaglio critico le piccole o grandi conquiste del presente; che mette in discussione le sicurezze del quotidiano, gli opportunismi, le acquiescenze, le rendite di posizione.



Chi ha conosciuto Turoldo sa quanto il ricordare fosse per lui connaturale all’esistenza e quale fosse in lui la preoccupazione che non venisse lasciato cadere il testimone di una generazione. E quale generazione! Erano gli uomini e le donne che a vent’anni si erano trovati prima in guerra e poi alle prese con la caduta del fascismo, con la lotta di Liberazione, con le esigenze della Ricostruzione, con i nuovi equilibri internazionali divisi a blocchi, contrapposizione che avrebbe rappresentato una minaccia continua alla pace e allo sviluppo dei popoli e che avrebbe prodotto ricadute laceranti all’interno di un Paese ridotto in macerie, povero, eppure fiero. Sì, una generazione orgogliosa di essersi scrollata di dosso non solo un assetto politico, ma una mentalità, una mentalità da regime, la mentalità del conformismo, delle collusioni, del comodo, dell’illiberalità, dell’autarchia, dell’odiosa discriminazione razziale, della chiusura al pensiero e ai rapporti con l’altro, con l’esterno; una generazione esuberante nei sogni, quasi esaltata dopo aver conquistato la democrazia, la Repubblica, la Carta Costituzionale con i suoi principi fondamentali, la dignità della persona umana, il diritto al lavoro, la dialettica sindacale, le associazioni e i circoli culturali, il cinema, la letteratura, il teatro, l’apertura all’Europa sognata e praticata dagli Spinelli, dai De Gasperi, dagli Adenauer, dagli Schumann, dagli Spaak.
Ecco, sul finire degli Anni Ottanta, gli sforzi di padre Davide si concentravano sulla ricerca dei modi capaci di assicurare che il passaggio di consegne tra chi aveva combattuto contro un nemico visibile e per ideali a portata di mano e chi, al presente, doveva fare i conti con difficoltà certo profondamente mutate per condizioni storiche ma non meno gravi e minacciose, potesse rappresentare ora un seme di rigenerazione e di rilancio, appunto, della speranza vissuta allora, negli anni del riscatto morale.

Turoldo

Chi ha frequentato Turoldo negli ultimi tempi conosce il cruccio che agitava padre Davide, mentre si predisponeva ad aprirsi all’altra vita: far memoria di un itinerario percorso nell’alternanza continua tra fiduciose attese e delusioni spesso cocenti, battute d’arresto che non erano però riuscite ad intaccare l’interiorità, mai a suscitare istanze distruttive, mai a dissuadere dal ricominciare da capo, mai tali, insomma, da indurre al cedimento alla resa, né nel vissuto spirituale, anzi sempre più temprato, né nella partecipazione civile, tanto alta e intima quanto più depurata da coinvolgimenti immediati.
Padre David coltivava determinato il proposito che si potesse e si dovesse trarre lezione e rinnovato slancio proprio quando involuzione e restaurazione “soprattutto in campo religioso, ma anche civile” sembravano aver contagiato le coscienze, instillato una sorta di ritiro privato di natura depressiva: la presunta inutilità del cambiamento.

Turoldo con padre Ernesto Balducci

I giorni del rischio
Già a metà degli Anni Ottanta padre David aveva invitato gli amici a “tornare ai giorni del rischio”. Da lui s’era levata un’evocazione forte, provocatoria espressa con l’intento di far da sprone a un’Italia e a una cristianità che egli percepiva asfittiche, ripiegate e appiattite. Gli strumenti di cui disponeva Turoldo erano quelli che lo avevano fatto amare e avversare, seguire e proscrivere, perché sempre ad alta tonalità affettiva si erano rivelate le reazioni alla sua stessa presenza, prima che al suo dire, reazioni alle quali peraltro egli contraccambiava. Ecco il canto lirico e liturgico insieme (reso in pienezza anche grazie alla forte amicizia instaurata con Gianfranco Ravasi); ecco la predicazione (il cardinale Martini gli aveva restituito il pulpito del Duomo, da cui era stato cacciato nel 1953, sotto papa Pacelli); ecco le amicizie coltivate nel Paese e per il mondo; ecco la vita a Sotto il Monte, costituito in centro di preghiera, di ecumenismo, di riferimento. Là, nella terra da cui era venuto Angelo Roncalli, primavera di rigenerazione per la Chiesa e per tutti gli uomini di buona volontà, Turoldo aveva ricostituito una rinnovata sorgente di “annuncio”. E il nome dell’abbazia, Fontanella, di per sé era ed è un programma.
Attraverso questo mix di nuovo e di antico, di passione evangelica e di rigorosità etica, di ansia spirituale e di impegno civile, così ambrosianamente congiunti in lui frate di origini friulane, padre Davide aveva lanciato la propria esortazione. Il messaggio del “rischio” teneva assieme almeno tre fattori: la sensibilità acuta, quasi viscerale, per i mutamenti della storia; le radici saldissime di un’antropologia biblica; l’ancoraggio a una filosofia dell’esistenza. Perché cambiano le situazioni, i riferimenti, gli equilibri, le vicende personali e collettive, ma non può venire meno la voglia morale di riscatto, la “gioiosa illusione” o l’utopia, se si preferisce, che la giustizia sia praticabile.
Arrivati al 1991 padre Davide incominciava a intravvedere con nettezza la fine. Cercando di affrancarsi dall’ipoteca delle condizioni di salute, si apprestò ad attingere all’ispirazione umana più vera, profonda, là dove la tensione del singolo si congiunge con un disegno che questi trascende e che insieme, però, accomuna agli altri.
La ripresa dell’appello a “tornare ai giorni del rischio” si trasformava nell’estrema dichiarazione di amore: aver trascorso “una vita per gli amici”. Con queste parole essenziali riassumerà il senso della speranza, della “sua” speranza e della speranza comune, della memoria-testimonianza sua e della vicenda collettiva. L’espressione turoldiana icasticamente riproponeva il modello di uno, di un singolo che si candida a possibile paradigma di liberazione e di salvezza per molti. Che è poi la cifra della speranza cristiana, radice dell’annuncio evangelico, il “vi ho chiamato amici” detto da Cristo agli Apostoli e a chiunque si sarebbe posto alla sequela, discepolo o uomo in ricerca.

Turoldo con il cantautore Fabrizio De Andrè

È emblematico riflettere sull’insistenza di Turoldo nel ricorrere all’espressione “uomo”, sin dal suo primo affacciarsi alla vita religiosa e pubblica di Milano.
“Uomo”, parola mai abbandonata, fosse fiamma o brace sotto la cenere, a seconda dei momenti. Si evoca L’uomo con la “U” maiuscola, che fu la testata clandestina, cui Turoldo aveva dato vita dopo il 25 luglio del ’43 nel convento di San Carlo, a Milano, insieme all’inseparabile confratello dei Servi di Maria Camillo De Piaz, ad Apollonio, a Bontadini, a Del Bo, a Santucci, per citare quelli che soccorrono immediatamente alla mente. Allora era un giornale e insieme luogo di incontro, un ideale di edificazione delle coscienze individuali e politiche, occasione di collaborazione con altre ispirazioni culturali (si pensi agli sviluppi con Vittorini e Rossana Rossanda, con la “Casa della Cultura” e con “L’Umanitaria”), banco di prova di una liberazione interiore, personale, prima, e poi della Liberazione tout-court. Poco dopo, l’8 settembre del ’46, L’Uomo avrebbe chiuso come testata. Le “pagine di vita morale” - questo il sottotitolo - sarebbero rimaste bianche, intonse. Finita la guerra, iniziata la Ricostruzione, fatta la Repubblica, insediata la Costituente non c’erano più fondi e risorse per un giornale, certo.
Ma anche l’“uomo nuovo” immaginato con entusiasmo il 25 aprile dovette cedere il passo alla quotidianità, alle esigenze di una situazione da rendere il più possibile “ordinaria”. La delusione fu grande e a rendere più gravoso il naufragio dei sogni ci pensarono i normalizzatori. Ecclesiastici o politici che fossero ci si misero d’impegno, studiarono prima misure per neutralizzare il messaggio che giungeva da Milano al Paese intero e poi, vista la scarsità dei risultati prodotti dalle intimidazioni, andarono oltre, sino alle angherie e alle persecuzioni.
E giunsero ai provvedimenti estremi i gendarmi dell’ordine costituito, contando di riuscire a sradicare l’albero che, grazie al lavoro della Corsia dei Servi tutta, protendeva rami sempre più rigogliosi attorno e su, verso il cielo, puntando a insterilire il rizoma che perveniva dritto alle radici dell’annuncio evangelico, così da rendere brullo e inospitale il terreno attorno. E allora arrivarono a smembrare la comunità dei frati, a far tacere la voce del Servo di Maria che parlava dal pulpito di quel Duomo pur dedicato a Maria Nascente, a cacciare Turoldo da Milano, mandandolo in giro per il mondo. “Fatelo girare, perché non coaguli”, aveva ammonito il Sant’Uffizio.
Come poi sia andata negli anni successivi, dopo lunghi patimenti, si sa: per fortuna di padre Davide, della cristianità italiana, della cultura del Paese. Venne papa Giovanni, fu indetto il Concilio Vaticano II - un’assise “pastorale”, non “dogmatica” come fu detto -  il grande sogno collettivo, ecumenico, la Chiesa tornò ad aprirsi e a parlare al mondo con “gaudio” e con “speranza”. E tra alti e bassi, aperture e contraddizioni, slanci e riflussi, attese e soste forzate, Turoldo riuscì a proseguire il suo lavoro intenso dall’avamposto di Fontanella, appassionato e vigile, critico, insofferente ma sempre disponibile a riconoscere gli eccessi e a scusarsi, mai comunque remissivo, sempre dedito, sino all’oblazione. Così, allo schiudersi degli Anni Novanta, tornava insistentemente quell’ “uomo”, ancora una volta l’ “uomo” assurgeva a parabola, ritrovava il terreno fertile e recuperava intatta la vigoria, di una parola d’ordine. Ecco, padre Davide chiedeva che lo si dicesse, che lo si gridasse dai tetti che era giunto il momento di una nuova, possibile molla morale.

Turoldo


Salvarsi da queste generazioni astoriche
Quella di Turoldo è un’avventura, singola e generazionale, fra le più straordinarie della seconda metà del secolo XX. Le fatiche, le tribolazioni, il male non avevano fiaccato il frate-poeta. Anzi, lo inducevano a un ammonimento. Era convinto che esistessero le condizioni propizie per radunare le forze e che sarebbe stato necessario vedere bene i pericoli ai quali si sarebbe potuto andare incontro, qualora non ci si fosse disposti a riprendere di buona lena un cammino di riscatto, a ricordare e a riaffidarsi alla speranza. Sempre lei, la speranza, perché ogni cosa prende le mosse di lì, come una fonte a cui si deve tornare continuamente, perché la dignità degli uomini riceva alimento e forza. Così rincuorava i delusi e i depressi, affermando che sarebbe stato possibile «salvarci da queste nuove generazioni che nel nostro Paese sono astoriche: generazioni senza radici e certamente, se non si pone rimedio, anche senza futuro». Siamo agli inizi del 1991. Giusto un anno e scoppierà Tangentopoli: undici giorni dopo la morte di Turoldo. Ancora a fine novembre di quel ’91, ormai provato nel fisico ma vivacissimo, quando il cardinale Martini gli consegnò il Premio Lazzati assegnatogli dall’Ambrosianeum, padre Davide incalzava i suoi interlocutori in un crescendo di commozione: «Per capire i tempi bisogna ascoltare cosa dicono i poeti. Per sapere cosa patisce il mondo bisogna interrogare i poeti».
Al privilegio e al dono di dar voce a tristezze e ad aspirazioni, di cantare fedi e battaglie, di incrociare le cadenze del verso poetico con la Parola del cielo, di trasfigurare il tormento umano in salmodia, teneva molto. Comporre era per lui anticipo di una vita che dura, promessa certa di una morte che verrà sconfitta. Intanto sentiva le cose che già si scoloravano, le vedeva farsi remote, eppure si dichiarava felice di aver vissuto tutto quello che aveva vissuto. E insisteva per offrire quei frutti fecondi. Lo muoveva un’ansia di ringraziare chi lo aveva generato, nel fisico e nello spirito, un bisogno di ricambiare, di restituire qualcosa agli amici, ai compagni di strada, riconoscente per ciò che aveva imparato.

La tomba di Turoldo a Fontanella (Bg)

Fra un ricovero, una convalescenza, un rinnovato buttarsi nel lavoro (sono i mesi in cui è acuta la passione per Qohelet) padre Davide riusciva a trovare qualche spazio per coltivare il sogno di raccontare in libro la sua storia. E scopertamente, roccioso eppure con il suo animo di fanciullo, mi dava indicazioni su come avrebbero dovuto venir suggeriti i tratti della sua personalità. Già, perché aveva scelto me per scrivere insieme a lui la narrazione della sua vita. «Che non sia un'autobiografia, però», mi raccomandava. C'era tutto il nascondimento del religioso, che avrebbe voluto farsi banditore della Buona Novella e non di sé, della sua storia personale. Alla maniera del suo amato papa Giovanni, che mentre rivoluzionava la Chiesa, si faceva piccolo e diceva «Io conto niente». Il mio dolore fu, ed è, che siamo riusciti soltanto a progettare quel libro. Gli teneva compagnia in quei giorni l’amato Dostoevskij. Diceva di essersi sempre sentito come il quarto dei fratelli Karamazov. Sentiva la passionalità di un Dimitri, la critica religiosa di un Ivan -  «il tormento dell’ateo religioso quale è Ivan» - e si sentiva l’Alioscia che abbraccia la terra quando muore il suo staretz Zosimo. La chiave per interpretarlo bene sia nella passionalità, sia nel senso critico, sia nell’afflato cosmico della santità e del tormento di Dio sarebbe consistita nel collocarlo entro le dimensioni epiche di un eroe di Dostoevskij. «Questa - mi diceva -è in sintesi la mia origine, la mia avventura e l’anima che sta sotto e che porto con me sino alla tomba».

Turoldo in un lavoro del pittore Giuseppe Denti

Perché non una nuova cultura
Al mettersi in gioco Turoldo non intendeva sfuggire, tanto meno all’ultimo, perché di fronte alla morte non si scherzava. Così veniva interrogandosi, senza mezze misure e concessioni, sulle cause dei fallimenti. Padre Davide si angustiava a chiedersi perché, dopo le tragedie, i lutti, i sacrifici, il dono della vita fatto dai condannati a morte della Resistenza in Italia e nell’Europa intera, non fosse nata una nuova cultura, non si fosse affermata una politica nuova, neppure un modo nuovo di sentire e di vivere la religione. E poi perché, successivamente, anche quell’evento dirompente che era stato il Concilio, fosse stato messo ai margini ad opera delle stesse chiese.
Eppure, la consapevolezza delle sconfitte o della esiguità dei risultati non mortificava in Turoldo il bisogno di gridare che la cosa migliore che gli fosse potuta capitare in tutta la sua vita era stata quella di essersi fatto frate, che lui non aveva da arrossire o da scartare nulla della sua vita. Questa era stata molto piena, molto tumultuosa, chissà se utile dal punto di vista pratico, dei risultati, ma certo non un’avventura da poco. Predicare, testimoniare, battersi per i poveri: il senso della sua biografia bisognava ricercarlo lì, essere per i poveri, perché Dio stava da quella parte, non c’era nulla da fare. Non che Dio escludesse gli altri, ma li attendeva su quel versante, con le braccia aperte del Cristo sul mondo. E anche la Chiesa non persuadeva padre Davide se non era povera. Delle passioni e dei pensieri degli ultimi tempi, della pacificazione nell’affidarsi “a quel che Dio vorrà” ma insieme dell’ansia di non lasciar nulla d’intentato perché testimonianza resti e dia frutto fecondo è bellissimo esempio La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza. È l’“autobiografia” (non trovo altro termine per dare un'idea del libro) pubblicata da Mondadori in occasione dei dieci anni dalla morte di padre Davide. In quelle pagine e soprattutto in quel sottotitolo Vocazione e resistenza che Turoldo stesso appose in una cartella che precede il manoscritto, è condensato con passione lo sforzo riflessivo e l’estrema tensione di vita.

Veduta dell'abbazia di Sant'Egidio a Fontanella (Bg)

È la consegna della speranza, immaginata e poi resa parola perché il colloquio continui, è l’impegno a mantenere e a diffondere la memoria con gioia e fiducia nel cambiamento che verrà. Rinvio al volume, alla lettura e alla meditazione di un testo che è straordinario. Per parte mia posso offrire una chiave con cui accostarsi, così come la diede padre Davide a me: «La società di oggi ha bisogno di uomini che si candidino ad essere punti di riferimento per gli altri uomini. Avere qualcuno che ti cammina al fianco e nello stesso tempo è persona che offre esperienza, vissuto agli altri». E ancora. «Più che il padre, io mi son sempre sentito il compagno, il compagno di viaggio, itinerante, il pellegrino che poi, dal punto di vista del profondo, è il cercatore, l’indagatore. Non c’è mai un punto fermo. Men che meno Dio è un punto fermo. È spostabile sino all’infinito. Perché, se vuoi, un’altra caratteristica della mia vita è che non mi sono mai impalcato a maestro. Se penso alle prediche che ho fatto in Duomo, nelle chiese, nelle piazze io non ho mai predicato come uno che sa, cioè come uno che possiede la verità. Mi son sempre sentito un docibile. Come dice il Vangelo: Et erunt omnes docibili Dei».

La tentazione di andarsene
Sono utili qui alcune notazioni. Vocazione e resistenza è manifesto turoldiano, binomio dove si incrociano (evocazioni di un verbo: la Croce, la Croce di Gesù che è la nostra perché «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me»), dove si incrociano dicevo. scelta religiosa, spiritualità, poesia, impegno civile. Vocazione complessa quella di Turoldo. E quanto gli è costata. Spiegando perché era rimasto nella Chiesa, per esempio, confessava: «Ho avuto la tentazione di andarmene infinite volte. Sono restato perché non basta credere per se stesso, bisogna credere anche per gli altri. E quando si ha responsabilità pubbliche, prima di scegliere ciò che più piace, si deve scegliere ciò che si deve. Capito? Quindi si ingoiano i rospi. Si superano le maggiori diffidenze, e perfino le scomuniche».
Sorelle di “vocazione” sono altre due parole ricorrenti e care al lessico di padre Davide: libertà e fedeltà. La prima rappresenta un’ulteriore voce di costo elevato («Nessuno te la regala, devi conquistartela»). La seconda «è spesso la corona di spine sul capo di Cristo» e di chi si pone alla sua sequela, non solo come singolo, ma quale parte viva della comunità cristiana. Un vissuto, quello verso la Chiesa, che - dirà - «è stata sempre il mio amore». E, giunto ormai a poche settimane dalla fine, che passione, che trasporto, che vividezza (e quale emozione per il dono che mi stava offrendo di una così preziosa consegna) nello spiegare il suo legame libero e fedele: «Non c’è nulla di così umano come la Chiesa, nel suo bene e nel suo male. Umano nel senso che corrisponde alla natura umana. È il riassunto anche del peccato la Chiesa. E poi l’espressione di tutto l’uomo, sia nel suo spirito, sia nella psiche. La Chiesa nel mentre che è veritiera è sempre ambigua. Perché? Perché non sai mai se è un mistero o un’organizzazione, se è una potenza o un servizio. Tu non sai mai se è un dominio o una liberazione, se è un lavorare per il Regno dei Cieli o per il regno della terra».
Quanto al secondo termine del binomio, la parola “resistenza”, si sa che rappresenta uno spartiacque dal punto di vista storico-politico. Ma si dice soltanto una parte di padre Davide e gli si fa torto se lo si riconosce unicamente, o in maniera prevalente, sotto questo profilo.

Turoldo in un dipinto di Vanda Guanella

Il cristiano è un resistente
Non si può comprendere padre David se non si ha presente che cosa può comportare il ripercorrere la strada di Cristo, la sequela di Gesù  Salvatore. «Il cristiano è un resistente», ebbe a dire più volte Turoldo. E spostava così l’atteggiamento sul piano a lui veramente congeniale, il piano intimo, spirituale, giungendo a definire la Resistenza «la mia divisa interiore». Più che uno schieramento nel campo della contesa tra ideologie e partiti, che oggettivamente ci fu al momento del bisogno e della lotta, la scelta turoldiana non equivalse mai a un’identificazione con un progetto ideologico o di cultura politica. È la radicalità evangelica che caratterizza e illumina con trasparenza i comportamenti e le opzioni di Turoldo, il no al male, l’estremo, drammatico appello, che era poi il grande atto d’amore di Gesù alla sua generazione: “convertitevi, altrimenti perirete tutti”. Diceva: «Si può e si deve predicare il Vangelo, ma praticarlo è sempre un rischio, sempre un pericolo!». Tant’è che, al culmine dello struggimento, allontanato prima dal Duomo e poi dall’Italia, giungeva a dover dire che la Chiesa «non ha mai sposato la possibilità di cambiare il sistema: non ha mai canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto quelli della carità”. Per concludere, a pochi mesi dalla morte, esortando a una “concezione ormai metafisica dell’essere cristiano, per resistere dentro la stessa società, tanto religiosa che civile».
Se un accostamento può servire a riassumere, si può dire che in padre Davide resistenza, con la “r” maiuscola o minuscola poco importa, speranza, memoria (il “far memoria” quasi assunto a gesto corale di sapore liturgico-eucaristico) si prendono la mano e camminano verso la pace evangelica, la stessa del saluto che Gesù risorto rivolge agli Apostoli, invitandoli a portare quella parola nel mondo: “Pace a voi”, a farsi “operatori di pace”.

Taccuino con un brano di una lettera inedita di Turoldo

Il Discorso della Montagna è stato come una bussola per il cristiano Turoldo. Ma padre Davide volle coniare una nuova categoria tra le Beatitudini: «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione». Faceva capolino una finissima e dolente autocritica in questa affermazione. Era il modo per padre Davide di riconoscersi un “perdente”. Ma, sia chiaro, non uno sconfitto. Mai. Anzi, noi ci troviamo cui oggi a ricordare un Turoldo tutto sommato “vincitore”, nel senso della vita, quella vera, che ha battuto la morte, ancora una volta. Poche settimane prima che il male prendesse il sopravvento, aveva detto: «La profezia non è annuncio del futuro, ma la denuncia del presente nel confronto con la Parola», cosicché la Parola è il futuro del mondo e il senso della storia. Padre David ha cantato quella Parola in parole. Noi abbiamo il compito di farne memoria, per noi e per chi è distratto o non ha nessuna voglia di ricordare, perché Turoldo, cantando lo scandalo della speranza, è stato scomodo nel suo tempo e ancora infastidisce i molti che vorrebbero vivere tranquilli, acquiescenti, presi dai loro piccoli o grandi interessi, perché, tanto, c’è sempre qualcuno pronto a pensare per loro. Questi non lo ricordano contando, più o meno inconsciamente, che, relegandolo loro nel dimenticatoio, si offuschi non solo la memoria di lui, della sua personalità forte, incombente, ma anche si annacquino i valori per cui lui ha vissuto, patito, sperato, si assopiscano le inquietudini, si plachino le domande.

Copertina del libro dedicato a Turoldo
per il centenario della nascita

Dobbiamo fare memoria di questo frate poeta soprattutto per i giovani, che già oggi si sono affacciati sul mondo e per quelli che ancora devono venire, mostrare come egli, con la sua parabola di vita e con le opere, tra esuberanze certo ma con autentico spirito di donazione totale, ha ancora qualcosa di importante da dire. Dobbiamo impegnarci, se vogliamo che la speranza abiti anche le nuove generazioni. Qualora non facessimo nostra l’etica della memoria, avremmo ancora il coraggio di reggere lo sguardo penetrante dei nostri figli e il sorriso dei nostri nipoti? 





L’ossessione della governabilità
di Giovanni Bianchi



I registri della mente
Ibam forte via sacra e distrattamente (passo da Orazio alla canzone napoletana) mi sono scoperto a divagare intorno al referendum sulle riforme costituzionali. La riforma non mi pare granché, tuttavia mi è già accaduto altre volte di pensarla così e quindi mi ero affidato a un consiglio moroteo che suona: è meglio sbagliare con gli amici che avere ragione da soli. Non funziona del tutto perché anche gli amici hanno provveduto a dividersi animosamente… 
È dunque d’obbligo tornare a una qualche riflessione e magari a una statistica sugli schieramenti degli amici. Con una constatazione sorprendente: tra gli effetti indesiderati e i danni collaterali della globalizzazione va annoverato l’espandersi delle epidemie dai corpi alle passioni e alle coscienze. Prima vittima visibile la politica italiana.
Due intanto i registri della mente. Il primo si apre e chiude in fretta. Chi sono gli amici? I superstiti o impenitenti cattolico-democratici. Il confronto e il dissidio tra essi sono dilagati. Inutile quindi chiudere la stalla se i buoi sono usciti tutti. Resta plausibile un invito: mettiamo in conto di ritrovarci dopo il voto.
È stato ricordato dal giovane parlamentare del PD Roberto Speranza –che beninteso risulta di altra confessione culturale e politica– come i democristiani si dividessero nel primo referendum postguerra (giugno 1946) tra chi scelse la Repubblica e chi votò la Monarchia; tuttavia restarono nel medesimo partito e soprattutto riuscirono a governare a lungo e insieme il Paese.
L’osservazione è corretta. Dossetti, prendendo le distanze da un’etichetta che lo vedeva sempre sconfitto, ricordò all’Archiginnasio di Bologna e in altre occasioni di avere interpretato in maniera creativa la direttiva degasperiana che suggeriva ai suoi di presentare in maniera equanime il confronto tra Repubblica e Democrazia.
Dossetti raccontava di avere illustrato sulle piazze di una infuocata campagna elettorale entrambe le posizioni, ma con un’accentuazione partigiana nei confronti della scelta repubblicana. Proprio per questo considerava la vittoria referendaria nel 1946 una propria vittoria.
Della serie: la concordia discors non è un’invenzione dell’ultima stagione politica del Belpaese e nell’ambito del glorioso mainstream del cattolicesimo democratico nazionale.
Di qui l’esortazione finale: troviamoci dopo il voto per verificare quel che sarà rimasto del cattolicesimo democratico per interrogarci – insieme – sull’utilità o meno di rimettere in campo i valori (parola grossa e non poco desueta) nei quali ci identifichiamo, le forze residue e soprattutto la residua utilità delle nostre presenze orientabili a iniziative non condannate alla nostalgia. Senza reducismi e con il senso delle proporzioni.
Commemorando a Brescia il novantesimo anniversario dell’appello sturziano Ai liberi e forti (18 gennaio 1919) dissi con una brutalità non consona alla circostanza che consideravo morto il cattolicesimo democratico. E tuttavia – aggiunsi – “morto di parto”. Restano dunque da scoprire nelle contrade italiane i figli forse naturali di una grande cultura, qualcuno, chissà, disponibile a una pratica parrocchiale non dismessa: i corsi per fidanzati.
Il secondo registro della mente è più voluminoso del primo, e perciò mi limito a evocarne due sole voci: governabilità e leadership.


Sulla governabilità
Vi è un elemento inquietante nella fase convulsa che attraversiamo e della quale il tempestivo
dibattito aperto da “la Repubblica” dà conto: nel Bel Paese i pozzi della politica sono stati avvelenati. E a questo punto sarebbe forse ozioso vedere chi ha cominciato per primo e chi ha usato le dosi più massicce. Più utile – anche se la proposta può apparire demenziale e fuori dal mondo – sarebbe che ogni cultura politica provasse a interrogarsi in pubblico e a individuare le proprie responsabilità prima e insieme alle altre.
E infatti, Mino Martinazzoli, un politico che non usava abitualmente la categoria pubblicitaria dell’ottimismo, aveva l’abitudine di ripetere che per le nuove generazioni l’autocritica si era trasformata nella critica delle auto…
Le giovani sociologhe americane hanno nel frattempo coniato il verbo surfare (l’abilità di chi su una tavoletta sfida l’onda dell’oceano) per dare conto delle performances politiche odierne, non soltanto di quelle della campagna presidenziale americana.
Eppure, spericolatamente, provo a rimettermi sulla vecchia strada della critica e anche dell’autocritica, convinto che senza onestà intellettuale e ascolto dell’altro sia inutile continuare a parlare di democrazia.
La ragione del contendere e, prima ancora, del manifestarsi virale di un malessere diffuso, profondo, insopportabile, ben al di sopra di quell’indole degli italiani che Giacomo Leopardi fin dal 1824 e poi Prezzolini, tra le due guerre, hanno messo in rilievo, riguarda infatti un approccio postmoderno alla politica che, se non analizzato e mutato, mette a rischio il bene comune della democrazia e rende inutili gli sforzi, anche quelli in buona fede, di porvi rimedio.
Non si tratta di scaricare la colpa sulla meteorologia politica e neppure ancora una volta sul costume degli italiani, ma di mettere nel conto che la Carta del 1948, così come la Dichiarazione Universali dei Diritti Umani dell’Onu, sono rese possibili e supportate da un sentimento del tempo e del futuro generalizzato in Italia e nel mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Il clima politico evocato e descritto da molti intervenuti nel dibattito in corso può al contrario essere sintetizzato con un termine nicciano: “risentimento”. Un sentimento diffuso che Aldo Bonomi ed altri hanno provveduto a rintracciare con le sociologie nel tessuto quotidiano come rancore, disintermediazione, incomunicabilità, narcisismo acquisitivo, incapacità di ascolto, aggressività nei confronti dell’altro.
Gianluca Di Feo ne individua gli agenti nella politica, nella magistratura e nei media, “tutti in qualche modo responsabili di avere malinteso il proprio ruolo”.
Al di là delle responsabilità ètuttavia utile constatare che questa condizione di risentimento e di rancore avvelena i rapporti delle nostre giornate, non soltanto nelle istituzioni e nelle organizzazioni del politico, ma anche nella vita quotidiana. Una situazione che comunque chiede di essere governata e superata e che proprio per questo ripropone duramente il rapporto tra governabilità e democrazia.
Con un’osservazione preliminare: che una democrazia non governata deperisce, ma che il massimo della governabilità coincide con il minimo della democrazia. Un rapporto quindi complesso che chiede di essere valutato sul campo da entrambi i corni del dilemma.


Il punto di vista
Un punto di vista cioè dal quale osservare e criticare le politiche in atto, lungo tutto quello che un tempo veniva definito “l’arco costituzionale”, e che oggi è l’arena rissosa dove le recite politiche di un populismo onnivoro si esercitano, fino a cannibalizzare (più presto di quanto questi s’aspettino) i propri campioni. E infatti la cosa che ogni volta più mi sorprende è notare come i diversi esponenti del credo rottamatorio (tutti e sotto tutte le bandiere) non sospettino che –grazie anche alla velocità dei tempi da essi interpretata ed introdotta– giungerà il tempo di rottamare i rottamatori. Insomma, di rottamazione si vive, ma anche di rottamazione si muore: sempre più presto di quanto tu abbia preventivato.
Non è disaffezione dei cittadini o la proverbiale mancata riconoscenza dei governati (o forse non solo questo): si tratta piuttosto della velocità di caduta di queste politiche, ma anche nel senso della propria inevitabile obsolescenza. Ha ragione ancora una volta Toynbee: le culture e le organizzazioni si suicidano. Un processo e un trend che, oltre che nel senso, chiede ogni volta di essere valutato nei dettagli.
La fase e il cambiamento evocati da tutti i competitors – sia quelli che hanno vinto le ultime elezioni amministrative come quelli che hanno perso – chiedono quindi di essere valutati nei diversi aspetti costituenti, là dove più si esercitano le scuole di pensiero, gli ottimismi e le paure, l’acutezza e la refrattarietà, e perfino l’eleganza e il kitsch.
Tutti d’accordo dunque sul cambiamento, presentato anche come il cambio di passo. Ma quale, e a partire da dove e per dove approdare?
Tra le diagnosi più coinvolgenti e chiarificatrici metterei al primo posto l’intervista rilasciata dall’ex premier Romano Prodi a “la Repubblica” di mercoledì 22 giugno:
“Non basta guardare il voto di questa o di quella città. C’è un’ondata mondiale, partita in Francia, ora in America. Lo chiamano populismo perché pur nell’indecifrabilità delle soluzioni interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo: l’insicurezza economica, la paura sociale e identitaria… La paura di non farcela è tremenda ma non immaginaria. La chiami iniqua distribuzione del reddito, ma per capirci è ingiustizia crescente… L’ascensore sociale si è bloccato a metà piano e dentro si soffoca… La disonestà pubblica peggiora le cose, ma la radice è la diseguaglianza. Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga… Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale”. Niente da aggiungere. Un pezzo da antologia. Una condizione sociale e democratica che, per dirla con linguaggio antico, richiede interventi strutturali e non una pioggia di voucher che puzzano di furbizia elettorale. Come gli inglesi hanno votato la Brexit per togliersi dagli occhi pakistani e polacchi, così il voto degli italiani in questa stagione è determinato anzitutto dal giudizio sulla propria condizione sociale. Qualunque sia il tema sottoposto al verdetto del voto.


Le incognite
Ovviamente le incognite sono molteplici. Ma siccome una diversa e più puntuale governabilità appare l’inevitabile risposta politica da dare alla crisi in atto, la prima incognita riguarda il rapporto tra democrazia e  governabilità all’interno di una tensione che riguarda tutti i governi in carica. Una tensione messa a fuoco nella metà degli anni Settanta dalla Conferenza Trilaterale di Okinawa. Crozier e Huntington si occuparono della discrasia tra i processi di governabilità e quello che venne chiamato un eccesso di partecipazione, del quale in particolare l’Italia era giudicata soffrire. (Gli atti della Conferenza furono pubblicati anche nel nostro Paese, con la prefazione di Gianni Agnelli.)
Se ne può legittimamente dedurre che i problemi che angustiano il Paese non si collocano tanto sul fronte di una sinistra oramai introvabile, anche nei suoi esiti riformisti, ma su quello di una democrazia da reinterpretare e ri-praticare.
Detto alle spicce e un poco alla plebea: la governabilità ha bisogno di decisione e di decisioni in tempi rapidi. Chi decide inevitabilmente taglia e produce conflitti. Si ripete a questo punto giustamente che il conflitto è il sale della democrazia. Ma la democrazia non può essere soltanto conflitto: quantomeno deve prevedere un luogo e un sentire comune dove il conflitto viene democraticamente disciplinato. Questo luogo è rappresentato ovunque dalle carte costituzionali. La costituzione quindi non può essere messa in quota alla governabilità perché ha sue legittimazioni altre che non discendono dal decidere. Anzi spesso le costituzioni si incaricano di complicare le cose anziché semplificarle. Soprattutto quando mostrano il peso degli anni.
Eppure una rapida comparazione con la costituzione degli Stati Uniti d’America dice che le politiche più decisionistiche possono  convivere con una costituzione secolare, aggiornata con pochi emendamenti. Ne sapeva qualcosa Don Luigi Sturzo, a lungo esule negli States.
Nel frattempo è ritornato in campo Massimo D’Alema “per dare voce a molti che altrimenti non l’avrebbero”. Un’occasione da non perdere (per il Massimo nazionale). Baffetto di ferro rappresenta tuttavia, al di là dell’esibizione dei sempre validi muscoli dialettici ed eristici, una forte spinta (ovviamente a contrario) per la credibilità del Premier.
Strano e sbilanciato giudizio di Paride, sommamente intempestivo. È come se ai miei tempi si fosse proposto alle nuove generazioni di allora un confronto e un voto tra Sofia Loren e Tina Pica. Anche Padre Pio avrebbe votato Sofia Loren.
E tuttavia Renzi non cessa di agitarsi e di estrarre sempre nuovi conigli dal cilindro del suo marinettismo sfrenato: e così su un voto già confuso e carico di troppe cose diverse ha messo anche il carico del Ponte sullo Stretto, di sicura ascendenza onirica e berlusconiana, con nel retrogusto un sentore di mafia perenne. Il colpo di teatro viene legittimato con la creazione dei posti di lavoro. C’è perfino puzzo di laurismo in questo approccio. (Il Lauro napoletano passato alla storia per avere anticipato la pratica del capitalismo compassionevole, ovviamente condita con ingredienti borbonici e straccioni.) Credo davvero che in nessun teatro milanese o romano vada in onda una pochade tanto assurda e sorprendente.


La governabilità avanti tutto
Eppure dietro le bastonate del teatro dei pupi consiste una sostanza che viene da lontano. Essa ha il nome possibile di “arroganza della governabilità”. Ma prima di illustrarne l’origine vale la pena di ricordare che governabilità e arroganza hanno radici lontane all’interno del centrosinistra e fanno capolino addirittura nell’Ulivo prodiano, dove a farsene propugnatore e battistrada è nientemeno che Arturo Parisi.
Il filo non si interrompe con la proposta veltroniana del “partito a vocazione maggioritaria”.  Un’etichetta che mi lasciò perplesso e non mi convinse mai. Nonostante le rassicurazioni di amici autorevoli io continuavo infatti a guardarmi in giro e a non vedere nel campo e nella storia dei partiti politici nessun “partito a vocazione minoritaria”: per la intuibile ragione che sarebbe risultato assurdo per i proponenti e per gli elettori  proporre e votare un partito che si candidava programmaticamente a perdere.
Ma torniamo alla governabilità, all’imprescindibilità del suo avvento, ai non pochi problemi che presenta nel suo rapporto né scritto né scontato con le regole democratiche.
Non solo Luigi Sturzo sosteneva che proprio la democrazia fosse sempre a rischio, ma è consentito credo usare una metafora più commerciale e per così dire da cucina: se ogni volta che attingi al frigo della democrazia non ti curi di ricaricarlo, accadrà che un giorno aprendo lo sportello troverai il frigidaire desolatamente vuoto.
Quindi la democrazia deve essere considerata un “bene comune” da valutare e riproporre ogni volta: accanto al resto, insieme alla lista della spesa, rinnovando in forme nuove la riflessione e la pratica democratica. Riconoscendo che la democrazia generalmente complica le cose anziché semplificarle. Che il Parlamento per restare tale deve continuare a parlare e quindi anche a “perdere tempo”. Che in fondo ha ragione Henry Kissinger quando in Diplomacy osserva, neanche tanto sconsolato, che neanche lui sa dire come funzioni la democrazia negli States, ma che alla fine produce comunque un risultato.


Una costituzione di longevità secolare (1787) e che vede ogni nuovo presidente giurare sulla Bibbia. Cosicché l’eventualità che ad accedere alla Casa Bianca possa essere Donald Trump potrebbe far pensare a uno spostamento della capitale a Las Vegas e a una opportuna sostituzione, dentro la copertina di pelle, del Decamerone al posto della Bibbia.
Quel che mi lascia più perplesso è l’eccesso di personalizzazione che il Premier ha elaborato in questa congiuntura. Con l’accompagnamento della passione e dell’ammonimento dei fans: dopo di lui il diluvio. Il motto è stato opportunamente tradotto con l’espressione “non c’è alternativa”. È in fondo anche la posizione del lucidissimo Massimo Cacciari (ho nei suoi confronti un debito di gratitudine) il quale va dicendo tutto il male possibile di una riforma non commestibile, cui fa seguire l’esigenza di votare, non importa se turandosi il naso o meno, comunque per Renzi: perché non c’è alternativa…
E così, senza mai citarlo, abbiamo recuperato dalla naftalina il Tina di Lady Thatcher: “non c’è alternativa”. Con effetti prolungati e sgradevoli. L’applicazione del Tina demonizza da subito gli avversari interni e immediatamente anche quelli esterni. Il risultato più democraticamente clamoroso è che viene bandita la ricerca critica dall’alternativa. Per questo i partiti si sono afflosciati e stanno progressivamente e precipitosamente abbandonando la scena: un partito politico e democratico per continuare ad esistere deve continuamente cercare un’alternativa.  Anche qualora non si profili all’orizzonte: ne va del suo senso, della credibilità, della dinamica interna ed esterna.
I dossettiani lo sapevano bene. Stimavano De Gasperi e non mancavano occasione per criticarlo aspramente. In qualche caso addirittura lo amavano, pur tuttavia la ricerca dell’alternativa non cessava. In una condizione di guerra fredda e di libertà senza uguaglianza e di uguaglianza senza libertà: o Washington o Mosca.
A contrastare Alcide De Gasperi c’era Palmiro Togliatti, con alle spalle il più esteso e potente partito comunista d’Europa e una serie incredibile di fantasmi e di propagande che paventavano i cavalli cosacchi scesi ad abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e tutto l’armamentario di quel 1948 che non ha mancato di produrre grandi passioni insieme a valanghe di consensi.


La ricerca dell’alternativa e il ruolo della leadership
Eppure gli amici di Dossetti non cessavano di fare le pulci al Premier  nella Direzione della Dc come sul loro foglio “Cronache Sociali”. Dove infatti vi imbattete nelle pagelle di tutti i membri del governo: valutando passo dopo passo il loro operato e dando i voti come oggi s’usa in televisione soltanto per i calciatori. Insomma una cosa senz’altro avevano chiara i dossettiani: che senza la ricerca dell’alternativa non si dà e non funziona nessun partito democratico, anche quando è retto da un gruppo dirigente all’altezza della situazione. Ruvidi e spigolosi, ma sempre attenti e vigili.
Oggi invece si preferisce procedere -sotto tutte le sigle e le bandiere- per demonizzazioni tempestive e contrapposte. Capro espiatorio massimo è in questa fase Beppe Grillo. Come se il problema fosse denigrare il comico approdato alla politica, e non invece chiedersi le ragioni per le quali gli elettori lo votano.
Pare perfino banale osservare che la scommessa non è convertire Grillo, ma intendere le ragioni per le quali gli italiani lo votano e provare a fargli cambiare parere…
E invece ecco andare in scena il teatro dei pupi perenne. Ecco la politica televisiva ridotta a confronto tardo-nietzschiano tra grandi biografie. Non è così.
Aiuta e sorregge in questi casi il metodo usato da Machiavelli nel Principe: interrogare la storia e interpretarne gli esempi. Si potrebbe cominciare prendendola biblicamente molto alla lontana e cioè osservando che gli ebrei hanno vagato quarant’anni nel deserto alla sequela del loro profeta più grande: Mosé. Ma entrarono finalmente nella terra promessa al seguito di Giosuè, che con i punteggi solitamente riservati ai calciatori dagli opinionisti della televisione potrebbe forse valere uno o due là dove Mosé vale almeno dieci…
Ma veniamo più vicini a noi e interroghiamo l’epoca moderna. Credo che il giudizio storico assegni a Winston Churchill la palma del più grande tra i vincitori del secondo conflitto mondiale. E’ Churchill che, dopo l’invasione dell’Europa continentale iniziata nel 1939 dalle armate hitleriane con la campagna di Polonia e continuata con l’invasione del Belgio, dei Paesi Bassi e della Francia, impugna il vessillo della democrazia non consentendo che il Vecchio Continente sia ridotto a steppa desolata sotto il tallone di ferro della dittatura nazista. E’ Churchill il più lucido tra i grandi di Yalta. È Churchill che convince gli inglesi a mettersi sulla strada delle lacrime e del sangue, che vede Londra coventrizzata, che fa pagare ai sudditi di sua maestà britannica un prezzo altissimo pur di conseguire la vittoria delle libertà democratiche contro la barbarie.
Eppure, terminata la guerra, fu il laburista Clement  Attlee che chiese e ottenne la convocazione delle elezioni da lui vinte a sorpresa con la maggioranza assoluta. Il suo primo impegno come premier fu la partecipazione alla Conferenza di Potsdam. Attlee diede avvio alla politica di decolonizzazione e concesse l'indipendenza al subcontinente indiano che era considerato la gemma dell’impero britannico…

Ingratitudine degli elettori inglesi nei confronti del vincitore vero della seconda guerra mondiale? Sono convinto che molti tra quanti votarono Attlee nell’estate del 1945 non avessero dubbi sulla statura dei due leader in lizza:  anche ai loro occhi Churchill era il vero vincitore del conflitto mondiale e quindi indubbiamente il più grande. Eppure non tradirono nessuno, dal momento che a spingerli a votare laburista fu l’esigenza di una politica più attenta al welfare e ai bisogni minuti dalla gente e meno disponibile al gesto titanico (ma anche agli immani sacrifici) che la guerra impone. Più sanità, Beveridge, politiche keynesiane, aumenti salariali e pensionistici, più Stato Sociale.
In politica interna Attlee nazionalizzò la Banca d'Inghilterra, le miniere e le ferrovie, rafforzò il potere dei sindacati. Insomma un’attenzione più quotidiana e attenta ai bisogni della gente, che la solida cultura conservatrice di Churchill assai meno garantiva.
Non a caso, raggiunti gli obiettivi e comunque assicurata loro una solida base, gli inglesi torneranno a votare Churchill come primo ministro nel 1951 (carica che mantenne sino al 1955). Il quale, come i successivi governi conservatori, si guardò bene dallo smantellare lo Stato Sociale instaurato da Attlee. Bisognerà infatti attendere gli anni Settanta e l’avvento di Margaret Thatcher per assistere al forte ridimensionamento dello Stato Sociale che i laburisti di Attlee avevano voluto. Credo non esista nel Regno Unito un solo monumento a Clement  Attlee, ignoro se abbia scritto le proprie memorie (mentre quelle di Churchill sono inevitabili). Insomma, la contesa non è tra grandi biografie –o supposte tali– ma tra i progetti che vengono proposti ai cittadini, per rispondere alle loro attese nella maniera più efficace, e che non sempre coincidono con il carisma e la brillantezza della leadership.




Disagio sociale e stato d’eccezione
Se dunque torniamo ai casi italiani, non ci sono dubbi sulla grande capacità mediatica di Matteo Renzi e sulla sua attitudine a conquistare consensi. Il confronto però non può limitarsi al circo delle rappresentazioni o al torneo dei campioni in lizza.  A determinare il voto, in Italia come in Gran Bretagna, è il disagio sociale(quello richiamato da Prodi) assai più dei quesiti referendari. In una condizione nella quale il rischio maggiore è prolungare all’infinito lo stato d’eccezione: quello nel quale si esercitano i decisori. A capirlo in tempo è stato Giorgio Napolitano, lasciando il mandato presidenziale a missione compiuta.
La querelle intra-PD intorno alla legge elettorale ha come sfondo queste tensioni ed una in particolare: lo stato d’eccezione non può essere trascinato all’infinito. E’ bene quindi che anche il Premier rottamatore abbia chiaro che il Presidente del Consiglio in carica e quelli che verranno dopo di lui giurano sulla Costituzione – quella attuale o quella riformata o meno in seguito agli esiti referendari – che si pone su di un piano toto coelo differente rispetto a quello dell’azione di governo e della sua efficacia.
La morale della favola mancata è nel punto di vista omesso all’inizio. Diceva il cardinale Etchegaray che quando scoppia una guerra dobbiamo chiederci che cosa non si è fatto per evitarla. Dirimpetto a questa politica la domanda è che cosa non abbiamo fatto per evitare la desolazione di tante macerie.
Di fronte al passo “storico” (o no?) del referendum costituzionale stupisce l’evanescenza dei riformismi e lo stupore del vuoto. L’estenuazione cioè dei riformismi di origine marxista e la latitanza dello spirito riformatore (l’aggettivo è ostinatamente sturziano) del cattolicesimo democratico. Non è che manchino al tutto i tentativi, ma risultano per ora tutti largamente inferiori rispetto alla bisogna.
È il caso, peraltro lodevole, del testo collettivo Una buona stagione per l’Italia. Idee e proposte per la ricostruzione del Paese dell’Europa, che inquadra giustamente il problema quando pensa sia necessaria una seconda parte del Codice di Camaldoli. E opportunamente mette in campo tutto il meglio che c’è in giro nell’area cattolica. Eppure quei saggi misurano anche la distanza tra bisogno ed intenzioni ed energie disponibili. C’è sempre molto e troppo da lavorare…
Il marinettismo renziano –per non parlare di Grillo o, peggio ancora, di Salvini– cresce su questo vuoto (non sempre consapevole) riesumando, quasi un mantra, il Tina di Lady Thatcher. Dopo Renzi ci sarebbe il diluvio, e a farlo pensare sarebbe l’inettitudine e l’inerzia delle classi dirigenti che l’hanno preceduto. E invece ci potrebbe anche accadere di scoprire che gli italiani stiano lentamente convincendosi che quell’inerzia e quel vuoto siano riusciti a prolungarsi fin dentro la stagione attuale.


In politica non è il vigore del pensiero a produrre tsunami. Piuttosto all’evocazione del baratro contribuisce grandemente la debolezza del pensare in corso e l’assenza di progetto. Mentre non consola più di tanto la pur bella riflessione di Valerio Onida: “La costituzione ringiovanisce vivendola”.
E intanto anche la “fatica di pensare” montiniana è introvabile in tanto esercizio di muscolatura eristica. Stefano Ceccanti –architetto capace e mica tanto occulto del testo di riforma costituzionale– dimentico del suo Al cattolico perplesso. Chiesa e politica all'epoca del bipolarismo e del
pluralismo religioso,  si rifugia nell’evocazione di un Duverger digerito e tradotto con maestria. E scrive nel titolo del libro dedicato alla riforma che la transizione è (quasi) finita. Al modo di quella signora della barzelletta che conduce dal medico la figlia debilitata e in sospetto di esaurimento nervoso e quando il medico la sorprende: “Sua figlia è incinta”, non trova di meglio che reagire: “Sì, ma soltanto un poco”…
E invece dalla transizione – quella evocata da Gabriele De Rosa – si è usciti oppure no: il quasi non è ammesso. In tal modo la nuova cultura politica assomiglia in maniera preoccupante alla cultura del vuoto di La storia infinita di Michael Ende. Avendo da tempo le favole abbandonato quell’ottimismo al quale la politica continua interessatamente a concedersi.


E adesso pover’uomo?
Provando a riassumere, possiamo dire che la Costituzione riguarda l’idem sentire degli italiani. Un testo intorno al quale ragionare e convenire, lasciando perdere i troppi do di petto e usando perfino talvolta il mibemolle e le note blu. Mentre invece la logica della rottamazione risulta necessariamente divisiva, là dove la logica della Costituzione non può che essere unitiva: tende ad includere.
La Costituzione cioè è fatta per consentire e legittimare il governo, non per governare. La decisione governativa funziona semplificando; la Costituzione è fatta per complicare le cose… La Costituzione – riformata o meno – è la carta sulla quale ha giurato il premier in carica e  giureranno i suoi successori a Palazzo Chigi. Non una slide geniale e vincente della Leopolda.
La logica della rottamazione e della decisione sono inevitabilmente divisive. La logica della Costituzione non può che essere unitiva e inclusiva: riguarda non il governare, ma l’idem sentire degli italiani.  
Vi è un'espressione, opportunamente atterrata dai cieli tedeschi nel linguaggio giuridico e politico italiano, che definisce l'impegno dossettiano dagli inizi negli anni Cinquanta alla fase finale degli anni Novanta: questa espressione è "patriottismo costituzionale". Dossetti ne è cosciente e la usa espressamente in una citatissima conferenza tenuta nel 1995 all'Istituto di Studi Filosofici di Napoli.
Una concezione caratterizzata cioè, per la Carta del ‘48 dalla centralità dei diritti della persona, diritti "riconosciuti", e non attribuiti dalla Repubblica.
Vengono così posti nel terreno della Nazione i semi di un duraturo (e includente) personalismo costituzionale. Il vero idem sentire degli italiani sopravvissuti a laceranti divisioni, con una ambiziosa e non spenta azione riformatrice in campo economico e sociale.
È questa attitudine che ci consegna come "attuale" un Dossetti altrimenti esiliato nel museo delle cere di una non innocente inattualità.


Ma molti italiani ignorano l'autentica svolta a gomito rappresentata dal secondo ordine del giorno presentato da Giuseppe Dossetti nella Seconda Sottocommissione della Assemblea Costituente, e votato all'unanimità. Il problema risolto in quella occasione è discriminante perché Dossetti, dopo aver asserito che  forze e culture diverse possono scrivere insieme la Costituzione soltanto trovando una base e una visione comune, avanza la propria proposta.
Era il 9 settembre del 1946. Di assoluto rilievo la geniale impostazione data in quella occasione al tema fascismo–antifascismo, dal momento che la Costituzione del 1948 è illeggibile a prescindere dalla Lotta di Liberazione.
Propone Dossetti: se il fascismo è il prevalere dello Stato rispetto alla persona, noi assumiamo come antifascismo il prevalere della persona rispetto allo Stato. Si tratta di accedere ad una condivisa convenzione politica ed anche etica.
Che il fascismo fosse la prevalenza dello Stato rispetto alla persona lo testimonia l’articolo Che cos’è il Fascismo firmato per L’Enciclopedia Italiana da Benito Mussolini e scritto, come è risaputo, dal filosofo Giovanni Gentile.
Quanto alla preminenza della persona siamo ancora una volta al cuore della cultura cattolico-democratica, centrale -anche per la concezione dei cosiddetti "corpi intermedi" e del bene comune- nel filone di pensiero che va dalla Dottrina Sociale della Chiesa a Maritain e Mounier.
Nessuno tra i costituenti, grazie alla soluzione fornita da Dossetti, doveva strappare le pagine della propria storia o almanaccare intorno alla espressione "guerra civile" introdotta in seguito dallo storico De Felice.
Averlo dimenticato vuol dire essere passati come una torcia accesa in un deposito di liquidi infiammabili: tale è il Paese oggigiorno. In questo quadro e in questa atmosfera la promessa “altrimenti me ne vado” è una minaccia piuttosto che l’indicazione di una disponibilità.
De Gasperi pensava a governare e si teneva lontano dalla Costituente, dove i lavori per la Dc erano condotti da Dossetti, Lazzati, Moro, Fanfani, La Pira, Mortati… A costoro il compito del dialogo e della mediazione a partire dai rispettivi ideali. Mentre a De Gasperi a Palazzo Chigi toccava la gestione dei difficili rapporti internazionali postbellici, del Piano Marshall e delle sue conseguenze politiche – i socialcomunisti scaricati dal governo dopo il viaggio a Washington – ed anche il far fronte ai moti di piazza organizzati da quei medesimi leader che invece dialogavano alla Costituente, convinti anch’essi che nelle aule del Parlamento il compito principale fosse per tutti dare agli italiani una medesima carta costituzionale che tenesse conto delle rispettive posizioni ma che anche andasse inevitabilmente oltre.



Non a caso Piero Calamandrei auspicava che quando si parlava di Costituzione il banco del governo fosse vuoto. Questo perché la decisione del governo necessariamente divide e come ogni decisione opera tagli e genera diversità di pareri e quindi contrasti. La Costituzione è invece chiamata a svolgere tutt’altro compito e tutt’altra funzione.
Averlo dimenticato, avere declassato la Costituzione a tappa interna a un piano di governabilità ha inquinato i pozzi. E l’acqua dei pozzi non è selettiva: perché ai pozzi bevono prima o poi anche i tuoi oltre agli avversari.
Il malessere profondo del Paese nasce così. È possibile fermarsi? È la frenata nella disponibilità del Premier? O in quella del Quirinale?
Napolitano ne era consapevole. Si deve essere infatti reso conto che lo stato d’eccezione non può essere prolungato all’infinito: altrimenti l’eccezione sostituisce la regola democratica. E ha lasciato il Quirinale e ha recentemente e ripetutamente invitato a trovare un punto d’incontro almeno sulla legge elettorale.
Il rispetto delle prerogative e delle parti è in ogni caso essenziale. Dossetti e Togliatti cercavano di scrivere insieme la Costituzione per tutti gli italiani, mentre De Gasperi divideva il governo dai partiti pur di governare. Due compiti di fatto e legittimamente diversi e due logiche diverse. Due diverse modalità della conduzione politica.
Avere reso la Costituzione una variabile dipendente dall’azione di governo e da quella dell’opposizione sul medesimo terreno ne ha declassato la funzione e abbassato la dignità. Questo il pasticcio e lo spettacolo cui da mesi assistiamo. Vincere questa partita senza mutarne il senso e il terreno – e quindi anche i mezzi insieme ai fini – sarà per chiunque una vittoria di Pirro.

 ***
Dossetti, la comunità e le fraternità dei Russi
di Giovanni Bianchi

La comunità
La riflessione e la pratica della comunità sono in Dossetti contemporanee ed alternative alla riflessione sul potere e  alla sua circospetta frequentazione. È interessante rilevare anzitutto il contesto e la logica. È Dossetti stesso che si incarica di sfatare, sulla stessa linea di Del Noce, una precomprensione diffusa ma errata: quella cioè che l'elaborazione (anche quella sul campo) italiana sia discendente dal patrimonio culturale francese. Nella famosa intervista rilasciata nell'abitazione milanese di Gaetano Lazzati il 19 novembre 1984, don Giuseppe, spalleggiato da Giuseppe Lazzati e incalzato dai due intervistatori, Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, provvede a chiudere l'argomento con una affermazione perentoria. Qual è la fonte delle sue iniziative in proposito? Da dove procedono? Dal suo cuore...
La seconda ragione storica e vocazionale nel suo riferirsi alla comunità si legittima in contrapposizione al dilagare del potere e dei pericoli da esso rappresentati. Una riflessione drammaticamente ma lucidamente introdotta dalla prefazione a Le querce di Monte Sole.
Il volto della barbarie nazista mostrato tra la povera gente dei borghi appenninici è più che inquietante. Siamo ben oltre la banalità del male della quale da’ magistralmente  conto Hannah Arendt nelle sue cronache dal processo ad Eichmann a Gerusalemme.
Qui il male del potere lascia le vesti burocratiche di chi si nasconde dietro l'imperativo das Befehl ist Befehl (un ordine è un ordine) per assumere l'aspetto sconcertante di un massacro di inermi (bambini, vecchi, suore e preti inclusi) accompagnato dalle note dell'armonium suonato da un giovane SS che quelle note avrà probabilmente imparato in una parrocchia, non importa se cattolica o protestante.
Resta il problema di una società e di istituzioni che devono trovare una legittimazione diversa da quella del potere comunque legittimato. È possibile pensare che il discorso e la pratica della vita di comunità che caratterizzano la seconda e ultima parte dell'esistenza dossettiana siano la via esistenziale per trovare una sortita e una soluzione al problema del potere.
La comunità consente alla vita quotidiana di consistere senza essere predeterminata dalle istituzioni. Di sottrarsi insieme alla società liquida e al corrispettivo concentrarsi nei sottosistemi luhmanniani dei poteri finanziari, tecnocratici e politici.
Non vale l’affermazione della canzone di Jovanotti secondo la quale dove le regole non esistono, esistono soltanto le eccezioni, quasi apologia di un’anomia esposta al prepotere dei poteri. Il nulla del senso e un modo per evocare il nulla. Una danza senza corpi. Canta ancora Jovanotti che questo è l'ombelico del mondo. Una cosa che non esiste. Come non esiste più il mondo, sostituito dalle sue rappresentazioni e dalle emozioni che lo strutturano percettivamente. Torna ancora una volta il mantra marxiano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Tutto ciò che è solido. E quel che è liquido si candida a diventare gassoso, partiti inclusi. Un carnevale senza festa, dove sappiamo tutti di raccontare barzellette al funerale. Eppure il gioco continua. Anche perché i convenuti non sanno propriamente chi è morto. Parenti? Conoscenti? Come guardare una vecchia foto in bianco e nero. Un antico corteo operaio. Morti tutti. E chi è sopravvissuto si è rincitrullito, che è un modo per abitare tranquillamente il vuoto.
La Bibbia ci aveva avvertiti che lo chassis umano non dura più di ottant'anni. Le eccezioni partecipano ai raduni delle auto d'epoca, non tutte in Costa Azzurra. Il problema che queste democrazie esauste hanno di fronte – se non sono del tutto rassegnate a scomparire – è come ricreare dei cittadini e un'etica di cittadinanza.
Senz'etica non dura uno Stato, un'impresa, e neppure una banca. Una comunità è luogo e sorgente d’etica. Per questo hanno ragione quanti sostengono che non si dà continuità societaria senza elementi di comunità. Per questo i consumatori della società liquida non cercano maestri, ma testimoni e assumono come maestri coloro che hanno statura di testimoni. Sono temi interni alla generalizzazione del "congedo dal Novecento" e alla fine delle democrazie. La lezione dossettiana li attraversa con un rigore inedito, tale da spaventare i dipendenti dall'immagine. Con un'avvertenza, che non riguarda soltanto il Bel Paese: le epoche non possono darsi risposte, ma possono scambiare domande cercando insieme delle risposte. Sapendo cioè che esiste un rapporto tra le crisi in atto e l'emergere di bisogni ed esperienze di comunità. La comunità infatti non è mai una cosa totalmente nuova, ma la rinascita della parte migliore da un vecchio pregresso, ossia una proiezione della migliore tradizione. Il modello, inevitabilmente perenne, è quello delle prime comunità cristiane. Con un interrogativo che ogni epoca rimanda all'altra: come è possibile istituzionalizzare le comunità senza metterne a rischio lo spirito informatore?

Il tema dell’istituzionalizzazione
L'istituzionalizzazione è insieme una tentazione e una spinta naturale Che nasce da dentro le comunità medesime, non senza aspetti positivi relativamente alla durata e all'affidabilità, purché si tenga lontana dal modello della societas perfecta.
È anche possibile istituzionalizzare soltanto alcune parti della comunità, avendo chiaro che più importante della forma istituzionale è il processo di istituzionalizzazione. È ovvio che poi sarà la prova dei fatti a giudicare quel che è successo e gli esiti raggiunti. E’ importante non dimenticare che le comunità hanno un retroterra, insieme al bisogno di non perdere la dimensione mistica e la dignità interiore.
Per la Chiesa il fondamento è la comunità, non un'organizzazione. È la grande e talvolta dimenticata lezione della costituzione conciliare "Lumen Gentium". Una lezione necessaria per la vita della comunità e la vita della Chiesa. Il rischio altrimenti è che le comunità appaiano "estranee" ai nostri cammini esperienziali.
Il discorso sulle comunità chiede di essere chiarito senza inutili complicazioni. Avendo chiaro cioè che esperienze diverse  che si confrontano tra di loro possono misurare e tradurre alcuni aspetti, ma non esportarli. C’è uno stigma originario delle comunità che non patisce intrusioni. Ogni comunità nel dialogo fraterno si misura con l'altra. Ma può e deve scegliere la propria strada: autonoma, originale, irripetibile.
Una mattina d’aprile, nel convento parigino di Saint Jacques, Marie-Dominique Chenu, il grande domenicano francese, mi fece a bruciapelo una domanda per introdurmi rapidamente alla risposta. "Sai qual è la differenza tra il cattolicesimo francese e quello italiano"? Il cattolicesimo francese è più ricco di gruppi liturgici e cenacoli intellettuali. Il cattolicesimo italiano ha invece creato cooperative, forni sociali, circoli familiari, casse rurali e artigiane: è dunque un cattolicesimo eminentemente popolare ed associativo...
Oggi la domanda preliminare alla quale rispondere è dunque quali siano le affinità e quali le differenze tra i diversi cristianesimi in campo. Non è difficile d'altra parte indicare una caratteristica tipica e riassuntiva dell'esperienza italiana. Essa è molto presente e molto organizzata nello spazio pubblico. Non a caso si parla da noi, nel confronto con le istituzioni dello Stato, di "materie miste", ossia di questioni che riguardano sia la Chiesa come lo Stato. Una situazione che ha prodotto problemi, più sul piano dei rapporti politici con lo Stato che sul piano civile. Nessuno -ricordava Trotta- ha impostato meglio il problema di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare Italiano, che nel discorso di Caltagirone del 1909 precisò: la religione è unità; la politica è divisione e conflitto. Dossetti a sua volta non si discosta da questa fondamentale indicazione sturziana.
In questo quadro si colloca il paradosso della comunità: essa ha bisogno di un comune punto di riferimento sul terreno reale della presenza, da qui muove verso il centro dell'identità, ma è anche nel contempo diffusiva, nel senso che oltrepassa i confini della sua stessa identità.
Il primo problema allora è: come nasce e perché il bisogno di comunità?
Nasce dalla vita quotidiana e dall'identità. Perché l'identità cristiana non si diluisce e non si protegge con i confini. Ha anzi un bisogno di comunicare inestinguibile, di entrare in relazione. Una spinta già evidente nella comunità di Gerusalemme, così come ci viene descritta negli Atti degli Apostoli e in tutta la predicazione missionaria dell'apostolo Paolo.
È a questo punto che emergono i due elementi essenziali che caratterizzano l'esperienza monastica dossettiana: il pieno inserimento "spirituale" e reale nella quotidianità; il rapporto con la storia.  A questo punto ci imbattiamo nuovamente nella rigidità del giudizio di Augusto Del Noce. Scrive infatti: "Dossetti fu il rappresentante più rigoroso dell'integralismo cattolico, quando a questo termine si dia il senso genuino: non, cioè, quello clericale di una prevalenza del potere della Chiesa e della troppo facile soluzione nell'attribuzione dei posti chiave a uomini di sua fiducia, ma quello di un assorbimento dell'attività politica in quella religiosa, per cui ogni atto politico acquisisce un significato religioso".
Il contrario dell'autonomia e laicità politica non è però la religione, bensì la superstizione e l’idolatria. Non la presenza nella storia del Dio d'Israele, ma il vitello d'oro fatto fabbricare dal sacerdote Aronne.
Lazzati
Realismo mistico
Dossetti è un mistico pienamente inserito nella storia. La sua comunità è insediata nei luoghi di un eccidio nazista -un "piccolo olocausto"-, non estranea o lontana dai drammi della storia.
Abbiamo avuto in Italia nei decenni precedenti l'insediamento di papa Francesco molti politici non credenti che professavano un grande rispetto per gli uomini di chiesa e le loro posizioni sollecitati da un interesse meramente politico. Li abbiamo chiamati "atei devoti". La definizione è di Nino Andreatta ed io ci ho addirittura scritto un libro: Il paese degli atei devoti. Questo per ribadire come il discorso sulla comunità interessi ambiti da tenere tra loro rigorosamente distinti. Qui si colloca la particolare scelta monastica di Giuseppe Dossetti: monaco "a modo suo".
Fu importante nella sua decisione la partecipazione a un congresso del monachesimo internazionale, alla fine degli anni Sessanta a Bangkok, dove morì Thomas  Merton, il trappista autore di La montagna dalle sette balze. Dossetti ne approfittò per un lungo viaggio in India, paese notoriamente di lunga tradizione spirituale.
Il monachesimo è per Dossetti "esattamente il contrario dell'isolarsi dal mondo". Non un monachesimo "che fa il muro e si separa" … ma che "si immerge nel mondo, si immerge nella storia, con il grande compito di assumerla e di ripresentarla e che, vivendo nelle fedeltà e nelle virtù cristiane, cerca le vie più ampie e più profonde di risoluzione dei grandi problemi e delle grandi fatiche delle nazioni".
Non a caso a Dossetti Marta e Maria non appaiono in contrapposizione nel Vangelo lucano. Don Giuseppe anzi arriva a negare che, "nel cristianesimo, sia possibile individuare una linea attiva e per contro una linea contemplativa; con un attacco diretto alla secolare "cattiva interpretazione di quelle due donne, Marta e Maria, che secondo il Vangelo di Luca litigano in una dialettica di scelte diverse". E si dà torto a Marta. "Ma il cristianesimo occidentale è così poco convinto di questa valutazione che subito aggiunge: per fortuna c'è Marta".
Don Giuseppe contestava l'interpretazione corrente e diceva che "il cristianesimo è azione. Anzi, diceva: è solo azione. Quello che conta è che sia l'azione dello Spirito in noi, quindi che sia un'azione di obbedienza allo spirito del Signore: è azione quella di chi cura i suoi malati, ed è azione quella di chi si consuma nella preghiera”.
La fede è una storia nuova che si compie, non semplicemente un patrimonio di pensiero. L'ambito della Chiesa è la storia: un cammino che non finisce mai. Storia dei popoli e storia delle persone. La storia cioè, nonostante tutto, è piena di Dio. C'è una chiesa grande come la storia. Tutta la storia si concentra nel Signore. Don Giuseppe ha passato gli ultimi giorni a fissare un Crocifisso appeso alla parete. Noi infatti –tutti- viviamo una storia infinitamente più bella (e più importante, nonostante tutto) di quella che oggi riusciamo a capire.
E d'altra parte il vero ministero monastico è l'accoglienza delle anime turbate e in ricerca.
Né mancano le messe in guardia contro ostacoli e pericoli di diverso tipo. Qui Dossetti se la cava brillantemente con un detto di Cassiano nelle Istituzioni cenobitiche: "Fuggi il vescovo e la donna". Ammonizione che non gli ha impedito di intrattenere buonissimi rapporti con i suoi vescovi, in particolare,come è risaputo, con il cardinale di Bologna Giacomo Lercaro.

Dossetti
La sapienza di Dossetti
La sapienza del cristiano è una sapienza storica (vocazionalmente, ma apparentemente minoritaria) in grado di leggere il mutamento dei "segni dei tempi" negli eventi e in personaggi già inquadrati da un giudizio che parrebbe consolidato. Dossetti non si lasciò mai catturare nella sua ermeneutica sapienziale dagli stereotipi correnti né dalle ideologie dominanti.
Per questo "laterale" rispetto al suo stesso partito, dominato dai non pochi provinciali (taluni anche grandi) e provincialismi che ne hanno fatto la lunga fortuna; per questo rimosso dalla sua Chiesa e da una cultura affascinata dai propri manierismi.
Per questo deve essere riscoperto: non per tesserne gli elogi, ma per servirci degli strumenti tuttora lucidi che ha accumulato in una lunga esistenza nella sua sacca degli arnesi.
Le contrapposizioni risultano fin troppo facili ed estese: il fondamento contro la superficialità, il silenzio contro il chiasso delle parole e più ancora delle immagini, la meditazione e il discernimento al posto dello scoop.
Un uomo il cui destino è stato e rimane quello di apparire "minoritario" perché, malgrado se stesso, sente di doversi muovere ostinatamente in senso contrario. Al punto che anche la sua iscrizione nella grande tradizione del monachesimo rappresenta più una interpretazione e una variazione che un inserimento.
Qui il dissidio con De Gasperi. Qui le ragioni che ne fanno un grande rimosso, tuttavia incredibilmente attuale. Non per decidere ed agire, ma per ricostruire una grammatica.

Dostoevskij
L’esperienza russa
Come esperienze di presenze cristiane diverse, quali Sretenie e le Acli, possono risultare
reciprocamente utili? Confrontandosi, con una comunicazione che padre Pio Parisi definirebbe “spirituale”, e illustrando i propri percorsi storici. Con l’avvertenza, già sopra accennata, che in materia non è dato né copiare né esportare. Ognuno insomma ha la responsabilità di scegliere la propria strada: autonoma, originale, irripetibile. Anche se il senso e l’identità di una associazione, di una comunità, di una fraternità sono un bonum diffusivum sui (come direbbe padre Dante Alighieri).
Qui torna utile sintetizzare l’esperienza delle fraternità russe precedenti Sretenie, così come ci è stata raccontata. Vale come dovunque il principio, o meglio la constatazione, che esistono tensioni nei rapporti tra comunità, fraternità e gerarchia. Il tenore spirituale delle fraternità russe ha sempre storicamente suscitato sorpresa, qualche cautela, non pochi provvedimenti.
E vale la pena ripetere che la fraternità non si presenta come una cosa nuova,ma come una rinascita del meglio dal vecchio (ossia dalla Tradizione). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Ciò che ancora oggi fa problema nel popolo di Dio ortodosso è la lingua liturgica della preghiera, che mantiene un idioma pregresso: quello che viene definito “russo slavonico”. Detto alle spicce e ricordando lo storpiato latinorum ecclesiastico di prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, la maggioranza dei fedeli fatica a capire. Pronuncia parole che assumono un’eco magica, dal momento che il loro senso resta ai più sconosciuto.
E’ da prendere nota della circostanza che già prima della rivoluzione c’erano delle parrocchie che usavano come lingua dalla preghiera e della celebrazione della messa il russo moderno. E nel 1943, in pieno regime bolscevico, fu proibito di pregare russo moderno. Dieci anni prima, nel 1937, vennero fucilati tutti i preti che pregavano in russo. Solo ammesso, liturgicamente e anche da parte della dittatura sovietica, il russo antico e slavonico.
Fu nell’anno 1873 che un prete ortodosso creò le prime fraternità nelle città, ispirandosi alle prime comunità cristiane. Un tentativo preceduto dalla libera nascita di fraternità sull’immenso territorio russo nel 1864. Se ne trova memoria nel romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Riemerge in ogni caso il problema se sia possibile istituzionalizzare le fraternità senza far perdere loro lo spirito originario. Secondo padre Giorgio Kocetkov, il fondatore di Sretenie, l’istituzionalizzazione delle fraternità  è impossibile e non augurabile. L’istituzionalizzazione cioè è una tentazione che nasce da dentro le fraternità medesime, e presenta tutti i rischi che corse la Chiesa cattolica prima del Concilio Ecumenico Vaticano II con il suo configurarsi come societas perfecta.
E’ invece possibile istituzionalizzare alcune parti delle fraternità, come è accaduto con l’Università moscovita di San Filarete.
È interessante nella storia russa quella che la professoressa Yulia Balakshina ha definito la “terza tappa” delle fraternità. Dopo la rivoluzione del 1917 e nel dilagare della persecuzione nascono infatti nuovi tipi di fraternità disseminati nell’immenso Paese: 30 nella sola San Pietroburgo. Anche perché le fraternità risultarono la forma migliore di resistenza nel dilagare della repressione.
Il movimento che fa riferimento a padre Giorgio Kocetkov nasce negli anni Settanta.
Sarà naturalmente la storia a giudicare quel che è accaduto, ma resta indubbio che era difficile immaginare che dopo il periodo sovietico si potessero riunire liberamente e fraternamente delle persone. Questo è accaduto perché le fraternità hanno un retroterra. Hanno incominciato a ricostruire le chiese in quanto edifici.
È palese che una parrocchia non potrà mai diventare un movimento, ma che le fraternità possono ritrovarsi all’interno di una parrocchia.
Il primo problema tuttavia non è organizzativo, ma consiste nel non perdere la dimensione mistica e la dignità interiore. Bisogna altresì ribadire che il fondamento della Chiesa è la fraternità, non l’organizzazione. È lo spirito fraterno e di accoglienza che caratterizza la Chiesa di Dio ed è lo Spirito che garantisce tutta la vita della Chiesa.
Purtroppo si conosce poco e male la storia delle fraternità russe, con il rischio che le nuove esperienze che vanno sorgendo appaiano estranee alla tradizione russa e come importate dall’Occidente. Il lavoro fatto da Yulia Balakshina è dunque prezioso. E dobbiamo continuare a fare pressioni perché venga rapidamente tradotto in italiano.

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La rivincita di Livio Labor
di Giovanni Bianchi
 
Giovanni Bianchi
Il rischio della rimozione
Livio Labor, con Rosmini, Achille Grandi e Giuseppe Dossetti, rischia di far parte della squadra dei grandi rimossi italiani: rimossi dalla Chiesa, dalla politica e anche dalla cultura politica. Tale era il suo temperamento da non lasciarci tranquilli neppure da morto. A cominciare dalla lapide del sepolcro: "Qui giace un cristiano fedele alla Chiesa, che sulle scelte opinabili non ha mai chiesto permessi di sorta". Quasi un prolungarsi indefinito della "vulcanicità" che gli fu cara.
Il suo programma pare proprio essere quello di non dar tregua a Dio, a se stesso e agli altri. Al punto da sferzare i circoli di base del movimento definendoli "cristian bar" per una supposta mancanza di impegno diretto da parte di quanti si ritrovavano al circolo con mescita per una chiacchierata, un buon bicchiere di vino, per quello che nell'Italia centrale vien detto l'andare a veglia...
Era il modo di esprimersi di un irregolare di genio, dalla profonda origine ebraica di chi è nato a Leopoli da un padre medico socialista, poi fattosi da vedovo sacerdote, parroco di San Giusto e per volere del vescovo Santin rettore del seminario diocesano di Trieste. Questa la radice di una indiscussa libertà laicale e di un’altrettanto indiscutibile fedeltà alla Chiesa.
Nessun aclista e nessun leader aclista può evadere dalle "tre fedeltà" codificate da Dino Penazzato: "fedeltà alla Chiesa, alla classe lavoratrice e alla democrazia". Una triplice fedeltà che dice che fin dall'inizio c'è un rapporto stretto e insistente nella nostra organizzazione tra spiritualità e politica. Una delle ragioni per le quali questo Paese ha bisogno – così come voleva Livio Labor – di una classe dirigente che non si riduca a ceto politico. Si evidenzia cioè il bisogno di una operazione di lungo respiro nella quale non può non essere centrale un attento processo formativo.
Dobbiamo tuttavia prendere atto della circostanza che Livio è nei libri di storia, ma non è più nella cronaca politica. Perché? Probabilmente perché questo è un tempo senza memoria che idolatra la vittoria e danna la sconfitta. Labor tuttavia resta un luogo minerario che facciamo bene a rivisitare, anche se la sua vicenda e i suoi scritti non sono piegabili a una "lettura veloce".
Siamo dunque di fronte ad una vicenda esemplare e ad una testimonianza tuttora feconda che ci forza a una riflessione non abituale sulla sconfitta in un tempo di paure dove dilaga l'idolatria della vittoria. Una vittoria che appare legittimata e indiscutibile soprattutto se suffragata da un plebiscito. Parrebbe addirittura il voto, purché bulgaro e massiccio, in grado di cancellare il peccato originale e certamente furfanterie economiche e laidezze morali.
Non si tratta di raccontare aneddoti, ma di ragionare lungo  questa lunghezza d'onda. Quando mi fu affidata la commemorazione di Dossetti in apertura del primo congresso dei popolari rifondati da Mino Martinazzoli, mi introdussi con la frase più anti-hegeliana che mi è capitato di pronunciare: "Anche la storia può sbagliare". Una frase che già avevo consegnato a una plaquette poetica sotto il titolo: "A Labor, sconfitto".
Sta dietro all'atteggiamento del più grande presidente della storia aclista il fondamento del numero 31 di "Lumen Gentium": "Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le realtà temporali ed ordinandole secondo Dio". Un avvertimento caro a Giuseppe Lazzati e che Livio Labor traspone nella dimensione del movimento operaio quando afferma: "La nostra non è una presenza sovrapposta o imposta alla classe lavoratrice italiana: di essa siamo parte viva ed attiva".
Livio Labor
Una prospettiva "vulcanica"
Vale la pena riprendere il testo più significativo nel quale il più irrequieto tra i presidenti delle Acli propone e mette a fuoco la sua concezione "vulcanica":
"La nostra sintesi ed alternativa democratica, pur ristretta nell'ambito culturale e sociale, opera comunque di già, come stimolo verso tutti: verso i lavoratori, verso il mondo cattolico, verso la opinione pubblica, verso tutte le forze ed istituzioni sociali, sindacali e politiche. Siamo una realtà "incomoda" per molti, "incontrollabile" si dice, perché è controllata solo da noi: ma siamo un termine di confronto che può influenzare in modo decisivo almeno alcune delle "variabili" cui ho accennato. Continueremo perciò con fiducia e con fedeltà a noi stessi, al nostro ruolo di movimento che amo definire "vulcanico" non certo per amore di paradossi, ma proprio in nome di quanto ora espresso in questa relazione. Un ruolo "vulcanico", perché è legato –  in modo incandescente – alla nostra cristiana libertà, al nostro coraggio, alla nostra coerente capacità anticipatrice e perché il movimento tutto si rifiuta di lasciarsi conglobare e congelare nel sistema attuale. Contiamo tanto solo sulla forza del volontarismo, merce sempre più rara in Italia, che è alimento basilare della nostra azione, sulla nostra affinata capacità di cogliere l'essenziale dei problemi, che la crescita della società italiana continuerà a sottoporci, sulla accentuata apertura soprattutto verso i giovani e le nuove classi in cui il movimento operaio ripone tanta parte delle sue speranze. Potranno così continuare le Acli – al di là delle nostre persone – ad orientare e a rincuorare la partecipazione alla società democratica, non solo dei lavoratori cristiani – come non solo di quelli occupati e non solo di quelli appartenenti alle categorie pilota – ma di tutti, indistintamente tutti, i lavoratori italiani".
E’ il Sessantotto a dare ali al sogno di Livio, che è il sogno della formazione all'interno delle Acli e fuori di esse: una formazione in grado di creare dirigenti all'altezza delle sfide del tempo. Il totalmente altro rispetto alla Casta odierna che, come si è detto, è un ceto politico che non riesce a farsi classe dirigente per l'ossessione di perpetuarsi, e che si difende in maniera totalmente autoreferenziale.
Fu il grande giornalista Piero Pratesi a collocare tra il 1962 e il 1968 lo "scandalo delle Acli". Uno scandalo potremmo dire a tutto campo, che parte dalla Chiesa, attraversa il movimento operaio proponendo l'unità sindacale, e si scatena sul piano della politica inventando nuovi attori e fomentando la partecipazione. Va messo nel conto anche un insistente richiamo laboriano a porsi il problema di una "democrazia economica".
Scrive con l'abituale puntualità Domenico Rosati che Labor "cessa di essere un protagonista nella primavera del 1972". Mentre precedentemente, in poco più di vent'anni, era assunto a grande notorietà nazionale. Tipico lo spettacolo dei giornalisti che si affollavano ai convegni di Vallombrosa chiedendosi: "Cosa inventerà Labor stavolta".
Il primato della formazione
È evidente, professato e dichiarato in Livio Labor il primato della formazione. Un retaggio che gli deriva anzitutto dalla sua partecipazione alla Società di San Paolo e quindi all'influenza di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate di Assisi, ma anche dalla piena inserzione in una chiesa italiana e in un mondo cattolico che, non privi di grandi passi fuor della via e di non pochi cedimenti al mammona dell'attivismo economico, non hanno mai smesso tuttavia di pensare e praticare il primato formativo. E quando Livio approderà nella sede romana di via Monte della Farina, il bel convento teatino concesso in comodato alle Acli dalla Santa Sede,  verrà presto definito per il suo incontenibile decisionismo il "ducetto del terzo piano".
Il suo cattolicesimo si segnala da subito come tradizionale, tridentino ed intenso, ricco di pratiche di pietà che ne innervano la giornata. Una giornata nella quale i ritmi della formazione incontrano la figura, operaia e politica, del "militante". È in questa temperie che Labor inventa i convegni di Vallombrosa, a partire dal 1957. Tutto ciò deve concorrere a sorreggere il trinomio: "pregare, dibattere, impegnarsi insieme".
Si strutturano così le Acli qualificate dal Labor medesimo come "gruppo di influenza ideologico-culturale", imperniate su una funzione di alta pedagogia spirituale e civile. Un movimento il cui scopo primario è formare dirigenti perché il movimento va dove vanno i suoi dirigenti. E Labor era anche convinto che il presidenzialismo originario delle Acli fosse tale da orientare l’intera organizzazione secondo la personalità e il carattere del presidente.
Ci imbattiamo qui nella Scuola Nazionale di Formazione che sforna i Dirigenti Organizzativi (i famosi D.O.) vero asse portante di tutta l'associazione. La cura con la quale vengono seguiti è testimoniata da tutta una serie di strumenti, a partire dal Quaderno del Militante.
È muovendo da questa base consapevole, e diffusa su tutto il territorio nazionale, che Livio Labor prenderà le mosse per il suo ingresso "in campo aperto". Un'impresa resa pensabile dalla inedita capacità delle Acli di riuscire ad essere influenti in campi distinti e tanto diversi: quello ecclesiale, quello sindacale e quello politico. Quello "scandalo delle Acli" sul quale richiamava l'attenzione Piero Pratesi.
Livio Labor dunque non si astiene dal proporre una nuova visione cristiana della formazione politica. Un programma che suscita non pochi interrogativi all'interno del tramonto della cristianità e per rapporto alla collocazione delle Acli che con coraggio e veemenza si propongono di anticipare il futuro. È con tali problemi, certamente non privi di concretezza, che è chiamata a confrontarsi una nuova pedagogia cristiana. E Labor non nasconde l'ambizione dei futuri orizzonti. Il tutto può racchiudersi in una citazione che nel suo linguaggio assume il valore di un mantra: "Gratia non tollit naturam, sed perficit". Tutti elementi che convincono Domenico Rosati a individuare in lui un disegno di "nuova pedagogia cristiana".
Vi è un genius loci di tutto ciò, che ha sede a Vallombrosa, dove come si è detto il primo convegno di studi ha luogo nel 1957. Vallombrosa diventa evento nazionale prima della Rimini ciellina e di tutta la convegnistica cattolica. Si è già riferito della curiosità dei giornalisti accreditati. L'altra faccia è rappresentata dai timori in sede nazionale, dove si mormora: "Un quarto d'ora a Vallombrosa, e un anno per riparare i danni che provoca"…
Resterebbe da svolgere un lungo discorso a partire dagli esiti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Un compito da rimandare ad altra occasione, mentre osservo le spinte ad una nuova laicità che dal concilio emergono, ben oltre la logica proposta dall'articolo 7 della Costituzione, quando la seconda religione in Italia erano i Valdesi (140 mila) seguiti dagli Ebrei (32 mila).
È noto che Labor propone una spiritualità che non cresca a lato, che non cresca fuori, che non cresca soltanto nella Chiesa... Come al solito un uomo e un leader schietto, che ben descriveva a Trieste Ennio Antonini mettendo a confronto due modi di essere politici: i "navigatori" (talvolta si tratta più semplicemente di galleggianti) che il conto lo mandano agli altri, e i "testimoni", che come Livio Labor, pagano di persona. Dunque, a ben guardare, quella che è stata definita la "profezia laica" di Livio Labor è al punto di fusione tra vita cristiana e passione politica. Può incontrare sconfitte, ma non finisce e non si archivia. Non è mai cessata in Livio Labor. Non deve finire nelle Acli. Una posizione per la quale il termine "spiritualità" può risultare riduttivo, troppo malleabile e postmoderno se non strettamente ricollegato alla Scrittura.
Resterebbe da affrontare il difficile rapporto di Labor con i partiti, là dove osserva il solito Rosati: "Labor s'è reso conto che la penetrazione dall'interno non dà frutti: chi può essere integrato abbassa la guardia, chi non si fa integrare scappa". Si tratta peraltro di due vie che convivono a lungo nel modo di sentire laboriano prima di confliggere. Alla fine di questo percorso troviamo i 120.220 voti pari allo 0,4% raccolti dal Mpl alle consultazioni politiche del maggio 1972, un flop che Labor imputava alla responsabilità di Dc e Pci che avevano anticipato le elezioni pur di tagliargli la strada. L'approdo in una terra desolata dove le pendenze finanziarie ne dissangueranno l'esiguo patrimonio. (Per quanto riguarda invece la precedente vicenda le Acli avevano visto la Segreteria vaticana intervenire fino al 1970 con 250 milioni cash per anno.) Stupisce ancora l'ingiusto silenzio che l'ha circondato. Stupisce il coraggio di uno venuto al mondo per aiutare il prossimo a liberarsi dalla paura, quasi a tener fede a quella radice ebraica che non mente: lui nato a Leopoli, in Galizia (ora Ucraina) nel luglio del 1918.


Il duplice terremoto
Resta una riflessione conclusiva sulle Acli dal punto di vista tellurico... Livio è presidente vulcanico e voleva Acli telluriche. Ma accanto ai terremoti da lui auspicati, molti altri e indesiderati sismi ci è toccato d’incontrare. Dolorosi, anche se col senno di poi possono apparire "provvidenziali": una provvidenzialità della quale –va pure detto– avremmo anche fatto a meno. Ma si sa che le vie del Signore sono diverse (e quanto!) dalle nostre.
Quanto costa ad esempio il concetto di autonomia! Andrea Olivero se ne occupa nel convegno di Palazzo Rospigliosi a Roma nel maggio del 2009. Si tratta di spartire chiaramente le responsabilità del confronto e della rottura con la gerarchia cattolica tra Livio Labor e il suo giovane pupillo e successore, Emilio Gabaglio. Non pare impossibile, grazie anche alle esternazioni dei due presidenti, una attribuzione delle rispettive  responsabilità: Labor rompe a Torino l'unità di voto dei cattolici. Gabaglio, a partire da lì, a Vallombrosa, formula l'ipotesi socialista, fatta passare dalla stampa come "scelta socialista".
È intellettualmente acuta la scelta di Olivero che pone al centro della riflessione il principio di autonomia. Perché senza questo principio non ci sarebbe mai stata la fine del collateralismo. E prende le giuste dimensioni del problema lo stesso Olivero quando annota: "Il voto del Congresso aclista che approvò con una maggioranza plebiscitaria dell'86% la sua opzione per l'autonomia sancì solennemente il capolavoro di Labor come presidente delle Acli".
Altrettanto certa l’attribuzione della titolarità dell'ipotesi socialista. Scrive ancora Olivero: "La lealtà e la correttezza con cui Gabaglio ricostruisce quanto è effettivamente accaduto in quei giorni mi sembra sia fuori discussione. Scrive Gabaglio: "E’ vero: in quella scelta Livio non c’entrò per nulla, anche se per anni egli ne venne considerato l'ispiratore diretto e quindi il responsabile. Lo ripeto: non fu così". E aggiunge perfino che Labor "tentò di dissuadermi dal formularla", senza riuscirvi".
Il problema pare a me però essere un altro e sottostà al confronto prima e alla "deplorazione" di papa Paolo VI e alla rottura successiva. Una recente ricostruzione operata sui documenti delle Acli e della curia milanese da Pietro Praderi e monsignor Balconi evidenzia un approccio della gerarchia che lo stesso Montini definisce in termini di "dottrina", interno cioè ad una visione pastorale che stabilisce, delimita ed esplicita il proprio punto di vista sull'associazione e sui suoi compiti. Un punto di vista che il medesimo Paolo VI supera e abbandona con l'enciclica "Octogesima Adveniens", dove chiarisce che da una medesima fede possono discendere  opzioni politiche diverse (non tutte!), ma certamente  ispirantisi a visioni culturali e dottrine differenti.
Altra è la dottrina e altro l'ortodossia, così come teologie diverse (quella di Rahner e quella di Von Balthasar) vivono e sono accettate nel medesimo orizzonte di ortodossia.
È un guaio per Livio ed Emilio essere in anticipo sui tempi: il tenore complessivo delle affermazioni fatte a Vallombrosa non si discosta da quello delle posizioni che ritroveremo qualche decennio dopo nei documenti della Solidarnosc di Lech Walesa. Sconfitti nei primi anni settanta, vinceranno nel tempo medio-lungo, come talvolta accade alle posizioni "profetiche", nel senso letterale del termine: che dicono prima quel che avverrà e sarà ammesso in seguito. Il problema dunque, a guardar bene, non giace nei documenti della presidenza delle Acli, ma in quelli della Gerarchia.
Una sconfitta che diventa vittoria
Labor e Gabaglio, alla fine, hanno vinto o hanno perso? Hanno anche vinto, ma le scelte profetiche si pagano. Lo dico nelle vesti del presidente che ha riportato le Acli dal Papa il 7 dicembre 1971. Dopo i primi incontri e le prime lezioni elargiteci da Marie-Dominique Chenu ("il movimento operaio come luogo teologico") alla metà degli anni settanta. Dopo i preziosissimi consigli nell'imminenza dell'incontro con Giovanni Paolo II regalatici da Giuseppe Dossetti ("Ti do’ un consiglio a partire dalla mia frequentazione quotidiana della Scrittura e da una esperienza di canonista che non è da buttare... Se ti chiedono di ridefinire le Acli, tu dirai così: "Le Acli sono un'associazione di lavoratori cristiani nota e non disconosciuta dalla Chiesa". Il resto viene dal maligno".) Dopo il ritiro spirituale con monsignor Salvatore Boccaccio e padre Pio Parisi al Celio, nel novembre precedente Sala Nervi…
Sbagliava anche Livio a non prendere parte all'incontro –da lui definito la "festa del perdono"- perché la Gerarchia aveva derubricato quello che ai suoi tempi considerava un errore o addirittura una colpa. Da parte mia non ho dovuto tagliare nessun nodo gordiano. Sono il presidente cui è toccato in sorte di vedere e capire che il nodo non c'era più...
Dove dunque il terremoto? Quale la ragione? Le Acli non esistono al di fuori delle tre fedeltà chiarite da Penazzato. Ma le tre fedeltà sono rispettivamente autonome e hanno tempi ("tempi" alla maniera di papa Francesco, così come ne ragiona nella Evangevangelii gaudium) diversi. Il sisma della Gerarchia – non quello laboriano – nasce da lì. "Octogesima Adveniens" (ancora Montini!) ne prende atto. Ne consegue una visione dei movimenti che ne prende atto a sua volta e supera nei fatti l'antico dottrinarismo.
Qui Labor torna ad apparire grande e qui esce vincitore dalla sconfitta e dall'oblio che ingiustamente lo circonda dagli anni settanta. Un po' di esegesi non guasta: obbedire significa latinamente ascoltare. Rosati scrive: "C'è una memoria da riscattare da una damnatio inammissibile e da un oblio colpevole". Ha perfettamente ragione. Con una avvertenza che inserisce nel nostro approccio una cesura. Fino alla presidenza di Domenico Rosati le Acli traghettano nel clima postconciliare  il retaggio – presente anche nelle Acli – pre-conciliare. Gli "scissionisti" non vengono considerati traditori ma portatori di una diversa cultura aclista. Le Acli del mio tempo e della mia presidenza sono tutte nel postconcilio, dopo "Octogesima Adveniens", e sono consigliate da Dossetti, Pio Parisi, il vescovo Salvatore Boccaccio.  Incontravamo i leaders di Solidarnosc – Walesa, Mazowieski, Geremec – e Solidarnosc ci sembrava parlare il linguaggio di Vallombrosa. Mai Giovanni Paolo II mi ha parlato del cardinale Poma o di monsignor Pagani. (Probabilmente ne ignorava l'esistenza.) Ma anche il cardinale Ruini e altri vescovi e cardinali che per un saggio consiglio di Domenico Rosati frequentavo, mai mi hanno fatto quei nomi. Neppure Ruini. E Tettamanzi quando diventò segretario della Cei fece tutto tranne che nascondermi la sua amicizia.
Ma si è arrivati lì grazie al coraggio e al duro lavoro e alle sconfitte di quelli che, come Livio Labor, avranno ragione nel tempo lungo. Per questo non dobbiamo permettere che Labor, come Rosmini, come Dossetti e tanti altri "laburisti cristiani", finisca nell'ombra dei rimossi.
Per questo mi sento di ripetere con tutta franchezza che io non sono il presidente che in Sala Nervi il 7 dicembre del 1991, con gesto alessandrino, taglia il nodo gordiano dei rapporti tra Acli e Gerarchia. Semplicemente sono il presidente cui è toccato di vedere e capire che non c'era più alcun nodo gordiano. Perché altri e da lungo tempo avevano lavorato a scioglierlo, dentro e fuori le Acli, dentro e fuori la Chiesa.



 

Una saga sestese
di Giovanni Bianchi

“Ma sferza e spoltrisce l'affanno
La vita che bramisce
Clemente Rebora, Frammenti lirici


Quello di Damiano Tavoliere (Beppe e i suoi fratelli, Tarantola Editore, Sesto San Giovanni 2015) è un ritorno tra i personaggi di quella che fu la Stalingrado d'Italia. E se la vicenda, che ha come perno Carrà e come titolo Beppe e i suoi fratelli, allude palesemente al genio di Luchino Visconti, l'andamento di queste non poche pagine (e per giunta densissime) mi fa pensare piuttosto a una saga sestese.
Perché la saga narra assai di più della storiografia, trascina gli echi dell'epica e delle leggende, si accompagna a atmosfere nordiche dove campeggiano popoli vittoriosi e tenaci (non di rado inseguiti dalla malasorte), distingue e accomuna vincitori e vinti e anche quelli che non credono alle vittorie di Pirro, illustra e immortala le stirpi di un popolo intero, famiglie e personaggi di una illustre città. E alla fine si pone la domanda – come ha fatto recentemente Giuliano Trezzi in Cosa resta – su quel che rimane di tante lotte e tanti ideali non proclamati da cattedre e pulpiti, ma pagati in una vita agra stipata di impegni, di sogni e di dolori.
Sì, perché Sesto San Giovanni non è la fotocopia tragica, sopra il Po, della Reggello don Camillo e Peppone. È Stalingrado d'Italia per essere stata teatro dei primi scioperi operai nell'Europa schiacciata dai nazisti. E siccome Stalingrado resisteva alle colonne corazzate di Von Paulus, Sesto fu per tutti Stalingrado d'Italia. Per le mappe e per il catasto, la maggior concentrazione industriale europea in rapporto alla superficie occupata. Mentre per il martirologio e la medaglia d'oro al valore della Resistenza ci sono i 553 lavoratori sestesi deportati nei Lager, di cui 215 non faranno più ritorno. I 334 partigiani uccisi. Mentre ogni anno parte da Sesto per recarsi in pellegrinaggio ai campi di sterminio la delegazione più folta del mondo.
Per questo non può essere la bonomia del rapporto tra i due personaggi forse più riusciti del romanzo e dei films (i serials cominciano così) del primo dopoguerra –  il prete manesco che dialoga col Crocefisso e il sindaco sempre saggio che sopperisce con l'intelligenza delle cose e l'arguzia del temperamento a una istruzione difettosa – l'atmosfera del racconto sul Sesto San Giovanni. Da noi "la morte era la moneta di scambio tra le due parti".
Anche quando la vittima e l'eroe si concentravano nella vivace intelligenza e nel coraggio di un ragazzino schierato dalla parte giusta e che di nome faceva Felice Lacerra. Per questo va bene e funziona l'ampia narrazione della saga, che scava nel retroterra familiare, nei territori d'origine, nel rapporto recente e ancora irrisolto tra la città e la campagna (i protagonisti vengono tutti dall'Otrepo Pavese, terra nota alle ultime generazioni di italiani più per la franosità del terreno che per l'acciaio dei caratteri) e nel calore delle relazioni primarie.
Perché insieme alle gesta dell'epopea partigiana è il rebus della vita e dei sentimenti che viene scandagliato e messo in pagina. Ed è bene per tutti nella stagione delle politiche senza fondamenti avventurarsi nella confusione inevitabile dell'esistere piuttosto che ripararsi tra le geometrie del passato, allora solide e oggi diroccate.
E qui la saga funziona perché non smarrisce per strada il calore del rimpianto insieme alla solidità ineliminabile della memoria. Ha ragione Le Goff a ricordarci che la storia discende dalle domande che lo storico le pone. Anche quando lo storico intuisce che le fonti non bastano a ricostruire il quadro e chiede aiuto alla letteratura. Perché – ne sono convinto per averlo toccato con mano – la letteratura arriva sovente prima e va più a fondo, chiaramente a modo suo, delle discipline scientifiche.

Piazza Petazzi -Santo Stefano-
Ho letto anch'io il mio quintale di libri sulla Resistenza, eppure il libro che mi ha dato più chiavi di interpretazione e motivazioni politiche resta Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Grazie a lui ho conosciuto le langhe prima di percorrerle in cerca di vini dignitosi. Le ragazze della borghesia di Alba, i loro dischi jazz, i timidi passi di danza e le loro sigarette mi hanno offerto uno spaccato di quella società sotto il fascismo al declino che le sociologie più avvertite non riescono a rappresentare.
Affiora talvolta nelle riflessioni di Tavoliere il cruccio di una partigianeria in eccesso e quindi di un prendere parte in maniera smaccata con giudizi troppo puntuti ed unilaterali. Per chi ha scelto, magari con consapevolezza non distinta all'inizio, il punto di vista della saga, il problema non è l'equilibrio, ma l’empatia. La "verità" è quella che nasce dal fondo della condivisione piuttosto che dalla comparazione delle versioni in campo. Non si suona con talento trascinante la fisarmonica a un ballo popolare con l'ossessione dello spartito.
Tentativi ed esempi del resto non mancano. L’operaismo italiano ha sempre avuto cura di praticare una scrittura "alta" e il suo maggior filosofo e il fondatore, Mario Tronti, non lo ha mai taciuto. Così ha scritto nella prefazione dell'ultimo imponente tomo dedicato all’operaismo italiano che lo convince la metafora di Gogol che fa dire al mastro di posta che non ci sono più cavalli per la rivoluzione, e che quindi non si può marciare neppure oggi a piedi incontro al turbocapitalismo. E d'altra parte non c'è da aspettarsi dallo scarso feeling degli operaisti per Gramsci l’apologia dell'ottimismo della volontà...
E Tronti ci mette pure il carico. Dopo avere paragonato gli operai ai monaci del dopo millennio, osserva che se non ce l'hanno fatta i comunisti non è pensabile che altri ci riescano. Ecco perché i protagonisti della saga sestese di Tavoliere devono riabitare la memoria di quella che fu in Italia (e nel mondo) la città del lavoro e delle fabbriche.
Carrà, il leader indiscusso, che fa della Breda la propria Iliade. Abramo Oldrini, il sindaco per antonomasia di tutto il secondo dopoguerra, del quale il figlio Giorgio mi aveva sempre taciuto la tortura subita a San Vittore. La Ceda, prototipo delle donne della Resistenza e non soltanto delle coraggiose staffette. Talamucci, che seppe fondere il rigore del grande tecnico disegnatore del mitico BZ con la saggezza dell'amministratore e del politico navigato, e che prima aveva saputo educare alla disciplina di partito e alla cosa pubblica i giovani in una stagione di ferro e di fuoco. È l'epopea dimenticata dei "militanti". Una saga ancora una volta non soltanto italiana, che Claudio Magris ha descritto con l’aura di Musil o di Josef Roth.
Una stagione ricca di maestri in qualità di "intellettuali organici", che ha saputo procreare altre stagioni di militanza fin quasi alla fine degli anni Ottanta, quando l'avvilirsi dei tempi e l'imbastardimento delle culture politiche ha volto il termine in dileggio storpiandolo in "militonto". Gente di fabbrica che non si limitava a insegnare ai giovani il mestiere. Maestri senza la laurea di quei ragazzi che hanno condotto la lotta di liberazione e durante la quale non poco di loro hanno incontrato la fine. E sul versante cattolico, il prevosto don Enrico Mapelli, fermo nel carattere come nella scelta dell’opposizione all'oppressore. Enrico Recalcati della Marelli, vicesindaco della Liberazione, i sindacalisti Seveso e Lorenzo Cantù e quell'Asti bergamasco, del quale mi parlava la sera papà e del quale avevo perso le tracce.
Infine don Franco Fusetti, un prete ambrosiano del tipo spiritualità e dinamismo, sul quale andrebbe polarizzata l'attenzione: direttore del settimanale cattolico "Luce sestese" e fondatore del centro culturale "Ricerca". L'uomo che ha allevato un'intera generazione della classe dirigente di Sesto San Giovanni. Giulio Mandelli, che mette in scena "Salmodia della Speranza" di padre David Maria Turoldo, aiuto-regista di Ermanno Olmi e poi produttore per conto della Rai dell'Albero degli zoccoli. Giorgio Parmiani, uno dei massimi ricercatori al mondo nel campo dei tumori. Giuseppe Melzi ed Ezio Parma, prestigiosi innovatori nel campo delle arti e dell'editoria. Il giornalista Claudio Guglielmetti. Silvana Riboli. Roberto Pennasi, vicesindaco ed assessore nella giunta Carrà. Cosa dunque tiene insieme le avanguardie sestesi, orientando a un medesimo traguardo culture vivacemente differenti?
L'unità contro la dittatura prima del 25 aprile, poi la tensione alla costruzione di una democrazia e di una cittadinanza per tutti. Neppure le divisioni profonde e niente affatto disarmate della guerra fredda varranno a volgere tanta ricchezza di posizioni in derive distruttive. A partire da un'unità faticosamente riconquistata proprio a cominciare dalle fabbriche.

E siccome le svolte più significative discendono spesso da fatti che assumono lo spessore e il magistero di avvenimenti, vale la pena sottolineare un episodio al quale Tavoliere dedica la giusta attenzione. Si tratta dell'arrivo a Sesto San Giovanni nei primi anni Sessanta, direttamente dal Concilio Ecumenico Vaticano II, del teologo francese Paul Gauthier. Sono i giorni nei quali Antonio Pizzinato guida lo sciopero alla Pirelli Sapsa con un presidio sempre aperto presso una grande tenda posta all'ingresso dalla fabbrica.
L'incontro, commosso e cordialissimo, produce una iniziativa cittadina. La domenica successiva in tutte le parrocchie della città a tutte le messe i parroci parlano dello sciopero dal pulpito. Annunciano che le offerte verranno consegnate agli scioperanti per aiutarli a continuare la lotta, invitano i fedeli a condividere generosamente, e chi non si schiera fa peccato e forse va all'inferno... Non c'è solo un moto di simpatia travolgente, perché il confronto con l'oggi ridisegna le proporzioni e ti succede di provare l'impressione sgradevole d'essere diventati nani figli di giganti. È rimasto cioè il richiamo della foresta, ma le foreste non ci sono più, per tutti. Passeggi per questa città e capisci che è diventata certamente più vivibile e più bella, ma che ha nel contempo perso fascino. E pensare che vent'anni fa, a un'assemblea unitaria e affollatissima di metalmeccanici, volendo esprimermi con una metafora sintetica, paragonai  la città di Sesto San Giovanni a Barbra  Streisand: non solo per la voce inarrivabile, ma per il fascino, che non soltanto nelle donne è cosa che subisci mentre non riesci a chiarirne tutte le ragioni.
Il libro di Tavoliere e anche una miniera e un'ottima occasione per ricostruire la memoria oltre i confini della città delle fabbriche. Mi ero infatti dimenticato che Enrico Berlinguer additava Maria Goretti come esempio alla gioventù comunista.
Mi sono chiesto le ragioni della rimozione. I processi di secolarizzazione galoppano nelle immagini mediatiche ma penetrano nel profondo dei tessuti quotidiani. Anche nelle parrocchie della nostra città i matrimoni religiosi sono in una bassa vertiginosa e le giovani coppie che frequentano i corsi per fidanzati che i parroci continuano ad organizzare con commovente ostinazione sono per il novanta percento coppie che convivono da tempo, al punto che preti e vescovi tra i più tradizionalisti si sono fatta la convinzione che la convivenza sia diventata propedeutica al matrimonio.
Al confronto Beppe Carrà e la Ceda che rampognano Fiorenza Bassoli in procinto di convolare a nuove nozze sembrano iscriversi insieme all'antimoderno.
Ma è proprio il taglio complessivo del lavoro di Tavoliere che mi ha interessato. Un modo di guardare la fabbrica, la Resistenza, il sindacato e il partito dal punto di vista della quotidianità, dei sentimenti, delle amicizie (non c'è compagine politica senza la colla di un po' di comunità), della parentela. Una rivalutazione, oltre le liturgie civili e religiose, del sermo humilis e del discorso a tavola.
Stazione di S. S. Giovanni

Mi chiedo da tempo se non sia questo il taglio giusto per confrontarci con le nuove generazioni, allontanate invece dalle parate e dai toni che un tempo furono prestigiosi e adesso rischiano di risultare ripetitivi e talvolta perfino buffi. Quel che il cardinale Martini diceva della Chiesa cattolica nell'ultima intervista prima di morire e che, rivista da lui, è stata letta come il suo testamento. Rileggere la Resistenza e l'epopea delle grandi fabbriche dal punto di vista della quotidianità. Non solo come la Resistenza cambia le famiglie e salda le amicizie, ma come la famiglia e le amicizie entrano nella Resistenza e la caricano di quella umanità senza la quale ogni impresa etica e politica è destinata a durare poco e a corrompersi perché, come ha scritto un giovane condannato a morte della Resistenza europea "eroi non si rimane".
Beppe, il capo indiscusso e più d'una volta genialmente spericolato nell'azione bellica, il leader politico e poi delle associazioni sportive (la bandiera del Geas sventola da decenni sulla nazione e non soltanto sulla città che fu del lavoro) che in una serata di campagna nell’Oltrepo si rivolge a Tiziana proponendole di adottarla. Non è De Amicis atterrato a Stalingrado: è la saga sestese vista anche dalla parte dell'ordito.
Un'attitudine capace di accomunare i diversi umanesimi  e le militanze che furono dialettiche e contrapposte (anche sui banchi del Consiglio Comunale) per uno sforzo comune: ridare senso a una diversa prospettiva senza dimenticare le radici.
Così il reducismo recupera il sale di una militanza come utile al domani e fa la propria parte perché la politica senza fondamenti (e senza partiti) non ci faccia passare dal vecchio al vuoto, anziché dal vecchio al nuovo.
C'è un ultimo scrittore  che voglio scomodare per tacitare l'ansia di Tavoliere. Si tratta questa volta di Cormac McCarthy, l'autore di Non è un paese per vecchi. Perché McCarthy in questo romanzo compiutamente americano inframmezza alla narrazione riflessioni di tipo saggistico, motivate dal rammemorare o anche dall'indole filosofica ed etica. Lo stesso procedimento adottato in alcune sezioni dal testo di Tavoliere.
Come a dire che la materia stessa della saga e il suo procedere si inscrivono in quel processo di meticciato tra i generi – romanzo e saggistica ad esempio – che trova in Kundera un citato esponente esemplare. Qui il procedimento muove dall'altro capo del filo, e comunque risponde a un'esigenza della materia trattata e narrata, alla sua persistente incandescenza che non patisce le restrizioni delle vecchie regole della scrittura.
Se poi non si è persa l'abitudine a rammentare, viene alla mente il giudizio di Moravia su Proust, quando l'autore de Gli Indifferenti scrisse che tutta la Recherche poteva essere letta come una sequenza di saggi nella musicalità di uno tra i più evocativi e paradigmatici linguaggi del moderno. E dunque, siccome le cose stanno così, Sesto-Stalingrado val bene una saga.



Lavoro?
di Giovanni Bianchi


Working poor?
Sono 927 mila i giovani dai 16 ai 24 anni senza lavoro. Tre milioni quelli che hanno smesso la scuola e non cercano lavoro… Si potrebbe continuare con questa vastissima e deprimente Redipuglia dove le statistiche e gli istogrammi al posto delle lapidi commemorano il lavoro che non c’è. Oltretutto la povertà –ospite inatteso ma non convitato di pietra– s’è introdotta tra il lavoro e la famiglia sulle autostrade di questa globalizzazione che, oltre a beneficamente alzare il Pil di Paesi fin qui considerati in via di sviluppo, si incarica anche di aumentare le disuguaglianze. È l'effetto del comando della finanziarizzazione che Obama, nel primo discorso di insediamento alla Casa Bianca, ha stigmatizzato con il nome corrente di avidità.
Il paradosso è che nell'antico Occidente il lavoro viene oggi più valutato per la sua assenza che per la sua presenza. Vale quel che alcuni anni fa disse  Aris Accornero: "Il lavoro che manca stanca di più del lavoro che stanca". Soprattutto per quel che riguarda le giovani generazioni. Il lavoro che manca crea povertà e ha reso plausibile anche da noi un'espressione che apparteneva al mondo anglosassone: gli working poors, i lavoratori poveri.
Mentre nel Bel Paese dalla ricostruzione degli anni Cinquanta in poi povertà e lavoro erano stati per decenni in antitesi. Intere generazioni al Sud come al Nord sono uscite dalla povertà grazie al lavoro. Di più, la mancanza di lavoro aumenta le disuguaglianze sociali e mette a rischio la democrazia, che non è soltanto un complesso di regole, ma un costume e un'etica di cittadinanza, che non possono fare a meno di una spinta all'uguaglianza. Là dove le stratificazioni sociali la mettono a rischio. Aveva ragione il grande siciliano Luigi Sturzo: la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte.
Ciò significa che lavoro e povertà si intrecciano e arrivano perfino a interrogare insieme l'indice di Gini, col quale misuriamo le povertà. È in questo contesto che si fa necessario contestualizzare il ruolo dei working poorsIl concetto di "povertà relativa" è definito dai due terzi della retribuzione considerata mediana. Si danno infatti delle diminuzioni delle retribuzioni dell'8-10% e più forti diminuzioni del reddito, pari al 25%. Ne consegue un aumento delle disuguaglianze come constatazione immediata, poiché siamo entrati in un ciclo di bassi salari e di aumento della disoccupazione. Anche qui le cifre sono eloquenti, con una quota di working poors tra i lavoratori dipendenti del 16% (3 milioni di lavoratori) e una quota di working poors tra i lavoratori autonomi del 17%; tenendo conto che in Italia risulta molto sfumato il confine tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Comunque indubitabile e in estensione risulta il dato della povertà lavorativa.

La famiglia italiana
Abbiamo più working poors dove il sommerso è più esteso, perché la precarietà sfuma nel sommerso, ed è pure qui che povertà lavorativa e famiglia drammaticamente si incontrano dal momento che questa condizione determina la povertà relativa del nucleo familiare. Si aggiunga la scarsa intensità di partecipazione al reddito familiare delle donne e le ristrettezze delle famiglie numerose con un solo percettore di reddito.
Si apre, o meglio si dovrebbe aprire a questo punto un discorso molto mirato sulla famiglia italiana –senz'altro tuttora "mediterranea"– e le sue impressionanti (e forse inarrestabili) trasformazioni. Un discorso che funziona di pari passo con la disattenzione dei governi e dei Parlamenti che si sono succeduti negli ultimi decenni. Nonostante il lavoro solo apparentemente artigianale di Ermanno Gorrieri e le indicazioni di una pubblicistica cattolica, da destra a sinistra passando per il centro, copiosa oltre che documentata.
E vale la pena di citare la fatica dell'ultimo libro di un altro grande siciliano, don Antonio Sciortino, il direttore di "Famiglia Cristiana".
Si tratta cioè di misurare l'intensità lavorativa interna alla famiglia. Molti infatti sono i nuclei familiari che contano solamente un reddito. Anche se in alcuni Paesi il working poor è un giovane che sceglie un lavoro poco retribuito all'interno di una famiglia dal tenore agiato.
Il 37% delle famiglie italiane ha al proprio interno un w. p. Il 27% delle famiglie italiane ha al suo interno due w. p. Problema: come intervenire?
Difficile intervenire per decreto, anche perché, al di là della povertà vera e propria, molte altre fragilità attraversano il tessuto familiare della famiglia italiana “mediterranea”.
È parere di alcuni esperti che il salario minimo non serva a contrastare le povertà, creando più problemi che vantaggi. E parte da questa considerazione tutta una controversa riflessione sulla definizione stessa di salario minimo e sulla possibilità di stabilirlo per legge. Tanto è vero che in molti Paesi viene escluso per gli apprendisti e i lavoratori familiari.
Soprattutto chi è contrario all'introduzione del salario minimo fa osservare che se la vigilanza non risulta efficace, nel breve periodo si appesantirebbero costi e prezzi dei prodotti.
Vi sono poi tutta una serie di altre considerazioni che non possono essere dimenticate.
In Italia il 13% dei lavoratori ha un salario inferiore al contratto di quasi il 30%. E l'ostilità dei sindacati italiani nei confronti del salario minimo consegue all'intenzione di non appiattire i contratti. C'è un problema continentale che anche in questo caso si ripresenta, e consiste nella esigenza oramai evidente di coordinare le politiche salariali a livello europeo. Un'evidenza a livello teorico, ma del tutto ignorata o bistrattata ai livelli nazionali. Anche tenendo conto della circostanza che quasi tutta l'Europa pratica il salario minimo.
E sarà bene ricordare che l’UE non ha come compito di regolare i salari, ma di creare un mercato interno. I trattati escludono conseguentemente la possibilità di dare direttive in materia di salario.

Salario minimo e sindacato
Vi è anche la preoccupazione tutta italiana e sindacale che la fissazione di una soglia inferiore grazie al salario minimo determini un indebolimento della contrattazione collettiva. E bisogna seriamente interrogarsi su quali siano le condizioni di accesso e quali i diritti dei singoli quando si accostano al lavoro. Quale sia la forma di riconoscimento esplicito delle parti, fino a traguardare una legge sulla rappresentanza e l'applicazione dell'articolo 39 della Costituzione. Siamo di nuovo alla vivace diatriba –sempre attualissima– sul ruolo (e sulla composizione degli iscritti) del sindacato.
Il peggior attacco al sindacato è infatti la realtà che cambia e ci cambia. È totalmente cambiato il mercato del lavoro, dove i chimici guadagnavano più dei tessili non perché i loro sindacalisti fossero più bravi nella contrattazione, ma perché il mercato della chimica concedeva più margini. Vi è chi fa osservare che nel Jobs Act è inserito il passaggio dagli 8 mesi di disoccupazione contemplati in Italia ai 22 europei. Ed è d'altra parte evidente che è necessario che i contratti non si limitino a pattuire i salari. Né mancano sacche di "contrattazione pirata", come nella logistica, dove non sono pochi i contratti dove vengono pattuiti 3,5 euro all'ora.
V'è ancora da osservare che il Jobs Act non guarda al lavoro autonomo.
E’ sempre più palese l'esigenza che le false partite Iva vengano smascherate da controllori che non si astengano dal girare per i controlli. E infatti ci sono probabilmente più w. p. tra i lavoratori autonomi. Né mancano i cosiddetti "contratti alla spina" sul Web, come ad esempio per le traduzioni. È per questo che ai lavoratori autonomi interessano soprattutto le tariffe. E sarà bene ricordare una volta per tutte che lo stage è una cosa, mentre il volontariato e il lavoro gratuito sono tutt'altra cosa, nonostante le confusioni del linguaggio corrente. Tantissimi i lavoratori in quest'area che lavorano per 500 euro il mese.
Siccome il confronto è con una valanga di sommerso, dovrebbe essere chiaro che non si può giocare sullo stesso mercato con regole troppo diverse.
Resta aperto e addirittura spalancato il discorso relativo all'assistenza familiare esercitata dalle badanti, con un lavoro di cura in regime di convivenza che occupa 54 ore settimanali. È la conseguenza generalizzata di un'inadeguatezza derivante da un ritardo del sistema di welfare che scarica le difficoltà sul salario e sulle famiglie. Il salario infatti non può sopportare tutto il sostegno al reddito: non a caso in altri Paesi ci sono gli housing benefit.
Concludendo un po' alle spicce e un po' alla plebea, si potrebbe dire non solo che la povertà non è giusta, ma che occuparsi di essa non è compito del salario, bensì del welfare. E’ anzi proprio l'assenza di welfare che rende centrale il salario.

Un tema spinoso
Un tema esteso e spinoso di cui sentiamo discutere principalmente con riferimento alla crisi economica, alle scelte politiche che dovranno sanare le emergenze in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile ma non solo vista la presenza nel nostro Paese di un numero di lavoratori (i più citati i cosiddetti “esodati” ) troppo giovani per andare in pensione ma troppo vecchi per il mercato del lavoro.
Affronto l'argomento giovandomi della puntuale documentazione fornita da Stefano Guffanti.
Viviamo in un mondo in cui sentiamo continuamente invocare il lavoro, in cui si fanno politiche per il lavoro, si eliminano vincoli (e a volte tutele) nella speranza di favorire il lavoro, o meglio, l’offerta di lavoro, i “datori” di lavoro. I numeri della disoccupazione sono sempre più impressionanti. Leggiamo di disoccupazione al 12,5% ma poi sappiamo bene che il concetto è più complesso, che dobbiamo distinguere tra disoccupati e inoccupati e che può essere che aumenti la disoccupazione ma contemporaneamente aumenti il numero degli occupati semplicemente perché tra gli inoccupati un numero crescente di persone che in precedenza non provavano nemmeno a cercare lavoro iniziano  a cercarlo e vanno così da ingrossare le fila dei disoccupati. Sono di questi giorni i dibattiti sul Jobs Act con commenti che riguardano  i suoi effetti in termini di nuova occupazione  e maggiori (o minori a seconda dei punti di vista) tutele dei lavoratori. E però, pensandoci bene, qualcosa non torna… Non torna ad esempio il fatto che a fronte di una massa crescente di disoccupati aumentino, tra gli occupati, fenomeni legati al crescente stress lavorativo: straordinari non pagati per il fenomeno diffuso di trattamenti economici omnicomprensivi, mobbing, utilizzo delle nuove tecnologie informatiche (basti pensare agli smart-phone o ai PC che obbligano molti lavoratori a essere “connessi” anche durante le festività). Aumenta, anziché diminuire, la mole di lavoro degli occupati e si verifica il fenomeno, citato da Luigino Bruni in un articolo su “Avvenire”, dei manager imbevuti di falsi valori  che sacrificano la loro vita a culture costruite da multinazionali e società di consulenza simili a divinità pagane, bruciati e sostituiti come ingranaggi di una macchina infernale. Dove a lasciare interdetti è l’uso spregiudicato e smaccatamente idolatrico di simbologie religiose che carpiscono disponibilità e motivazioni che nulla hanno realmente da spartire con il lavoro offerto e richiesto.
Si legge in un libro di Noam Chomsky  la seguente frase: “Una cosa che viene data per scontata dalle più diverse posizioni politiche è che la popolazione deve essere sottomessa ai governanti; in una democrazia i governati hanno il diritto di esprimere il proprio consenso e nulla più. Nella terminologia del pensiero progressista moderno potremmo dire che i cittadini devono essere “spettatori” e non “attori” della scena politica, con la sola eccezione delle poche occasioni in cui sono chiamati a scegliere tra i leader che si candidano a rappresentare il potere effettivo.
Se abbandoniamo il terreno politico per addentrarci in quello economico la situazione cambia : qui, dove si determina in larga misura la sorte della società, la popolazione subisce un’esclusione totale; secondo la teoria democratica prevalente, su questo terreno il popolo non deve rivestire alcun ruolo.”
Che ne è quindi del lavoro? Perché il dibattito democratico è così scarso quando si parla di economia e di lavoro?

È possibile l'inclusione?
È stato Francesco Riccardi a constatare che sette anni di crisi e di rigorismo contabile hanno cancellato o almeno corretto in peggio la profezia del socialdemocratico tedesco Peter Glotz che si era spinto a parlare di "società dei due terzi" come approdo delle democrazie occidentali. E invece le nostre società presentano un terzo di popolazione in povertà e una quota minoritaria di superricchi in via di costante arricchimento. In mezzo un ceto medio malinconico e spinto sempre più verso il basso. In effetti i protetti delle nostre società sembrano avviati ad essere meno di un terzo. Che ciò provochi disagio è condizione che non intende solo soltanto chi è abituato a raccontare barzellette ai funerali.  A descrivere con tinte preoccupanti la situazione ci hanno pensato recentemente il rapporto Caritas sulla povertà in Europa e la pubblicazione del ritratto "Noi Italia" elaborato dall'Istat. L'immagine che ne esce è quella di un Paese in crisi strutturale. Il dato più inquietante è quello relativo al rischio di povertà e di esclusione sociale.
Se la media europea è di un cittadino su quattro, in Italia e negli altri sei Paesi più deboli del Continente (Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro) si arriva quasi a un cittadino su tre a rischio povertà. Un terzo quindi della popolazione è povero o a rischio di povertà.
In Italia, in cifre assolute, stiamo parlando di oltre 10 milioni di persone in condizioni di povertà relativa e 6 milioni di cittadini, pari al 7,9% delle famiglie, già in povertà assoluta, ossia privi di standard di vita accettabili. Si aggiungano 2,5 milioni di giovani che non studiano né lavorano: un quarto della popolazione tra 15 e 29 anni. Si aggiunga ancora il record negativo di nascite dall'unità d'Italia in poi e una popolazione odierna con 154 anziani ogni 100 giovani. Una spiazzante composizione “generazionale e professionale” delle famiglie italiane.
È  tuttavia su questa demografia che dobbiamo appoggiare le considerazioni intorno a famiglia, lavoro e disoccupazione giovanile. Lo sguardo alle povertà non deve prescindere da questa base. Scrive Francesco Riccardi su "Avvenire" di venerdì 20 febbraio: "La netta discontinuità progettata nel mercato del lavoro – con la maggiore facilità di licenziamento e la revisione delle forme contrattuali – se non è accompagnata da un effettivo ampliamento degli ammortizzatori sociali e delle strategie attive per la ricollocazione dei lavoratori rischia infatti di produrre più disoccupati e maggiore discontinuità nei redditi, che non nuovi occupati e crescita dei salari". 
Un dato, e un macrodato, che segnala come – scrive sempre Riccardi – "non sia più rinviabile l'adozione di una strategia nazionale di lotta alla povertà con l'istituzione di un reddito d’inclusione". Perché? Perché "assieme alla Grecia siamo gli unici paesi a esserne privi e da noi stenta a partire persino la sperimentazione della nuova "Social card disoccupati" che dal gennaio scorso avrebbe dovuto assicurare fino a  400 euro al mese e una serie di servizi sociali a chi, al Sud, non ha lavoro e ha figli minori".
La tesi di Francesco Riccardi è infatti è che senza inclusione non c'è sviluppo. Bisogna aver chiaro il quadro europeo, non soltanto per smettere di essere provinciali, ma anche per collocare la diagnosi dei provvedimenti nell'orizzonte reale. E l'orizzonte reale è quello di un'Europa che corre a due velocità. La parte settentrionale del Continente ha risentito solo relativamente della crisi economica. Mentre la parte mediterranea (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro, Romania, ma anche l'Irlanda) sconta un ritardo marcato in tema di povertà e di esclusione sociale, pur non sottacendo i primi segnali di ripresa.
Il terzo rapporto curato da Caritas Europa evidenzia che a fronte di un rischio povertà del 24,5% nell’Ue a 28 Stati, nei 7 Paesi citati il tasso è al 31%: quasi uno su tre; la percentuale è di poco inferiore in Italia: 28,4%, quindi oltre una persona su quattro a rischio. Anche i numeri del mercato del lavoro indicano impietosamente la frattura fra le due aree: 10,8% il tasso di disoccupazione dei 28 Paesi; la percentuale sale fino a sfiorare il 17% nei sette Paesi più in difficoltà. Grave la situazione in Grecia dove oramai i numeri si attestano sul 27,3%. Mette i brividi l'indice dei giovani italiani che non trovano un impiego: sono il 40%.
L'altro dato pesante lo presenta il mercato del lavoro relativo ai 15-24enni che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in attività di formazione: quelli che vengono raggruppati sotto l’acronimo “Neet” ("Not (engaged) in Education, Employment or Training").  Nell'Ue sono il 13%, nei Paesi deboli si arriva fino al 18,1%. È comunque l'Italia a guidare questa triste classifica. Un dato generale diffuso può dare l'idea della gravità della situazione: sempre più europei rinunciano a cure mediche definite essenziali.

Povertà
È ancora molto ampia l'area della povertà in Italia, con 14,6 milioni di cittadini (e il 23,4% delle famiglie) che vivono in una situazione di disagio economico. A partire dal 50,4% che non può permettersi una settimana di vacanza lontano da casa e dal 19% delle famiglie che dichiara di non riuscire a riscaldare adeguatamente l'abitazione, oppure ancora dal 14,5% che non riesce a permettersi un pasto adeguato almeno ogni due giorni.
L'Italia ha un tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro del 21,7% (26,1% per le donne) rispetto ad una media dell'Unione Europea del 14,1%. In Europa soltanto Spagna, Grecia e Croazia, ricorda l'Istat, presentano valori più elevati del nostro.
Non a caso le difficoltà nel mercato del lavoro hanno determinato un consistente aumento della disoccupazione di lunga durata (oltre 12 mesi) la cui incidenza risulta nel 2013 al 56,4%. Quasi 10 punti sopra la media Ue (47,5%).
A sentirsi scoraggiati per il perdurare della crisi sono soprattutto i giovani. Solo la Grecia, con il 28,9%, presenta un'incidenza maggiore di disaffezione lavorativa e scolastica, mentre Germania e Francia registrano quote molto più contenute.
Gli effetti non sono soltanto economici.
C'è uno scollamento tra la politica economica e la democrazia. Non serve maggiore austerità, ma investimenti in protezione sociale, istruzione, lavoro: insomma un welfare più forte.
A sette anni dall'inizio della crisi in Europa diminuiscono la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni. L'avanzata delle destre populiste e xenofobe, a partire dall'Ungheria di Orbàn, sono un segnale esteso davanti agli occhi di tutti.
Non è fuori luogo il sarcasmo di chi osserva che la medicina per risanare la spesa pubblica sembra avere nel frattempo ucciso il paziente…
E infatti vi è chi negli alti vertici della burocrazia di Bruxelles ha osservato che "le istituzioni spesso non hanno la stessa urgenza di intervenire". E comunque in questa Europa da troppo tempo si parla troppo di euro e di finanza e poco di persone.

Quale famiglia?
Anche nella famiglia le trasformazioni sono impressionanti. L'Italia vede madri sempre più attempate: quasi 3000 neonati hanno una madre di 45 anni, mentre 280 sono venuti al mondo da madri cinquantenni.
Al Sud la mortalità infantile è del 30% più alta che nel resto della penisola e ben un parto su tre avviene con taglio cesareo. Il 29% dei punti nascita non rispetta gli standard, anche perché vi si effettuano meno di 500 parti l'anno e perché risulta spesso insufficiente il personale medico/ostetrico. La mortalità infantile che – va detto – è tra le più basse al mondo, ha fatto di nuovo registrare un + 30% nel meridione, con picchi in Sicilia, Campania, Lazio e Liguria (una regione la Liguria che risulta la più anziana d'Italia, con la più forte denatalità e il più alto tasso di mortalità). Aumenta il numero di mamme straniere, pari al 20%, e la tendenza a spostare la maternità sempre più avanti (l'età media è di 31 anno). Se 8 neonati su 100 hanno una madre quarantenne solo 11 su 100 hanno invece una mamma sotto i 25 anni. Le cose migliorano leggermente al Sud, dove infatti le under 25 sono il 13% e solo il 6% tocca i quarant'anni. Le più mature sono di nuovo in Liguria, Lazio e Sardegna. Scendono invece le gravidanze precoci di ragazze minorenni: erano 2434 nel 2009; nel 2013 sono state 1922. Si aggiungano i dati in certo senso più nuovi e più sconcertanti: cito ad esempio il 52% delle famiglie milanesi mononucleari e la nuova odissea, soprattutto per quel che riguarda la casa, dei padri divorziati.

Giovani e lavoro
I giovani sono indubbiamente i più penalizzati dalla recessione economica. Si evidenzia in particolare un forte scollamento tra scuola, università e lavoro. Oggi il tasso di disoccupazione, soprattutto di quella giovanile, è molto elevato e l’assenza di lavoro ha ripercussioni negative sul mondo della produzione in generale, che perde in creatività, energia, entusiasmo, e non riesce perciò a rinnovarsi. I giovani devono poter coltivare la loro vocazione lavorativa e imparare un mestiere da cui dipende la loro felicità, spesso invece vengono costretti a un lavoro sbagliato e pesantemente sfruttati.
Il discorso sui giovani porta a riflettere sul sistema scolastico, in particolare quello universitario, ormai obsoleto per la mancanza di rapporto con il mondo del lavoro, e sul pregiudizio ancora radicato della superiorità dell'attività intellettuale su quella manuale.
Un aspetto evidente è il fatto che un tempo i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, luoghi abitati dai popoli che potevano “viverli”. Oggi la ricchezza che nasce dalla finanza finisce invece spesso nei paradisi fiscali o in residenze e luoghi inaccessibili al popolo.
Le scuole, secondo Bruni, dovrebbero essere costruite nei luoghi più belli della città in maniera da permettere ai nostri figli di unire scuola e bellezza con una formazione che, anziché concentrarsi in alcuni anni full-time, si sviluppi attraverso corsi flessibili che affianchino i periodi di lavoro a quelli di studio e che durino molti anni.

Lavoro e merito
È importante sottolineare il rapporto tra il lavoro ben fatto ed il merito. Il merito è diventato un dogma! Guai a chi osa metterlo in discussione, guai a chi osa far notare che è un tema molto antico e come tale complesso e discusso nella vita civile, militare ed economica. Guai a far notare che è stato, insieme all’onore, la parola delle comunità umane non egualitarie (esercito, scienza, religioni, scuola, famiglia…) e che la modernità ha cercato di coniugare alcune dimensioni del merito con la democrazia e il mercato. Nella pubblica amministrazione l’utilizzo strumentale del concetto di merito fa immediatamente pensare al dibattito sui dipendenti pubblici “fannulloni”.
Se è vero che in alcuni casi la responsabilità e quindi il demerito è dei singoli lavoratori, è altrettanto evidente, a chi esamini il fenomeno oltre la demagogia e la superficialità imperante sui media, che vi sono dipendenti pubblici che non sono messi in condizione di  lavorare da dirigenti inetti o invidiosi che “nascondono il lavoro”, così come vi sono persone costrette a svolgere, non certo per colpa loro ma a causa di una organizzazione del lavoro irrazionale, compiti  assolutamente inutili. La crisi economica è il risultato non solo del demerito, ma anche e soprattutto di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD che non garantiscono che  chi li ha superati sia “meritevole”  in termini di relazioni, etica, umanità. Anche un lavoro che non corrisponde alla propria vocazione può essere utile agli altri e, se svolto bene, può contribuire al bene personale e a quello comune. Il lavoro è un’attività relazionale e sociale, ognuno con il proprio lavoro contribuisce al benessere di tutta la società.
Oggi si diffonde la cultura dell’incentivo: il denaro è diventato la principale se non addirittura l’unica motivazione del lavoro, anche in ambiti come la sanità e la scuola. Secondo la tesi di Bruni va sostenuta invece la cultura del “premio".
Se il lavoro è tendenzialmente dono anche la remunerazione deve essere intesa come un dono nella reciprocità: il salario e lo stipendio non devono misurare il valore di un lavoratore, ma essere intesi come un premio, un contro dono, non il prezzo di una merce.

L'imprenditore
Un ulteriore tema toccato da Luigino Bruni nel libro Fondati sul lavoro riguarda il ruolo degli imprenditori. Come si spiega –sosteneva Einaudi– che ci siano imprenditori che investono i loro capitali e tutte le loro energie per ottenere utili molto più modesti di quelli che potrebbero ottenere più facilmente attraverso la rendita e la finanza speculativa?
Si spiega con il fatto che l’imprenditore non è sempre e necessariamente in conflitto con il lavoratore dipendente, in molti casi i due lavorano fianco a fianco e dividono fatiche e rischi.
In una fase storica in cui la creazione di lavoro è così scarsa occorre “risemantizzare” la parola imprenditore distinguendo (contrariamente a quanto fanno spesso i media) i veri imprenditori dagli speculatori, dai faccendieri che preferiscono, anziché investire nella propria impresa in lavoro e in tecnologia, investire nella “carta”.
L’alto livello di evasione che caratterizza tristemente la realtà del Paese è assimilato invece  da Bruni al fenomeno sportivo del doping. L’atleta onesto che opera in un contesto dominato dal doping si trova nella situazione del “dilemma del prigioniero”, modello economico della teoria dei giochi (la cui nascita può essere fatta coincidere con l'uscita del libro Theory of Games and Economic Behavior  di von Neumann  e Morgenstern nel 1944, anche se tutti ricorderanno John Nash interpretato da Russel Crowe nel film di Ron Howard “A beautiful mind”) con la quale si tenta di descrivere matematicamente  il comportamento umano in quei casi in cui l'interazione fra uomini comporta la vincita, o lo spartirsi, di qualche tipo di risorsa.
Molti sportivi sceglierebbero di non doparsi in un contesto in cui regnasse la fiducia e l’onestà; viceversa in un contesto nel quale dominano  la slealtà e il sospetto reciproco molti atleti finiscono nella spirale del doping  per timore di essere ingiustamente penalizzati.
Lo stesso avviene con l’evasione. L’imprenditore onesto finisce per evadere se percepisce intorno a sé l’idea che: “chi non evade è un fesso”. Evade per vincere o evade anche spesso  per non chiudere. Anche in questo caso emerge l’influenza del contesto sociale e relazionale sulla natura e sul ruolo del lavoro e si può percepire come sia utopistico pretendere di risolvere il problema con una pura logica economica.

Le parole del lavoro
È ancora Luigino Bruni a sviluppare la rilettura sotto una nuova luce delle ‘parole’ del lavoro: a cominciare da charis, ‘gratuità’, passando poi a felicità, dono, ferita, relazionalità, cura, nell'attuale scenario di crisi e di ricerca di nuove idee ed esperienze. Il mercato funziona per le merci, ma mostra i suoi limiti se subentrano relazioni umane più complesse o beni come i beni comuni. Occorrono la famiglia, la comunità e quel modello di Stato Sociale europeo che un certo neoliberismo considera morto ma che, in una situazione in cui la società invecchia e l’economia è in crisi, dimostra la sua utilità e la capacità di garantire un senso di appartenenza. Viene  ribadito il valore intrinseco di ogni lavoro se esso contiene ed esprime dimensioni di gratuità, motivazione e relazionalità: un lavoro che può esprimere la complementarietà e la reciproca interdipendenza tra l'istituto del mercato con quello della famiglia e della comunità sociale.  Il pensiero torna a John Stuart Mill che, ritenendo la famiglia e l’impresa i due luoghi in cui dominava una logica illiberale e gerarchica, scriveva: “La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale finché non sarà capace di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica”.
La situazione nella maggior parte del mondo vede oggi, a fronte di un miglioramento nella relazione uomo-donna all’interno della famiglia, una asimmetria persistente a sfavore della donna in ambito economico e lavorativo. Interessante è poi l’analisi del rapporto tra famiglia, lavoro e momenti di festa e l’invito a ripensare i tempi della festa e quelli del lavoro all’interno della famiglia. E’ infatti nell'ambito della famiglia che si apprende “l'arte della gratuità”.
L'attuale economia capitalistica non concepisce più il rapporto tra il lavoro e la festa. Ma senza il lavoro la parola festa perde di significato, rischia di diventare un concetto autoreferenziale quando la festa viene associata all’assenza di lavoro invece che alla sua presenza.
Lavorare bene significa quindi esercitare al meglio il proprio ruolo professionale a prescindere dalle condizioni, anche negative, in cui ci si ritrova. Chi non lavora si priva di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della vita: del resto, la perdita del lavoro comporta non solo una perdita di stipendio ma anche una perdita di umanità.
E’ importante e necessario per la società che ogni persona possa esprimersi lavorando, possibilmente secondo il suo daimon, la sua vocazione.

Un lavoro è davvero umano quando si svolge “con e per qualcun altro”. Lavorare “per”, con gratuità, può essere visto come la condizione per poter parlare di lavoro in senso proprio.Se l’attività lavorativa è un’attività umana e se l’umano è davvero tale quando è relazione, allora lavoriamo davvero quando il destinatario della nostra attività è qualcun altro. Detto in modo ancora più esplicito, lavoriamo veramente quando la nostra attività è espressione di gratuità.

Fondato sulla Costituzione                                                                                                                                   Sicuramente il lavoro non riguarda solo la produzione di ricchezza e il benessere materiale: l’articolo 1 della nostra Costituzione, nonostante il Paese fosse appena uscito da una dittatura che aveva praticato una “retorica del lavoro” utilizzata a fini propagandistici, decide di metterlo al primo posto del nuovo patto sociale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”Una dizione che comporta che anche noi cittadini che ne facciamo parte siamo veramente cittadini perché lavoriamo, lavoreremo, abbiamo lavorato (o perché non possiamo lavorare pur volendolo fare).  Anche per la nostra Costituzione del 1948 il lavoro è tante cose assieme. A partire dalla complicata formulazione del primo articolo. Giorgio La Pira, il sindaco "santo" di Firenze, rischiò addirittura di far saltare il banco proponendo che l’incipit della Carta suonasse così: "In nome di Dio il popolo italiano"... Furono la consumata abilità e la determinazione del presidente della Costituente Terracini a impedire la rissa. A convincere Giorgio La Pira fu il suo capocorrente Giuseppe Dossetti. Se le sinistre chiedevano una costituzione fondata sui lavoratori, dizione che non avrebbe incluso le suore di clausura, una formulazione che facesse riferimento al lavoro in tutta la sua complessità personale avrebbe invece risolto il problema... Intervenne allora la pronta genialità di Amintore Fanfani a trovare la soluzione nella formula che è diventata canonica e che ottenne l'assenso anche di La Pira come dell’Assemblea.In tal modo i padri e le madri costituenti hanno creato la più bella equazione della nostra storia repubblicana, quella tra democrazia e lavoro. È utile perciò ricordare due concetti che mi hanno particolarmente colpito e che trovo diano il senso della scelta dei nostri costituenti: il primo dice che: le comunità umane che non si fondano sul lavoro non possono che fondarsi su rendite e privilegi e quindi non sono democratiche. Il lavoro è una delle espressioni più alte di amore nella sfera sociale di cui gli esseri umani possono essere capaci; ma deve essere vissuto nella libertà. Per questa ragione al lavoro non occorrono aggettivi che lo rendano degno e buono; lo è da subito. Centrale è il riferimento al lavoro vissuto nella libertà.  Ci sono voluti secoli per dare dignità alla parola lavoro. Per anni i lavoratori dovevano sopportare, oltre alla fatica della loro condizione, il malcelato disprezzo delle classi dominanti che consideravano poco “degno” chi non possedeva altro che le proprie braccia. La valutazione culturale sul lavoro come attività infima e ignobile è sicuramente dovuta anche al dato storico che presso gli antichi erano gli schiavi e i servi a svolgere il lavoro 

Non tutti i lavori sono buoni

Non tutti i lavori sono buoni. Tra i ricordi più sofferti della mia esperienza di presidente nazionale delle Acli resta un'affollata assemblea a Conegliano con i lavoratori di una fabbrica di armi. Si trattava di incunearsi tra il bisogno di lavoro di quegli operai, dietro il quale intravedevo le rispettive famiglie, e la malvagità distruttiva dei loro prodotti. Un livello drammatico di falsa coscienza si opponeva alle mie argomentazioni mentre apriva  crisi nella mia argomentazione e crisi ancora più evidenti e malamente celate nelle argomentazioni dei miei interlocutori. Resta il fatto che gli anni mi hanno convinto che è comunque bene distruggere i posti di lavoro cattivi. I posti di quelli che stampano immagini pornografiche o che fabbricano mine antiuomo. I fini prossimi di quei lavori sono infatti a dir poco riprovevoli. Quelle fabbriche e quelle produzioni rientrano senz'altro nella celebre definizione di Giovanni Paolo II che le tacciava di "strutture di peccato". In questi casi non solo la riconversione è possibile (era questa la tesi del mio argomentare con gli operai di Conegliano) ma risulta addirittura necessaria ed obbligata. E non bisogna dimenticare che se alcune grandi fabbriche italiane preferiscono creare armi piuttosto che elettrodomestici è perché il mercato globale delle armi "tira" e remunera di più di quello degli elettrodomestici. Né va dimenticato che nel lavoro c'è l'elemento della remunerazione così come la dimensione della fatica biblicamente e antropologicamente fondata. Di più, il lavoro è un linguaggio sociale e le civiltà stanno insieme lavorando. Il lavoro è la prima cooperazione sociale. È parte costitutiva non soltanto del tessuto societario, ma anche di un'etica di cittadinanza. Attraverso le forme che presentano una grande variabilità da paese a paese. Il 90% delle imprese italiane ha meno di 15 dipendenti; il 72% delle imprese sono artigiane: si tratta cioè di imprese dove l'imprenditore lavora quotidianamente gomito a gomito con i dipendenti. Per cui a dover essere rivalutato non è soltanto il ruolo dell'operaio ma anche quello dell'imprenditore.


L’intera natura del lavoro
Torna utile l'antico Ricardo, che dominava la scena scientifica prima di Marx: la malattia del capitale è che crea rendite e non profitto. L'imprenditore genera lavoro; il manager organizza il lavoro di altri. L'imprenditore investe e rischia per un progetto che coinvolge i suoi collaboratori e dipendenti. Il finanziere ha un altro obiettivo: vuole fare soldi, non importa come. E se una deriva perniciosa ha attraversato il Bel Paese e gli esiti del fordismo nell'Italia industriale è stata la corsa sfrenata e niente affatto virtuosa di troppi imprenditori, dei loro figli e delle famiglie a trasformarsi in finanzieri. La mia città, Sesto San Giovanni, uno dei poli dell'industrializzazione italiana, si è trasformata nel corso in un decennio nel più esteso sito di aree dismesse d'Europa. Operai mandati in pensione, con lo "scivolo", a quarantanove anni…
Avendo sazietà delle statistiche –si sarà capito– ho preso l'abitudine di dare un suggerimento ai miei interlocutori del Nord. Dedichino un weekend a una gita nella vicina Svizzera, in automobile o anche in treno. E guardando dai finestrini avranno modo di constatare come la ricca Svizzera, notoriamente fondata sulle banche, abbia saputo mantenere tante industrie di meccanica di precisione e chimiche. Il lavoro infine è così complesso da contenere, più o meno celato, tantissimo dono. L'impresa infatti può comperare il lavoro, ma non l'entusiasmo e la creatività del lavoratore, che possono essere soltanto donati. Che cos'è allora il dono dentro il lavoro? Quel qualcosa che sta tra il contratto e la vita, che non ha prezzo e non può essere remunerato. L'impresa lo sa. E perciò ti mette a contratto, paga il lavoro e ti ruba il dono. È  dunque sostanzialmente "irriconoscente". Tiene conto del lavoro, ma non del lavoro non pagato. Per questo ci portiamo dentro tutta la vita la sensazione di non essere amati abbastanza. Non è un problema e non è un sentimento che attenga al romanticismo: attiene piuttosto e sicuramente all'uso spurio degli incentivi, che risultano non stimolo, ma elemento di controllo. È notorio l'esempio che Primo Levi cita dal Lager di Auschwitz. C'era in quel Lager un muratore bergamasco che odiava i nazisti, ma che quando era chiamato a costruire un muro lo tirava su diritto. Era il suo modo di recuperare la propria dignità opponendosi all'annientamento dei nazisti. Era un modo di dire loro: "Quel muro sono io".
Tale è la funzione del lavoro quando non viene ridotto a posto, alla necessaria retribuzione, agli elementi di ripetitività ed alienazione. Si potrebbe allora forse dire che, concepito in questa guisa, quel che c'è di più bello al mondo è il lavoro.
Con una avvertenza laterale: il sindacato non faccia soltanto contratti sullo stipendio.
Ma per sortire da questa situazione di indigenza, di estesa disoccupazione, di carenza di prospettive è necessario che vengano riprese le grandi e convincenti narrazioni. Che non eliminano né la fatica né il dolore, ma che le sussumono dentro il lavoro, dal momento che aveva ragione il grande economista Genovesi (un classico da riscoprire) quando osservava che la molla dell'azione è sovente il dolore. I vertici aziendali sanno tutto ciò, o almeno ne sono avvertiti e inquietati. Per questo attirano ed ingannano i giovani manager con promesse non mantenute, destinate a illudere e a durare un numero limitato di anni, e infine a produrre crolli rovinosi. Non vale solo la rincorsa infinita. Non tiene quella che negli Stati Uniti da tempo hanno chiamato la corsa del topo in carriera. Quando tu per fame di vita raggiungi il successo, il successo spegne la fame di vita. Anche in questo senso il lavoro non può essere un’occasione e un'opportunità soltanto individuale giocata in concorrenza con altri che lo considerano e vivono alla stessa maniera. E neppure il lavoro può essere considerato e vissuto come totalmente asservito al consumo, e quasi una sua variabile dipendente.

Perfino l'etimologia
Bruni cita l’etimologia della parola latina lavoro (labor) che potrebbe risalire a “rab”, (con la trasmutazione poi di r in l : lab), che in lingua slava antica indicava lo schiavo (rabu).
Per i greci e i latini il lavoro materiale è cosa ignobile; l’uomo antico apprezzava l’otium e disprezzava il negotium e l’attività delle mani (un eloquente   brano dalle Georgiche di Virgilio attribuisce a Giove l’introduzione del lavoro e della fatica nella vita umana).
Dalla lettura della Bibbia, che descrive la cultura del lavoro presente nel popolo ebraico, continua ad emergere una concezione del lavoro materiale come attività inferiore in dignità rispetto al lavoro intellettuale e spirituale anche se, rispetto al mondo greco e mediorientale, il lavoro materiale è maggiormente valorizzato e rispettato.
Con l’avvento del cristianesimo abbiamo un’operazione di “nobilitazione” del lavoro che culmina durante il Medioevo con l’ora et labora del monachesimo: il lavoro assimilato alle orazioni. Da una parte monaci che trascrivono i grandi classici di Aristotele, Seneca, Platone, Isaia, Paolo, e dall’altra sviluppano le tecniche commerciali, di costruzione, di bonifica, di conio delle monete. Nei monasteri vi erano giuristi, giudici, economisti; si crearono le prime forme di divisione del lavoro e di organizzazione razionale del tempo e dei luoghi. Le Abbazie e i Monasteri salvarono, creativamente, la civiltà, poiché furono luoghi anche di grandi innovazioni, laboratori vivi dai quali presero vita forme di democrazia (gli abati venivano eletti all’interno di governance complesse e articolate) e di relativa autonomia politica sia dall’imperatore sia dal papato e dai vescovi. Ecco allora la ripresa in questa prospettiva della lunga storia del lavorare, degli uomini e delle donne, fino al rapido tramonto delle forme del lavoro contadino e poi di quello della fabbrica, dove si erano condensati secoli, se non millenni, di storia di arti e mestieri, di professioni e abilità. Un tramonto dopo il quale non si intravede ancora con chiarezza quale sarà il futuro delle nuove forme di produzione di beni e servizi: se una modalità più umana e umanizzante o invece il ritorno di una dipendenza quasi servile, una sorta di neo-feudalesimo. È importante tuttavia ragionare sul significato semantico del lavoro, dal momento che spesso ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi –precario, dipendente, autonomo, nero…– mentre viene elusa la domanda decisiva: che cosa è il lavoro?

Che cosa è il lavoro? 
Sicuramente è una dimensione che dice agli altri chi siamo. Se incontriamo una persona o un collega non inizieremmo mai il dialogo chiedendo quali sono i suoi hobbies o la sua fede religiosa; la prima e naturale domanda è: “Che lavoro fai ? E tuo padre, tua moglie, tuo marito ?”
Il rischio è che l’identità di una persona “finisca” con il lavoro, non tenendo conto che vi sono interessi e passioni al di fuori di esso.  A partire dalla fine del XX secolo, all’era del lavoro, che aveva dominato nell’Ottocento e nel Novecento, è subentrata quella del consumo e della finanza. Così oggi "il lavoro viene asservito al consumo". Poiché è il lavoro che dice agli altri “chi siamo”. La sua perdita comporta una crisi dell’identità personale.
Quindi il lavoro è necessario ma deve essere un lavoro “libero”. Ecco che non tutto il lavoro fonda la Repubblica, non tutto il lavoro è degno, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi, di ieri e di oggi. Ma oggi assomigliamo più alla civiltà greca o a quella cristiana? Cosa è oggi il lavoro ? Qualcosa da elemosinare? Per cui chi lavora deve ringraziare ? O un contratto tra persone che hanno pari dignità e diritti, quale dovrebbe essere? È bene esaminare il lavoro in rapporto con la rendita.
Bruni cita economisti come Ricardo, Loria, Piketty e pone l’accento sul conflitto tra profitti e rendite che ha comportato un aumento esponenziale delle rendite accompagnato da aumento delle imposte indirette, tagli al welfare e riduzioni dei salari dei lavoratori.
A ciò si accompagna un crescente aumento delle retribuzioni e del potere dei manager giustificato da Università e Master in cui si insegnano le stesse cose, si utilizzano gli stessi testi e si ragiona secondo un “pensiero unico”.
I capitali devono rappresentare strumenti che potranno generare flussi di reddito e creare sviluppo. Un’impresa, un sistema economico, una civiltà iniziano la loro decadenza quando i flussi sono visti in funzione dei capitali, i salari e i profitti in funzione delle rendite. Quando alla speranza subentra la paura e il senso del grano diventa il granaio. Una critica che da decenni ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per concentrarsi unicamente sul lavoratore inteso come “risorsa umana” o come “capitale umano”, che risponde razionalmente a incentivi e sanzioni. In un appassionante carteggio tra Elio Borgonovi, per diversi anni Direttore della SDA Bocconi, e Luigino Bruni emerge una condivisione del fatto che si sta imponendo un concezione di management come tecnica libera da valori, favorita da una distorta applicazione dei principi di divisione e specializzazione del lavoro, delle funzioni economiche, del mercato inteso soprattutto in termini di competizione win-lose (qualcuno migliora e qualcuno peggiora) e non in termini di win-win (tutti possono migliorare se sono disposti anche a collaborare). Una cultura manageriale che si fonda su una antropologia del talento individuale  e che si collega a concezioni antiche di homo faber fortunae suae e di "ascensore sociale" consentito dalla mano invisibile del mercato. Non basta, non funziona e ci deprime perché ci ruba la speranza.

                                                                     
 

Conversazione sulla bussola
di Giovanni Bianchi
Il cardinale Angelo Scola

Milano. Già il titolo dell'ultima lettera pastorale del Cardinale, "Un nuovo umanesimo per Milano e le terre ambrosiane", mi aveva bendisposto e rasserenato, come per un ritorno a casa. La mia generazione, che è la generazione culturale di Angelo Scola e di non poche successive, è cresciuta nell'idea di un nuovo umanesimo. Ma ci ha pensato la brutalità della cronaca a renderne esplicita l'attualità, come una necessaria lettura dei segni dei tempi.
Scrivo infatti queste note ancora sotto il peso del massacro dei bambini della scuola di Peshawar, dove dei fanatici criminali hanno ucciso in nome di un Dio sanguinario che è obbligo religioso, anche per gli islamici, rifiutare. E tra gli infiniti commenti mi ha colpito l'amaca di Serra dove lo scrittore sostiene che si può entrare in una scuola e uccidere uno a uno "i figli del nemico" soltanto se si ha la certezza che le persone non esistono e l'uomo neppure.
E allora l'invito a un nuovo umanesimo dell'Arcivescovo di Milano cessa di essere un riferimento filosofico per diventare con urgenza la necessaria scommessa del presente.
Scrive il vecchio Seneca a Lucilio che nessun vento è favorevole per chi non conosce il porto. E la fase storica che attraversiamo pare afflitta da una disperante bonaccia, non più esposta ai venti della crescita e dimentica se non di porti sicuri, almeno di approdi alla portata della nostra affannosa navigazione. (Forse la metafora marinara funziona più per Venezia, da dove il lecchese Angelo Scola è approdato, che per una Milano che nel secondo dopoguerra ha provveduto a sotterrare i superstiti Navigli e dove la cosa più contestata dell’Expo pare continuare ad essere la famigerata "via d'acqua". Ma tant'è.)
Ho cioè avuto l'impressione che dopo una lettura attenta della diocesi ambrosiana e dei cambiamenti delle cose milanesi in generale, così come si sono trasformate dagli anni della sua giovinezza, il Cardinale si sia deciso a lanciare il suo messaggio, che è appunto quello di un nuovo umanesimo per Milano e le terre ambrosiane. Dove la novità è reale proprio perché non nasconde il suo cuore antico.

Una vecchia bussola, anzi, antica
Scola ha colto nel segno perché in una società priva di una meta e di punti di riferimento svolge un'utile funzione chi addita un traguardo o almeno ripristina un vecchio cartello indicatore. La sponda dalla quale allontanarsi è infatti anzitutto quella della depressione, dei futuri fasulli e degli ottimismi inoculati dal pensiero unico. Hanno retto anche troppo, e adesso ci lasciano perplessi ed interdetti come chi racconti barzellette al funerale.
Sono gli slogans della Repubblica marinettiana, che inneggiano al futuro come fosse plastica pieghevole o gomma americana da masticare mentre si segue la partita. Il pensiero unico è pensiero evaporato: la sua crudeltà è quella della ballerina che schiaccia sotto la punta della scarpina, tra un cancan e l'altro, il grillo parlante che è in te.
Pietà l'è morta per la critica, e anche per i poveracci, gli homeless, gli zingari. È così che nonostante l'aumento delle disuguaglianze la questione sociale non vive nella coscienza dei nostri concittadini.
In Italia, a differenza che a Wall Street e a Madrid, non c'è stato alcun movimento o movimentino di occupay qualcosa. Qualche operaio isolato è salito in Sardegna su una piattaforma prominente, quasi a chiarire che dopo le ondate del Sessantotto (roba da giurassico) e quelle stanche e ripetitive- eppur nobilmente disperate -del grey power del sindacato, spetta a qualche stilita o dilettante acrobata predicare dai tetti che le lotte non ci sono più e i movimenti (per adesso, mai dire mai: lo consigliava Giulio Andreotti) sono diventati introvabili. Più teatro del patetico che lotte o vertenze.
Con i versi di Guido Gozzano puoi passare un intero pomeriggio di dotta malinconia in riva al lago d'Orta, ma difficilmente vieni sospinto a un'indagine sulle contraddizioni del presente.
Se ne duole lucidamente Alberto Asor Rosa sulle colonne di "laRepubblica" di domenica 28 dicembre: "Picketty è un fenomeno puramente intellettuale che ha avuto un enorme successo ma non trasforma la teoria in coscienza dalla prassi. Il tema dell'ingiustizia sociale rimane però assolutamente non popolare. La percezione e la condanna delle disuguaglianze nelle nostre società è stata respinta ai margini, non interessa".

Dire cittadinanza
Non interessa i cittadini. Non interessa i partiti e i loro adepti. Non interessa le nuove generazioni, per le quali lo spettro della povertà non è affare di altri da accudire -come per il volontariato dei decenni scorsi- ma un abisso da evitare per non precipitarvi nel prossimo futuro. E poi, a dirla tutta, le idee progressiste dalle quali i partiti della sinistra furono originati non hanno mai avuto in simpatia  lumpen e marginali, considerati anzi un pericolo e potenziali traditori del progresso e della rivoluzione. E lumpen può essere tradotto in diverse maniere ed idiomi: underdogs, borderline, beat (ma è termine decisamente stagionato), escluso, invisibile, migrante, sanspapier, sfigato, precario, con l'avvertenza che la precarietà     -ha ragione Luciano Gallino- non è un passaggio occupazionale transitorio e funzionale, ma un dato antropologico e disfunzionale rispetto allo stesso sistema…
Non è casuale che la loro causa sia stata sposata con autentica veemenza dal Papa argentino, che è un radicale evangelico, e non un progressista apparentabile a una qualche socialdemocrazia ribattezzata dalla teologia della liberazione. E quando gli chiedono se la colpa di tanta superficialità e disattenzione sia imputabile a intellettuali e scrittori il vecchio Asor, iscritto da sempre all’operaismo, così risponde: "Il romanziere non può provocare qualcosa che non c'è. Come fa ad occuparsi del conflitto sociale e delle sue prospettive quando questi temi, soprattutto in Italia, non sono centrali, anzi sono marginalizzati? I teorici e gli analisti che se ne occupano si contano sulle dita di una mano e non sfondano il muro dell'indifferenza".
Il muro dell'indifferenza dei talk-show, del cittadino medio e preoccupato, del ceto politico, di questi partiti ridotti a ruderi della loro antica immagine. Tutti partiti di centro oramai, ma non come li pensava Luigi Sturzo. Piuttosto tutti a caccia del voto di una classe media spaventata perché impoverita. Il loro problema, in termini di audience e di voto, in termini di rappresentanza e di interessi, non può essere quello dei marginali e di quanti non riescono a tenere il passo, già lento e sgangherato, della carovana nazionale.
Detto alle spicce: è sparita la solidarietà che gli italiani avevano costruito dopo la Lotta di Liberazione e durante i lavori della Costituente come patrimonio della Repubblica. Come idem sentire e come bene comune. E quando la solidarietà è erosa e si ritira, non resta il vuoto: perché lo spazio viene immediatamente occupato dall'invidia sociale.
Ci confrontiamo ogni giorno con i narcisismi dilaganti, con un consumismo che ha superato il possesso delle cose per gestire tra la gente il proprio delirio ("domenica siamo aperti", anche per quelli che non possono spendere), con un individualismo aggressivo che ignora l'altro, anche quello che gli siede accanto in metrò, per rifugiarsi nei propri supporti elettronici, dove ancora una volta riesce a farsi afferrare dalla tecnica al di fuori di se stesso. Più soli di così... Quando vengono meno i legami sociali, di territorio, d'ambiente, familiari, non ci confrontiamo più con un'amicizia indebolita o una solidarietà svanita, ma con il dilagare dell'invidia sociale. Tutto diventa competizione.
È davvero azzeccato l'inglese del mantra: competition is competition?
Lasciate perdere i sondaggi, i talkshow, i saggi specializzati. Sapete da quando non ci sono più i partiti politici italiani? Da quando uno che ha in tasca la tua medesima tessera è finito in una corsia d'ospedale per un intervento chirurgico e tu non ti senti in dovere d'andare a fargli visita. Una società non ha più colla, non si tiene più insieme quando al suo interno sono venuti meno momenti di fraternità e di comunità.
Come possiamo dunque chiamare un tessuto sociale e civico caldo di relazioni e che funzioni, che sia in grado di fare progetti di futuro, di occuparsi e garantire chi fa fatica ed è finito ai margini? Nuovo umanesimo è un nome che può funzionare. In attesa di qualcosa di meglio e di più politicamente preciso.

Il frigidaire della democrazia
Torno alla metafora che i miei venticinque lettori sanno riconoscermi come abituale. La democrazia come un frigidaire che ognuno si limita ad aprire per asportare quel che gli serve ed aggrada, senza mai pensare a ricaricarlo. Di più, la democrazia è un bene comune, come l'acqua e come il lavoro. Come tale dev’essere considerata e  trattata in tutti passaggi storici e nelle trattative. Sono pericolose tutte le riforme, al di là dei tempi di approvazione, che avvengono "a risparmio di democrazia".
Nel continuo confronto tra governabilità e democrazia, non può esser ogni volta la democrazia destinata a pagare il conto. E la democrazia può talvolta governare grazie anche ai suoi ritardi e ai suoi anacronismi. Perché in tal modo i conti ritorneranno comunque in termini di cittadinanza responsabile ed attiva.
La mancata mobilitazione democratica non discende in questa fase né dal tallone di ferro di un possibile ed occulto autoritarismo e neppure dalla circostanza che siamo circondati da una crescente barbarie. Ad essere precisi, il nemico è dentro di noi. Come ci è stato narrato in alcuni films di fantascienza, una sorta di virus, inoculato da fuori, si è impadronito delle nostre facoltà. Non l'autoritarismo, ma la seduzione del consumo. Le sue promesse di onnipotenza e di volontà di potenza individuale sembrano stranamente assomigliare alle profferte di scienza e di sviluppo fatte balenare ai progenitori dal serpente nel giardino dell’Eden.
Non la coercizione oppressiva, ma il solletico e il delirio del narcisismo acquisitivo. C'è tutta una letteratura oramai in proposito, e mi basta ricordare i testi di Magatti o quelli del filosofo Petrosino, al quale dobbiamo le migliori interpretazioni di Levinas.
Né un attacco prussiano, né lo scacco matto nel quale sono storicamente specialisti i cinesi. Convertiti da dentro alle illusioni e ai piaceri del consumismo. Un’autentica mutazione antropologica.  Il barbaro e il cavallo di Troia sono dentro di noi e, anche se indotti da sopra e da fuori, ci hanno conquistati e siamo oramai davvero fregati e contenti. Anche qui un diluvio di citazioni: da Lacan a Derrida, da Levinas a Bauman.

Violenza soft
Il fatto è che il giochino ha funzionato e continua a funzionare, alla grande, a livello di massa. Simone Weil s'era avvicinata con grande anticipo a questo paradosso esistenziale in Venezia salva, quando ci aveva avvertiti che è nel carattere del violento farci sognare il suo sogno. La violenza senza freni dell'avidità finanziaria e della volontà di potenza. Una violenza della quale non siamo né consapevoli né avvertiti.
Critichi infatti il mondo capitalistico, ma ne sei parte integrante. Ma se non lo critichi attivamente, ne sei inevitabilmente complice, e se un po' di coscienza ancora   funziona in te sarai costretto prima o poi ad assumerti le tue responsabilità.
E avanti con le citazioni di Horkheimer, Adorno e Marcuse...
Ed è sempre il nuovo umanesimo che, non limitandosi ad essere visione e progetto, prende in esame la condizione dei cosiddetti "corpi intermedi", da sempre cari alla dottrina sociale della Chiesa.
La famiglia, il più eminente, le cooperative, le associazioni, il Comune, le organizzazioni sindacali e professionali sono infatti quegli "ambiti sociali in cui la tensione del popolo al bene comune funge da collante per rispondere a interessi legittimi". E infatti senza di essi il nuovo umanesimo non sarebbe in grado di generare costumi che si oppongano e sconfiggano quel narcisismo esasperato che sembra aver guadagnato tutta la scena, sempre a partire da quella interiore. Un umanesimo che riconosce cioè nella democrazia l'ambito più proprio per lo sviluppo della persona. E che quindi non è disponibile a trafficare per una governabilità a risparmio di democrazia. È dal 1974, dalla celebre conferenza di Kyoto della Commissione Trilaterale, che ci trasciniamo questo binomio come un drammatico dilemma. Si parlò infatti fin da allora di un'anomalia italiana derivante da "un eccesso di democrazia".
Abbiamo cioè bisogno di una democrazia che lavori alle proposte di un nuovo welfare comunitario, con generosità e senza quelle ingenuità scandalose che aprono la via alla corruzione. Una democrazia consapevole che "oggi è più difficile di dieci anni fa uscire dalla povertà".
Che non sposa quindi le teorie della ricaduta favorevole che presuppongono – come ha scritto papa Francesco nella Evangelii gaudium – "che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo".
Il progetto del nuovo umanesimo può dunque vantare basi solide, e non soltanto dal punto di vista teorico. È altra cosa rispetto al narcisismo dilagante, ai populismi alla moda in tutte le culture politiche superstiti, che dei progetti fanno a meno, anche perché ogni populista ignora quale sarà il suo traguardo, lasciando che siano le circostanze a determinarlo. La sua coerenza e più ancora le incoerenze sono soltanto misurabili a posteriori.
Risulta perciò di dubbio gusto e certamente pericolosa ogni governabilità ottenuta a risparmio di democrazia. Come non deve incantare la rapidità, destinata a trasformarsi velocemente in boomerang per chi ne è appassionato. Perché se non va perso tempo nelle decisioni, bisogna lasciare il tempo necessario alla riflessione per esercitarsi. E i tempi della consapevolezza storica sono la garanzia di futuri possibili ed anche cantati.
La politica, e soprattutto la grande politica, è talvolta chiamata a muoversi contro la storia. Ma per farlo all'altezza delle sue ambizioni e del suo progetto deve avere chiaro il proprio fondamento. Un nuovo umanesimo ne è tanto più in grado nella misura in cui non dimentica la radice.

La diagnosi di Natoli
L'ultimo saggio di Salvatore Natoli ha tra i molti meriti quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dal congiunturalismo e dal sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il Natoli, proprio per questo "li determinano e per questo, seppure sotto altra forma, si ripresentano".
Gli autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso – il maggior teorico italiano del trasformismo – del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre occasioni.
Per Natoli, fin dagli esordi della modernità il carattere degli italiani è stato determinato dall'assenza di senso dello Stato, e quindi da una scarsa fiducia nelle istituzioni, e dalle conseguenze di un decollo tardo e limitato del capitalismo, e con esso della sua etica. Circostanza che ci obbliga a fare i conti con una assenza di Stato laico e con l’inesistenza della cultura liberale conseguente.
Tutti nodi che stanno venendo al pettine con il manifestarsi preoccupante degli esiti di una debole efficienza media del sistema. La svolta è tale che anche il "piccolo è bello", tipico della filosofia del Censis di Giuseppe De Rita, che per molti anni ha esercitato di fatto l'egemonia sull'intellettualità italiana, risulta oggi inservibile per affrontare i processi di globalizzazione: tutti oramai concordano, e non soltanto per ragioni di ricerca, occorre ben altro!
Gli italiani cioè non solo presentano un deficit di Stato, ma anche un deficit di popolo, dal momento che i popoli sono in qualche maniera frutto di un'invenzione a loro volta politica, capace di stabilizzare i processi di identità. Ecco perché negli ultimi due decenni sono tornati a vigoreggiare i localismi, nipoti dell'antico Strapaese, e le ideologie perdenti delle piccole patrie. Il tutto ulteriormente complicato dalla presenza ingombrante della Chiesa cattolica, in quanto potere temporale in grado di ingenerare equivoci e scombinare le carte politiche secondo la celebre critica gramsciana.
E tuttavia non è possibile dimenticare che questa storica antropologia degli italiani ha tributato un grande consenso popolare al fascismo durante un intero ventennio. Ne era consapevole Palmiro Togliatti che ne illustrò le ragioni e i luoghi ai quadri comunisti nelle sue lezioni moscovite. E forse non è del tutto priva di fondamento la diceria popolare che affermava – in linea con un disincanto che Natoli conosce bene – che se Mussolini non avesse compiuto la tragica scelta della guerra, ben più a lungo e alla spagnola o alla portoghese gli italiani avrebbero continuato a fare i conti con il fascismo.

I giovani come chance e come enigma
Il discorso sulla crucialità dei corpi intermedi in una democrazia si scontra con la fase attuale della politica governativa, che proprio questi luoghi intermedi va disboscando con grande lena e supporto di consenso mediatico.
I giovani -in quanto generazione del nuovo politico e in quanto nuovo soggetto storico e "nuova classe"- vengono presentati come il soggetto portatore e beneficiario nel tempo breve e medio di questa operazione su larga scala, a risparmio di vecchia e tardiva burocrazia. Può essere.  Due problemi restano tuttavia tra tanti sul tappeto e vale la pena di vederli  prima e di affrontarli poi: sono i giovani in quanto categoria del nuovo politico assumibili e rappresentabili come soggetto innovatore? E l'eliminazione, più sulla carta che reale, della burocrazia può specchiarsi soddisfatta nel proprio vuoto senza por mente a una nuova burocrazia, un nuovo corpo di civil servant in grado di amministrare il nostro futuro nazionale ed europeo? È semplicemente casuale che a Bruxelles sia proliferata e comandi una genia plurigenerazionale di tecnocrati e burocrati, in particolare di nazionalità diversa da quella italiana? I francesi attingono all’Ena, mentre noi diamo l'idea di pensare a saccheggiare il privato (esso stesso non robusto e dove pure la corruzione non è assente) e una magistratura che, a partire da Tangentopoli, è sulla cresta di scandali ripetuti e va sempre più vistosamente occupando gli spazi dell'amministrazione ma anche della rappresentanza politica.
È possibile brandire la sega elettrica e mediatica di Palazzo Chigi sull'onda dell'indignazione popolare senza pensare seriamente non soltanto a cosa fare dei molti esodati, ma anche a come creare un nuovo personale che sostituisca quello vecchio e decrepito?
Come a dire che senza progetto i guadagni del consenso popolare hanno il fiato corto e alla lunga inquietante. I cari e tradizionali "corpi intermedi" di Scola e della dottrina sociale della Chiesa non sono fantasmi e neppure i competitori da eliminare in una rapida partita alla playstation. Una interpretazione "unnica" della flessibilità (pubblica oltre che privata) non può dimenticare il grido di dolore di Luciano Gallino: "Il maggior costo umano dei lavori flessibili è riassumibile nell'idea di precarietà".
E per chi ha il gusto dello studio e della documentazione vale forse la pena rammentare che l'espressione "società flessibile" risale a Richard Sennett (L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale) tradotto in italiano nel 2000. E fa parte di una serie ormai lunga di espressioni che si sforzano di incapsulare in un aggettivo l'essenza dei mutamenti verificatisi a partire dall'ultimo quarto del Novecento nelle società avanzate.
La lista dei precursori parte da un libro di Daniel Bell del 1973 per arrivare a Jean-Francois Lyotard, Ulrich Beck, Manuel Castells (dopo il vertice di Lisbona dell'Unione Europea del 2000). I titoli mutano, ma descrivono la stessa cosa, o meglio le sue continue mutazioni. Eppure bisogna guardare con fiducia (fiducia e speranza non sono gli equivalenti dell'ottimismo) ai tentativi di un nuovo corso.
Attenti che l'innovazione non ci rimandi all'inizio o più indietro, come nel gioco dell'oca, ma sia occasione di una trasformazione capace di interpretare le esigenze dello spirito del tempo, ma anche di criticarlo. Non posso infatti dimenticare che la discussione su innovazione e trasformazione accompagnò Barack Obama nel suo primo viaggio in Italia.
E sarei davvero più tranquillo se il Presidente del Consiglio in carica mostrasse talvolta di aver portato nella capitale dalla sua Firenze anche qualche solida reminiscenza del suo predecessore a Palazzo Vecchio Giorgio La Pira e di quel personaggio tutto sommato centrale – oltre che minoritario ed eccentrico – nell'educazione degli italiani che risponde al nome di don Lorenzo Milani.
Non basta l'analisi dell'antropologia di un popolo. Non basta alla politica, anche se è un dovere per la grande filosofia. La politica continua a non poter fare a meno di riferimenti, testimoni e maestri. Talvolta perfino di vati, come ci accadde nel Risorgimento.
Perché senza dover essere la politica non esiste. Perché anche l'uomo non può esistere, grazie a Dio, senza dover essere. E un qualche istinto e una funzione educativa la politica, anche quella confezionata e assediata dai media, li deve comunque mantenere.

Ancora sul guadagno del reducismo
Chiudo finalmente questa riflessione, di dimensioni scandalosamente iperscalfariane, con la riproposizione di quello che è diventato un mio pallino. Esso riguarda il rapporto tra le generazioni, tra i giovani e gli anziani, un rapporto da non vivere antagonisticamente, ma come possibile sinergia (da ritrovare) tra le generazioni, per il vantaggio e il bene comune di quella che continuiamo a chiamare, inclusi i suoi galoppanti meticciati, nazione.
Ma esiste davvero un vantaggio del reducismo?
Visto il tono di queste righe riaffronto l'argomento a partire dall'area cattolica.
Un tempo la Democrazia Cristiana rappresentò un progresso, non solo in termini di secolarizzazione, all'interno del mondo cattolico. Un anticipo del laicato che durò fino al Concilio Ecumenico Vaticano II.
Dopo il concilio è tornata in campo la categoria "mondo cattolico", più volte giudicata(anche da me) defunta. Tale da riassorbire come variazioni sul tema non soltanto la Dc, ma anche i Cristiani per il Socialismo (chi li ricorda?) e i preti operai.
La velocità di caduta dei modelli aggredisce per primi, quasi una nemesi, i suoi portatori. E non è escluso che si avvicini inaspettatamente la stagione che reclamerà di rottamare i rottamatori.
Il marinettismo tardo-populista ha il fiato assai più corto di quanto non immagini.
Siamo sempre al mantra marxiano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. E figurarsi quando la solidità non è certificata.
Il presenzialismo è così intriso di narcisismo da eludere la costruzione dei futuri possibili. Proclama infatti: il futuro è adesso ed è già cominciato, condannandosi -quando funziona- al passato prossimo di una crescita né felice né infelice: semplicemente problematica.
Chi ignora la storia si perde. Non costruisce progetti, non trova amici (solo competitori) e neppure nemici. Avanza, si fa per dire, nel vuoto.
Non a caso il problema per questi italiani è infatti prima che politico antropologico. Qui Salvatore Natoli ha pienamente ragione. E tuttavia solo una grande e consapevole politica può concedersi la chance di andare contro la storia.
Il vantaggio del reducismo ha questa consapevolezza. Cessa di essere un atteggiamento della memoria e un atteggiamento meramente culturale quando si accinge, visitando le proprie disparate miniere, a raccogliere reperti per un punto di vista. Indispensabile per uno sguardo (e un progetto) sul mondo, al punto che è meglio avere un punto di vista sbagliato che non averne nessuno. È questa la questione che concerne la costruzione di una bussola, cui dovrebbero collaborare le nuove e le vecchie generazioni, tutte comunque interessate a capire la fase per cambiare le cose.
Anche la speranza, anche la solidarietà e l'amicizia possono essere costruite.
Ne sono consapevole: il mio mondo non c'è più, e non ritornerà. Trovo ancora in giro i richiami della foresta, ma la foresta non c'è più, per nessuno. Eppure insisto: c'è un guadagno nel ricordare. Ci si mette nella condizione di raccogliere materiali per la costruzione di un "punto di vista" dal quale guardare -tutti insieme- il mondo nel quale viviamo. Questo mondo che è fatto insieme di realtà e rappresentazione.
Ho l'impressione fondata che, volendo giustamente abbandonare gli approdi e le caste del passato, si eviti nel contempo di criticare lo spirito del tempo (che è tutt'altra cosa e il contrario dei "segni dei tempi"). Vale per le formazioni del politico e i partiti in particolare e vale certamente per la fase storica che attraversiamo.
Il rischio è allora che, lasciato alle spalle il vecchio, ci si trovi nel vuoto anziché nel nuovo: senza nemici, senza punti di riferimento, senza bussola, senza amici e soltanto con dei competitors. Ma per criticare il presente ci vuole un punto di vista dal quale guardare: una bussola, appunto, e si torna ogni volta lì, quasi per una coazione a ripetere.
Il ricordare, il passare in rassegna e raccogliere alcuni materiali del passato (non tutti) serve a questa indispensabile funzione, dove giovani ed anziani possono ritrovarsi insieme.
Mentre il nuovo mondo é affare quasi esclusivo delle nuove generazioni.

 


Political molto Rapsody
di Giovanni Bianchi

Sullo stato presente delle cose italiane
Preliminarmente il problema che abbiamo di fronte è quello di ricostituire un punto di vista dal quale interrogare questa fase storica e le precedenti: perché, come ci hanno insegnato Le Goff e Scoppola, la storia discende dalle domande che le poniamo. Ed è perfino meglio avere un punto di vista sbagliato che non averne nessuno. Infatti la situazione è tale da rendere problematico qualsiasi orientamento.
Per questo non bisogna cessare di criticare e analizzare, riconoscendo tuttavia che l'analisi non basta. E se Togliatti sosteneva che l'analisi è tutto, papa Francesco mette in guardia dall'eccesso diagnostico. La fase populista infatti continua a scombinare con la potenza della sua leggerezza tutte le tracce disponibili.
Mentre perfino le categorie del politico si moltiplicano con nuove dismissioni e nuove arrivi: sintomatico il caso della mafia della Capitale che fa assurgere in tutto il Paese la corruzione a nuova categoria del politico. Un tema da non lasciare più soltanto allo sguardo acuto e coraggioso di Roberto Saviano.
Tuttavia il tema dei temi e la questione delle questioni continua ad essere nel Bel Paese la cronica e storica carenza di classe dirigente. Lo scrisse nel 1824 Giacomo Leopardi che, anche dopo il bel film di Martone, dobbiamo convincerci a considerare uno tra i maggiori pensatori politici italiani.
E nel novero della classe dirigente, o meglio della sua latitanza e carenza, vanno posti anche gli imprenditori, più disponibili alla fuga nel mondo della finanza e alla delocalizzazione che ad assumere, dopo averle riconosciute, le proprie responsabilità nei confronti della comunità. Un problema che si pone anche nel mondo globalizzato, dove non esiste una cittadinanza universale garantita, si fa per dire, dall'Onu, ma diritti e welfare, e i diritti discendenti dal welfare, devono essere garantiti dalle comunità di appartenenza. Non una cittadinanza generalgenerica, ma una cittadinanza pluralistica nelle appartenenze in cammino verso un governo mondiale da costruire.
I tedeschi lo sanno. Mentre invece gli imprenditori italiani non appaiono in nulla italiani in quanto imprenditori: e di fatto, o emigrano per intraprendere e continuare a intraprendere, o, se restano in Italia e per quel che vi restano, scelgono la via che consente loro di evitare la fatica imprenditoriale, diventando sovente finanzieri piuttosto che imprenditori. (E riservandosi non di rado il compito classico e generale di evadere le tasse.)
Sesto San Giovanni, la mia città, è un test probante situato nel maggior sito di aree dismesse in Europa. Gianni Agnelli, licenziando Ghidella per sostituirlo con Romiti, fece come al solito da precursore pensando anzitutto alla cassaforte di famiglia.

La stagione populista
Ci sono a questo punto nel Bel Paese, sopra il ribollire d'uno stagno vastissimo, tre posizioni politiche determinanti: il renzismo vincente che (arruolato provvisoriamente con un patto "segreto" Berlusconi) si avvia a costituire il partito nazionale della media borghesia italiana; Matteo Salvini che, abbandonato il federalismo delle piccole patrie, traduce in italiano il lepenismo d'oltralpe (per quel che ne capisce e se ne capisce); la Cgil che, spendendo innovativamente la rendita dei pensionati, occupa lo spazio politico (ogni sindacato ha ovviamente una sua maschera politica in un sistema democratico) lasciato vacante dalla sinistra. E poi, nel rigurgito vasto, una pluralità di tentativi, per lo più destinati al fallimento, ivi compresi i Cinque Stelle.
Matteo Renzi risponde dunque a un fenomeno collettivo che si concentra nella volontà di potenza e nella leadership. L'Italia, dopo essere stata il primo Paese in Europa ad azzerare tutto il precedente sistema dei partiti di massa, vive il passaggio dai partiti personali alla persona-partito. Non è la stessa cosa. È un fenomeno che si avvale soprattutto del dilagare del populismo mediatico, che si regge su un inestricabile groviglio di interessi economici e reti mediatiche.
La democrazia postmoderna infatti, siccome si decide con il consenso, ha come suo campo di battaglia le informazioni. Se vuoi vincere devi conquistare quello spazio, anche per affermarti  in termini di rappresentanza come in termini di efficienza. Perché l'informazione non è fatta solo di contenuti, ma dell'apparato distributivo che la regge. E quindi i movimenti in una direzione o nell'altra conseguono alle informazioni così acquisite.
Sono le macrostrutture di produzione della ricchezza della società che si servono di queste informazioni in maniera non innocente e si determinano di conseguenza. La ricchezza finanziaria è diventata una materia invisibile: è come lo Spirito Santo, non sai dov’è, ma è dappertutto.
Come dunque si fa a fare democrazia in queste condizioni?
Un sentiero reale ma piccolo è quello che ci consente di coltivare la democrazia negli spazi di libertà dove noi agiamo. Qui possiamo rovesciare il modello a partire da noi stessi, costituendoci come resistenza critica, dotandoci progressivamente della capacità di opporci, di criticare e di sperimentare. Anche chi sostiene una compagine di governo non deve tralasciare l'abitudine. Non si tratta preliminarmente di conquistare l'altro e i suoi voti, ma di cambiare anzitutto noi stessi e di radicarci come persone. (Non vuole essere né un’omelia né una giaculatoria.)
Può essere che io non sia competente come candidato, ma che sappia fare bene il mio mestiere di insegnante; facendo funzionare bene la mia cattedra e la mia scuola inauguro un luogo di democrazia, attento a evitare il rischio del corporativismo professionale. Non c'è però bisogno di grandi piroette o costosi training: in quanto cittadini siamo infatti multiversi.
Se mi ammalo divento un ammalato e acquisisco una competenza da utente. Se non so, mi informo e mi metto in grado di sviluppare un antagonismo competitivo. Poi incontro tutte le difficoltà che conosciamo: dai giovani che non frequentano le riunioni, ai giovani che le frequentano e sono più vecchi degli anziani che le frequentano. Si tratta sempre di non demordere, di provare e riprovare, di organizzare il pensiero e le esperienze, a partire dalle esperienze.

Non serve stare sui tetti
Secondo Dario di Vico la grande crisi non ha ammazzato la contrattazione. "È importante ricordarlo e ricordarcelo perché troppo spesso si sostiene che questo lustro alla fine abbia segnato il trionfo delle politiche verticali, quelle tanto per intenderci che vengono da Francoforte o da Bruxelles mentre sarebbero morte le istanze orizzontali. Non è così e forse quella bipartizione non funziona per inscatolare tutto quanto di contraddittorio è successo dal 2008 ad oggi". Lo scrive in un bel libro curato da Costantino Corbari per BiblioLavoro. Bruxelles, che un tempo appariva il luogo dell'innovazione, oggi appare invece il segno della cattiva coerenza dell'immobilismo. "Penso sicuramente all'esperienza del welfare aziendale partito in Luxottica grazie anche al patrimonio culturale di una dirigenza abituata a guardare lungo e a concepire lo scambio come una politica di inclusione".
Eppure il conflitto ha faticato a ripartire, a dispetto di quanti avevano preconizzato sulla sola base dei dati Istat della disoccupazione una magnifica ripartenza della lotta di classe. Ma non è detto che il conflitto non recuperi il tempo perduto...
La stella polare sarà la capacità di risolvere i problemi e non, come in passato, la coltivazione "statica" della propria identità. Infatti, secondo Aldo Carera, "non serve stare sui tetti se non ci si occupa della casa intera".
E ancora: "Ma prima di decidere cosa fare, prima di aprire il cantiere, occorre rimettere assieme i pezzi dei disegni tracciati sulle mappe originarie, rovinate dal tempo e dalla voluta incuria di chi ci ha spiegato che le costruzioni sociali sono architetture di fantasia, tratti di penna, colpi di bacchetta magica. Gli uomini hanno bisogno di sapere dove vivono, devono poter identificare i singoli locali, trovare le porte che varcano i muri, sapere dove iniziano le scale che portano verso l'alto. Solo così gli edifici si consolidano, il piede sale senza incertezze, finalmente da tetti di nuovo sicuri sì può scrutare, senza timori, l'orizzonte in tutta la sua ampiezza".
Ecco dunque, innanzitutto, un breve cenno al calvario del mondo del lavoro pressato dalla disoccupazione dovuta al disastro provocato dalla finanza casinò. Una sorta di meteorite, la crisi, che è franato sul tetto dei paesi europei più deboli, quelli che in inglese vengono identificati con l'indecente acronimo Piigs che rimescola per cattiva volontà le loro iniziali (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Un orizzonte comunque non tranquillo e di fronte al quale tuttavia sarebbe suicida ogni tentativo di fuga.
Come dice il vecchio Reichlin nell'ultima intervista, i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione... L’avidità finanziaria sta in regia e se non suggerisce le battute (le è funzionale il diluvio di parole dei talk-show) detta i tempi e sceglie gli obiettivi, pur essendo risultata incapace di governare i mercati e se stessa.
Mettiamoci dunque tra quelli che non hanno rinunciato a dire "noi ci proviamo" e ci hanno provato.

E la politica?
La politica invece si ostina a restare senza fondamenti. E nella politica senza fondamenti la narrazione pubblicitaria distrugge la politica stessa nella trappola della insovranità (Christian Salmon). Ma interroghiamoci ancora una volta: come si combina questo spirito del tempo con il carattere degli italiani?
Sebastiano Vassalli – il romanziere della Chimera – non ha molti dubbi: "Racconto storie per cercare di capirlo. Ma direi che è molto vicino a quel che i libri di storia chiamano fascismo".
In un contesto dove lo strapotere soft della finanza tutto pervade, "convince", trasforma ed anzi ha già trasformato la propria misura, si ostina in senso decisamente contrario il solito Luigino Bruni sul solito "Avvenire" domenicale.
Si tratta infatti di cercare mappe  e riferimenti, sapendo  che i riferimenti sono sempre necessari, ma sono indispensabili nei tempi del disorientamento e delle paure collettive. Un tempo nel quale tutti i patti sono stati trasformati in contratti, con un'autentica invasione del diritto privato in quello che un tempo era il diritto internazionale, alla faccia della globalizzazione.
Discorso che vale anche per i contratti di lavoro, che nel XX secolo erano stati concepiti in un registro relazionale, mentre oggi hanno la freddezza dell'aggressività "pulita" che è tipica del contratto in quanto tale. Al punto che anche in Italia qualcuno spingeva il diritto del lavoro nello stagno del diritto commerciale.
Lavoratori considerati alla stregua di merce. Delocalizzado in Romania per poi indurre trasformazione al ribasso su quell'esempio anche in Italia. Dietro c'è una concezione che si è fatta vincente e che concepisce la nostra ricchezza (chi ce l'ha) soltanto come conquista individuale e merito.
Così i debiti non saranno mai rimessi: nessun giubileo è più credibile, gli schiavi non vengono liberati e al massimo la giustizia si trasforma in filantropia (pelosa). Scrive Luigino Bruni: "Il dominio assoluto dell'individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica del Sinai, non è la legge vera della vita". Ma è la religione del capitale ad avere vinto su tutto il pianeta. Benjamin lo aveva capito fin dal 1919.
Struttura e cultura congiurano  da qualche decennio nella medesima direzione. Viviamo infatti in una condizione di impero economico globale, competitivo e sconnesso, ma comunque persistente. Un impero che impera, anche se ha cura di dissimularsi.
Gli imperi del passato erano evidenti, si ostentavano con segni e monumenti, mentre quelli odierni si sono fatti sempre più invisibili (anche se non meno feroci) e riescono perfino a presentarsi come buoni e generosi, mettendo in giro la favola che i poveri saranno liberati da loro, ovviamente se si mostreranno disponibili e "ragionevoli".
Eppure siamo affetti da universale miopia e dimentichiamo quotidianamente nel giro di cinque secondi le tragedie che ogni cinque secondi la televisione ci infila fra le mura domestiche.

Gli oroscopi
Chiosa il solito Bruni: "Abbiamo assistito per anni al susseguirsi di divinazioni e di oroscopi dei maghi della finanza e dell'economia che ci volevano (e vogliono) convincere che le "piaghe" che stavamo (e stiamo) vivendo non erano (sono) un segno forte della necessità di conversione e di cambiamento della logica profonda del nostro impero, ma soltanto oscillazioni naturali del ciclo economico, o errori e disturbi interni al sistema e da questo riassorbibili "nel lungo periodo". Stiamo da decenni subendo le conseguenze dei cambiamenti climatici, vediamo morire uomini, fiumi, animali, piante, insetti, ma i maghi dell'impero continuano a negare l'evidenza e a volerci dimostrare che questi eventi sono naturali e quindi spiegabili con le loro arti magiche. Ma le piaghe stanno aumentando, gli imperi iniziano a cedere e le simulazioni degli individui non funzionano più, perché l'evidenza si mostra con una tale forza da sbugiardare anche gli indovini più bravi e sofisticati – e qualcuno inizia ad ammalarsi delle stesse malattie che avevano cercato di negare".

Si sarà notato, insieme al  termine cambiamento, anche la parola conversione. Luigino Bruni infatti è il maggior esponente in materia economica dei Focolarini di Chiara Lubich. Ma voglio ricordare che il termine conversione era abituale anche nel lessico di Alexander Langer, il più grande e l'indimenticabile tra i verdi italiani. 




Martini – Bobbio e la Pace
di Giovanni Bianchi

Bookcity

Nella lunga e invasiva stagione dei talkshow la discussione e in fondo la pubblicità dei libri rischia di prevalere rispetto alla lettura. Un vizio non proprio tutto postmoderno dal momento che si ha ragione di credere che romanzieri sublimi e altisonanti come Proust e Gadda siano stati in troppi casi più citati che letti. Merito di Bookcity è dunque quello non solo di invitare, ma di creare anche occasioni di lettura e di ascolto della lettura, che è tradizione classica e già sperimentata successo in questa Milano al tempo di Sant'Ambrogio, se è vero che una delle occasioni di conversione per Agostino fu l'ascolto della lettura e dei commenti alla Scrittura del grande vescovo milanese.
Meritoria dunque l'operazione congiunta condotta dalla Fondazione Carlo Maria Martini e dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli che presenta al Centro San Fedele la collana degli e-book dedicata al confronto e al dialogo tra Martini e Norberto Bobbio sulla pace, Martini e Stuart Mill sulla giustizia, Martini e Alexander Langer sull'ambiente.
Proviamo a collegare i primi due grandi autori, Carlo Maria Martini e Norberto Bobbio. Oltre alla piemontesità, li caratterizza indubbiamente un grande uso, un grande rispetto e una grande pratica del libro. Ma anche, a ben guardare, una grande ironia.
Quando lavoravo al Martini politico mi lamentai con lui: "Lei sembra in gara con Voltaire per il chilometraggio dei libri prodotti". Risposta: "Non si preoccupi. Neppure io riesco a leggere tutto quello che scrivo".
Norberto Bobbio aveva invece l'abitudine di ripetere, riferendosi al piccolo testo su Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica: "E’ il libro al quale ho lavorato di meno e che ho venduto di più". A ben vedere, non risulta un elogio dei lettori e del loro palato. Ma racchiude un atteggiamento ancora comune ai due: la presa di distanze rispetto al tema e al testo, che in Bobbio assume il nome illuministico di critica e in Martini quello biblico e gesuitico di discernimento, che è la parola più gettonata del suo lessico.

La pace secondo Martini
Carlo Maria Martini

Sulla pace due culture si confrontano e s’incontrano.
Il testo martiniano è titolato Pace, dono di Dio e conquista dell'uomo ed è tratto dal volume Da Betlemme al cuore dell'uomo, del 2013, a cura delle Edizioni Terra Santa. Quello di Norberto Bobbio ha per titolo La pace ha un futuro? Una domanda difficile, ed è tratto da Il terzo assente, per le edizioni Sonda, e fu pubblicato nel 1989.
Le date sono estremamente importanti perché non circoscrivono soltanto la messa in pubblico delle pagine, ma indicano due periodi storici tra loro diversissimi e per così dire separati dalla grande cesura storica costituita dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda.
Due storie, due modi di fare e contenere la guerra, due paci possibili. È a partire da questa constatazione che i due testi posso confrontarsi e dialogare tra loro. Avendo come prospettiva comune il rapporto sempre problematico e talvolta angosciante tra pace e futuro.
Martini pone da subito il problema con la chiarezza dello studioso, una chiarezza che non ha nulla da invidiare alla cultura illuministica di Norberto Bobbio. Scrive:
"Anche se potrebbe sembrare una semplificazione eccessiva, tuttavia può essere interessante fare un riferimento alle diverse etimologie della parola “pace” in alcune lingue antiche. Sembra che il greco eirene designasse soprattutto l’assenza di guerra, mentre il latino pax indica lo stare ai patti, l’osservare i trattati; shalom, infine, è la pienezza dei beni, la positività  senza limiti. Ci troviamo di fronte a un tema senza fine ma anche molto logorato perché oggi tutti parlano di pace, tutti vogliono la pace, tutti manifestano per la pace. Ciascuno, poi, a suo modo e possibilmente senza pagarne il prezzo".
Dunque le diverse accezioni storiche e concettuali di pace e una osservazione continuamente attuale: la pace rischia di logorarsi.
E subito la distinzione operata dal grande biblista e maestro di spirito: "Anzitutto una cosa che a me pare ovvia, ma che spesso si dimentica: occorre distinguere tra la pace del mondo
–anche in senso buono, pace sociale e politica– e la pace di Gesù".
Seguono le citazioni di Giovanni, della Seconda Lettera ai Tessalonicesi e di quella ai Filippesi: "Questa pace di Dio sorpassa ogni intelligenza".
E segue, quasi a sorpresa, una citazione dal Primo Levi di Se questo è un uomo: "A molti individui o popoli può accadere di ritenere più o meno consapevolmente che ogni straniero è nemico. […] Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il lager".
Se ne deduce che la pace non soltanto è un rischio, ma anche un grande rischio, dal momento che tutti vogliono la pace e però nessuno vuole pagarne il prezzo.
La pace invece a un costo e richiede, sottolinea il Cardinale, un “compromesso”, che vuol dire rinunciare alla totalità e alla totalizzazione dei propri diritti.
Bisogni e desideri si affollano fino a risultare incontenibili, e a renderne ragione è la lettera di Giacomo che si chiede da cosa derivino le liti che sono così diffuse anche nella comunità, fino a un crescendo impressionante: "Bramate e non riuscite a possedere e uccidete. Invidiate e non riuscite ad ottenere. Combattete e fate guerre".
È presente in Martini tutta la difficoltà della condizione presente, il crescere a dismisura e insopportabile delle disuguaglianze che pongono le radici della violenza, la moda antropologica del successo e della superiorità sull'altro fino all'erezione dell'idolo della potenza (non a caso la teologia tedesca parla di potere demoniaco del potere), perché quando si sfilaccia la comunità e dirada la solidarietà non resta il vuoto, ma dilagano l'invidia sociale e la volontà di potenza.
Dopo aver raccomandato la preghiera di intercessione per la pace Martini osserva che stando a Gerusalemme ha avuto tuttavia modo di conoscere un ricchissimo sottobosco positivo di rapporti di dialogo e di buona volontà, di mutuo servizio, di accoglienza del diverso, di perdono, che arricchisce una realtà pur tanto complicata, anche se deve lamentare che si tratta di una voce non sempre raccolta dai media e ascoltata dai politici.
Dunque? Un cammino da aprire e da tenere aperto senza assolutizzare la distinzione tra quotidianità privata e spazio pubblico, praticando il rispetto dell'altro, il dialogo e l'accoglienza, creando cioè le condizioni della riconciliazione a partire dal cuore, ma lavorando e mettendo in campo esperienze per le quali il cambiamento del cuore non resti soltanto tale.

La pace secondo Bobbio
Norberto Bobbio

Bobbio si interroga a partire dall'interrogativo circa il futuro della pace.
E pone in tal modo il problema: "Anzitutto che cosa intendo per «pace,-: intendo uno stato di non-guerra, intesa la guerra come «scontro violento continuato duraturo fra gruppi organizzati». Una definizione di questo genere comprende sia le guerre internazionali o esterne; sia quelle civili o interne, ivi compresa al limite la guerriglia che è in parte interna ed esterna. Questa precisazione è indispensabile perché vi sono movimenti per la pace, come quello promosso da Johan Galtung, i quali sostengono che la pace implica non soltanto la non guerra ma qualche cosa di più, la nonviolenza. La guerra è, invece, dal punto di vista della dottrina filosofica tradizionale e del senso comune una sola delle forme, seppure la più radicale, con cui si può manifestare la violenza nel mondo".
Aggiunge quindi, con l'abituale ragione realistica, che il sapere che la pace è sempre un bene e la guerra sempre un male non risolve il problema. E arriva perfino a far notare che se si distingue tra guerra giusta e guerra ingiusta ne discende logicamente che se una guerra è giusta, la pace alternativa sarebbe ingiusta… Che dunque la pace sia un bene viene dato per presupposto, soprattutto perché con l'aumento vertiginoso della potenza delle armi la distinzione fra guerra giusta e guerra ingiusta, fra guerra di difesa e guerra di offesa, è sempre più labile.
Rammenta quindi i progetti di pace perpetua che ebbero inizio nel Settecento e di cui certamente il più celebre è quello di Kant. Si trattava tuttavia di una pace perpetua pensata sul continente europeo e per il vecchio continente e che sottintendeva una concezione ottimistica della storia durata fino alla prima guerra mondiale. Una guerra nella quale le potenze europee si rovesciarono mentre ancora stavano danzando nel clima di belle époque e che mostrò il volto feroce della "inutile strage".
Ma si è detto che la riflessione di Bobbio è all'interno della guerra fredda e dell'equilibrio del terrore che l l'ha contraddistinta. Bobbio ricorda il paradosso di Gorbaciov, quando cioè il leader della perestrojka propose al mondo una riflessione che non solo allora apparve agghiacciante.
Scriveva Bobbio: "Ho letto in un recente discorso di Gorbaciov che il 95% degli armamenti nucleari potrebbero essere eliminati dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica senza alterare minimamente l'equilibrio delle loro forze. Tra parentesi vi faccio pensare che cosa vuoI dire che ci si accorga dopo quarant'anni che il 95% degli armamenti, che sono costati milioni di milioni di miliardi, sono a questo punto perfettamente inutili. Si tratta di un argomento micidiale contro la strategia della deterrenza nucleare generatrice, come dice lo stesso Gorbaciov, di una “logica folle”. “Logico” e “folle” sono usati abitualmente come termini antitetici: ciò che è logico non è folle e ciò che è folle non è logico. Si tratta peraltro di un'espressione che viene usata senza che la contraddizione in essa implicita ci turbi minimamente".
Anche per Bobbio la pace dunque è impossibile se non si supera il concetto di nemico. Non a caso gli anni della guerra fredda furono quelli che videro un grande esponente del pensiero laico come Franco Fornari argomentare sulla essenziale e inarrestabile distruttività della guerra, in due testi, Psicoanalisi della guerra e Psicanalisi della guerra atomica, che andrebbero riletti.
La guerra è così distruttiva da distruggere anche il proprio concetto e la propria presentabilità, nel senso che anche il condottiero che incita i suoi al combattimento è costretto a farlo in nome della pace futura, di un benessere da conquistare, di terre irridente da redimere. Ed è significativo che in un celebre saggio comparso su "Limes" anche il generale Carlo Jean, polemologo e in genere propenso all'uso della guerra, affermò che anche per lui erano valide le osservazioni di Fornari. Come a dire che anche la logica annovera al suo interno le proprie beffe.
Si è detto che mentre la riflessione martiniana si colloca dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, quella di Bobbio precede quella svolta storica. Ne discende – come ho già osservato – che il discorso di Martini e quello di Bobbio non sono soltanto un confronto tra culture, ma tra due fasi storiche molto diverse tra di loro.
Verrebbe da dire che mentre a suo modo l'equilibrio del terrore riuscì a funzionare, ci troviamo attualmente in una fase di grande violenza diffusa e incontrollabile (anche le disuguaglianze crescenti della globalizzazione sono violente e seminano violenza) e di grande confusione. All'equilibrio del terrore non succede una pace perpetua, ma una generalizzata condizione di anomia.
Il rapido crollo dell'idea imperiale sostenuta negli Stati Uniti da neocon e teocon ha consegnato il mondo globalizzato non al multipolarismo, ma a una sorta di guerra di tutti contro tutti. Non c'è lo sceriffo del mondo preconizzato da George W. Bush, ma anche dalla Albright, ma neppure un'armoniosa convivenza concertata al palazzo di vetro dell'Onu. Con rapidità impressionante anzi una serie di Stati –gli anelli più deboli della catena– vanno sbriciolandosi.
Papa Francesco ha recentemente parlato di una terza guerra mondiale in atto combattuta a pezzi e capitoli. Fa impressione, ma è utile comunque ricordare che mezzo secolo fa Carl Schmitt parlò di una terza guerra mondiale già iniziata in quanto guerra civile condotta da diversi terrorismi.
E una cosa soprattutto impressiona in queste visioni: la loro corrispondenza al diffondersi di una violenza molecolare nelle nostre società civili, nei quartieri popolari, con il sospetto che possa senza preavviso concentrarsi. Come alla vigilia della prima guerra mondiale, in piena belle époque, quando il mondo danzava –anche nella Sarajevo di Gavrilo Princip– ignaro di trovarsi sull'orlo del baratro e alla vigilia della "inutile strage".
Ed è, a ben pensarci, dalla guerra in Bosnia Erzegovina degli anni Novanta – l'ultima vera guerra europea, anche se misconosciuta come tale e ignorata dai testi scolastici – che le nostre idee sulla pace si sono fatte più incerte e confuse. Da allora incominciammo a misurare come fossero venute meno le speranze suscitate dalla caduta del muro di Berlino.
Qui Martini e Bobbio davvero coincidono o almeno convergono sul concetto di profezia. E Papa Francesco sembra in grado di metterli d'accordo dicendo che la guerra può essere fermata, grazie all'autorità di un soggetto terzo e sovranazionale (la terzietà è un riferimento che ricorre sovente nei ragionamenti di Norberto Bobbio) che a livello internazionale non può che far pensare all’Onu, nonostante le numerose e colpevoli assenze.
Si è cominciato con un problema e non è possibile che concludere con un problema, altrimenti la pace corre il rischio di essere ridotta a "tregua tra due guerre".
Scrive Bobbio: "La storia umana è ambigua, e dà risposte diverse secondo chi la interpreta". È una lezione che anche Le Goff e Pietro Scoppola ci hanno insegnato. Ma che soprattutto ci chiama in causa non soltanto come lettori.
La pace è complessa: un concetto caro a don Tonino Bello. E non a caso il cardinale Etchegaray disse una volta: "Quando scoppia una guerra la domanda vera è come abbiamo impiegato il tempo e le energie prima che la guerra scoppiasse".

 
                            

                                                                                                                 
Pensare la pace
di Giovanni Bianchi


Pensare
Il primo passo obbligato è tornare a pensare la pace. Anche la pace va pensata, e sovente va pensata per rapporto alla guerra. Va pensata oltre la depressione e il kitsch dei tanti mausolei che si sono disseminati nel Bel Paese dopo la prima grande guerra. L'inutile strage doveva in qualche modo essere esorcizzata, metabolizzata, resa omogenea a un'idea di nazione e di patria che avevano prima conquistato e poi massacrato le masse popolari.
Nove milioni di soldati morti e cinque milioni di civili, ai quali si devono aggiungere i venti milioni falciati dalla spagnola in Europa, mentre la cifra arriverebbe nel mondo a cinquanta. L'Europa tutta ridotta a grandi cimiteri sotto la luna.
Non è un'osservazione retorica quella intorno al kitsch di troppi monumenti. Non c'è piazza di paesello che ne sia priva, insieme alla lapide che fa l'elenco delle vittime locali di una incredibile carneficina. Redipuglia non fa eccezione. E Marzabotto è quasi una replica, soprattutto se confrontata con la dolente sobrietà dei ruderi delle chiese di Monte Sole conservati dalla pietà della comunità dossettiana della Piccola Annunziata.

L'Ossario di Camerlata
Giorgio Cavalleri ci informa con un fascicoletto tanto documentato quanto povero nella veste tipografica che, "inaugurato nel 1930, l'Ossario di Camerlata è uno dei 38 Sacrari (cinque sono Ossari) sorti in Italia fra i due conflitti mondiali per accogliere i resti dei soldati italiani –e, talvolta, anche di quelli nemici– deceduti in quell'immane e assurda tragedia che è stata la Grande Guerra".
Aggiunge il Cavalleri una considerazione sul Novecento, da alcuni considerato un secolo "breve", da altri, è il caso di Giovanni Arrighi, economista marxista, "lungo" e forse interminabile. A giudizio di Giorgio Cavalleri cioè il Novecento, accanto a grandi e innegabili progressi dell'umanità, è stato anche quello che più ha segnato la follia dell'uomo e delle sue varie ideologie autoritarie con due terribili guerre mondiali, centinaia di altri sanguinari conflitti in vari continenti, con decine e decine di milioni di morti. Per cui la definizione di papa Benedetto XV di inutile strage prende le mosse dalla prima guerra mondiale, per la quale fu pronunciata, per allargarsi all'ambito di tutte le guerre che da allora non hanno cessato di insanguinare l'intero pianeta.
Nota ancora il Cavalleri: "I corpi dei soldati italiani giacciono un po' ovunque in Italia come in vari Paesi d'Europa, nei deserti o nelle ambe dell'Africa e in fondo al mare e al loro sacrificio non può andare che un commosso e reverente omaggio".
Non so se sia la cosa migliore partire dai monumenti funebri per riavviare il discorso intorno alla pace, ma certamente l'occasione egregia fornita dal lavoro intenso e puntuale di Giorgio Cavalleri mi ha spinto in questa direzione.
Perché? Perché ho trovato stimolante l'osservazione di Cavalleri: "Per quanto quasi ignoto ai più, accanto al Sacrario Militare del cimitero civile di Brescia e all'Ossario "Madonnina del Grappa" di Cremona, questo Ossario della nostra città è uno dei soli tre luoghi lombardi nei quali sono raggruppati i militari scomparsi nella prima guerra mondiale. Ed è anche l'unico, in Lombardia, dove, grazie ad un significativo gesto di pietà compiuto a suo tempo dalla giunta municipale di Como quando podestà era Luigi Negretti, accanto ai nostri Caduti, riposano soldati dell'impero austro-ungarico".
E’impressionante come il numero delle celebrazioni anche di grande livello della Grande Guerra non riesca a cancellare, dietro ricostruzioni non soltanto di maniera e sovente impostate a un patriottismo del quale quantomeno la faticosa costruzione di un'Europa comune ha mostrato i limiti e anche le tragiche stupidità, il senso di una tragedia fondamentalmente insensata e dolorosamente immane. Quasi che le classi dirigenti al tramonto e infatuate della belle époque volessero far pagare nella carneficina delle trincee il tracollo dei propri sogni di gloria.
E infatti quel mondo danzava  danzava, non soltanto a Parigi e a Vienna, e andava in vacanza mentre gli eserciti venivano rapidamente mobilitati. Non c'era il sospetto del crollo mondiale al quale si andava incontro. Tantomeno il giovane attentatore di Sarajevo poteva immaginare il disastro che i suoi colpi di revolver avrebbero provocato.
L'Austria-Ungheria era un impero, diremmo oggi, in via di rapida globalizzazione. La sua amministrazione efficiente. Basti pensare che erano pronti i progetti ferroviari per attraversare tutte le vallate del Trentino. Al Parlamento di Vienna ai rappresentanti delle varie etnie (e tra essi Cesare Battisti e Alcide De Gasperi) era consentito di parlare la propria lingua, anche con qualche disguido a seguito del quale chi voleva essere ben certo di quanto un deputato avesse detto, correva alla fine della seduta a leggere il testo stenografico...
Le magnifiche sorti e progressive, come s'usa dire, erano un patrimonio e un senso comune. Fa quindi specie per quel che ci riguarda scorrere gli elenchi degli italiani di Sardegna, pastori e contadini analfabeti, mandati a morire sui fronti dove si esercitava da una parte e dall'altra lo sterminio con gli assalti alla baionetta. Chi ha letto Lussu capisce il perché degli uomini contro. Anche tutto ciò è stato prima guerra mondiale. Anche tutto ciò dice quanto sia appropriata la definizione di Benedetto XV che parlò di inutile strage.
E non finì lì. Non finì né con Caporetto né con Vittorio Veneto. Non finì con la disseminazione totale di un grande kitsch monumentale e di un patriottismo sofferto che alla fine aveva messo radici nei cuori del popolo. Non finì con lo stillicidio dei "Viali delle Rimembranze". Non finì neppure con la moltiplicazione internazionale dei cimiteri dove la cosa che massimamente stupisce e addolora è l'anagrafe dei sepolti. Non finì al punto che la seconda guerra mondiale deve essere considerata come il secondo tempo della prima grande guerra...
Ricordo lo choc che mi colse salendo la lunga gradinata della Vecchia Università di Salisburgo nell'estate del 1960 quando in cima ai gradini mi imbattei in un grande monumento dedicato agli studenti austriaci morti sui nostri fronti. Nel mio inconscio i giovani eroi, morti tutti con una pallottola in fronte o direttamente al cuore, erano soltanto italiani. Quelli che sulla "Domenica del Corriere" Beltrame ritraeva con scadenza patriottica.
Nell’atrio del liceo Zucchi di Monza nel quale avevo studiato campeggiava una grande lapide, il cui contenuto non avevo faticato a imparare a memoria, che annunciava il comunicato della vittoria di Armando Diaz: "I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranze le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza". E tutti sanno, o almeno tutti sapevano, il qui pro quo per il quale molte giovani madri del popolo avevano appioppato al battesimo il nome di Firmato al proprio rampollo, scambiando il gesto con il nome proprio del generale dalla vittoria.
Che dire dell'immane scalinata marmorea di Redipuglia? Che dire della parola presente – come per un appello militare – ripetuta all'infinito? Che dire della invenzione riuscita e popolare del Milite Ignoto? (Quante vedove del Milite Ignoto?) La storia è chiamata riflettere sulle proprie tragedie ed anche sul loro uso. Non esiste politica fondata senza la storia. E la grande politica, anche quella che sogna e lavora per futuri di pace (i "futuri che cantano" di David Maria Turoldo) è la sola in grado, dopo averla conosciuta e meditata, di andare contro la storia.
È la riflessione che feci visitando "ufficialmente" – in rappresentanza cioè del Parlamento italiano – tutti i camposanti di El Alamein. Riflettendo ancora una volta sulla giovane età di quei giovani caduti provenienti da tutto il mondo e sulla superficialità di una politica, cosiddetta "di potenza", incapace di riflettere sulle proprie tragedie e di ricominciare lungo strade diverse.
E invece, scorrendo rapidamente "Famiglia Cristiana", leggo che lodevolmente, "dal 2001, circa 250 fanti salgono ogni anno lassù a scavare, per un totale di 1200-1300 ore lavorative a stagione, gratuitamente, autofinanziandosi con varie iniziative. Per dieci domeniche all'anno essi fanno anche la guardia all'ossario di Asiago, dove riposano 54.286 caduti".
Bravissimi, ma come noi riflettiamo sui sepolti di Asiago quando diciamo che là "riposano"? Forse un'altra accezione e un altro sentimento deve essere scovato per ridefinire la parola  riposo: in termini cristiani, politici, storici e laici.
Inquieta soltanto me la notizia che non soltanto gli Stati Uniti ma anche altre potenze stanno aumentando di qualche percentuale il proprio Pil con la produzione di droni addetti alla caccia e alla eliminazione degli avversari politici?


La distruttività della Guerra
Secondo papa Francesco –ed è andato a gridarlo proprio a Redipuglia– la guerra distrugge l'opera di Dio e la sua creazione. È un concetto al quale dovremmo essere abituati non soltanto dal magistero di Turoldo e Balducci, ma anche di un grande pensatore laico che scrisse due libri molto importanti negli anni Settanta: si tratta di Franco Fornari, e i libri sono Psicoanalisi della guerra e Psicoanalisi della guerra atomica.
La tesi di Fornari è di grande evidenza e facilmente coglibile: la guerra è così distruttiva da distruggere anche se stessa, al punto che anche i generali che guidano le truppe all'assalto lo fanno in nome della pace che quell'azione di guerra dovrebbe essere destinata a conseguire. È notevole il fatto che un grande polemologo e guerrafondaio come il generale Carlo Jean abbia fatto proprio questa tesi in un saggio di qualche anno fa.
Ovviamente le Acli lo avevano preceduto, avendo condotto una riflessione ed esperienze di pace a partire dalla battaglia contro gli euromissili di Comiso, da Time for peace a Gerusalemme, a Mir Sada in Bosnia-Erzegovina.
Papa Bergoglio ha ulteriormente precisato il proprio pensiero nell'incontro con le autorità civili durante il viaggio apostolico a Tirana del 21 settembre 2014: "Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e sopraffazione! Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell'uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa di tutti!"


Il lieto annunzio di papa Francesco
L'insistenza con la quale il Papa ritorna sull'argomento è spiegabile con una convinzione espressa nei seguenti termini: "Siamo entrati nel terzo conflitto mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli". Si tratta di un'espressione davvero sorprendente per il suo respiro globale e ancora più stupefacente se si pensa che un giudizio analogo venne esternato nel dopoguerra nientemeno che da Carl Schmitt, il quale sosteneva a sua volta che si era entrati nel terzo conflitto mondiale e che esso era caratterizzato dai diversi terrorismi che si confrontavano in una continua guerra civile.
Gli effetti non soltanto collaterali dilagano tra noi e discendono da un quadro drammatico che vede i teatri di confronto trasformarsi ben presto in una guerra di tutti contro tutti: Siria e Libia sono soltanto i casi più emblematici e per così dire la punta dell’iceberg.
L’Ucraina dal canto suo è soltanto il più recente e il più vicino tra i capitoli del libro delle guerre, "quello per cui è già stato rispolverato l'antico termine di "guerra fredda", per i protagonisti in campo, governo centrale contro separatisti orientali, alias Occidente versus Russia di Putin". Si tratta di conflitti nati a causa di interessi economici e geopolitici, sovente camuffati da ragioni etniche e religiose, il cui prezzo viene pagato dalle popolazioni civili che sono vittime di queste guerre o sono costrette a fuggire.
"Nel 2013, secondo quanto hanno tristemente reso noto i dati dell’Onu, i migranti forzati nel mondo hanno superato, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la soglia dei cinquanta milioni. Una vera e propria nazione, delle dimensioni del Sudafrica o dalla Colombia, poco più piccola dell'Italia.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di sfollati interni, mentre i profughi veri e propri, persone costrette ad abbandonare il loro Paese per rifugiarsi in un altro Stato, sono stati oltre sedici milioni, la metà dei quali minorenni. Sono gli uomini, le donne e i bambini che vediamo arrivare sulle nostre coste sui cosiddetti barconi della speranza. E che, a sentire molti media, sembrano invaderci. In realtà, la stragrande maggioranza dei profughi scampati alle guerre non può o non vuole arrivare in Europa. Al contrario, decide, per scelta o per mancanza di possibilità, di restare nei paesi vicini al proprio, nella speranza di tornare a casa".
Così le guerre trasformano profondamente le nostre società civili e anche la loro conclamata liquidità.
Torna a questo punto pressante il solito interrogativo: che fare? Secondo don Colmegna: "Se si lavora per rendere migliori le condizioni di vita di chi sta peggio, si produce cultura di pace".



Francesco tra guerra e pace
Proverò a questo punto a servirmi dei non pochi interventi di papa Bergoglio e dei suoi commentatori per ricostruire l'approccio alla pace. Dice Francesco: "Dove c'è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto"; e ha aggiunto: "Sottolineo il verbo; dico: fermare, non bombardare o fare la guerra", notando che "i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati", perché troppe volte "con questa scusa di fermare l'aggressore le potenze hanno fatto una vera guerra di conquista. […] Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore". Perciò, auspica "una decisione comune delle Nazioni Unite".
Il professor Pizzolato, a partire da questi testi, svolge una lunga argomentazione in garbata polemica con il professor Cacciari che aveva definito "nuova e fragilissima" la posizione esposta da papa Francesco. Non lo seguirò ovviamente in tutta l'argomentazione, ma mi limito piuttosto a cogliere il legame, che anche a me pare essenziale, tra le posizioni del pontefice regnante e i lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, dove l'argomento fu a lungo dibattuto e risultò controverso al punto che l'affermazione di condanna radicale della guerra, proposta dalla Pacem in terris, fu relegata in una nota al testo della Gaudium et Spes.
Alcune osservazioni di Pizzolato mi paiono particolarmente acute e utili, e ad esse voglio semplicemente attenermi.
Anzitutto, si ripropone il problema se il principio della pace non possa essere governato anch'esso –necessariamente e sempre– dal principio del discernimento storico e, quindi, della mediazione. Le verità in effetti si presentano sempre "in situazione", in quanto sempre relazionate all'uomo e all'uomo di un certo momento e di un certo spazio.
Chiosa Pizzolato: "La verità è dialogica, perché è mediata sempre da fatti di relazione che la spogliano dell'individualismo e del soggettivismo… Del resto, già l'ultima sezione della Gaudium et Spes aveva congiunto la promozione della pace con la comunità degli uomini e, al proposito, puntava sul potenziamento del ruolo degli organismi internazionali, che incarnano lo spirito di fratellanza". Non a caso "tra i criteri di valutazione di una guerra giusta è stato proposto quello della salvaguardia dei diritti umani (Bobbio) e può essere risposta accettabile".
Va da sé che anche l'autorità morale e religiosa "si sente deputata a tenere congiunte la dolorosa necessità storica della difesa anche armata e l'utopia escatologica della pace come ideale: fine che non è, però, mai da contraddire nei mezzi".
Restano due cartelli indicatori per un percorso del quale ci si ritrova ancora una volta agli inizi. Il primo riguarda la liceità e la moralità della difesa armata. Il secondo il rapporto, che si è andato via via complicando e drammatizzando, con le religioni.
Quanto al primo, pare al Pizzolato da non doversi escludere, contro gli ingenui pacifismi, né in linea teorica né in linea fattuale, l'atto di legittima difesa. Con l'avvertenza che il giudizio di legittima difesa deve essere stabilito da un'autorità che, per la sua condizione internazionale, deve risultare "casa" di tutte le nazioni, e quindi abbia come fine non la propria affermazione, ma il mantenimento del dialogo tra i popoli. Dal che risulta evidente il vantaggio e l'anticipo della posizione cattolica e vaticana che anche nella congiuntura di questo mondo globalizzato e post-imperiale ha sempre privilegiato, rispetto alle posizioni delle grandi potenze, il ruolo e il  valore delle istituzioni internazionali, ancorché non sempre rappresentate al meglio dalle Nazioni Unite. Quanto al secondo cartello indicatore, non posso ancora una volta non concordare con Pizzolato quando, dopo aver notato che i recenti conflitti assumono sovente una feroce connotazione religiosa, spesso pretestuosa ma ben reclamizzata, propone che la valutazione percorra le strade "il più possibile laiche del consenso".
Insomma un cammino nuovo e accidentato, complesso e polisenso, con tappe da individuare progressivamente e sperimentalmente, senza disperare di una meta ad altezza d'uomo. 




Political Rapsody
di Giovanni Bianchi

Giovanni Bianchi

Comunque non demordo
Io comunque non demordo e mi tengo caro il guadagno del reducismo. Per la convinzione che soltanto scegliendo un punto di vista solido è possibile prima pensare e poi fare politica. È così che non smetto di frequentare il cantiere in corso per una eventuale rifondazione del cattolicesimo democratico. Perché il cattolicesimo democratico deve essere rifondato e non si rifonda senza un robusto senso della storia, politico, ma anche teologico e, per quel che concerne la prassi necessaria, persino mistico. That is the question.
Incombe il tema di un disegno divino che dia un senso anche al dolore e si apra sempre a un seppur cauto ottimismo. Non tuttavia, come vogliono certe versioni del fondamentalismo statunitense, un disegno che riguardi l'universo intero e la sua origine, sommando all'enfasi scientologica quella del fondamentalismo biblico: piuttosto una presenza appassionata (magari minuto-per-minuto) che si occupi delle singole persone, di me, dei miei figli (di Sara che è morta), di mia moglie degli amici e dei nemici...
Non il Dio di Leibniz, magari quello di Dario Fo. Un Dio cioè che ponga non una ragione e neppure un'essenza, ma una presenza; intento piuttosto a salvare e consolare che a spiegare e a fondare quel mondo che, come mi ha insegnato De Benedetti, una volta compiuto, il Buondio pare mormorasse tra sé: "E adesso speriamo che funzioni".
E i casi italiani? Cosa si arrischia a dire una politica cattolico-democratica in via di restauro? Bisogna andare per le spicce passando il procedimento come esigenza di sintesi.
"Matteo Renzi è il meglio possibile nelle condizioni date". Ammettiamolo. Ma il dubbio cattolico democratico è che non basti proprio. Perché la politica senza fondamenti non ha fiato sufficiente, anzi, proprio la velocità dei tempi da essa introdotta, le assegna il fiato corto (anche passando con lodevole furbizia dal velocista al maratoneta) e la dura realtà, non interpretata dal pensiero politico e non criticata dalla testimonianza e dalla prassi, non tarderà a presentare il conto e a vendicarsi.
L'immagine, e la politica dell'immagine, creano consenso – ingrediente indispensabile ad una democrazia non soltanto mediatica – ma non posseggono nel loro giardino le talpe della critica necessaria. La durezza della fase non sopporta un approccio light. E finanza e violenza, se non si corre agli antidoti, trionferanno.
Come dunque troviamo le talpe? Come ricostruiamo un partito o un suo succedaneo? Come orientiamo con logica politica e non pubblicitaria la pubblica opinione? Come qualche rudimento del cattolicesimo democratico può aiutare? Soltanto qualche rudimento, perché il cattolicesimo democratico come prassi è defunto e, secondo la sua indole caritatevole ancorché laica, può essere chiamato a donare – buon cadavere – qualche organo superstite...

Sfaldamento
Infatti i generi e le scienze che studiano e strutturano la politica sembrano essersi sbriciolati. Non Machiavelli che ovviamente fa storia a sé. E neppure il Guicciardini. Ma lo sfarinarsi delle discipline non solo comporta l’annebbiarsi e lo sviamento dello sguardo, ma anche il crollo dello  chassis della politica medesima. Che quindi con grande strepito mediatico, e cori da stadio in parte spontanei e in parte suggeriti, ci mostra trionfante la nuova maschera dietro la quale sarebbe bello indovinare se si annidi la novità oppure semplicemente il vuoto.
Questo il dilemma tuttora irrisolto della politica senza fondamenti.
L'evento comunque è assicurato e dispiegato davanti a noi. E cioè risulta, per tutti, "vincente". Vincere dunque (e vinceremo!) risulta il dovere dell'ora, l'imperativo categorico, il mantra irresistibile... Come se anche qui la salvezza elettorale abbia preso il posto della verità democratica e delle regole. Tendenza teologico-politica approssimativa che ho provato a tradurre nel romanesco corrente con il "famo a fidasse".
Tendenza che altre ovviamente -e quasi tutte- prova a inglobare, ivi incluso il giovanilismo finalmente prorompente, la velocità senza freni, la sicurezza post-ideologica, che tutto batte in breccia salvo interrogarsi sulla propria post-ideologicità, il dagli al puzzone ladro in auto blu, degno erede degli ottantenni "labbroni" giolittiani.
E già qui si potrebbe utilmente sostare in attesa che le nostre anime, pur esse in trambusto, possano raggiungerci. Perché il riferimento a Giolitti, ai suoi sodali e alla sua epoca è tale da consentire da subito due puntualizzazioni di non breve periodo.
La prima riguarda le riforme "senza se e senza ma", da adottare possibilmente con la data di ieri perché domani è sempre troppo tardi, troppo a lungo marcite nei labirinti discutidori del bicameralismo imbelle. È qui che Giolitti ci viene incontro con la famosa lettera alla figlia nella quale spiega il proprio criticato disegno politico: non mi sono proposto di riformare il Paese, ma di governarlo. E siccome quest'Italia è gobba, le ho cucito addosso un abito da gobbo. Dove lo statista piemontese ammette di essersi affidato più allo spirito del tempo che alla sua critica. E resta pur sempre vero, anche in cospetto a Giovanni Giolitti, che non si dà grande politica e alta a prescindere dallo spirito critico. Altrimenti hai innovazione come sottospecie dell'adattamento. In sociologico stretto: Parsons e non Wright Mills. È in questo caso che il nuovo rischia d'essere vuoto. Ovviamente il problema non è né destra né sinistra (non ci sono davvero più) e neppure il prevalere di una posizione sull'altra, di un partito sull'altro, fino alla possibile fagocitazione (consenziente!) degli avversari. Il problema è il tipo di democrazia e le sue regole; qui giace la seconda questione. Avremmo in molti preferito Al Gore alla Casa Bianca al posto di George W. Bush, che lo batté di strettissima misura. Diversi i destini del mondo non sottoposti allo stress di una reinvenzione dell'impero americano, e perfino le modalità e gli interventi della Corte Costituzionale parvero talvolta discutibili… Ma dovremo tornarci. La democrazia americana ha le sue regole, simpaticamente descritte da Henry Kissinger come un labirinto imperscrutabile dal quale alla fine escono comunque decisioni, e il loro mantenimento le permette comunque di funzionare. Centrale in ogni democrazia è la maestà della legge, e non il consenso. Le regole possono anche apparire antiquate e frenanti, ma alla fine conservano la democrazia. Siamo nell'epoca delle decisioni coraggiose, e tutte le decisioni sono sospinte ad apparire tali. L'epoca segnata da papa Francesco. Ma non saremmo entrati nell'epoca del carisma popolare e umile di Bergoglio senza la decisione inattesa del Papa Tedesco. Benedetto XVI sorprende il mondo e mette in mora il Vaticano con una decisione dove la sensibilità e le teorie teologiche e politiche germaniche intorno al potere giocano a mio parere un ruolo determinante. È la teologia luterana a sottolineare il potere demoniaco del potere. E la teologia tedesca cattolica e la politica tedesca non si riparano da questa visione che ne determina, dai tempi di Kant, il tenore e la precauzione.

Le ragioni dei tedeschi
I tedeschi cioè sanno che le regole della democrazia sono chiamate al controllo e in soccorso dell'albero storto della natura umana. Storto, secondo Kant, perché insidiato dal potere. Tutt'altra concezione rispetto a quella italiana corrente che recita andreottianamente che "il potere logora chi non ce l'ha"... E’ mia convinzione che senza questo approccio, germanico e luterano, la sofferta decisione di papa Ratzinger difficilmente avrebbe stupito il mondo.
Dunque le regole aiutano la democrazia, anzi, le sono necessarie, anche attraverso lentezze e paletti. Minarne la maestà e la centralità significa minare la democrazia, che è tuttora un genere a rischio.
Una prima certezza ci viene a questo punto in soccorso. Non si dà visione democratica senza visione storica. Il passato cioè -non la nostalgia, non il rimpianto- celebra qui la sua vittoria sulle proiezioni e sul sogno. Non c'è democrazia senza memoria del passato. È in tal senso che Jacques Le Goff ha potuto rivendicare il potere dello storico. "Poiché questo è il potere dello storico: essere in grado di parlare di tutte le epoche, se non di tutte le civiltà. La storia proviene dalle domande poste dallo storico".
Mi pare posta senza mezzi termini e neppure a media voz la pretesa dello storico di dire la sua, insieme a programmatori e profeti, anche sul presente e sugli scenari del futuro.
Dal momento che la rapidità è tutt'altro che sconosciuta alle epoche passate. Osserva ancora il grande medievista: "La rapidità della scrittura consente di fissare la mobilità del pensiero, le intuizioni, le variazioni. Si accresce ancora di più l'interiorità. La memoria viene nuovamente modificata. Gran parte dei trattati del XIII secolo, compresi quelli di somme autorità come Tommaso d’Aquino, furono redatti a partire da appunti presi durante le lezioni. Lo stesso Tommaso ci ha lasciato molte tracce della sua scrittura – una scrittura abbreviata terribile – in cui si sente la rapidità del pensiero che nasce, che si autogenera. È il tempo della corsiva e delle abbreviazioni".
Siamo così ricondotti a fare nuovamente i conti con la storia e quindi con la politica. In particolare con la grande politica, che è la sola in grado di muovere anche contro la storia.
E a farlo da italiani. Perché da noi si è esteso il vezzo di coltivare accanto all'antipolitica anche l’antistoria o meglio l'epopea dei "senzastoria".
In questo senso credo risulti ancora una volta sfavorevole nei nostri confronti il paragone con i tedeschi. La Germania infatti ha fatto conti molto più severi con il nazismo di quanto gli italiani li abbiano fatti con il fascismo. Anche se non siamo privi di ricostruzioni storiche, di esami di coscienza, perfino di ritorsioni e tentativi di scoop in proposito, come quelli di Giampaolo Pansa, tuttavia conserviamo quel bisogno di Antistoria d'Italia che Fabio Cusin interpretò tempestivamente. E infatti la politica senza fondamenti, affidata al gesto e alle emozioni, è all'origine dell'esaurimento istituzionale che apre le porte al fascismo. Su questo vuoto il fascismo costruisce se stesso: senza un piano, inglobando materiali eterogenei che vanno dalle lotte rivoluzionarie della Camera del Lavoro ai cartoni hollywoodiani di un impero romano rivisitato dalla periferia romagnola: è l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende.


Il fascio
Il fascio fascia e racchiude davvero troppe cose, dalle trebbiatrici nell'agro pontino alla greve  macchia di marmo bianco troppo espansa del Vittoriano. E l'onnipresente retorica non è in grado di amalgamare ogni volta prodotti tanto disparati.
Il "fasciocomunismo", riscoperto e recentemente messo agli onori della letteratura da Antonio Pennacchi, è soltanto una delle variabili interne. Il bolscevismo è accreditato di un approccio alto e precedente negli scritti di Ugo Spirito. La Grande Proletaria si è fatta ancora una volta impaziente e vuole recuperare in fretta il suo posto al sole in Europa e nel mondo. Anzi il fascismo, tamponata e archiviata la rivoluzione d'ottobre, diventa il modello e la via lungo la quale incanalare le forme politiche del decisionismo, non importa se agrario e straccione. Del resto lo stesso Carl Schmitt se guarda a Hitler, sembra poter mantenere nel cono dello sguardo anche il bolscevico Lenin. Un modello esemplare e un'autostrada europea e intercontinentale. La velocità diventa indiscutibile e trasvola con la squadriglia di Felice Balbo l’Atlantico per essere accolta dall'applauso oceanico di Canada e Stati Uniti. Il linguaggio universale è quello del futurismo: velocissimo e senza pause, onomatopeico, fabbricatore di metafore vuote quanto vincenti. Niente di nuovo sotto il sole italiano, anche se un sole troppo poco studiato, come il Paese che illumina e sul quale fa crescere in abbondanza la vite e l'ulivo.
Dunque corriamo di nuovo gli stessi pericoli? Sicuramente no, anche perché ci è stato insegnato che le repliche della tragedia si volgono storicamente in farsa. Quel che importa rimettere a fuoco è il discorso intorno allo spirito del tempo che, gravido a crepapelle di nuovi contenuti ideologici, si ripresenta come post-ideologico e a-ideologico. È la novità, bellezza! (O forse è soltanto la velocità, ma fa lo stesso.)
Perché anche l'assenza di memoria produce nuovi mostri. Le Goff non è un buontempone che si è occupato in maniera abbondante e squisita di arte culinaria. Il rapporto con la storia resta ineludibile, ancorché misconosciuto. Perché lo spirito del tempo non è necessariamente né fascista né democratico: è semplicemente attuale e moderno, e spalancato a molteplici possibilità in attesa di essere colte e inverate, o da popoli insieme, o da grandi biografie nietzschiane. E soprattutto non si dà moderno senza regressione (e decadenza) a prescindere dalla critica, che è la figlia perennemente giovane e prediletta di un illuminismo che a tutti dovrebbe essere caro. E se questo vuol dire nell'ora presente essere inattuali, sia finalmente benedetta la lezione di Nietzsche, che pure ci ha procurato, proclamando la morte di Dio, un'infinita agonia... Insomma, non ci si oppone allo spirito del tempo per la stessa ragione per la quale non si ferma il vento con le mani. Ma quello spirito deve essere letto, indagato, compreso: perché finalmente il discernimento si tramuti in azione. È questo spirito instancabilmente critico che non cessa di guardare dietro la maschera. E dove sembra baldanza e giovanile speranza sa cogliere talvolta la perenne barbarie della volontà di potenza. Da buoni europei superstiti, che custodiscono non soltanto per sé un pezzo dell'eredità dilapidata, dobbiamo dire chiaramente che in principio non sta l'azione (e tantomeno l'immagine), ma la critica costruttiva.

Ivanhoe
E’ ancora lo storico Le Goff a metterci sulla pista giusta citando un passo di Ivanohe, dove Walter Scott tratteggia con aria sognante il paesaggio tra Sheffield e la ridente città di Doncaster.  Scrive Scott: "In quel dolce distretto della bella Inghilterra che è bagnato dal fiume Don, si stendeva nei tempi antichi un'ampia foresta che ricopriva la maggior parte delle miti colline e delle vallate"... ed è proprio qui che il lettore incontra i primi personaggi del romanzo storico: Gurth il porcaio e Wamba il buffone. Ma l'idillio paesaggistico ha lo scopo di illustrare la location di un torneo cavalleresco la cui descrizione nelle varie parti costituirà poi la sceneggiatura di base per una lunga serie di film di cappa e spada. A noi la medesima location e la sceneggiatura servono invece per tutt'altro scopo: fornire una metafora credibile delle primarie all'italiana. Perché sono le primarie, un comportamento elettorale americano, a rivitalizzare l'agonizzante democrazia italiana. Con una specificità tuttavia non messa a tema e non studiata: queste primarie "americane" si innestano in un partito e in un sistema politico che restano compiutamente europei dalla testa ai piedi. Circostanza non approfondita né per le potenzialità di sviluppo che essa presenta, ma neppure per gli inconvenienti, le difficoltà e le possibili reazioni allergiche e forse anche di rigetto che un comportamento così innovatore può provocare in un sistema che non le ha costituzionalmente previste. Né attenua la difficoltà l'eccessivo ricorso, come ad esorcismo tuttofare, alla nozione di "costituzione materiale" in accelerata trasformazione. I rischi sono in taluni casi già evidenti e non tarderanno a manifestarsi in maniera esplicita con l'estendersi di un loro uso indiscriminato. Le primarie all'italiana cioè sono risultate un toccasana, ma, come per tutte le medicine, non se ne può abusare salvo, come recita il bugiardino di ogni farmaco, effetti collaterali spiacevoli.
Basterà un solo accenno: le primarie americane non mettono in lizza il segretario dei due maggiori partiti, al punto che gli italiani frequentatori dei nostri seggi elettorali ignorano per la gran parte i nomi dei leaders dei partiti statunitensi.
Ma torniamo a Walter Scott e alla presentazione del protagonista del suo celebre romanzo storico. "L’armatura era d'acciaio, ma riccamente decorata d'oro, e l'insegna sullo scudo mostrava una giovane quercia divelta alle radici, con la parola spagnola Desdichado, che significa Diseredato. Montava un meraviglioso stallone nero, e nell'attraversare il campo di lizza, salutò con grazia il principe e le dame, abbassando la lancia. La destrezza con cui cavalcava e una certa grazia giovanile che trapelava dal suo atteggiamento gli guadagnarono subito il favore della folla…  Il campione, avanzando tra queste grida di buon auspicio, salì fino alla spianata sul sentiero in salita che vi conduceva dal campo di lizza e, tra lo stupore di tutti i presenti, cavalcò dritto verso il padiglione centrale e colpì con la punta della lancia lo scudo di Brian de Bois-Guilbert fino a farlo risuonare. Tutti rimasero attoniti di fronte a tanta supponenza, ma nessuno più del formidabile cavaliere che il campione aveva appena provocato a duello mortale e che, di certo non aspettandosi una così audace sfida, era rimasto, con noncuranza, sulla porta del suo padiglione".
E’ facile intuire che l'elettore italiano avrà ravvisato d'acchito in sella al meraviglioso stallone nero Matteo Renzi, celato dietro la messinscena del Desdichado, e sulla porta del suo padiglione, succeduto alla paterna pompa di benzina, l'uscente Bersani. Come a confermarmi nella convinzione che la letteratura arriva puntualmente prima e più a fondo della corrente ed estenuata saggistica. Il campo di lizza di Walter Scott credo sia infatti la metafora insieme più plastica ed evocativa di queste primarie all'italiana.


Nel campo di lizza
Nel campo di lizza troviamo infatti molti e tutti gli elementi che caratterizzano la competizione delle "primarie aperte".  Gli sfidanti, la folla partecipe, l'attrezzatura del campo di battaglia, le regole che regolano la competizione e, per quel che riguarda la condizione  storica, la messa in scena ed in opera degli elementi di partecipazione che i tempi, evidentemente non democratici, potevano consentire.
Il problema che abbiamo oggi di fronte (perché sperabilmente le primarie in Italia non sono destinate a rimanere patrimonio circoscritto al solo campo del Partito Democratico) è dunque duplice: un aggiornamento opportuno delle regole e una estensione a tutto l'arco democratico, come s'usava dire nelle legislature d’antan, di una innovazione che, ancorché parziale, si è dimostrata benefica ed opportuna. Al punto che la quotidianità della democrazia deve riguadagnare il terreno perduto o non occupato dal momento che le primarie sono entrate in vigore. Ritorna così nel campo di lizza il tema delle regole e degli strumenti della nostra  democrazia zoppicante. Qui si è fatta palese e mediaticamente cavalcata, proprio come in un torneo, l'esigenza di rispondere alla velocità delle trasformazioni con una accelerazione delle liturgie democratiche. Anche perché il gap tra i decisori delle Borse e decisori dei Governi e più ancora dei Parlamenti si è fatto pericolosamente esteso ed insopportabile.
Al punto che il decisionismo dell'immagine, quello che preferisce di fatto Bruno Vespa a Carl Schmitt, e il marinettismo delle chiacchiere politiche correnti solcano vincentemente l'onda con provvedimenti più tempestivi che pensati, e i cui effetti nel tempo lungo seminano perplessità intorno alle sorti della democrazia quotidiana.
D'altra parte non Walter Scott, ma Luigi Sturzo aveva per tempo avvertito che la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte.
Il dovere dell’ora pare dunque quello di prendere a martellate le regole piuttosto che la Venezia di Marinetti e correre al passo coi tempi, e possibilmente anche più in fretta, rimandando a un dopo indefinito la riflessione e la critica sulla natura dei tempi e su chi ne lucra i vantaggi. Ma si sa, le regole più servono a frenare che a spingere, e in alcuni casi può apparire un costo e  un ritardo eccessivo l’osservanza delle regole vigenti di questa democrazia. Eppure se ci sono un Paese e un Presidente che hanno fatto proprio il mantra della innovazione e del cambiamento questi sono gli Stati Uniti d'America e Barack Hussein Obama, l'inquilino attuale della Casa Bianca. Eppure le regole che hanno consentito a Obama di sedere sul trono più alto del mondo sono le medesime che hanno favorito l'avvento alla Casa Bianca di George W. Bush, con una discesa in campo della Corte Costituzionale che forse non solo da noi ha seminato uno strascico di sospetti.
Come a dire tuttavia che non c'è democrazia senza regole (i plebisciti non bastano né a Berlusconi né ad altri) e con i costi non solo di tempo che le regole comportano e impongono. Connesso al tema delle regole quello degli strumenti.
E risulta perfino a me stesso stucchevole ripetere per l'ennesima volta che il nostro Paese è l'unico in Europa e al mondo ad avere azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa: quelli che accumuniamo sotto l'etichetta di Prima Repubblica.
Orbene le primarie coadiuvano i partiti, ma non li sostituiscono, neppure negli Stati Uniti d'America, dove è celebrata la loro natura elettorale. Può essere che quei partiti (quelli italiani) fossero tutti insieme invecchiati e corrotti, ma il vuoto da essi lasciato rischia di risultare peggiore della loro discutibile presenza.
E se non i partiti tradizionali, pare urgente, tra tante emergenze, ricreare strumenti che vengano dopo di loro, li sostituiscano  e li surroghino, anche a partire da una critica feroce. Altrimenti le vittorie elettorali rischiano di restare tali. Mentre la democrazia è un bene comune -termine oramai trasversale a tutte le culture politiche- non meno del lavoro.
I ruderi degli antichi partiti o le nuove spericolate costruzioni assomigliano invece sempre più, e non soltanto nel funzionamento e nelle scadenze, a liste elettorali, mentre  la pressione dei poteri forti, palesi o occulti, è destinata a pesare di più. In fondo l'ultima grande innovazione europea, quella di Tony Blair, teneva conto di questo percorso innovato rispetto alla tradizione politica, criticandola praticamente ma anche rispettandola, e avendone presente il senso e gli effetti profondi. Insomma, nessuna democrazia senza regole e strumenti. E neppure nessuna sinistra a prescindere dalle sorti della democrazia. Perché le vittorie dubitabilmente democratiche della sinistra non possono essere nel tempo medio e lungo che vittorie di Pirro. Del resto aveva già pensato Machiavelli ad ammonire che è meglio perdere con truppe fedeli piuttosto che vincere con bande di mercenari. Ma anche il grande Niccolò non pare più attentamente studiato né applicato da quelli che pur ne tessono le lodi. In un'Italia dove, per una carenza che ci affligge dai tempi della fine della destra storica, la sinistra sembra essersi fatta storicamente carico dei guasti della destra...
Insomma, innovazione e, meglio ancora, trasformazione sì, ma senza sconti democratici.

Destino
Ogni scienza e ogni pensiero aspira a farsi religione. Benjamin aveva visto giusto fin dal 1919. Può anche ingarbugliarsi o contraddirsi, ma l'anelito a farsi religioso non cessa. Di modo che anche la salvezza s'è fatta ambigua. Le leadership rincorrono -come sovente accade nelle democrazie deboli- la pubblica opinione, confezionata dai media e attraversata da enfatiche passioni. Nel consenso, su come viene fabbricato da un'offerta che crea la domanda, va posta la lente della ragione democratica. Mentre il desiderio è sempre differito perché la conoscenza non può scavare il segreto della vita, intanto che il tempo così si dissipa. Se time is money vuol dire che il tempo non c'è più e siamo costretti a vivere nella moneta.
A una Minerva non troppo accurata parrebbe che non ci sono a questo punto che due atteggiamenti: il cristiano e lo stoico. Ma il saggio amico Totonno, che è filosofo,  sceglie l'epicureo. In questo orizzonte la terra dell'infanzia ideologica è la terra della sicurezza, ammesso che ci sia sicurezza (e che la terra resti). E questo è il destino della mia generazione al tramonto: mettere in discussione tutti gli ideali di cui si alimenta. In questa prospettiva neppure la beat generation più o meno sessantottina è tanto intellettualmente sciamannata come generalmente viene rappresentata. E del resto se non dubita, se non parte almeno dal dubbio, che fede è? La Storia (quella maiuscola) l'hanno insegnata gli esuli agli italiani. Dunque, chi è l’esule d’oggi? Si dice, ed è vero, che questi ragazzi non studiano. Ignorano volutamente e coerentemente tutto: tranne l'arte del comunicare e i modi di far bottega dell'ingegno. È vero, ma non bisogna generalizzare. Le risorse ci sono, anche quelle giovanili! Non si tratta soltanto di nuove ed inedite abilità. E perciò sarà bene che tutti riflettiamo, non solo i cattolici, sulla rivincita delle unioni di fatto tra le coppie dei nostri giovani… Riconoscendo tuttavia che i rappers non hanno eliminato la poesia e nemmanco l'ermetismo.
Dunque, se si vuole definitivamente uccidere questa politica bisogna ostinatamente rinchiuderla nelle sue discipline e nei suoi talkshow.
A questo punto si apre tutta una possibile discussione e un'anamnesi sugli stili e sui generi musicali e letterari. La giallistica è la forma più diffusa di similpensiero, apologia del vuoto, apparentemente riposante anche quando tende i sensi e sollecita la paura.
Da dove guardo tutto ciò? Da una senilità consapevole e consapevolmente attiva. (Perché in essa nasce il guadagno del reducismo.) Di chi cioè non ha strappato le radici e pensa che alcuni pezzi di un glorioso passato possano contribuire a costituire le impalcature teoriche di un nuovo punto di vista. Cosa comincia per un cattolico democratico quando finisce l'età dell'attivismo? La pensione? L’accidia? La cupa rassegnazione? Macché! Una forma di pensiero politicamente utile anche quando non prevede l’azione.

 
                                                                                
Tre moschettieri dell’animazione politica
di Giovanni Bianchi

Un vuoto che pesa
Anche nell'epoca della mancanza di fondamenti la politica e le politiche (al plurale) non possono restare a lungo senza una motivazione, né rifugiarsi nel mero pragmatismo o nell'ostinazione occulta dei giochi di potere: tutto quello scenario attuale che con una qualche disinvoltura, e una presa di distanze che è pari al disimpegno, viene sbrigativamente definito "epoca postideologica". Le cose non stanno esattamente così e sono portato a pensare che il bisogno di principi animatori sia destinato a farsi nuovamente sentire.
Per trovare un approccio in controtendenza bisogna tornare in Italia a Giuseppe Dossetti e a quello che viene chiamato il suo "testamento politico". Si tratta della conversazione tenuta al clero della diocesi di Pordenone il 17 marzo 1994 e pubblicata con il titolo Tra eremo e passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi, a cura dell'associazione Città dell'Uomo. Disse Dossetti in quella occasione: "E pertanto la mia azione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Educatrice nel concreto, nel transito stesso dalla vita politica. Non sono mai stato membro del Governo, nemmeno come sottosegretario e non ho avuto rimpianti a questo riguardo. Mi sono assunto invece un'opera di educazione e di informazione politica." L'emancipazione di un popolo e di una democrazia non possono infatti mancare di questa vocazione politica che accompagni la professione.  Soltanto in questo modo è possibile sviluppare coscienza critica nelle persone e cambiamento nelle strutture sociali. In proposito è stato grande merito dell'Istituto Freire Internazionale l'aver organizzato in questi giorni a Torino un convegno che ha riproposto il tema, a partire ovviamente dall'eredità del grande e non dimenticato educatore brasiliano. In questo senso è possibile notare come l'eredità di Paulo Freire sia tutt'altro che assente nella cultura della democrazia italiana, ed abbia contribuito al superamento dei modelli educativi "depositari". Questo significa farsi carico degli "uomini in situazione". Significa anche porsi come centrale l'interrogativo: "Ma l'educazione, se non è politica, che educazione è?". Si tratta infatti di un'educazione chiamata a esercitarsi negli ambiti più diversi della vita sociale: lotta contro l'emarginazione, produzione di cultura dentro i movimenti popolari, difesa e rispetto dell'ambiente, produzione artistica che sollecita a immaginare altro dall'esistente, ripensamento degli stili di consumo e di sviluppo socio-economico, auto-organizzazione fra cittadini per far fronte ai problemi locali…
Tuttavia bisogna fare i conti con la circostanza che negli ultimi anni abbiamo assistito alla "sparizione dei soggetti". È quindi difficile entrare in sintonia con le piccole soggettività che sono in ricerca autentica e concreta. Questo è forse il maggiore ostacolo alla coscientizzazione, così come proposta da Freire, secondo il quale l'educazione è essenzialmente "pratica della libertà". E che questa pratica manchi è un vuoto che pesa e che è destinato a produrre effetti negativi per un tempo ancora non breve.

La sfida
Susan George

La sfida è quella rappresentata dal tema di Susan George, l'americana a Parigi: Un altro mondo è possibile se, in una fase non soltanto di crisi in diversi settori, come recita il documento di base dell'Istituto Freire, ma anche di "transizione epocale". Una transizione peraltro non facile da collocare vista la diatriba aperta sui tempi: il "secolo breve" di Hosbawm, o il "secolo lungo" di Vanni Arrighi, il grande marxista recentemente scomparso e col quale ebbi la fortuna di lavorare nei primi anni Settanta al Centro Operaio che con Antoniazzi e Manghi avevamo costituito a Milano. Ma per fondare il discorso non sarà certamente inutile riprendere il vecchio vezzo di contestualizzare i problemi all'interno di un quadro strutturale che metta sotto il naso le cifre essenziali di questa fase della globalizzazione.
Nel 2000 la Cina rappresentava l’8% della produzione mondiale; nel 2013 la Cina ha raggiunto quota 30% della produzione mondiale. In 13 anni! Ovviamente l'eloquenza delle cifre è superiore a qualsiasi commento. Cosa dunque sta accadendo nel mondo del turbocapitalismo?
Chi ha ceduto quote? Gli Usa sono passati dal 24% al 14% della produzione mondiale. Il Giappone dal 16% al 7%. Tutti sanno che la crescita cinese è in gran parte procurata dagli investimenti sul suolo cinese di imprese multinazionali che hanno delocalizzato. Una delle cause non minori della crisi in Occidente della domanda interna.
Dunque il mondo è in grande sviluppo, mentre nella transizione noi, Europa, andiamo sensibilmente e vistosamente indietro. (Carl Schmitt scrisse nel 1971 nella prefazione alle Categorie del politico che l'Europa era "detronizzata".) Nessuno però che abbia il fegato di mettere a tema la "decadenza" dell'Europa e dell'Occidente. L'Italia ha nel frattempo perso il 25% della produzione manifatturiera, che nel mondo è nello stesso periodo cresciuta del 30%. Se passiamo a considerare il costo del lavoro, possiamo anzitutto notare come per i Paesi del Nord il costo del lavoro sia ovunque elevato. Il costo del lavoro cioè in Giappone, Usa, Italia è di $ 40 l'ora. In Polonia invece $ 10 l'ora, contro i 40 nostri. Se sono un imprenditore tedesco e  delocalizzo in Polonia, guadagno $ 60.000 l'anno su un solo lavoratore. La logica è chiarissima: Ubi pecunia, ibi patria. È la logica del turbocapitalismo globalizzato, dove il detto latino, continuamente ripetuto da Massimo Cacciari in televisione, sintetizza perfettamente il dato strutturale e l'approccio imprenditoriale generalizzato.
Ma torniamo in Asia.
In Cina il costo del lavoro era un dollaro l'ora; ora, dopo contestazioni, agitazioni e  suicidi è salito a due dollari e mezzo. L'impresa europea ed italiana non ha interesse a istruire il lavoratore, a informarlo, emanciparlo, neppure professionalmente. Perché i lavoratori, così equipaggiati professionalmente, si mettono in proprio o passano a un'impresa concorrente. Questo comunque è il rischio ovunque avvertito. Non a caso Luciano Gallino, che da tempo fiuta il vento e lo descrive con estrema puntualità, ha scritto qualche anno fa un libro emblematico: La scomparsa dell'Italia industriale. Si sprecano i discorsi sull'inadeguatezza del sindacato. Eppure ci fu un'idea di Bruno Trentin – in ricordo del sindacalista Eraldo Crea della Cisl – che si collocava fuori dall'avidità e dall'economicismo: "la persona umana come unica variabile indipendente". Anche i diretti eredi sembrano purtroppo averla dimenticata.
Il documento di base del Istituto Freire opportunamente propone la ricerca di vie alternative e la sperimentazione di nuovi stili di vita nella società. Questo nella fase della politica "senza fondamenti" e senza soggetti. Quando perfino la propaganda politica viene sostituita dalla pubblicità, dove è sempre l'offerta a creare la domanda. Non c'è posto per la critica e tantomeno per il dubbio. Con l'invasione del linguaggio quotidiano. Fino a qualche anno fa tutti dicevano di essere "senza se e senza ma". Per un'affermazione si diceva: "assolutamente sì" o "assolutamente no". Neanche la fede incomincia così. Perché è a partire dai dubbi sull'enigma dell'esistere e il mistero del vivere e del morire che uno si pone il problema di Dio… Come correre ai ripari? Esistono ancora punti di riferimento e maestri?
Provo a proporre nell'ambito del politico, e precisamente in quello della società civile e delle sue culture storicamente più vivaci, alcune esperienze e i filoni di pensiero che trovo utile presentare con l'etichetta dei "tre moschettieri".

Don Ciotti
Don Ciotti

Emigrato con la famiglia a Torino negli anni Cinquanta, Luigi Ciotti ha fondato nel 1965 il Gruppo Abele, associazione che promuove l’inclusione e la giustizia sociale attraverso un impegno che salda accoglienza e cultura, dimensione educativa e proposta politica.
È stato ordinato sacerdote nel 1972 da Padre Michele Pellegrino, che gli ha assegnato come parrocchia “la strada”, luogo di povertà e di fragilità, di domande e provocazioni dalle quali imparare.
Col Gruppo Abele, in quasi cinquant’anni, ha costruito opportunità e progetti per le persone tossicodipendenti, per le ragazze prostituite, per gli ammalati di aids, per gli immigrati e tutte le persone segnate da povertà e fragilità esistenziali. A questo si è aggiunto un impegno di ricerca, informazione e formazione attraverso un centro studi, una casa editrice, due riviste e percorsi educativi rivolti a giovani, operatori e famiglie.
L’attenzione di don Luigi e del Gruppo Abele si è estesa negli anni a diversi ambiti: dalla mediazione dei conflitti allo studio delle nuove forme di dipendenza, dai progetti di cooperazione allo sviluppo – oggi concentrati in Africa – allo strumento delle cooperative sociali per dare dignità e lavoro a persone con storie difficili, al settore culturale e formativo, un ambito che raggruppa iniziative e progetti di vario genere, accomunati dall’intenzione di fornire al pubblico strumenti per la riflessione e lo studio, in particolare sui temi del lavoro sociale. Ecco dunque le attività culturali, informative, educative, di prevenzione e formazione promosse dal Centro Studi, Documentazione e Ricerche (1975), dall’“Università della Strada” (1978), dalla casa editrice “Edizioni Gruppo Abele” (1983), dalla libreria “La Torre di Abele” (1994), dal “Piano Giovani” (2001), dalle riviste “Animazione Sociale” (1971) e “Narcomafie” (1993), al servizio di Mediazione dei conflitti (1995).
Come Danilo Dolci, con il quale sono state rilevate delle affinità, anche Ciotti è una sorta di "intelligenza esterna" che interviene nella realtà torinese, così come Danilo Dolci dall'estremo Nord interviene in Sicilia a Trappeto.

Il Noi
Don Ciotti

Ciotti non a caso insiste sulla centralità della Noi nella fase storica in cui dilaga il narcisismo indotto da sopra e da fuori da un capitalismo passato dalla produzione al consumo. Queste nostre infatti sono società fondate sul consumismo e non più sul lavoro. Oltre il fordismo. I libri di Magatti dicono di una deriva oramai decennale e dilagante nelle nuove generazioni.
Ho avuto occasione di lavorare qualche decennio fa con don Luigi al Noi di "educare, non punire": una campagna intensa, bella e precisa fin nel titolo che è simile a un mantra.
Nel corso degli anni Novanta l'impegno di Ciotti si è allargato alla denuncia e al contrasto al potere mafioso, dando vita al mensile "Narcomafie" e nel 1995 a Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Oggi Libera coordina oltre 1.600 tra associazioni e gruppi che promuovono attività nelle scuole e università, curano strumenti d’informazione, si offrono come punto di riferimento per i famigliari delle vittime, operano e danno lavoro nei beni confiscati alle mafie attraverso le cooperative agricole del circuito “Libera terra”.
Da quest’esperienza è nata Flare – Freedom, legality and rights in Europe, il cui impegno per i diritti e contro la criminalità organizzata è presente in trenta nazioni dell’Unione Europea, dei Balcani, del Caucaso e del bacino del Mediterraneo. Ciotti innova e ricrea figure antiche: il militante, che progressivamente e criticamente si trasforma nel volontario; innova sul campo anche la figura così presente nei partiti politici di massa nel dopoguerra dell'"intellettuale organico". In lui una combinazione paradigmatica di testimonianza–ricerca–militanza costituisce la base della legittimazione e dell'organizzazione del Noi.
Il primo libro che ho letto di Luigi Ciotti è Chi ha paura delle mele marce? Giovani, droghe, emarginazione... Una produzione che si è di molto estesa e che ovviamente nulla concede né all'accademia né all'omelia.
La lucidità del punto di vista è consentita dalla credibilità della testimonianza. Essa colma un vuoto, rendendo presenti in Italia parole generatrici come "giustizia", in grado di riattraversare il linguaggio e più in generale l'orizzonte politico di quella che in un tempo caratterizzato dalla partecipazione e dall'animazione sociale (don Aldo Ellena) chiamavamo come si è detto "militanza". Una militanza poi frantumata negli anni Ottanta e sulla quale sarà bene tornare più avanti. Frantumata fino al sarcasmo che ha storpiato il nome del militante – seguace di "un dio che è fallito" (Claudio Magris) –in quello di "militonto".
Dallo sfaldamento di questa generalizzata figura umana del dopoguerra italiano sono sorti i lavori e le metamorfosi di un volontariato che recupera e innova, dopo aver criticato quella storica figura.

Agnes Heller
Agnes Heller

Oltre alla teoria dei bisogni
La Heller è stata il massimo esponente della «Scuola di Budapest», corrente filosofica del marxismo facente parte del cosiddetto "dissenso comunista" dell'Europa orientale prima del crollo definitivo dei regimi dell'Est europeo. Nota in occidente come la teorica dei "bisogni radicali" (intesi come il vero terreno di scontro tra soggettività e potere) e della rivoluzione della vita quotidiana, il suo pensiero è stato molto discusso soprattutto in Occidente negli anni Settanta e Ottanta. Le tematiche privilegiate della sua ricerca sono sempre state l'etica, la sessualità, la famiglia nel quadro di un progetto rivoluzionario anticapitalista che muove dalla volontà di superare i rapporti di subordinazione e di dominio.
Attualmente è ritornata in Ungheria, ma insegna anche alla New School for Social Research di New York. La sua riflessione si colloca oggi oltre la teoria dei bisogni e propone piuttosto il tema dei diritti, in chiave decisamente filosofica, e quindi oltre la triade di Marshall: diritti sociali, diritti civili, diritti politici. In una lettura della globalizzazione assolutamente originale e in grado di suggerire quei fondamenti che mancano alle politiche di oggi. Agnes Heller è dunque uno dei più autorevoli interpreti della complessità filosofica e storica della modernità.
Sfuggita adolescente alle deportazioni naziste, diviene allieva e amica del filosofo György Lukács, e ne condivide i tormentati rapporti con il partito comunista successivo alla rivolta del ’56. Durante il regime di Kádár, Heller viene progressivamente privata della possibilità di insegnare, di viaggiare all’estero e di pubblicare i suoi libri.
Le vicende della “Scuola di Budapest” (composta anche, tra gli altri, da Mihály Vajda e György Márkus) vengono rese note all’opinione pubblica occidentale dalla lettera di Lukács al Times Literary Supplement del 1973. Nel ’77 Heller lascia infine l’Ungheria per l’Australia, e quindi per New York, ove insegna tutt’ora presso la New School.

Agnes Heller

Il pensiero della Heller si inserisce in un primo tempo nella linea di interpretazione lukacsiana del pensiero di Marx, analizzandone il nesso tra bisogni e valori. In seguito al trasferimento in Occidente, la filosofa ungherese concepisce tre grandi progetti: una filosofia della Storia, una teoria dei Sentimenti e una teoria della Morale. In tal modo, essa si iscrive all’interno del dibattito etico-politico contemporaneo: dalla discussione sulle contemporanee teorie di giustizia, all’analisi storica della posizione degli Stati dell’Est europeo; dall’interpretazione della posizione sociale e morale dell’individuo nel mondo post-moderno, alla teoria del bello artistico. La filosofia di Agnes Heller si presenta, nella sua straordinaria varietà, come una ricerca intorno a un nucleo fondamentale: la ricchezza dell’uomo, del suo sentire, del suo produrre e soprattutto del suo agire politico e morale, delle sue modalità e condizioni di perfezionamento, verso l’incarnazione utopica contemporanea di quell’ideale di uomo ricco in bisogni, produttore di bellezza artistica, bontà pratica e giustizia politica.
Le sue teorizzazioni –come quelle di Hannah Arendt– furono un cartello indicatore in un Sessantotto che muoveva tra anti-autoritarismo e anti-capitalismo. Non assenti le dinamiche generazionali, quelle che Agnes Heller evoca e interpreta  nell'orizzonte della responsabilità planetaria e generazionale. Perché così siamo noi contemporanei che abbiamo raggiunto e superato la maturità: costretti a riflettere sul destino impervio di figli e nipoti, e a riconoscerci talvolta come "abusivi" rispetto alla speranza di vita e all'età media di molti africani...
Ed anche non poco disattenti rispetto alla responsabilità ecologica. Mentre restano nella nostra memoria le lontane letture di alcuni suoi testi fondamentali: L'uomo del rinascimento (1963), Sociologia della vita quotidiana (1970), La teoria marxista della rivoluzione e la rivoluzione della vita quotidiana (1972), La teoria dei bisogni in Marx (1973), Struttura familiare e comunismo (1973)...

Letture militanti
Anche queste sono letture che appartengono alla stagione dei furori della militanza. Quando cioè cercavamo pratiche rivoluzionarie, maestri e testi. E i militanti politici appartenevano a due schieramenti molto vasti e in dialettica tra di loro: i partiti di massa tradizionali e i nuovi gruppi in via di rapida ideologizzazione, alla ricerca di una prassi politica in forte dialettica con quella dei partiti. Da noi la militanza fu infatti figura del connubio tra le grandi narrazioni del Novecento e le nuove generazioni del babyboom.  Giovani che avevano studiato a Trento-Sociologia e praticavano la quotidianità dei "gruppi" in competizione feroce con i partiti tradizionali. Studiavano Bonhoeffer e Marcuse, leggevano Allen Ginsberg, William Burroughs, Jack Kerouac e Ferlinghetti –  comunque ottimamente introdotti da Fernanda Pivano – perché si militava anche la letteratura. (In questo anticipati dai furori prettamente letterari del "gruppo 63".) Letture matte e disperatissime alle quali poteva dare un certo ordine ed un aiuto una indovinata e celebre rubrica dei "Quaderni Piacentini" che distingueva e indicava "libri da leggere e libri da non leggere".
Approdarono quei giovani in alcuni casi al fondamentalismo delle dottrine e in altri al terrorismo. Si trattò di cultura e prassi aggressivamente laica esplicitamente, e cattolica inconsapevolmente. Si agitò fra buoni e cattivi maestri. Fu insieme nazionalpopolare e cosmopolita. La fine degli anni Ottanta ne vide la dissoluzione.
Tra i buoni maestri, don Lorenzo Milani, Paulo Freire, Agnes Heller, Klaus Offe, Jürgen Habermas, Chomsky. Il libro di maggiore diffusione (evito la parola "successo") fu La pedagogia degli oppressi, pubblicato nel 1971 dagli Oscar Mondadori.  
Le "parole generatrici" della visione del mondo freiriana (non riducibile a metodologia fungibile e multiuso) furono un mantra in Italia nella stagione delle "150 ore" e del pansindacalismo. Quando si pensava che pensare e sperimentare fosse "servire il popolo", anche andando per schemi più sudamericani che tedeschi.
Poi la dissoluzione del militante e del suo pensiero e ovviamente degli intellettuali "organici" ai quali era stata sottratta appunto l'organicità. Da quelle macerie spuntarono i nuovi maestri del volontariato. Il volontariato è il critico erede, e quindi la metamorfosi, non di rado sarcasticamente immemore, del militante, considerato un "giapponese", che, ammaliato dalla foresta e dai suoi richiami, non ha capito che la guerra e la foresta non ci sono più.
Cresce intanto l'animazione sociale (ancora Aldo Ellena) sul territorio e in circoli e "gruppi spontanei" – si chiamavano così – di ricerca e formazione, tra i sospetti della militanza residua che considerava l'animazione sociale una "deviazione socialdemocratica".
C'è la cetimedizzazione della società italiana (Sylos Labini) e crescono i nuovi maestri e leaders, spesso preti, come Giovanni Nervo, il capostipite, Pasini, Ciotti. Spariscono malinconicamente dietro le "belle bandiere" i "preti operai", risucchiati dalla sindrome mistica dei "piccoli fratelli" di Charles de Foucauld, votati al silenzio tra le masse: "come loro".
E varrebbe la pena di rivisitare Pier Paolo Pasolini, scritti e film. Di continuare, per capire, a distinguere. Evitando le ricostruzioni prive di pensiero: meglio un pensiero sbagliato che nessun pensiero. L’Ikea delle idee in questo caso non funziona e non è funzionale.

Moacir Gadotti
 
Moacir Gadotti

L’erede di Freire
Moacir Gadotti è ovviamente brasiliano, laureato in Filosofia (1971), Master in Educazione: Storia, Politica, Società (1973) e Dottorato di Ricerca in Educazione (1977). Professore presso l’Università di São Paulo, e presidente dell’Istituto Paulo Freire, di Sao Paulo, di cui è stato fondatore insieme a Freire. La sua attività di ricerca si è concentrata nel campo della istruzione, educazione e politiche sociali dei giovani e adulti, con particolare attenzione ai fondamenti dell’educazione, agendo sui seguenti argomenti: educazione, Paulo Freire (storia e opera), filosofia dell'educazione, della gioventù e dell'istruzione degli adulti e sostenibilità.
Ha pubblicato numerosi libri, tra i quali: Pedagogia da Terra, Educar para a sustentabilidade, Boniteza de um sonho, Os mestres de Rousseau (2004), Paulo Freire: uma biobibliografia (1996), Pedagogia da Práxis (1995), História da Ideias Pedagógicas (1993), Escola Cidadã (1992), Pensamento pedagógico brasileiro (1987), Concepção dialética da educação (1983) e A Educação contra a educação (1981).

Sulla scia del pensiero di Freire 
Paulo Freire, viene oggi ricordato in modo particolare per aver introdotto i concetti di problemposing all'interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filosofia dell'educazioneproveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni marxisti e anticolonialisti. Di fatto, in diversi modi la sua "pedagogia degli oppressi" può essere meglio letta come un'estensione o una risposta a I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla necessità di fornire ai popoli nativi un'educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna, piuttosto che tradizionale, e anticoloniale (cioè, che non fosse semplicemente un'estensione della cultura del colonizzatore). Freire è meglio conosciuto per il suo attacco a quello che chiama il concetto "bancario" dell'educazione, in cui lo studente era visto come un conto vuoto che dev'essere riempito dal docente (educazione depositaria). Certo, questa non è propriamente una nuova concezione rousseauiana del bambino come un apprenditore attivo, che fu già un passo oltre la tabula rasa (che è, fondamentalmente, lo stesso del concetto "bancario"), e pensatori come John Dewey e Whitehead sono stati fortemente critici sulla trasmissione di meri "fatti" come fine dell'educazione. Il lavoro di Freire è uno dei fondamenti della pedagogia critica. Ben più provocatoria, tuttavia, è la dura avversione di Freire alla dicotomia docente-studente. Questa divisione è ammessa in Rousseau e forzata in Dewey, ma Freire arriva a insistere che verrà completamente abolita. Diventa difficile immaginare questo in termini assoluti (vi deve essere una certa legge della relazione docente-studente nella relazione genitore-figlio), ma ciò che Freire suggerisce è una profonda reciprocità che va inserita nella nostra idea di docente e studente. Freire cerca di pensarli in termini di docente-studente e studente-docente, cioè anche un insegnante che impara e uno studente che insegna, come ruoli basilari della partecipazione della classe. Questo concetto viene ripreso anche nel suo ultimo scritto pubblicato in Italia, "Pedagogia dell'autonomia", dedicato alla tematica della formazione docente. In esso Freire afferma con forza che "non c'è insegnamento senza apprendimento", evocando il suggestivo concetto di "do-discenza" (docenza/discenza). Ciò in piena coerenza con il suo stile linguistico, tendente in molti casi a presentare due termini contraddittori per cercarne una conciliazione. È un tentativo di implementare qualcosa di simile alla democrazia come metodo educativo, e non meramente un obiettivo dell'educazione democratica. Come Dewey, per il quale la democrazia era una pietra di paragone, non integrò pienamente pratiche democratiche nei suoi metodi. (Comunque questo era, in parte, in funzione dell'atteggiamento di Dewey riguardo l'individualità). Tuttavia, al suo inizio, il rigido modo di fare questo genere di classe è stato più volte criticato sulla base dell'osservazione che esso può mascherare più che superare l'autorità dell'insegnante. Tutto dice ancora una volta che in Paulo Freire è rintracciabile una teoria e una gnoseologia– non una metodologia multiuso –tale da consentire una lettura del mondo che implica curiosità. Dalla quale discende un sapere come pratica della libertà. Non circoli di educazione dunque, ma circoli di cultura. Non educatori come facilitatori, ma come problematizzatori.  Non è vero che c'è un'unica educazione, come non è vero che un solo mondo è possibile. In una fase nella quale lo Stato ha perso la sovranità sull'educazione, che è passata al mercato. Una crisi che si riflette all'interno del rapporto tra insegnante ed alunno. Problemi che ci riguardano molto da vicino se i sedicenti tentativi di riforma della scuola ripropongono gli incentivi e le vecchie confusioni intorno al merito, sulle quali si sono avute dispute teologiche per ben due secoli. La verità di oggi, infatti, è la giustizia. Occorre innanzitutto prendere le distanze da modelli teorici e pratici di educazione ancora troppo simili a quelli che Freire definiva «depositari» o «bancari», volti a trasmettere la conoscenza predefinita da chi sa a chi non sa. Mentre è facile cogliere il persistere di logiche e pratiche depositarie in slogan che affermano che «questo è l’unico mondo possibile», nel lievitare di nuove forme di istituzionalizzazione, nel dilagare di modelli educativi normativi e punitivi, in azioni formative dove il sapere tecnico disconosce quello esperienziale al punto da espropriare le persone della propria soggettività progettuale e consegnarle al non senso del vivere.

Costruire spazi di giustizia
Nella realtà italiana ed europea il lavoro educativo critico, problematizzante e dialogico -come viene proposto nella prospettiva della pedagogia freiriana- si realizza in concrete situazioni sociali di discriminazione ed esclusione dei gruppi minoritari e socialmente deboli. Non si può uscire dalla povertà senza i saperi dei poveri, ma i poveri non sempre possono uscirne solo con i loro saperi. Il paradigma della planetarizzazione -a differenza della logica della globalizzazione neo-liberista- è orientato a costruire un senso di cittadinanza planetaria, fondato su legami irrinunciabili di interdipendenza tra le persone e tra le popolazioni, che realizzino condizioni di effettiva sostenibilità. In questa prospettiva planetaria anche la cittadinanza assume una nuova fisionomia, innanzitutto come consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini, i popoli e il pianeta. L’educazione è elemento centrale per lo sviluppo di tale coscienza, che induce a una consapevolezza più ampia e profonda dei problemi del mondo. Non esiste, pertanto, solo la collusione con l’illegalità, per quanto diffusa. Esiste anche la resistenza a tale violenza che si esprime nell’autorganizzazione fra cittadini, per risvegliare le coscienze, denunciare i soprusi, intraprendere a livello sociale, culturale, economico rendendo visibile la possibilità di percorrere strade fondate sulla dignità delle persone. In che modo –si chiede il documento posto a base dei lavori del convegno torinese– le diverse forme di resistenza all’illegalità sono una possibilità per tutti per educarsi insieme alla libertà e alla cittadinanza attiva, fino a riformulare gli stili di vita nelle comunità locali? Quali germi di democrazia, di politica, di economia, di impresa emergono per la ricerca di alternative all’attuale modello di sviluppo socio-economico, con le sue ricadute sulla vita democratica? I principali intenti del Forum sono, quindi: riflettere criticamente sul modello civilizzatore dominante che l’epoca contemporanea sta proponendo, le sue forme, logiche e conseguenze; condividere e valorizzare le esperienze e le prassi educative e di lavoro sociale e culturale in atto nei diversi contesti internazionali che esprimono concretamente condizioni di convivenza alternative ai modelli dominanti. Conclusivamente, se i gruppi disseminati sul territorio che praticano l'animazione sociale e politica vanno elaborando proposte in ordine a un altro mondo possibile, è altrettanto possibile che anche una politica esausta, perché priva di fondamenti, ritrovi coraggio e lucidità e ricominci, in nome della giustizia, a ripensare se stessa e a correre per un mondo che ha lasciato alle spalle vecchi vizi e antiche malattie. 



La politica che vorrei
di Giovanni Bianchi
 
Karl Marx (disegno di Giacinto Ferraro)

Lotta di classe?
La politica che vorrei è ovviamente la politica che non c'è. E la politica che c'è mi spinge a immaginare. La politica che vorrei è anzitutto una politica che non si divida tra pro-renziani e quelli che sono contro. E quelli che prima stanno con Renzi e poi stanno contro Renzi: al punto che non si capisce se siano contrabbandieri oppure finanzieri. Perché anche il narcisismo di Renzi, il suo fare il ragazzaccio fiorentino e la sua volontà di potenza, sono dentro un trend collettivo, italiano, europeo. Un Es più che un Io. Per cui oltre a Machiavelli bisogna oramai scomodare anche Lacan. Dentro una fase nella quale è sempre opportuno il vecchio vezzo, solo parzialmente "materialista", di partire dando uno sguardo alle tendenze e ai dati strutturali, come fa il libro sul nuovo capitale di Thomas Piketty. Che ha ragione nel ricordarci che il capitalismo col quale stiamo facendo i conti non solo è post-fordista, ma vede i possessori di rendite avvantaggiati e insediati al posto degli antichi padroni delle ferriere. I petrolieri sul trono e gli imprenditori che arrancano.
Continua cioè nella globalizzazione la lotta di classe sotto altre forme, ma continua (anche in Europa e anche in Italia). Questo sta dietro il consumismo e il narcisismo che vi inerisce, e li programma. "Scegli di essere unico, e porta i capelli come quel cantante"..., quante volte te l'hanno detto. Tu dunque compra quest'automobile tedesca, che con i tuoi capelli non c'entra nulla, ma c'entra moltissimo con il tuo esagerato narcisismo indotto, minuto per minuto, da sopra e da fuori dal capitale globalizzato.
E in Italia? La contesa è intorno a Renzi, che imperversa nell'immagine, piuttosto che intorno ai partiti che intanto si congedano e definitivamente defungono.
La guerra (di classe, oggi chiamiamola così in maniera sicuramente vintage) si è tramutata anche in guerriglia –storica e tradizionale– tra il centro e la periferia, dove la contesa è quella, anch'essa tradizionale e addirittura nazionalpopolare, tra centralismo statale e potenziale federalismo. In palio le carni vive e lo scalpo dei "corpi intermedi".
La politica senza fondamenti li bypassa per frantumarli. Si rivolge pubblicitariamente alla pubblica opinione per allentarne i legami, disunirne le giunture, farle morire per una sorta di Sla sociale. Una tranquilla carneficina dove i soggetti decrepiti e pensionati – addirittura enti inutili, perché anche gli uomini anziani possono apparire tali come nella vicina Svizzera – vengono spazzati via, creando deserto sociale e istituzionale e rafforzando la macchina mediatica, che non è certamente neutrale.
E che non ha nessuna voglia di neutralizzare, come facevano un tempo le istituzioni.
Problema: esiste una democrazia mediatica,  pubblicitaria e leaderistica?
Mi schiero per una democrazia senza aggettivi: nuda, che si dà regole perché non si fida di se stessa, culturalmente esplicitamente protestante e filosoficamente kantiana. Infatti ho dovuto riflettere e mi sono convinto che esista, come recitano i tedeschi, un "potere demoniaco del potere". Quindi si tratta di saperlo, di contenerlo, di regolarlo, di gestirlo: tutti compiti della democrazia, che è un bene comune, sostanziale, metodologico (Lazzati) e sicuramente umano (Trentin), almeno quanto il lavoro che non c'è.

L’articolo di De Bortoli
La politica che vorrei è quella che sa collocare al posto giusto l'intervento di Ferruccio De Bortoli, il direttore uscente del "Corriere della Sera", sul premier, la sua immagine, la sua azione, gli effetti sulla nostra democrazia.
Scrive De Bortoli il 24 settembre 2014: "Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere".
Si tratta, come s'usa, di un auto-scoop: l’incipit tacitiano e la scansione quasi lapidaria dei paragrafi li segnalano come una modalità della scrittura nell'universo dei direttori di giornale e dei conduttori di talkshow, oramai assunti nel mondo della comunicazione non a livello di ospiti o registi, ma di protagonisti tout court della politica dell'immagine, con un loro peso specifico che può essere aumentato dalla scelta dei tempi.
In assenza della forma partito i soggetti politici, personali e collettivi, si sono infatti moltiplicati occupando uno spazio vuoto ed esercitando potere oltre che pressione. Anche gli altri direttori sono soggetti politici, così come Fabris, Santoro, Giannini e l'eterno Vespa, come pure la tradizionale Radio Radicale, la radio del "Sole 24 Ore", Radio Popolare e perfino Radio Maria.
Quindi l'intenzione di De Bortoli è senz'altro politica, a prescindere dall'input personale, dalle dietrologie sui gruppi economici e di potere che controllano il "Corriere" e che potrebbero avere motivato l'intervento o addirittura averlo subito.
Quel che mi importa rilevare è che Ferruccio De Bortoli pone un problema di democrazia, evocando e quasi strattonando fuori dall'ombra un soggetto al quale le vicende italiane sono avvezze dai lontani tempi dell'unità nazionale: lo "stantio odore di massoneria". De Bortoli anzi si premura d'essere preciso e puntuale evocando una scadenza altamente istituzionale: "Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria", appunto.
Qui giace il problema. Perché i patti segreti si accompagnano alla politica e la determinano: non a caso il decisionismo ha posto anche in Italia più volte l'accento sugli arcana imperii (Gianfranco Miglio). Qui si colloca il luogo della resurrezione di Berlusconi e dello scudiero Verdini, dei loro tradizionali legami con ambienti finanziari e politici abituati a vivere nell'ombra e con una preferenza dichiarata per le penombre.
Si sa che i patti segreti possono produrre effetti consistenti, proprio perché messi al riparo dai controlli democratici. È altrettanto risaputo che non riguardano soltanto la situazione italiana. E non c'è bisogno d'aver visto il film di Nanni Moretti sul "Caimano" per farsene un'idea. Del resto Berlusconi e i suoi –vedi Marcello Dell’Utri e Cesare Previti– sono abbondantemente noti alle cronache per frequentazioni quantomeno chiacchierate.
Non amando le dietrologie e tenendomene generalmente lontano, lascio ad altri il compito eventuale di far luce sugli arcana imperii. Quel che a me invece importa  mettere in rilievo è come una buona parte degli atti di governo e degli "annunci" del premier risultino per così dire "a risparmio di democrazia": nel senso che nuovi spazi di "vecchia o antica" democrazia vengono di volta in volta bypassati ed erosi. Così è per l'articolo 18 e i problemi del lavoro nei confronti del sindacato che, al di là dei suoi ritardi, delle vistose e insopportabili latitanze, degli inevitabili errori, resta comunque uno dei "corpi intermedi" fondamentali di una democrazia funzionante e delle sue possibili evoluzioni.
Vedi caso, intorno al nome e al ruolo dei "corpi intermedi" la Costituzione del 1948 e la tradizione della dottrina sociale della Chiesa convergono in maniera virtuosa e impressionante. Insomma, al di là delle intenzioni di De Bortoli, che poco m'importa indagare, si segnala in maniera vistosa il fatto che il decisionismo mediatico renziano tende a travolgere con la velocità che ne è lo stigma troppe, storiche e corpose procedure e garanzie democratiche.
Né si tratta soltanto del gusto e della rassicurazione di una necessaria liturgia laica. Già la circostanza che il patto del Nazareno resti occulto e la certezza diffusa che comunque produca effetti stabili e venga gelosamente osservato da entrambi i contraenti (Berlusconi stesso manda ogni volta a vuoto le intemperanze dei suoi colonnelli) pone un problema che attiene all'informazione e alla trasparenza di una convivenza democratica ed istituzionale. Ai rapporti di forza ad essa sottesi, alla legittimità dei patti e dei soggetti contraenti.
Non sono così ingenuo da ignorare che anche una politica democratica non può non tenere in conto i rapporti di forza, ma la circostanza di una maggioranza reale in Parlamento che surroga e conta di più di quella pattuita e palese non è tale da fare chiarezza e accrescere la salute di una democrazia da tempo cagionevole.
E torna come un martello insistente il giudizio sturziano: la democrazia è un bene comune, e non è un guadagno fatto una volta per tutte.

Il frigidaire della democrazia
La politica che vorrei è quella nella quale venga riconosciuto come diritto essenziale e democratico che ognuno possa guardare la democrazia dal punto di vista che ha ereditato e scelto. Anche quelli che dovrebbero meditare. Insomma, voglio anch'io le decisioni, le soluzioni, ma non mi parranno tali se non saranno raggiunte esercitandosi democraticamente. La questione che intriga non è destra o sinistra. È una questione – semplicemente? – di democrazia. La democrazia insomma non è la democrazia mediatica, la cui iperbole è già stata mandata in onda e sputtanata da Beppe Grillo. Inutile dunque imitarlo, senza dirlo, con variazioni sul tema.  Alla democrazia cioè vanno tolti gli aggettivi. O è nuda, o non è.
Perché altrimenti questa politica non serve a fare politica. Perché se non si critica il consumismo non si esce dalla crisi di questa politica. Non basta al manager in carriera e ai giovani politici in carriera aver sostituito allo straccetto inutile della cravatta la splendente camicia bianca senza cravatta e con i polsini arrotolati: é ancora status symbol (come la canotta di Bossi, ospite più di un decennio fa dal Berlusca in Sardegna).
E smettiamola anche di dire che dentro il PD i rapporti tra maggioranza e minoranza non possono esplicitarsi in opposizione perché davvero labili, dopo la fine delle ideologie, sono le differenze culturali che li separano. Un'ideologia comune invece c'è, e attraversa tutto il personale politico: quella del posto, di quelli che si sentono maggioranza e che il posto vogliono mantenerlo e incrementarlo; di quelli che si avvertono minoranza e non vogliono perderlo.
Credo di non essere il solo a muovere dentro un senso di novità spaventoso. "Dentro il reale con il senso del possibile", fa scrivere Ciotti sulla pubblicità di Animazione Sociale. E invece questa politica –di cui anche Renzi è parte dell'Es, e forse non lo sa– usa toni sempre allegramente decisionisti, sul pentagramma del nichilismo di Manganelli.
L'è el dì di Mort, alegher !  Tessa era bravo. E questi sono bravissimi a raccontare barzellette al funerale. E noi abbiamo una gran voglia di crederci, per fuggire lontano dall'abisso. Ma le parole ogni volta non bastano. La democrazia dell'audience e della decadenza non tematizzata questa circostanza drammatica, che è lì. La decadenza dell'Occidente pure.  Non basta un bicchierino.
Ha ragione il vecchio Pierre Carniti –un secolo fa leader indiscusso dei metalmeccanici– quando rispondendo a una domanda sulla modifica dell'articolo 18, così si esprime: "Discussione da macchina del fumo, un modo per parlar d'altro. Poi si troverà un accrocchio".
Perché sull'articolo 18 non si può ragionevolmente andare oltre quello che hanno già fatto i governi precedenti.
Quanto ai muscoli mostrati dal leader nei confronti del sindacato, discendono dalla facilità e dal vantaggio pubblicitario di "bastonare il can che affoga". E intanto i governi di questi anni, da Berlusconi a venire in qua, hanno progressivamente reso più flessibile il mercato del lavoro e nel frattempo la disoccupazione ha continuato ad aumentare.
Si è così tornati alla concezione della prima metà del Novecento italiano, che aveva espropriato le parti sociali di ogni autonomia con una riforma del lavoro affidata alla politica. Insomma, anche a prescindere dal posizionamento sicuramente e sinceramente sindacale di Carniti, è impossibile non vedere come i provvedimenti del governo, soprattutto per le modalità di esercizio, comportino di volta in volta una diminuzione del tasso di democrazia che c'è, della democrazia che ancora a fatica conserviamo.
E anche la democrazia è un bene comune –almeno quanto il lavoro– e non può essere considerata un frigidaire dal quale i governanti possono servirsi di giorno e nottetempo, di ritorno da un talk-show, senza mai ricaricare i piani delle vivande.
Un vezzo che ricorre in questo ventennio di decisionismo mediatico e che mi ha fatto venire in mente l'annuncio pubblicitario ricorrente sui quotidiani del grande venditore di tappeti Cohen che, dopo 54 anni di intenso lavoro e avendo già un anno fa dichiarato la chiusura definitiva del negozio, dice: "Eccomi sempre qui ad attendere l'agognato momento per poter andare in pensione"..., ma le trattative per l'affitto del negozio vanno in lungo e gli sono rimasti disponibili ancora 3000 tappeti: quindi continuerà a vendere tappeti…

E gli altri?
"Et les autres?", era questa la domanda dell'Abbé Pierre. Bisognerebbe tornarci, e tornarci con lo sguardo acuto ( che talvolta per capire deve risultare strabico) di chi sa che l'Europa è in decadenza e gli Usa in irrimediabile ritardo. Basta mettere il naso fuori di casa e guardare al "vicino" e negletto Continente Nero.
Perché l'Africa ha da tempo allargato le sue braccia verso le grandi potenze emergenti, Cina, prima di tutti, ma anche India, Brasile, Corea. Dal 2009 la Cina è diventata il primo partner commerciale del continente africano. Gli investimenti cinesi nel 2013 sono valutati a 25 miliardi di dollari e più di 2500 aziende cinesi hanno investito in Africa. L'Africa infatti avrà 2 miliardi di abitanti nel 2050 ed è un mercato di sbocco perfetto per le merci a basso costo.
La Cina è il "grande fratello" dei paesi emergenti, tra cui si annoverano via via anche le nuove potenze africane, oltre al Sudafrica, come la Nigeria, Angola, Etiopia, Mozambico, Ghana. Per questo – come sostiene Riccardo Barlaam su "Nigrizia" – "Il vertice di Washington è arrivato tardi. L'Africa ha già scelto con chi stare". E la vecchia Europa neppure riesce a fare il convitato di pietra.
Chi intanto insiste nel pensare e farci pensare agli altri è papa Francesco (che Dio lo conservi). L'esortazione apostolica Evangelii Gaudium continua ad essere una forte denuncia dell'economia del "lasciar fare", vale a dire -come scrive Luciano Venturini– "dell'idea che una economia di mercato possa essere lasciata ai suoi normali e spontanei meccanismi senza che questo comporti non solo conseguenze positive in termini di sviluppo e crescita, ma anche l'emergere di seri problemi e rischi".
Si tratta invece di visioni e ideologie che così instaurano una nuova tirannia invisibile, che conducono ad una eccessiva produzione di beni privati rispetto ai beni pubblici, e naturalmente a una distribuzione non equa del reddito e della ricchezza.
Si tratta ancora di "fallimenti del mercato" che devono essere corretti attraverso appropriate misure di governance. E ovviamente non manca la dottrina sociale della Chiesa anche in questo caso di richiamare con forza la necessità di un impegno etico a fronte dei grandi drammi concreti e dei costi inaccettabili.
In particolare il Papa mette sotto la lente di ingrandimento l'esistenza di un'economia dell'esclusione come fenomeno nuovo: con l'esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l'appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi o nella periferia, o senza potere: bensì si sta fuori. E Francesco a questo punto non è né moderato né lieve: "questa economia uccide". È un linguaggio indubbiamente forte e chiaro, che peraltro, a ben leggere, non è una novità assoluta nella dottrina sociale della Chiesa.
In particolare finisce sotto la lente di Francesco la cosiddetta economia del trickle-down (Stiglitz): che si traduce con "ricaduta favorevole", e che papa Francesco scrive "non è mai stata confermata dai fatti". Cosicché il numero delle persone che vivono in estrema povertà rimane molto e troppo elevato, arrivando a coinvolgere circa un miliardo di persone.
Da qui il secondo allarme planetario lanciato dal Papa: ci troviamo di fronte a una "globalizzazione dell'indifferenza". Un'indifferenza che attraversa il nostro privato e che adora i "nuovi idoli" consentendo il permanere della "dittatura di una economia senza uno scopo meramente umano" (par. 55 di EG).
Sulle orme della Caritas in Veritate di Benedetto XVI papa Bergoglio ripropone un serio esame di coscienza sui nostri stili di vita e un effettivo cambiamento di mentalità, dove tuttavia papa Francesco è sempre esplicito e molto chiaro nel rifiutare il "lasciar fare", e nel sottolineare che all'interno dei normali meccanismi di mercato non operano di per sé motivazioni etiche elevate: queste anzi vanno ricercate "al di fuori delle categorie del mercato" (par. 58).

Eppure
La politica che vorrei è una politica avvertita anzitutto che la coscienza della gente non è quella di papa Bergoglio... Anche se l'autunno comincia con l'Italia in recessione.
Sembra quasi che economia e politica si mettano insieme la mano davanti agli occhi per non vedere la difficoltà. Così non vediamo che l'Europa  (del Nord) non intende modificare le sue politiche di rigore, come l'Italia e la Francia chiedono da tempo. Che lo stesso decreto sblocca Italia che dovrebbe dare il via agli investimenti darà i suoi effetti fra due anni, come ha affermato il ministro dell'Economia. Che non serve irridere dall'alto del governo le critiche che gli sono state rivolte, e che il gioco non potrebbe funzionare più.
E del resto Sel da una parte e la Cgil dall'altra non sono riusciti finora a scalfire né con la critica né con la proposta la forza del "renzismo". Per cui il consenso o il dissenso rispetto a quello che farà il governo in questo autunno comincerà direttamente dai cittadini e dall'opinione pubblica, se mai comincerà in un Paese più dedito alla depressione che al furore delle lotte. Basta voltarsi indietro ai mesi dell'estate e dare uno sguardo alle vacanze ai tempi della crisi.
I vacanzieri italiani –diminuiti di numero ma non nelle intenzioni–  hanno dato l'impressione di compiere "scelte temporanee" in attesa di un prossimo e nuovo scatenamento sui fronti del consumo.  Adesso tiriamo la cinghia, ma senz'altro l’allenteremo presto. Dieci giorni in meno, ma niente rinuncia alla cafoneria dei simboli che strutturano il senso di una vacanza consumistica. Si è persa l'occasione di guardare al fondo delle cose e del cumulo di merci e di ingiustizie che caratterizzano i nostri giorni consumistici. "Cambiare verso", senza cambiare però abitudini recenti ma già radicate: la crescita del consumo vistoso non si discute e neppure la sua prospettiva perché quel che non può essere messo in discussione è il destino   –interno ed esterno alla persona umana– del consumo.
Crollano gli Stati intorno a noi, ma la maestà del consumo appare tuttora in estensione, non criticata e non scalfita.
Ha voglia in uno splendido articolo Claudio Cagnazzo a ricordarci su "Rocca" che "non sarà questa l'ultima crisi se non ci  accorderemo anche con noi stessi per cambiare veramente verso". E ci mette pure il bravo Cagnazzo il carico di padre Dante: bisogna imparare che "fatti non foste a viver..." con quel che segue, e che si può ben intendere "come il lamento di un italiano di valore per la scarsa attitudine alla virtù dei connazionali". Ragione per la quale da un paio di secoli ci siamo abituati a considerare i migliori tra noi –i più etici– come "anti-italiani". (E pensare che aveva incominciato proprio Leopardi.)
E intanto continua questa insensata gara a diventare, come dice un saggio milanese, "il più ricco del cimitero".

E se cominciassimo?
La politica che vorrei è quella con il coraggio di cominciare dall'etica e dall'educazione.
E se ricordassimo ancora una volta che Aris Accornero fa risalire fin dal lontano 1993 la crisi del sindacato non all'economia e neppure ai partiti, ma alla spinta all'egualitarismo che ha prodotto un generale appiattimento? Anche qui una causa endogena e non conseguente dai dati strutturali.
Eppure il tema del lavoro è "la questione", più dell'economia.
E non abbiamo proposte, anche perché non sappiamo distinguere il lavoro dalla professione e riconoscere che il concetto di lavoro è molto più ampio di quello di professione.
Così stiamo generando generazioni di depressi: e la ragione costante è che il nostro oggi ha nome consumo, e da "questo oggi" si è fatto impossibile immaginare e programmare il futuro.
Ci siamo abituati ad acquistare i frutti fuori stagione, senza un minimo di sussulto critico. Gli stili di vita si sono fatti trasversali tra i ceti e le classi. Le liturgie economiche planetarie si raccolgono intorno ai totem dell'elettronica. Eppure non sappiamo riconoscere –neppure noi italiani che l'abbiamo scritto nella Costituzione del 1948– che la nostra società non è fondata sul lavoro ma sul consumo.
Così abbiamo incrementato le tecnologie e molto meno le scienze. Ma anche l'idolo della tecnologia, come tutti gli idoli, ci rende sterili e devastati. Siamo arrivati oramai a consumare il risparmio, ossia il passato che è il passato dei nostri anziani.
E quando non ce la fai più ti congedi dall'esistenza. Si è inventata, nel linguaggio, la "morte dolce". Ventimila le "morti dolci" nelle cliniche svizzere.
E invece il problema del lavoro resta davanti a noi. Perché il lavoro è eccedente qualsiasi disciplina. Anche qui l'approccio etico non può essere lasciato fuori dalla porta, perché è un problema dell'etica del lavoro il fatto che la gente cambi. Anche qui dobbiamo riuscire a cambiare verso per cambiare la realtà, ed è tempo di muoverci oltre le illusioni dell'incentivo e del merito.
Perché cambiare lavoro significa anche cambiare la scuola e cambiare l’ideologia del ritorno alla crescita e del ritorno ai consumi sfrenati. Avendo coscienza che nei prossimi anni non ci sarà la creazione di lavoro senza redistribuzione del lavoro.
Voglio insistere sull'argomento. La mossa vincente della lotta di classe, dove gli imprenditori vincono,  è delocalizzare il lavoro mentre il sindacato, che non ha saputo globalizzarsi, non è in grado di inseguire, disciplinare, organizzare umanamente (Trentin) il lavoro, sindacalizzarlo nella dimensione dei tempi nuovi.
La politica che vorrei è una politica in grado di pensare che bisogna creare sindacalisti cinesi, indiani, del Bangladesh.
Non si crea un posto di lavoro: si crea un posto di lavoro nella chimica, nell'informatica, nell'artigianato, nell'agricoltura. Non esiste il posto di lavoro in sé. Non ha senso pensare al posto di lavoro a prescindere da una reale politica industriale.
Non si creano posti di lavoro nella ricerca e nelle tecnologie avanzate a prescindere o lontano, troppo lontano, dalla base produttiva diffusa e "povera".
Perché erano inventive le tute blu di Sesto San Giovanni e di Torino e perfino l'operaio massa? Perché giocavano genialmente tra la domanda e l'offerta di lavoro, che c'era, e il capitale, che c'era.
La Germania sta cessando di essere un esempio: rischia a sua volta di trasformarsi in un "residuo" paretiano.
Insomma, "stiamo prendendo la mucca dalla parte delle balle"..., dice il Bollini, mio compagno di banco, brianzolo  pensoso, al liceo Zucchi di Monza.
E Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d'Italia, sta perdendo la "sestesità" e diventando una ordinata e respirabile città-dormitorio dell'hinterland milanese.
È colpa del sindaco e della giunta? No, è il lavoro in fuga che se ne va.
Resisterà per poco anche l'ultima cultura fordista della solidarietà, destinata a sua volta ad una rovinosa obsolescenza.

Una proposta "alta"
La politica che vorrei è una politica finalmente capace di una proposta alta.
Una proposta alta è quella avanzata a Torino dal Forum Paolo Freire. Ovviamente, per ragione sociale, a partire dalla scuola, dove si osserva che i quiz prevalgono sulla relazione. D'innovativo in Italia solo i corsi con i detenuti nelle carceri.
Resta comunque da affermare che la parola è nell'educazione e in politica importante per rompere il silenzio ma anche per non essere frastornati.
Senza memoria non si correggono gli errori né si crea identità. Si tratta ovunque –non soltanto nella scuola ma in tutta la società– prima di ricreare il contesto coeso e poi di accogliere. Proponendo l'amorevolezza al posto dei metodi.
Mentre non è concessione allo spirito del tempo una alfabetizzazione ecologica, che chiede di essere portata avanti. E invece ci imbattiamo in tante nano-innovazioni che producono nano-mutamenti.
Senza omettere la speranza, che non è figlia della disattenzione: Freire ricordava infatti che anche per il carnefice c'è stato un momento in cui è stato oppresso.
Resta da ultimo il solito discorso sugli strumenti, che significa il rapporto tra la struttura delle istituzioni e il ruolo della politica. Detto in termini tradizionali ed un po' aulici: Stato e Partito. È un chiodo fisso per me, e quasi un lamento. Disperato dall'inerzia casalinga continuo a guardare fuori casa, vicino e lontano, anche lontanissimo.
Prendiamo ad esempio la Cina, il Paese tra tutti emergente e il più emerso.
I cinesi hanno superato da anni 1 miliardo e trecento milioni di abitanti. Si sono posti per tempo, dal loro punto di vista, il problema degli strumenti di governo. Il partito è la struttura fondamentale fattasi elefantiaca. Lo Stato non è che il riflesso.
Gli iscritti al Pcc sono ottantasei milioni e mezzo. L'accesso al partito implica un percorso di almeno tre anni. Negli ultimi 15 anni si è assistito a un rafforzamento delle istituzioni statali. I gruppi dirigenti si alternano senza più le convulsioni dei decenni scorsi.
Al centro del programma di governo del nuovo leader è la lotta alla corruzione. Il tradizionale pragmatismo cinese (e confuciano) ha come obiettivo dichiarato la "società armoniosa", che quantomeno significa preoccupata coscienza delle forti differenze e disuguaglianze che attraversano la popolazione.
È chiaro che il Pcc deve organizzare la realtà sociale attraverso la negoziazione con le componenti. È altrettanto chiaro che i rapporti e la comunicazione tra le strutture del politico vengono assicurati dal cumulo delle cariche tra Partito e Stato. È chiaro anche perché si è detto che lo Stato è la facciata del Partito.
Perché questo riferimento alla Cina? Perché è un grande Paese e si è collocato in vetta agli emergenti. Perché si è posto il tema centrale degli strumenti del politico e degli strumenti di selezione del personale politico. Dunque, guardare alla Cina per fare diversamente e trovare altre soluzioni non è perdere tempo e neppure essere strabici.
La politica che vorrei non è una politica di cortile, che si spaventa alle Colonne d'Ercole.
Una politica capace di guardare al mondo globalizzato e di pensare come possa essere riorganizzato il proprio quartiere. Forse, la politica che vorrei è soltanto la politica che vorrei.

 

                                                                                       

De Gasperi e Togliatti
per misurare le distanze
di Giovanni Bianchi

Ancora sul guadagno del reducismo
Talvolta della storia è più utile l'inattualità dell'attualità. E comunque sempre la storia è essenziale per costruire un punto di vista dal quale giudicare le vicende in corso. L'unico modo per non finire in una osservazione banale ed acritica degli avvenimenti. Anche se il magistero della storia oggi, o di quella che consideriamo tale, consente piuttosto di misurare le distanze che le vicinanze dalle politiche vigenti. Perché occuparsi della distanza chiarisce la differenza con la politica attuale "senza fondamenti" e totalmente attraversata dal linguaggio e dalla logica della pubblicità.
È sufficiente ricordare in proposito un consiglio più volte ripetuto dallo statista trentino. Diceva infatti De Gasperi: “Il politico deve promettere un po' meno di quel che è sicuro di mantenere”…
Corriamo il rischio di dover constatare che il pieno dispiegamento della "politica senza fondamenti" rischia di farci apparire, rispetto al magistero e ai grandi del passato, anche recente, nani figli di giganti. Con un effetto deprimente che non aiuta a capire e tantomeno motiva ad agire.
E tuttavia il guadagno costituito dalla individuazione di un punto di vista è tale da spingere a correre il rischio: il rischio cioè di continuare a considerare la storia magistra vitae. Purché i reduci abbiano l’avvertenza e l'umiltà di riconoscersi come tali.
Il reducismo presenta anche un altro vantaggio costituito dallo scorrere del tempo che affievolisce le passioni ed i loro contrasti, di modo che De Gasperi e Togliatti appaiono far parte non solo di una medesima stagione storica, ma anche di un medesimo orizzonte ideale, sia pure attraversato da aspri contrasti: prospettiva che li accomuna non soltanto nel patrimonio culturale degli italiani, ma anche in un lavoro, sia pure dialettico, di ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra.
Voglio dire cioè che si possono ancora trovare in giro tra gli antichi militanti delle parti avverse i richiami della foresta, ma che le foreste di quel tempo non ci sono più per nessuno, di modo che chi ha dichiarato sul sagrato o in consiglio comunale di voler morire democristiano o comunista, può senza ipocrisia e a buon titolo considerare del tutto propria l'eredità e di De Gasperi e di Togliatti: tutti e due insieme.

Palmiro Togliatti

 Il punto di vista
Dossetti mi ha ripetuto più volte che è impossibile leggere sul serio la Costituzione italiana a prescindere dalla tragedia della guerra che l'ha per molti versi determinata. Lo stesso vale per Togliatti e De Gasperi: due formazioni culturali agli antipodi, due leaders e due capipartito l'un contro l'altro ideologicamente armati, e che tuttavia convergono su punti di analisi fondamentali e comuni. Emblematico per entrambi il giudizio sul fascismo.
Rivelatrici in tal senso, per acutezza e puntualità della documentazione, le lezioni tenute sul regime mussoliniano ai quadri comunisti da Togliatti a Mosca. Togliatti invita a non sottovalutare le radici del consenso sulle quali il fascismo è riuscito a costituirsi e a prosperare. Molto acuta la diagnosi sul dopolavoro fascista, luogo considerato dal leader comunista come strategico nel mondo operaio per l'acquisizione del consenso.
È curioso osservare che, in campo cattolico e con intenzioni polemiche diametralmente opposte a quelle di Togliatti, al medesimo giudizio perverrà Luigi Gedda, fondatore e capo indiscusso dei Comitati Civici -bastione diffuso sul territorio in campo cattolico in funzione essenzialmente anti-comunista-, che non a caso si candiderà a recuperare e continuare le strutture fasciste, assistenziali, dopolavoristiche e sportive, riciclandole nell'Italia democratica e democristiana.
De Gasperi, dal canto suo, avendo deciso di opporsi al rilascio della tessera democristiana al leader cattolico e contadino Guido Miglioli, che si era spinto a proporre un'alleanza tra Roma e Mosca per evitare derive centriste, non userà gli argomenti di Stefano Jacini junior, attento all'unità dei cattolici e alle pressioni che da oltre Tevere faceva monsignor Montini, ma chiederà alla federazione cremonese gli atti di un carteggio con Farinacci, nel quale il Miglioli aveva sostenuto una coalizione per la pace che tenesse insieme Roma, Berlino e Mosca. Posizione quella di De Gasperi che, ancora una volta, può essere paragonata a quella di Togliatti che, nel suo primo discorso italiano di rientro da Mosca sosterrà apertamente che "noi non faremo come la Russia", contraddicendo volutamente e platealmente lo slogan del Congresso del 1921 a Livorno, fondativo del Pci, dove appunto l’intento era altrettanto chiaro: "noi faremo come la Russia".
E’ forse qui che va accolta, da subito, la radice della "doppiezza" togliattiana: la capacità e direi addirittura l'ossimoro storico di tenere saldamente insieme la fedeltà alla democrazia e allo stalinismo. Operazione a dir poco incredibile, eppure riuscita, in grado di dar conto delle sorprese della storia, che non sono cominciate con la caduta del Muro di Berlino.
Quando Renzi in mezza giornata dirime il problema della adesione del Partito democratico al Pse europeo, non taglia nessun nodo gordiano: ha la lucidità invece di vedere che quel nodo non esiste più.
Togliatti invece è riuscito a gestire una posizione a dir poco complicata per decenni. Quel medesimo Togliatti che peraltro, da ministro guardasigilli, sarà il fautore dell'amnistia nei confronti degli ex fascisti impiegati nella pubblica amministrazione.



Il senso della storia: il discorso di Bergamo
E’ ancora comune ai due leaders – e non potrebbe essere diversamente vista la statura di entrambi – un grande senso della storia. Per Togliatti, al di là della ricostruzione, pur utile dei retroscena, viene in rilievo il famoso discorso di Bergamo sui rapporti con la religione.
Ne dà conto Un testo pubblicato recentemente: Palmiro Togliatti e papa Giovanni. Cinquant'anni dopo il discorso "Il destino dell'uomo" e l'enciclica "Pacem in terris".
Si tratta di un libro collettivo che merita un'attenta lettura perché affronta i temi di un confronto che i nostri giorni dichiarano tutt'altro che congiunturali. Purché si abbia la pazienza di leggere, magari di studiare e non si sia persa l'abitudine a discutere. I temi infatti che riguardano il rapporto tra la religione e la modernità continuano a restare di bruciante attualità per la corretta pretesa delle religioni di avere voce nello spazio pubblico.
In fondo potremmo pensare al prolungarsi del dibattito tra Ratzinger e Habermas a Monaco di Baviera nel 2004.
Nel discorso tenuto nei primi anni Sessanta in un teatro di Bergamo, Palmiro Togliatti, contro le interpretazioni che connettono secolarizzazione e modernità, sostiene il permanere della religione e del suo senso e parla di "una compiuta religione dell'uomo" in una fase nella quale i partiti si presentano come interpreti degli interessi di lungo termine. Si tratta in effetti di percorsi che carsicamente sono destinati a riaffiorare e a dare frutti.
Discorsi basati su visioni di lungo periodo, quelle cioè che ci obbligano a tornare a discutere sui fini, mentre oggi abbiamo ridotto la discussione ai mezzi alternativi.
C'è ancora tra noi un rapporto tra visione e politica? Oppure la dissipazione della dignità della politica ha prodotto irreversibilmente il deserto della discussione, della critica e dei loro luoghi? Non mette in allarme il fatto che tutto ciò avvenga in presenza di poteri sociali globali? Non inquieta la mancanza di fini che caratterizza le nostre incredibili stagioni politiche? Finché continueremo a discutere soltanto sulla diversità dei mezzi?
Il conflitto è comunque ineliminabile (il conflitto, non la violenza) e attraversa tutte le regioni dello scibile. Stando alla testimonianza di monsignor Capovilla, il notissimo segretario del papa, la sera precedente l'apertura del concilio papa Giovanni XXIII telefona ai cardinali con voce alterata dicendo: "Non mi lascerò strappare il concilio dalle mani"!
Dunque, su un versante come sull'altro, ogni conquista culturale è frutto di fatica e di lotta. Né può fare eccezione un’enciclica come la Pacem in terris, alla quale si comincia a lavorare nell'ottobre del 1962.
Forse troppo rapida questa contestualizzazione, ma mi consente di situare i protagonisti del libro e di un necessario dibattito.
Togliatti. Togliatti è insieme un grande leader – e quindi più che con l'ideologia si confronta con la storia – e un grande intellettuale organico del comunismo internazionale. È come Gramsci, ovviamente, ma anche, meno ovviamente, come Aldo Moro che diceva che il pensare politica è già per il novantanove percento fare politica…
E da questa affermazione morotea è misurabile tutta la distanza del mezzo secolo che ci separa dal discorso di Bergamo del 20 marzo 1963.
Tanto più significativa se si fa mente locale sulla circostanza che è in corso la campagna elettorale, ma il segretario del Pci si tiene lontano dalle schermaglie tattiche del momento e si impegna in una operazione politica di altissimo livello, cercando di costruire il terreno per una collaborazione tra il movimento operaio e il mondo cattolico sui grandi temi del nostro tempo, sulla scia dell’impulso decisivo del pontefice, che segna davvero una «svolta» nella storia della Chiesa.
Dopo pochi giorni, l’11 aprile, viene promulgata l’enciclica Pacem in terris, nella quale giungono a piena maturazione i nuovi orientamenti dottrinali della Chiesa cattolica, con un impatto fortissimo sulla società italiana e sull’intera comunità internazionale.
Di papa Giovanni basterà ricordare non soltanto la celebratissima bontà, ma il genio storico e diplomatico che lo contraddistinsero all'interno di una dirigenza vaticana rispetto alla quale marcava una ascendenza popolare non addomesticata dal tirocinio diplomatico.
Significative in tal senso le sue iniziative alla nunziatura di Parigi dove riuscì, con bonomia mista a finissima sagacia, a colmare una distanza tra il governo e l’episcopato francese che discendeva dalle non poche connivenze delle alte sfere ecclesiastiche con il governo di Vichy.
Banale osservare che nessuno dei due – e il segretario politico e il papa – improvvisa, ma anzi si colloca all'interno di un lungo e accidentato percorso di elaborazione che, per parte sua, con genialità e determinazione, conduce a compimento.
Approfitterei di quest'osservazione per porre un tema centrale nell'enciclica giovannea Pacem in terris come nel discorso di Togliatti a Bergamo. Si tratta del lungo e faticoso percorso di una laicità comune nel nostro Paese, che vede i suoi prodromi nella Carta costituzionale (lì è l'incontro tra Togliatti e Dossetti a segnare le tappe) e  un punto di approdo evidente nei due testi che stiamo esaminando.

Il senso della storia: la dottrina sociale della Chiesa

Alcide De Gasperi

Per De Gasperi voglio anzitutto citare un libretto, compilato quand'era esule alla biblioteca vaticana e comparso per la prima volta nel 1929, dedicato alla storia e alla funzione della dottrina sociale della Chiesa.
Ma questo è tutt’altro rispetto alla nostalgia di una fase storica che lo stesso De Gasperi considerava provvisoria.
Uomo della Democrazia Cristiana. Ma più uomo di governo che di partito. Ultimo segretario del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Primo segretario della Democrazia Cristiana. La dialettica con Dossetti, più uomo di partito e, perché no?, di corrente rispetto a De Gasperi.
Per De Gasperi fondamento e orizzonte dell’agire politico e la dottrina sociale della Chiesa
Già nel 1928 per i tipi di “Vita e Pensiero” e poi nel 1931, sotto lo pseudonimo di Mario Zanatta aveva pubblicato un saggio dedicato a I tempi e gli uomini che prepararono la “Rerum Novarum”.
Esule e ospite come impiegato soprannumerario della Biblioteca Vaticana – dove rimase fino al 1943 – Alcide De Gasperi ci consegna  una chiave di lettura documentatissima.
La Dottrina sociale della Chiesa prende le mosse da esperienze di credenti (operai, artigiani, contadini) e a partire da essa, alla luce della Parola rivelata, elaborata le proprie analisi e linee direttive. Quindi, prendendo le mosse dal testo pontificio, nuove esperienze verranno suscitate e potranno dispiegarsi. Una sorta di coscienza del popolo di Dio in cammino tra le trasformazioni della storia: questa agli occhi di De Gasperi la Dottrina sociale della Chiesa.
Un filo che lega gerarchia e fedeli laici. Un filo al quale per De Gasperi anche la prassi politica non può rinunciare.

Le tre forme
Il ricordo di De Gasperi è nostalgia della DC? Non credo. Le tre forme storiche del partito di ispirazione cristiana (la DC murriana, il PPI sturziano e la DC degasperiana) ebbero il merito di far entrare a pieno titolo i cattolici nella storia politica del Paese, di salvarli dal gentilonismo, ossia dalla tentazione di agire solo per la tutela dei propri interessi e non di quelli generali, e infine di renderli forza di governo.
Le contraddizioni e le opacità del periodo democristiano, nonché l’avanzato stato di secolarizzazione della società e la diversa consapevolezza della presenza dei cristiani nella storia soprattutto all’indomani del Concilio Vaticano II , hanno eroso i fondamenti di quella presenza storica, e lo stesso fatto che la nascita del PPI di Martinazzoli nel 1994 fosse stata seguita da due scissioni sul lato destro nel giro di un anno credo sia indicativo dell’ esaurirsi di una fase.
Ciò non significa, beninteso, che il filone storico del popolarismo sia esaurito, ma che oggi quel filone può trovare una sua vitalità sia nelle “buone pratiche” dell’ associazionismo, sia anche nella prassi politica, saldando la domanda sociale con la risposta istituzionale, sapendo che comunque vi sarà sempre un’ eccedenza del civile e del politico rispetto alle istituzioni.

Il popolarismo

L’imprinting popolare di Alcide De Gasperi è reso evidente dalla attitudine, che fu comune ai costituenti, a tenere insieme l’osservanza della legalità repubblicana con l’attenzione alle garanzie sociali della convivenza. Come a dire: Costituzione e Stato Sociale. Perché così nasce e si legittima una cittadinanza a misura della persona.
Sturzo fu precursore. Il prete calatino prima fondò cooperative e poi il Partito Popolare. E anche da grande leader nazionale continuò ad occuparsi di Caltagirone: della latteria, della cartiera, del bosco di San Pietro. Lo Statista trentino non è da meno. Sua è una lunghissima lettera che fa da fondamento alle nascenti Acli, collocandole in un orizzonte entusiasmante e di formazione cristiana della militanza e di servizi territorialmente organizzati per i lavoratori. Anche per questo il professor Saba, presidente della Fondazione Pastore, ha potuto dedicare molte pagine a “quella specie di laburismo cristiano”. Sarà utile ritornare a un reperto prezioso: l’intervista rilasciata da Alcide De Gasperi e pubblicata da Corrado Calvo sulla prima pagina de “Il Messaggero” di Roma sabato 17 aprile 1948, la vigilia della grande consultazione popolare che avrebbe assegnato alla Democrazia Cristiana la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento con il 48,5% dei suffragi.
Alla domanda del giornalista: E’ esatto parlare in questo caso di una “forma” di laburismo? De Gasperi risponde con la proverbiale laconicità: “Certamente. Vinceranno un laburismo e una democrazia sociale, corrispondenti all’ispirazione storica della nostra civiltà e alle caratteristiche naturali del popolo italiano”.
E nella colonna accanto il leader trentino definisce la linea di marcia del partito, fattasi poi nelle citazioni quasi occasione di culto: “Mi riferisco a tutto il programma cristiano-sociale in materia, ricordando che siamo un partito di centro che cammina verso sinistra”.

 

Il guadagno del reducismo
Di Giovanni Bianchi


Una sana ossessione

Stabilire un punto di vista non era soltanto la nota ossessione dell’operaismo italiano. Stabilire un punto di vista è la condizione necessaria, probabilmente sufficiente, per tentare un giudizio sensato sulla fase storica che attraversiamo. Va anche detto che i materiali da costruzione per il punto di vista in genere provengono più dalla storia, o da quella che giudichiamo tale, piuttosto che dagli scenari futuribili.
Ed è a partire dal punto di vista del cattolicesimo democratico che provo a inquadrare la fase convulsa che attraversiamo e la leadership di  Matteo Renzi, letto come un fenomeno sociale e non come una grande biografia nietzschiana ai suoi inizi o una irruzione giovanilistica da affidare alle cure della psicologia dell'età evolutiva. 
Ho anche coscienza che il cattolicesimo democratico come esperienza politica sia oramai alle nostre spalle. E’ caduto insieme alle altre vulgate con il venir meno del primato della politica, che era l'elemento comune alle grandi ideologie del Novecento e del nostro secondo dopoguerra. Il fatto che il cattolicesimo democratico non cammini più concretamente tra di noi non impedisce tuttavia che i suoi antichi rudimenti possano costituire i materiali da costruzione dai quali traguardare la vicenda politica in corso. Il cattolicesimo democratico cioè è morto, ma è morto di parto: ci ha lasciato – ha lasciato a tutti gli italiani e non soltanto a quanti si rifanno al suo deposito – alcuni elementi irrinunciabili di giudizio.
Tre mi paiono comunque imprescindibili: l'invenzione del partito, che fa la differenza con i molteplici gentilonismi  cresciuti in area cattolica nello spazio pubblico, e l'affermazione sturziana conseguente che sancisce: "programmi, non persone"; la convinzione morotea che il pensare politica sia già per il 99% fare politica; l’ammonimento degasperiano: il buon politico deve promettere un po’ meno di quel che è sicuro di mantenere. Un consiglio per così dire "minore". Quel che si muove al di fuori di queste coordinate può risultare vincente, ma su un pentagramma diverso: quello della politica "senza fondamenti".

Totus politicus
Renzi è una figura totalmente politica: ha ragione l'editorialista de "il Regno" Gianfranco Brunelli. Anzi risulta il principe e appare il decisore in questa fase tutta consegnata alla politica senza fondamenti. In essa elementi diversi dal pensare politica, dal fare programmi e proporre scenari tengono il campo, ottengono il consenso, consentono la vittoria elettorale.
La politica senza fondamenti è in generale piccola politica e teatro continuo. Che, come succede nei serials televisivi, non riesce ad essere grande ad ogni puntata. Come per la legge di Gresham, c'è un allineamento verso il basso, dove la moneta cattiva scaccia la buona.
È questa la prima conseguenza dell'omologazione al linguaggio pubblicitario e poi della sostituzione della pubblicità alla propaganda. Negli stilemi, nella logica dell'avidità acquisitiva, nel basso prezzo, nella banalizzazione, nell'inseguimento del vuoto e dell’effetto. Perché è il teatrino della politica che sostituisce definitivamente l'immagine alla cosa, l'idolatria del basso prezzo alla gratuità. Non se ne può più di questa allucinazione dei contemporanei, della loro interminabile salivazione via video. Si tratta della nuova e globale epidemia, che racchiude in germe e in un cellophane firmato tutte le piaghe che proviamo a contare nel corpo di una politica disadorna mentre si agghinda di lustrini. L’ultimo nome del vitello d’oro è visibilità. Se non sei visibile (in televisione) non esisti, almeno politicamente parlando. E, sempre più, quel che vale per la politica rischia di valere per altre regioni della professionalità: rischia di valere per l’intera vita. C’è bisogno di coraggio a vivere nell’ombra. Ci vuole più determinazione a stare dietro le quinte (a lavorare) che a sorridere sul proscenio di un sorriso perennemente stampato.
E’ l’ascesi di Cyrano.

Tempo e velocità


 

Renzi ha fatto del tempo, anzi della velocità lo stigma della sua azione politica. Cosicché il tempo e la velocità di fatto sostituiscono il pensare politica, cosa per la quale in questa visione resta poco tempo o quasi nessuno.
Più di un analista s'è interessato allo scoutismo di Renzi, quasi volendo con esso surrogare una politica cattolico-democratica dalla quale l'ex sindaco di Firenze evidentemente prescinde. Ha ragione in tal senso Massimo Cacciari quando definisce il leader post-ideologico o a-ideologico. Renzi infatti si è mosso con impeto coraggioso e grande velocità in uno scenario sgomberato dalle precedenti vulgate politiche. La sua velocità corrisponde anzi perfettamente al vuoto desertico lasciato da esse.
Come pure a questa assenza evidente corrisponde "il saldarsi attorno all'astro vincente di una maggioranza opportunistica del 70% del partito" (Gianfranco Brunelli).
La velocità e il tempo di Renzi si muovono infatti in coppia sponsale con l'immagine nello scenario della politica senza fondamenti. Vi è dunque una coerenza in questa attitudine non soltanto personale.
Da essa discende l'esigenza di dimostrare, a cominciare da quella del Senato, di essere in grado di fare le riforme, e di farle coinvolgendo l'opposizione nella figura di quel Silvio Berlusconi che a sua volta ha bisogno di entrare nel contratto per rigenerarsi come "padre della patria", a sua volta disinteressato all'oggetto della riforma.
Così si rischia uno sgorbio costituzionale (Settis), anche con il raffronto col famoso titolo quinto della Costituzione vigente, tanto da far pensare che meglio sarebbe a questo punto un monocameralismo senza nessun Senato.
Ma lo scopo principale dei contraenti non è l'oggetto della contrattazione, quanto l'immagine della contrattazione medesima e gli effetti che ne discendono per i rispettivi destini politici. Perché la politica senza fondamenti ha un suo esito sicuro: finisce invariabilmente nello stagno dei propri interessi.

Il potere demoniaco del potere
Giace qui un grave problema, anche etico, rispetto alla natura del potere. Un potere accreditato nella cultura tedesca di un "potere demoniaco", mentre in Italia la vulgata corrente è tutto sommato ancora quella andreottiana: "il potere logora chi non ce l'ha".
È la ragione per la quale credo che un papa italiano assai difficilmente avrebbe avuto il coraggio e la lucidità del gesto storico e sorprendente delle dimissioni compiuto da papa Benedetto XVI: e infatti Ratzinger è grande teologo tedesco, a sua volta influenzato dalla teologia luterana, così attenta e meditante sulle tentazioni del Nazareno nel deserto, episodio non a caso narrato da tutti e quattro i Vangeli.
È un approccio teologico che insieme critica la politica e ne mette in rilievo i rischi e le debolezze. Un punto di vista che in Italia ha a lungo coltivato il cardinale Martini, secondo  il quale nelle situazioni di massima difficoltà la politica presenta mezzi scarsi o insufficienti.
È, in questi mesi drammatici, la medesima posizione che ritroviamo, rilanciata da Baghdad, dal patriarca di Babilonia dei caldei, Raphael Sako, quando scrive: "Stiamo vivendo il mistero del sonno di Cristo sulla barca (cfr. Mc 4,35-41)… Purtroppo, non vedo quanto possiamo ancora contare sui politici! La maggioranza di loro, sembrano molto chiaramente preoccupati solo dei propri interessi, e in particolare del petrolio!"
Dunque la volontà di potenza consegnata alla politica dell'immagine è destinata a rivelarsi nel tempo medio e lungo – di fatto e sul terreno – tragicamente "impotente".
Tornando ai più lievi casi italiani pare possibile osservare che la rottamazione, ridotta a ricetta del ricambio e al patto generazionale, finirà per contraddire se stessa, perché, più presto di quanto non immaginino i protagonisti, verrà, per la velocità dei tempi da essi stessi innescata, il turno di rottamare i rottamatori.
E infatti gli uomini sono "nuovi" per i progetti di cui sono portatori piuttosto che per l'anagrafe.




La fine del cattolicesimo politico
S'è detto che il Blitzkrieg di Renzi si inoltra nella fine del cattolicesimo politico e delle altre grandi narrazioni del Novecento.
Al cattolicesimo politico si chiede di riconoscere, insieme alla sua fine, una persistente generatività, non più e non ancora immediatamente politica, ma culturale sì: in grado cioè di costituire un punto di vista dal quale ri-guardare la realtà, criticarla e contribuire alla proposta di un nuovo programma. Il pensare politica cioè malamente si accorda con tempi brevi e sincopati, ma è la condizione per rapide decisioni, queste sì, che siano legittimate da quei pensieri lunghi che sanno attraversare la congiuntura senza lasciarsene catturare.
Nato nelle primarie, il fenomeno (collettivo) Renzi prosegue spedito e attraversa la fine palese del cattolicesimo democratico e delle grandi ideologie del Novecento. Coraggio e volontà lo caratterizzano. Fenomeno peraltro non nuovo nel Paese del marinettismo, dove fu coniato – certamente non da sinistra – lo slogan memento audere semper.
E smettiamola però di baloccarci con i fantasmi della "dittatura"alle porte. Non è questo il pericolo, mentre è questo genere letterario non nuovo, ma restaurato, a propiziare il feeling e l'affinità elettiva con Silvio Berlusconi, che con il proverbiale e involontario umorismo ha dato non a caso la stura alla sua ultima reincarnazione nei panni del padre della patria, dopo aver negato già un decennio fa che la crisi esistesse, portando a testimonianza la ressa nei ristoranti e sugli aerei.
Non dittatura dunque, ma umorismo involontario, mentre nel mondo globalizzato vanno in scena tragedie in sequenza, che drammaticamente denunciano negli scacchieri di guerra (dove l'Islam sanguinosamente si agita) il venir meno della forma e della macchina dello Stato seicentesco e occidentale.
Con il dubbio televisivo che il comico Crozza abbia da subito imbroccato le caricature indovinate.

Il vantaggio del reducismo
Dobbiamo a Claudio Magris le pagine più intense sulla fine dei militanti "di un dio che ha fallito" e quindi sulla malinconia del reducismo. E vale la pena tornarci nella fase in cui sono stati celebrati, oramai da tempo, i funerali delle grandi narrazioni e di quanti ad esse si erano totalmente votati. Con il rispetto per chi ha saputo mettere in gioco e perdere la propria esistenza e ha subito il dileggio fin nel nome: il termine militante storpiato sarcasticamente in "militonto".
Anche perché prima o poi tutti – e generalmente anche in questo caso prima di quanto non si pensi – ci ritroviamo reduci di noi stessi e dei movimenti collettivi cui abbiamo preso parte. Con il patetismo di chi si raduna sotto gli antichi gagliardetti e le belle bandiere con i vecchi amici, e prova a marciare nelle date topiche e comandate con cuore saldo e debole vescica...
Eppure anche il reducismo mantiene accanto alla memoria la sua dignità e può rappresentare un guadagno critico. Perché infatti non marcia solo Tersite sotto le belle bandiere, ma anche Laerte: insomma la memoria del reduce costituisce il deposito di un punto di vista che, ripensando le radici, consente di immaginare futuri non psichedelici.
Non il futuro europeo e retorico che il giovane Telemaco evocato a Bruxelles può fare proprio soltanto criticando praticamente lo spirito del tempo, e che ha lasciato vuota la scena il giorno dopo del discorso. Perché questo è il presentismo soltanto mediatico: svanisce quando giri l'interruttore.
Da tempo consideriamo in questa guisa l'opportunità consentitaci dal reducismo cattolico-democratico. Ne richiamiamo ancora una volta e sinteticamente i punti essenziali, non per ribadire un bigino, ma per dare ragione dei riferimenti.
Per il cattolicesimo democratico infatti è più importante la fede della politica: un filo bianco ed esistenziale che attraversa l'esperienza sturziana e arriva fino all'alta testimonianza del cardinale Martini, il quale ripete che la parola evangelica interviene non già nelle situazioni che si aggiusterebbero in qualche modo anche da se stesse, ma là dove l'impossibilità caratterizza le condizioni storiche. Quod gratis accepistis gratis date.
Per questa radice ineliminabile il cattolicesimo democratico risulta defunto come vicenda politica, ma è tuttora in grado di generare un punto di vista dal quale discernere insieme il reale e il possibile: è morto, si è detto, ma è morto di parto… A questa esigenza fondante rispondono i richiami sopra indirizzati a Sturzo, De Gasperi e Aldo Moro.
E sia consentito nell'attraversamento della congiuntura di questa fragile democrazia di interpretare il gratis date come il postulato che mette al primo posto la salvaguardia della democrazia stessa rispetto al legittimo prevalere della propria parte.
Ogni altra vittoria, ancorché clamorosa e plebiscitaria, deve perciò essere considerata una vittoria di Pirro. Perché ci insegue l'ammonimento sturziano che avvertiva che il vivere democratico è comunque a rischio, ossia si tratta di un guadagno non fatto una volta per tutte.
Un rischio ovviamente globale, discendente non tanto dall'estensione delle relazioni, ma piuttosto dal loro frenetico intensificarsi, dal prevalere di un dominio da sopra e da fuori che sfibra la cittadinanza con l'avidità del turbocapitalismo incontrollabile e incontrollato.
Il rapporto tra Stato e Mercato è ogni giorno sottoposto a tensione ed usura: nel senso che il mercato erode l'antica cittadinanza rendendo progressivamente ininfluenti le ragioni dello Stato.
Una cittadinanza codificata dalle costituzioni ma non garantita dallo Stato Sociale è infatti una cittadinanza debole, destinata a naufragare in una società globale liquida, dove i soli poteri forti sono sicuri del proprio comando. Così – usando il lessico di papa Francesco –non si generano uomini globali e tanto meno cittadini, ma scarti umani.

Che significa "senza fondamenti"?
È da questo scenario non idilliaco che dovremo provare a osservare e valutare la politica "senza fondamenti". Da tempo essa passeggia tra di noi: non è stata creata dai partiti dissolti e  neppure fu inventata un ventennio fa da Silvio Berlusconi. I suoi leaders e protagonisti, coloro che si presentano come i nuovi decisori nell'immagine dello stato d’eccezione, sono piuttosto abili navigatori a rischio di un'onda che li trasporta, ma che non hanno creato. Il surf è comunque precario. Non è neppure soltanto una moda: le calza come un abito di sartoria il termine hegeliano di spirito del tempo. E se un'opportunità conferisce il deposito della cultura del cattolicesimo democratico è di poter misurare anzitutto la distanza da questa politica "senza fondamenti", dalle sue vittorie, dai suoi vincenti, dai suoi riti.
Va subito notato che il discernimento (il termine più gettonato nel lessico martiniano) è generalmente incompatibile con la velocità e con il dilagare del neomarinettismo che ne celebra stilemi e successi. Non a caso il discernimento è frutto della ruminazione della parola, piuttosto che dell'affanno delle battute fulminee. Anche per queste ragioni il cattolicesimo democratico non deve perdere la sua residua memoria, dalla quale attinge non poca parte dei materiali della propria narrazione. Laddove il presentismo veloce mette in scena enfaticamente la narrazione che c'è – quella che passa il convento del turbocapitalismo, che alle volte si sforza addirittura di risultare "benevolo" – e narra ed illustra il suo senso comune. Quel che non ha messo nel conto è un generale processo di saturazione (come se da sempre fossero lì) e una incipiente nausea di questo presente. È l'esito di una nuova barbarie – questa forse un’altra possibile definizione dell’epidemia –  che produce come cloni soggetti senza storiaCome non prendere a prestito l'espressione di Settis che ama ripetere che a un paesaggio degradato corrisponde il degrado della nazione? Così ti imbatti in quel giurista americano che sostiene che le generazioni future non hanno diritti perché non possono agire in giudizio contro di noi...
E se si vive sul set, non si vive. Tanto più se il set è la politica. È in questo scenario che da 100 anni parliamo di camorra e da 200 di Cosa Nostra. È sempre in questo scenario che gli indignati di ieri si sono rapidamente trasformati nei cinici di oggi, urla don Ciotti, e scrivono libri.
Si è avverata la profezia del ventinovenne Benjamin che vedeva nel capitalismo un parassita del cristianesimo, ed anzi un dio alternativo.
Come non tornare allora a quel vescovo del mezzogiorno cattolico e democratico che fu don Tonino Bello quando invitava: "Siate sovversivi"!
Il limite del cattolicesimo democratico è infatti compatibile con questo tipo di sovversione. Conclusivamente: il cattolicesimo democratico prende dunque le mosse dal limite, ossia dal riconoscimento della propria insufficienza. Su questa linea muove lucidamente Martini, che riconosce i mezzi scarsi della politica e, a partire da questa osservazione, invita a riflettere sulla circostanza che la parola di Dio interviene nelle situazioni impossibili e che non si aggiusterebbero da sole. Ovviamente il limite del cattolicesimo democratico denuncia vigorosamente insieme la propria insufficienza e l'insufficienza della politica "senza fondamenti". È dunque chiamato a riconoscere la propria vanità a prescindere non tanto dalla teologia politica (Carl Schmitt), ma dal paradosso della mistica per le strade.
E mette tenerezza e sgomento riflettere sulla circostanza che  la critica pratica più acuta al narcisismo acquisitivo e trionfante – in quanto fenomeno collettivo – è rappresentata dall'esperienza nascosta e silenziosa dei "piccoli fratelli" di Charles de Foucauld.
Salvo pensare, riparandosi, che la nuova politica sia sufficiente a se stessa, fondata su un'autonomia impermeabile alle provocazioni profetiche: quelle che Martini (ma anche  Weber)  pensavano necessarie a ricaricare lo statuto e le pratiche della politica moderna e postmoderna.
Non rinunciando alla propria autonomia, ma senza prescindere dall'altro da sé.

 

Gli esiti della governabilità
Di Giovanni Bianchi

Giovanni Bianchi









La diagnosi di Natoli

L'ultimo saggio di Salvatore Natoli[1] ha tra i molti meriti quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dalla congiunturalismo e dal sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il Natoli, proprio per questo "li determinano e per questo, seppure sotto altra forma, si ripresentano".[2]
Gli autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso – il maggior teorico italiano del trasformismo – del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre occasioni.
Per il maggior filosofo dei comportamenti fin dagli esordi della modernità il carattere degli italiani è stato determinato dall'assenza di senso dello Stato, e quindi da una scarsa fiducia nelle istituzioni, e dalle conseguenze di un decollo tardo e limitato del capitalismo, e con esso della sua etica. Circostanza che ci obbliga a fare i conti con una assenza di Stato laico e con l’inesistenza della cultura liberale [i]conseguente.
Tutti nodi che stanno venendo al pettine con il manifestarsi preoccupante delle conseguenze di una debole efficienza media del sistema, cui si accompagna, senza più riuscire ad essere antidoto, il perpetuarsi di una tradizionale mentalità familistica, tutta interna al modello della famiglia mediterranea.
La svolta è tale che anche il "piccolo è bello", tipico della filosofia del Censis di Giuseppe De Rita, che per molti anni ha esercitato di fatto l'egemonia sull'intellettualità italiana, risulta oggi inservibile per affrontare i processi di globalizzazione: tutti oramai concordano, e non soltanto per ragioni di ricerca, occorre ben altro!
Nella prospettiva natoliana vengono anche recuperate le grandi sociologie, proprio perché sottratte al tecnicismo congiunturale che le affligge, e quasi costrette a riaprirsi nuovamente ai grandi orizzonti della storia. Gli italiani cioè non solo presentano un deficit di Stato, ma anche un deficit di popolo, dal momento che i popoli sono in qualche maniera frutto di un'invenzione a loro volta politica, capace di stabilizzare i processi di identità.
Ecco perché negli ultimi due decenni sono tornati a vigoreggiare i localismi, nipoti dell'antico Strapaese, e le ideologie perdenti delle piccole patrie. Il tutto ulteriormente complicato dalla presenza ingombrante della Chiesa cattolica, in quanto potere temporale in grado di ingenerare equivoci e scombinare le carte politiche secondo la celebre critica gramsciana.
Una Chiesa comunque in grado di esercitare pesantemente e puntualmente un potere di interferenza e perfino di interdizione. Il cardinalato "tardorinascimentale" di Camillo Ruini appare in questa prospettiva l'ultima tappa di un lungo percorso. E non è fortunatamente casuale che il termine "valori non negoziabili" risultasse poco gradito a Benedetto XVI e pare totalmente espunto dal lessico di papa Bergoglio.



Un’etica di cittadinanza





Salvatore Natoli

Secondo Salvatore Natoli "gli altri Paesi non sono certo più o meno onesti di noi, ma a far la differenza è un'etica pubblica che li rende più esigenti e meno concessivi di quanto lo siamo noi".[3] Rivado con la mente a un episodio che mi ha segnato profondamente. Ero presente con la famiglia a Berlino il giorno della festa della ritrovata unità tedesca. Angela Merkel si esibì in un discorso né acuto né generoso sui rischi e i difetti dell'interculturalità. Assai meglio risultò il discorso dell'allora presidente della Bundesrepublik: quel signore che i tedeschi licenziarono poco dopo perché reo di essersi fatto pagare le vacanze da un amico imprenditore. Così vanno (luteranamente) le cose in Germania, dove è compattamente presente un'etica di cittadinanza. Da noi quel presidente della Repubblica avrebbe quantomeno concorso per l'Ambrogino d’oro…
La critica impietosa e il sarcasmo non sono del resto nuovi. In proposito Natoli cita abbondantemente il Giacomo Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani. Discorso che resta una pietra miliare per l’autocomprensione del carattere – pregi e difetti, più difetti che pregi – della nostra gente. "Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Quelli che credono superiori a tutti per cinismo la nazione francese, s’ingannano".[4]
Osserva in proposito il Natoli: "Ora, come è noto, sono le condotte comuni e non i grandi principi a rendere forti le democrazie".[5] Chi infatti si sia preso la briga di leggere il corposo volume di Henry Kissinger dal titolo L’arte della diplomazia, ricorderà il giudizio sintetico ed acuto che l'ex segretario di Stato offre circa la grande macchina democratica degli States, dicendo grosso modo che è impossibile capire come esattamente funzioni e come riesca a funzionare, ma che alla fine produce decisioni democratiche...

I materiali eterogenei di una nazione





Tornando ai casi nostri, tra i materiali più eterogenei e meritevoli di ascolto di questa democrazia sono gli italiani in quanto popolo in faticosa democratizzazione su una troppo lunga penisola. Popolo costruito e in costruzione: cantiere perennemente aperto dove gli eterogenei materiali dell’antipolitica –dai campanilismi dello strapese alla resistenza sui territori delle organizzazioni della malavita– prendono gradatamente le forme della cittadinanza politica. Venti milioni di abitanti da rendere cittadini nel 1861, al momento della proclamazione dello Stato unitario. E poi 29 milioni di italiani all’estero, in cerca di lavoro in tutto il mondo... Fino all’approdo di una nave nel porto di Brindisi brulicante di ventimila albanesi l’8 marzo del 1991, che s’insedia nella nostra storia come icona del cambio d’epoca.
Questi italiani non sono granché mutati da quando li analizzava Giacomo Leopardi, sottraendosi già allora alla trita retorica del poveri ma belli e ricordandoci che l'italiano è una figura costruita nel tempo e che la sua persistente "anormalità" si raccoglie intorno all'assenza di classe dirigente e all'assenza di vita interiore.
E’ da questo background che discende a sua volta la diffusa attitudine, tutta rassegnata, a pensare la vita senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, ridotta e tutta rattrappita nel solo presente. Questa disperazione, diventata nei secoli congeniale, unita al disprezzo e al contemporaneo venir meno dell’autostima, coltiva un intimo sentimento della vanità della vita che si rivela non soltanto il maggior nemico del bene operare, ma anche lo zoccolo etico più fertile per rendere questa sorta di italiano autore del male e rassegnato protagonista della immoralità. Per cui può apparire saggezza il ridere indistintamente a abitualmente delle cose d’ognuno, incominciando da sé medesimo… 
Che le cose non siano sensibilmente cambiate è testimoniato dalla presente situazione politica che vede un ceto politico che, come si è più volte osservato, pur di perpetuarsi, ha rinunciato ad essere classe dirigente. Di questo il "popolaccio" leopardiano s'è accorto e convinto e la reazione è rappresentata dal disinteresse per la cosa pubblica, dal disincanto per le regole etiche e morali, dall’astensionismo elettorale. Siamo cioè in quel che David Bidussa definisce il “canone italiano”, ripercorrendo l’idealtipo tratteggiato da Giuseppe Prezzolini, alla vigilia dell’avventura fascista, sotto il titolo di Codice della vita italiana. Scrive Prezzolini:
"I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi. Non c'è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso... Non bisogna confondere il furbo con l'intelligente. L'intelligente è spesso un fesso anche lui... Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle".[6]
Viene qui passata in rassegna una gamma di comportamenti diffusi, polarizzati intorno a due idealtipi che hanno sedimentato un modo comune di pensare nelle generazioni degli italiani. Addirittura un fatto di costume. Prezzolini giunge di conseguenza a fissare l'attenzione su una caratteristica relativa alla furbizia che denuncia un atteggiamento comune a larghe schiere di connazionali. Scrive infatti: "Colui che sa è un fesso. Colui che riesce senza sapere è un furbo... I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini... L'Italia va avanti perché ci sono i fessi… L'italiano ha un tale culto per la furbizia che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno... La vittima si lamenta della furbizia che l'ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un'altra occasione."[7] E qui davvero non sai se ammirare l'arguzia o la profondità dell'indagine psicologica.
Un guicciardinismo che cola di generazione in generazione, non smentendo se stesso. Che ci accompagna in un disincanto che di tempo in tempo l’acuirsi delle difficoltà quotidiane si incarica di trasformare in rancore.  

Il giudizio di Scoppola



P. Scoppola

E, con un grande salto, eccoci a quel che emerge sulla scena con la discesa in campo di Berlusconi a partire dal 1994. Mi affido in questo caso al giudizio, sempre equilibrato e non scontato, di Pietro Scoppola, che dall'interno di una visione storica caratterizzata da una profonda conoscenza del mondo cattolico come di tutta l'area politica che ha fatto riferimento all'arco costituzionale, così sintetizza la fase del berlusconismo con un'istantanea che ha il pregio di una grande profondità prospettica: "E’ un'Italia per certi aspetti sconosciuta e indecifrabile, ma vera. In qualche misura se l’era costruita lui stesso con le sue televisioni. Ma non si può spiegare tutto e solo con le televisioni. Ci sono le responsabilità della cultura, incapace di capire ed entrare in sintonia con il Paese profondo; ci sono le responsabilità della Chiesa, sensibile, attenta e impegnata su alcuni problemi di immediata rilevanza etica, come il divorzio o l'aborto, ma distratta di fronte al logoramento del tessuto etico del Paese operato dai mass media e in particolare da certi mass media."[8]
Scoppola non si sottrae al compito di precisare ulteriormente il quadro delle responsabilità storiche: "Ci sono le responsabilità della Dc che per mezzo secolo ha rappresentato e  utilizzato al meglio, ai fini della democrazia italiana, un elettorato politicamente poco maturo, ma non lo ha educato, non lo ha formato. Le responsabilità degli imprenditori, non sempre coraggiosi e coerenti. I riflessi condizionati del sindacato...".[9] E si tratta ancora una volta di risalire nel tempo per riscoprire le radici assai più profonde dei nostri mali e di omissioni non meno pesanti.
Qui Scoppola si sottrae con eleganza pari alla competenza allo stereotipo della vulgata corrente: "Il nostro problema non è stato quello di non aver avuto una rivoluzione armata, ma di non aver avuto per tempo quella riforma religiosa ed etica proposta nell'Ottocento da un religioso come Antonio  Rosmini e nel Novecento da un laico come Pietro Gobetti, entrambi perseguitati e colpiti dal potere allora dominante, dalla censura ecclesiastica o dalla violenza squadrista del fascismo. E questa è anche l'idea a cui giunse Sturzo negli anni amari dell'esilio."[10]
Scoppola cioè si trova nella stessa condizione nella quale si troverà uno dei dioscuri della prima Democrazia Cristiana: Giuseppe Dossetti. Costretto a constatare ancora una volta nei primi anni Cinquanta che non ci sono le condizioni. Il Paese non è maturo e la comunità ecclesiale neppure. Le riforme devono attendere.

Nell'ambito culturale della rivista "La Voce", fondata e animata da Giuseppe Prezzolini, si muove con novità di categorie politiche e una peculiare posizione meridionalistica Guido Dorso, figura originalissima di intellettuale in quel di Avellino, costretto – come sovente accade – a pensare politica in periferia perché impedito a farla.  Egli impersona l'ambizione del ceto medio colto del Mezzogiorno a farsi interprete degli interessi generali della nazione; un tema caro alla nostra grande scienza politica: a Mosca, a Pareto, a Michels.
Dorso indirizza cioè la propria attenzione a "quella piccola aristocrazia morale ed intellettuale che impedisce all'umanità di imputridire nel fango degli egoismi e degli appetiti non materiali".[11] In particolare Dorso può essere considerato il vero teorico del trasformismo italiano inteso come "teoria del mancato "ricambio politico" di élite, come la "via meridionale" al "far politica", "piena, zeppa di batteri politici", “offerta” all'intero Paese."[12]
Il trasformismo per Dorso si opponeva a ogni tentativo d'autonomismo dei meridionali inducendo il blocco  di ogni ricambio politico del ceto dirigente instaurato da Giolitti con la complicità degli "ascari" del Sud.
Conscio di ciò, Dorso si appellava, dopo una pessimistica analisi del Mezzogiorno – alla maniera del suo maestro Fortunato – allo spirito civico del Nord (quello di Cattaneo) “per poter fare della questione meridionale il caso più evidente della crisi endemica e generale del vecchio Stato conservatore”.[13]
Perché endemica è la malattia del ricambio politico. La medesima (attualissima) lamentela della Arendt quando osserva:"E’ nella natura di tutti i sistemi partitici che i talenti autenticamente politici possano affermarsi solo in rari casi, ed è anche più raro che i requisiti specificamente politici sopravvivano alle  meschine manovre della politica di partito, che ha semplicemente bisogno dell'abilità di un buon piazzista".[14] Quasi a suggerire esplicitamente una inquietante parentela tra professionismo della politica ed impolitica. In una generalizzata corsa al ribasso che ne dissipa l’autorevolezza e ne paralizza l’intervento.
Il Mezzogiorno, dunque, come laboratorio: il laboratorio politico di una classe dirigente del tutto nuova, dal momento che un'élite si dimostra tale se riesce a far valere politicamente il suo valore. Nella scia del suo maestro Giustino Fortunato, il quale asseriva: "L'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà".[15]
Ed è il caso di rammentare che le teorizzazioni sul federalismo sono in Italia prevalentemente meridionali perché, a fronte del Cattaneo (che peraltro volge ben presto il proprio federalismo in chiave europea), di Miglio e di Salvadori, si ergono le teorizzazioni di Dorso, appunto, Sturzo, Salvemini e Lussu. Anche quando –e non è circostanza rara– “al posto del vivificante "Vento del Nord" s'avverte ora l'essicante "stretta del favonio" su quel "Mezzogiorno, paese misterioso e solenne, popolato dalla gente più buona, più sobria, più infelice d'Italia".”[16]

La vera anomalia




La vera anomalia è però che gli italiani riescono ugualmente a modificarsi battendo le vie storicamente consolidate del trasformismo, dal momento che il trasformismo si colloca ad un livello più profondo di quanto comunemente non  ci accada di pensare, e anziché ritenerlo unicamente un fenomeno degenerato di prassi parlamentare sarà bene provare a intenderlo come una tipologia italiana del mutamento. Infatti la rete dei personalismi e degli interessi particolari regge questo sistema e dal momento che in qualche modo essa risulta “pagante” non solo è difficile da smantellare ma ha ormai plasmato una mentalità diffusa, appunto, “nazionale”.
Esistono invalicabili limiti di cultura che non si possono eliminare per decreto: alcuni dei nostri maggiori sopra passati in rassegna ci hanno ricordato che gli italiani usano lo Stato più di quanto lo servano, ed in compenso ne parlano male.
Osserva il solito Salvatore Natoli: "Nel contempo essi sono troppo abituati alle delusioni e tendono, ognuno per conto proprio, a prevenirle cercando di trovare soluzioni private o mettendosi alla ricerca dei cosiddetti appoggi giusti al fine di ottenere più celermente e sottobanco quanto non riescono ad acquisire alla luce del sole."[17]
Da qui discende un'evidente ipertrofia dello Stato come affare e perciò un uso sempre più affaristico dello Stato, che è tanto più incidente quanto più lo Stato è presente nella società. In questo modo in Italia si è venuta a mano a mano costituendo una forma di organizzazione sociopolitica in cui pubblico e privato si mescolano costantemente fino ad una vera e propria riprivatizzazione dello Stato attraverso il sistema pervasivo dei partiti. (Enrico Berlinguer parlò di "occupazione".)
Così il fenomeno è esplicitato fino al suo dilagare nei giorni nostri, con una cannibalizzazione delle forme del politico che si è fatta tribalizzazione della società civile e quindi delle istituzioni, e addirittura della quotidianità stessa. Ciò spiega come in Italia lo Stato sia pervasivo senza essere altrettanto efficiente ed il privato non riesca mai ad essere così privato come dovrebbe e come soprattutto va proclamando sulle diverse gazzette e nel diluvio dei talkshow. Per questo il trasformismo non può significare soltanto prassi parlamentare, ma assume la consistenza e il peso di  una tipologia del mutamento della nazione.
Le riforme sarebbero dunque da fare. Ma come e da parte di chi? Nelle società ad alta complessità i sottosistemi che le costituiscono godono di una relativa indipendenza e proprio per questo possono evolvere in modo differenziato. Quel che è accaduto in Italia è proprio questo: il sistema politico è reso inefficiente da quella stessa rete dei personalismi attraverso cui si riproduce. Nelle società contemporanee infatti è possibile constatare un pullulare di movimenti a diversa motivazione (sovente one issue) che sorgono e dispaiono ma non sboccano in istituzioni. Quel che in questi casi è singolare notare è il fatto che normalmente gli individui sopravvivono ai movimenti cui aderiscono.
Risulta così difficile individuare un responsabile da chiamare in causa, per l'evidente ambiguità della rappresentanza politica. Ed inoltre, in una società in cui vi è un'alta specializzazione delle prestazioni, risulta improbabile che i cittadini abbiano la competenza di decidere sulla funzionalità delle regole.
Nessuna società può essere cambiata per decreto, ma è in base alla sua “andatura ordinaria” che si misurano successi e fallimenti. E bisogna segnalare che il sistema Italia, anche se non riesce mai a correre a pieno regime, non è un sistema totalmente bloccato. In Italia si è praticato sempre poco, ed in modo incerto, il governo del cambiamento, ma ciò non ha impedito che vi fosse una crescita, sia pure non programmata, una mescolanza di spreco e di imprenditorialità.
È in questo quadro che va collocato il discorso sulla casta di Rizzo e Stella, che ha cessato di essere un'inchiesta giornalistica per diventare una categoria del politico italiano. Così pure deve essere affrontato il tema di una diffusa area di sottogoverno, tema proposto da Stefano Rodotà.

Intermezzo sul familismo
Salvatore Natoli evoca nella sua indagine il tema perenne del familismo italiano, abbondantemente studiato negli anni Cinquanta e Ottanta dalle sociologie americane (e italoamericane),  in particolare da Banfield (familismo amorale) e La Palombara.
Un familismo che si colloca nelle strutture e nell'habitat della grande famiglia mediterranea. Che va subendo negli ultimi decenni rapide ed estese modificazioni, al punto che può ben dirsi che se degli anziani si occupa la figura inedita della badante immigrata, dei bambini e giovanissimi si prendono cura invece sempre più i nonni, chiamati a compiti educativi di tutto rispetto.
Nella grave crisi finanziaria e sociale sono gli anziani a consentire la sopravvivenza delle nuove generazioni, ricorrendo al fieno finanziario accumulato in cascina con il risparmio. Anche in questo campo, e per ragioni che discendono dalla tradizione mediterranea e dal welfare europeo, gli italiani sembrano patire meno di altri le crisi, ma restano in coda quando gli altri crescono...

Tra rappresentanza e governabilità
Scrive Natoli che "nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono".[18] Diventano cioè diversi senza rendersene (pienamente) conto. Un lungo andazzo, un'indole nazionale, una sorta di Dna e perfino una regolarità della politica italiana. Osserva ancora Natoli che "perché una democrazia sia compiuta, è necessario che le parti politiche si alternino ai governi; il ricambio evita una sclerosi dei partiti e con essa una decomposizione della democrazia".[19] Problema fondamentale e che ci trasciniamo da sempre. Ma perché una democrazia sia compiuta ci vogliono soggetti in grado di organizzare pensiero politico e selezionare la classe dirigente. Questo manca da troppo tempo e durante tutta la transizione infinita alla politica italiana. Una politica capace di ripartire dalla rappresentanza e che non si limiti a inseguire la governabilità. Che non spenda tutto il suo tempo a pensare le regole e a segnare i confini del campo di gioco, ma si occupi finalmente più decisamente dei soggetti chiamati a giocare la partita. Che assuma come punto di riferimento irrinunciabile l'articolo 49 della Costituzione del 1948: Tutti cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. E che non dimentichi del tutto l'osservazione di Palmiro Togliatti, per il quale la nostra Repubblica, a fronte di una endemica debolezza dello Stato, risultava fondata sui partiti…
L'interventismo giudiziario susseguente a Tangentopoli nasce qui: i giudici, nel vuoto e nello scempio delle regole, si erigono impropriamente a soggetto politico. Instaurano un loro ossessivo decisionismo populistico. Pare anche ci prendano gusto. Do you remember Ingroia?
Scrive ancora Natoli: "Una vera e propria patologia della rappresentanza".[20] E infatti non possiamo essere i nipoti della Trilaterale del 1974. Fu allora che si disse: vi è un crisi della democrazia prodotta da un sovraccarico di domanda; si rende quindi necessaria una riduzione della complessita’ per realizzare la governabilita’ del sistema. 
Il presupposto teorico venne fornito dalla teoria luhmanniana, meglio nota come  teoria della complessita’. Nell'orizzonte di questo neo-funzionalismo sistemico l’agire sociale non si spiega a partire dall’agire individuale. La società moderna si spiega e si governa invece con la teoria dei sistemi. La società è cioè un insieme di strutture, un insieme di istituzioni, un insieme di elementi economici, ideologici, giuridici.
La capacità di una società moderna di riprodursi discende quindi dalla capacità di diminuire continuamente la complessita’ di esigenze che vengono poste dall’ambiente esterno e dalla moltitudine degli individui.
Luhmann sostiene, ad esempio, che tutti i sistemi democratici hanno fondamentalmente una valenza simbolica; che hanno come compito di produrre l’idea di un soggetto che non esiste. Il soggetto individuale della democrazia, il soggetto dello Stato liberale è un’apparenza prodotta dalla ripetizione con cui avviene il rito democratico. Ed è quel rito che dà al soggetto l’apparenza di contare come soggetto politico, perché in effetti il sotto-sistema della politica è basato su un principio di perpetuazione di sé, che è quello burocratico.
La parola chiave della teoria luhmanniana è quindi  complessità e vuol rappresentare la crisi di ogni “spiegazione semplice” del mondo e dei processi sociali : “il mondo è complesso e rende sempre più inafferrabile la totalità degli elementi e dei dati”. Perciò, non è più pensabile alcun “soggetto generale” che riesca a conoscere la totalità.
Traducendo e banalizzando (ma neanche eccessivamente): non è pensabile che un partito, una organizzazione, un intellettuale collettivo, riesca ad interpretare il mondo nel suo complesso. Ed è ovvio che, se non riesce ad interpretarlo, è assurdo che pretenda di trasformarlo!
Espressioni come rappresentanza o sovranità nazionale hanno conseguentemente perso di significato. Viene abrogata ogni concezione della democrazia come valore, si produce una concezione della politica come pura amministrazione, si dichiara l’improponibilità di ogni idea di governo programmato dell’economia, si rende inoperante una teoria del conflitto, si dichiara deperita ogni nozione di opposizione politica e sociale…
Difficilmente l'effervescenza dei processi della società civile italiana, la multiformità del suo civismo potevano entrare negli schemi di questo neofunzionalismo. E’ dunque per esorcizzare questa originalità del linguaggio politologico che fu coniato il termine di "anomalia del caso italiano". E a questa anomalia si trattava di dare risposta. Risposta  condensata in un libro –  La crisi della democrazia – che racco­glie il rapporto tenuto a Kyoto nel maggio 1975 dalla Commissione Trilaterale.
Tale Commissione, fondata nel 1973, è, come scrive Gianni Agnelli nella prefazione all’edizione italiana del suddetto testo,“un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti, delle tre aree del mondo industrializzato (America settentrionale, Europa occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse”. E’, quindi, un’organizzazione internazionale che assumerà sempre più un ruolo essenziale nella definizione della strategia di un mondo che si avvia ad essere globalizzato.
Le relazioni a quell’assemblea furono tenute da un europeo (Michel Crozier), da un americano (Samuel P.Huntington), da un giapponese (Joji Watanuki), ma il reale referente teorico resta Niklas Luhmann.
È evidente che il tema nel quale si precipita a imbuto, dopo aver evocato il ricambio, è se sia possibile una politica democratica senza soggetti democraticamente intesi. Il governo dei sottosistemi luhmanniani può infatti essere ottenuto in termini di governabilità prescindendo dalla rappresentanza. Con la rappresentanza c'è politica a qualche titolo democratica. Con la sola governabilità si può anche prescindere dalla democrazia.
Non a caso la governabilità veniva proposta all'Italia come antidoto a un "eccesso di partecipazione". Dove il rischio e il problema non è soltanto la protervia del vecchio, ma anche il vuoto (di democrazia e di partecipazione) del nuovo.
Conclude Natoli (che non ha invece mai nascosto una favorevole attenzione alla sistemica luhmanniana)  la propria disamina osservando che Guicciardini ha perfettamente ragione nel dirci che è la forza delle cose a renderci trasformisti. Sociologia dal respiro storico e alta e lucida politologia. Ma resta davanti a noi la necessità di ricercare una soluzione politica, o almeno di mettere in campo gli sforzi che accompagnano la sua ricerca.
L'ansia del ricambio è quindi chiamata a fare i conti ancora una volta prima con i soggetti che con i sistemi e le regole del gioco. La governabilità ci importa, ma altrettanto ci sta a cuore la rappresentatività democratica. E una vittoria della sola governabilità ci apparirebbe una vittoria di Pirro.


Note

1 Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani, La Scuola, Brescia 2014.
2 Ivi, p. 11.
3 Ivi, p.16.
4 Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani, Feltrinelli, Milano 1991, p. 58.
5 Salvatore Natoli, op. cit., p. 18.
6 A cura di David Bidussa, Siamo italiani, chiare lettere, Milano 2007, p. 31.
7 Ivi, pp. 32 – 33.
8 Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Bari, 2005, p. 177.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 194.
11Francesco Saverio Festa, Pensare la politica. Federalismo e autonomismo in Guido Dorso, EdizioniLavoro, Roma      2002, p. 43.
12Ivi, p. 12.
13Ivi, p. 10.
14 Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino, 2009, p. 322.
15 Francesco Saverio Festa, Pensare la politica. Federalismo e autonomismo in Guido Dorso, op. cit., p. 56.
16Ivi, p. 81.
17Salvatore Natoli, La trasformazione non governata. Appunti sulla tipologia del mutamento nell’Italia degli anni 80/90, in “Bailamme”, n. 9, giugno 1991, p. 54.
18 Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani, op. cit., p. 23.
19Ivi, p. 29.
20 Ivi, p. 30.



Rileggere oggi Togliatti e papa Giovanni
di Giovanni Bianchi





Una riflessione da non omettere
Palmiro Togliatti e papa Giovanni. Cinquant'anni dopo il discorso "Il destino dell'uomo" e l'enciclica "Pacem in terris" è un libro collettivo che merita un'attenta lettura perché affronta i temi di un confronto che i nostri giorni dichiarano tutt'altro che congiunturali. Purché si abbia la pazienza di leggere, magari di studiare e non si sia persa l'abitudine a discutere. I temi infatti che riguardano il rapporto tra la religione e la modernità continuano a restare di bruciante attualità per la corretta pretesa delle religioni di avere voce nello spazio pubblico. In fondo potremmo pensare al prolungarsi del dibattito tra Ratzinger e Habermas a Monaco di Baviera nel 2004.
Nel discorso tenuto nei primi anni Sessanta in un teatro di Bergamo, Palmiro Togliatti, contro le interpretazioni che connettono secolarizzazione e modernità, sostiene il permanere della religione e del suo senso e parla di "una compiuta religione dell'uomo" in una fase nella quale i partiti si presentano come interpreti degli interessi di lungo termine. Si tratta in effetti di percorsi che carsicamente sono destinati a riaffiorare e a dare frutti.
Discorsi basati su visioni di lungo periodo, quelle cioè che ci obbligano a tornare a discutere sui fini, mentre oggi abbiamo ridotto la discussione ai mezzi alternativi.
C'è ancora tra noi un rapporto tra visione e politica? Oppure la dissipazione della dignità della politica ha prodotto irreversibilmente il deserto della discussione, della critica e dei loro luoghi? Non mette in allarme il fatto che tutto ciò avvenga in presenza di poteri sociali globali? Non inquieta la mancanza di fini che caratterizza le nostre incredibili stagioni politiche? Finché continueremo a discutere soltanto sulla diversità dei mezzi?
Il conflitto è comunque ineliminabile (il conflitto, non la violenza) e attraversa tutte le regioni dello scibile. Stando alla testimonianza di monsignor Capovilla, il notissimo segretario del papa, la sera precedente l'apertura del concilio papa Giovanni XXIII telefona ai cardinali con voce alterata dicendo: "Non mi lascerò strappare il concilio dalle mani"!
Dunque, su un versante come sull'altro, ogni conquista culturale è frutto di fatica e di lotta. Né può fare eccezione un’enciclica come la Pacem in terris, alla quale si comincia a lavorare nell'ottobre del 1962.
Forse troppo rapida questa contestualizzazione, ma mi consente di situare i protagonisti del libro e di un necessario dibattito.
Togliatti. Togliatti è insieme un grande leader –e quindi più che con l'ideologia si confronta con la storia– e un grande intellettuale organico del comunismo internazionale. È come Gramsci, ovviamente, ma anche, meno ovviamente, come Aldo Moro che diceva che il pensare politica è già per il novantanove percento fare politica…
E da questa affermazione morotea è misurabile tutta la distanza del mezzo secolo che ci separa dal discorso di Bergamo del 20 marzo 1963.
Tanto più significativa se si fa mente locale sulla circostanza che è in corso la campagna elettorale, ma il segretario del Pci si tiene lontano dalle schermaglie tattiche del momento e si impegna in una operazione politica di altissimo livello, cercando di costruire il terreno per una collaborazione tra il movimento operaio e il mondo cattolico sui grandi temi del nostro tempo, sulla scia dell’impulso decisivo del pontefice, che segna davvero una «svolta» nella storia della Chiesa.
Dopo pochi giorni, l’11 aprile, viene promulgata l’enciclica Pacem in terris, nella quale giungono a piena maturazione i nuovi orientamenti dottrinali della Chiesa cattolica, con un impatto fortissimo sulla società italiana e sull’intera comunità internazionale.
Di papa Giovanni basterà ricordare non soltanto la celebratissima bontà, ma il genio storico e diplomatico che lo contraddistinsero all'interno di una dirigenza vaticana rispetto alla quale marcava una ascendenza popolare non addomesticata dal tirocinio diplomatico. Significative in tal senso le sue iniziative alla nunziatura di Parigi dove riuscì, con bonomia mista a finissima sagacia, a colmare una distanza tra il governo e l’episcopato francese che discendeva dalle non poche connivenze delle alte sfere ecclesiastiche con il governo di Vichy.
Banale osservare che nessuno dei due – e il segretario politico e il papa – improvvisa, ma anzi si colloca all'interno di un lungo e accidentato percorso di elaborazione che, per parte sua, con genialità e determinazione, conduce a compimento.
Approfitterei di quest'osservazione per porre un tema centrale nell'enciclica giovannea Pacem in terris come nel discorso di Togliatti a Bergamo. Si tratta del lungo e faticoso percorso di una laicità comune nel nostro Paese, che vede i suoi prodromi nella Carta costituzionale (lì è l'incontro tra Togliatti e Dossetti a segnare le tappe) e un punto di approdo evidente nei due testi che stiamo esaminando.

Laicità e democrazia




Osserva il gesuita padre Giacomo Costa, direttore di "Aggiornamenti Sociali", che non è azzardato affermare che oggi anche la democrazia è questione di fede. Di fronte alle molte «tentazioni», tecnocratiche o populiste che siano, la pratica politica come discussione sulle priorità tra i beni sociali primari e sugli obiettivi di medio e lungo periodo di un buon governo non ha bisogno solamente di persone esperte nell’uso delle risorse che la democrazia mette a disposizione per la costruzione di una società più giusta – compito peraltro fondamentale –  ma necessita anche di testimoni che sappiano convincere, con le parole e con l’impegno, che vale la pena portare avanti il dibattito democratico e parteciparvi attivamente, qualunque sia la propria posizione nella società.
In questa situazione di fragilità democratica la distinzione tra fede elementare e fede esplicitamente cristiana assume valenza politica e sociale. Compito dei cristiani è di discernere i segni di questa «fede» ovunque essi si manifestino nella società, di apprezzarli e incoraggiarli, ma anche di «farli crescere». E poiché questa fede si incarna sempre in persone significative, il discernimento consiste precisamente nell’individuarle, di qualunque appartenenza esse siano, e anche di formarne di nuove.
In questa situazione la ricomposizione del paesaggio religioso e l’arrivo di nuovi interlocutori nello spazio pubblico – cittadini di altre religioni o di diversi orizzonti spirituali o ideologici –  è da leggere come un dato di fatto. Alle nostre società europee conviene dunque  scommettere sulla capacità delle religioni e delle posizioni ideologiche di interrogarsi a vicenda e di operare un ritorno critico su se stesse.
È quanto propone la Caritas in veritate (per non citare Papa Francesco): «L’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo» (n. 56).
È quanto propone anche Massimo Cacciari: «La concezione, oggi largamente dominante, che oppone laicità ad atto di fede è banalizzante. Laico può essere il credente come il non credente. E così entrambi possono essere espressione del più vuoto dogmatismo. Laico non è colui che rifiuta, o peggio deride, il sacro, ma letteralmente colui che vi sta di fronte. Di fronte in ogni senso: discutendolo, interrogandolo, mettendosi in discussione di fronte al suo mistero. Laico è ogni credente non superstizioso, capace cioè, anzi desideroso di discutere faccia a faccia col proprio Dio».
La sfida per i cristiani è di entrare effettivamente in questa prospettiva a partire dalle proprie risorse teologiche, spirituali ed etiche, invitando altri partner a fare lo stesso.
Il tema che viene in rilievo è ancora una volta la particolare costruzione della laicità in Italia. Essa viene talvolta presentata come una sponda alla quale i cattolici dovrebbero approdare e sulla quale la cultura laica sta da sempre saldamente insediata. Non mi pare che le cose stiano così: la laicità è piuttosto un "luogo terzo" nel quale convergono costruttivamente le diverse culture di questo Paese. I due testi che stiamo esaminando sono una tappa estremamente importante in questa direzione. Merito del libro è  ricostruire con acribia il backstage di questo duplice e comune approdo.
Giuseppe Vacca esprime una valutazione ed un inquadramento complessivi, all'interno di un quadro storico rapidamente e sapientemente evocato, che mi trova consenziente. Di Togliatti viene ricordato l’acume che gli consente di superare la pretesa "di un universalismo fondato sulla classe operaia, e quindi viene meno l'idea che questo movimento storico possa essere il portatore di una modernità alternativa"...
Terreno già preparato da una osservazione iniziale fondante nel saggio di Vacca: "E’ un fiume carsico che attraversa la storia della democrazia italiana passando per la Resistenza, la guerra di Liberazione e la Costituente, in cui la collaborazione tra cattolici, comunisti, socialisti, liberali e azionisti fu essenziale, ma fu fondamentale soprattutto la convergenza tra cattolici e comunisti sui principi e i valori che ispirano la prima parte della Costituzione. Com'è noto, alla sua base vi è il personalismo cristiano e Togliatti fu ben contento di aderire alle posizioni che in quella sede venivano avanzate dai "dossettiani"."
Bisogna tornare qui.

Il patriottismo costituzionale



Vi è un'espressione, opportunamente atterrata dai cieli tedeschi nel linguaggio giuridico e politico italiano, che definisce l'impegno dossettiano dagli inizi negli anni Cinquanta alla fase finale degli anni Novanta: questa espressione è "patriottismo costituzionale". Dossetti ne è cosciente e la usa espressamente in una citatissima conferenza tenuta nel 1995 all'Istituto di Studi Filosofici di Napoli: "La Costituzione del 1948, la prima non  elargita ma veramente datasi da una grande parte del popolo italiano, e la prima coniungente le garanzie di uguaglianza per tutti e le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di governo, può concorrere a sanare vecchie ferite, e nuove, del nostro processo unitario e a fondare quello che, già vissuto in America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e sociologi della Germania di Bonn e chiamato patriottismo della costituzione. Un patriottismo che legittima la ripresa di un concetto e di un senso della patria, e rimasto presso di noi per decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi nazionalistiche che hanno portato a tante deviazioni e disastri".
Vi ritroviamo peraltro uno dei tanti esempi della prosa dossettiana che ogni volta sacrifica alla chiarezza e alla concisione ogni concessione retorica. Parole che risuonavano con forza inedita e ritrovata verità in una fase nella quale aveva inizio la evidente dissoluzione di una cultura politica cui si accompagna l'affievolirsi (il verbo è troppo soft) del tessuto morale della Nazione.
Non a caso la visione dossettiana è anzitutto debitrice al pensare politica dal momento che uno stigma del Dossetti costituente è proprio l'alta dignità e il valore attribuito al confronto delle idee, il terreno adatto a consentire l'incontro sempre auspicato tra l'ideale cristiano e le culture laiche più pensose. Avendo come Norberto Bobbio chiaro fin dagli inizi che il nostro può considerarsi un Paese di "diversamente credenti". Dove proprio per questo fosse possibile un confronto e un incontro su obiettivi di vasto volo e respiro, e non lo scivolamento verso soluzioni di compromesso su principi fondamentali di così basso profilo da impedire di dar vita a durature sintesi ideali. Così vedono la luce gli articoli 2 e 3 del Testo che segnalano il protagonismo di Dossetti intento a misurarsi con le posizioni di Lelio Basso.
Fu lungo questa linea interpretativa che –secondo Leopoldo Elia– Dossetti riuscì a convincere i Settantacinque che fosse possibile rintracciare "una ideologia comune" e non di parte sulla quale fondare il nuovo edificio costituzionale. Una concezione caratterizzata cioè dalla centralità dei diritti della persona, dei suoi diritti fondamentali "riconosciuti" e non creati e dettati dalla Repubblica. Vengono così posti nel terreno della Nazione i semi di un duraturo (e includente) personalismo costituzionale.
Il vero idem sentire del Paese sopravvissuto a laceranti divisioni, con una ambiziosa e non spenta azione riformatrice in campo economico e sociale.

La svolta a gomito
Molti italiani ignorano l'autentica svolta a gomito rappresentata dal secondo ordine del giorno presentato da Giuseppe Dossetti nella Seconda Sottocommissione, e votato all'unanimità. Il problema risolto in quella occasione è discriminante perché Dossetti, dopo aver asserito che  forze e culture diverse possono scrivere insieme la Costituzione soltanto trovando una base e una visione comune, avanza la propria proposta. Era il 9 settembre del 1946.
Di assoluto rilievo la geniale (e non revisionistica) impostazione data in quella occasione al tema fascismo–antifascismo, dal momento che la Costituzione del 1948 è illeggibile a prescindere dalla Lotta di Liberazione.
Propone Dossetti: se il fascismo è il prevalere dello Stato rispetto alla persona, noi assumiamo come antifascismo il prevalere della persona rispetto allo Stato. Si tratta di accedere ad una convenzione politica ed anche etica.
Che il fascismo fosse la prevalenza dello Stato rispetto alla persona lo testimonia l’articolo Che cos’è il Fascismo firmato per L’Enciclopedia Italiana da Benito Mussolini e scritto, come è risaputo, da Giovanni Gentile. Quanto alla preminenza della persona siamo ancora una volta al cuore della cultura cattolico-democratica, centrale – anche per la concezione dei cosiddetti “corpi intermedi” e del bene comune – nel filone di pensiero che va dalla Dottrina Sociale della Chiesa a Maritain e Mounier.
Nessuno tra i costituenti, grazie alla soluzione fornita da Dossetti, doveva strappare le pagine della propria storia o almanaccare intorno alla espressione “guerra civile” introdotta in seguito da De Felice. Già allora alle spalle, nella chiarezza, le preoccupazioni espresse da Luciano Violante durante il discorso di insediamento in quanto presidente della Camera nel 1996. Una Costituzione che oppone un muro di legalità e partecipazione alle derive plebiscitarie. Una Costituzione che non a caso menziona il lavoro al primo posto e nel primo articolo: dove il lavoro risulta fondamento della convivenza nazionale, in quanto diritto e dovere della persona, non assimilabile in alcun modo al diritto commerciale, proprio perché la persona non è riducibile a merce e anzi la sua dignità viene dichiarata “inviolabile”.
Una Costituzione in tutto personalista dunque. La persona come crocevia di culture sia pure in fiera contrapposizione tra loro. La persona in quanto trascendenza “orizzontale” e “verticale” (l’Altro), secondo la lezione di Mounier.

L'utile acribia di Francesco Mores






Scrive Mores nel suo saggio inserito nel libro collettivo di cui stiamo parlando: "Per ciò che riguarda la circostanza particolare che stiamo discutendo – che è solo, si ricordi, il rapporto tra due testi, la Pacem in terris e il discorso di Bergamo – vale solo la cronologia: la Pacem in terris fu emanata l'11 aprile 1963, il discorso di Bergamo fu pronunciato il 20 marzo (e pubblicato il 30 marzo 1963 su "Rinascita"), don Giuseppe De Luca era morto il 19 marzo 1962. Non è quindi ipotizzabile – come pure è stato ampiamente almanaccato – alcun passaggio di carte o una particolare e informatissima "soffiata" dal grande erudito don Giuseppe De Luca al segretario del Pci Palmiro Togliatti nell'imminenza del discorso di Bergamo.
I ricordi di Natta e Santini collimano con quelli di Romana Guarnieri, segretaria di don Giuseppe, e animatrice con Pino Trotta della rivista "Bailamme" (collaterale alle Acli da me presiedute) della quale fecero parte Mario Tronti e Salvatore Natoli, Luisa Muraro e Rosetta Stella, Edoardo Benvenuto e Sergio Quinzio, il rodaniano Tranquilli e altri di una compagine che si sarà capito pluralisticamente assortita per onorare il nome della rivista medesima.
Siccome l'osservazione di Mores non può essere falsificata dai ricordi, dalla logica, dai rimpianti e neppure dagli aggiustamenti, se ne evince che i due percorsi – quello del segretario politico e quello del papa – la cui convergenza non possiamo che constatare ammirati, aveva fondamenti, intenzioni, sapienza storica sicuramente fondate in due culture diverse e non poco antagonistiche, che una qualche provvidenziale astuzia della ragione conduceva a dialogare non sulle subordinate, ma su un comune umanesimo, dove il destino dell'uomo e della pace fanno premio su tutto il resto: a partire dalle politiche di potenza e anche dalla missione alla conversione.
I due testi in esame cioè finiscono per assumere un peso e una rilevanza maggiore di quanto forse non si sia fin qui pensato. Le loro affinità elettive nascono cioè all'interno di due culture europee antagonistiche, costrette alla fine a riconoscersi convergenti. Non si azzerano né differenze né contrapposizioni, ma il confronto e una non dissimulabile empatia per la storia di ieri e i destini imperscrutabili dell'oggi finiscono per inquietarci nel momento stesso in cui alimentano una speranza comune che ha radici in approcci tanto diversi.
Non dunque un saggio e sincero ammiccamento diplomatico, ma le acque dei due fiumi non più soltanto carsici che vedono le proprie acque tumultuose confluire nell'alveo comune della responsabilità verso la storia e, se necessario, contro la storia.

La Pacem in terris


Quanto alla Pacem in terris è risaputo che essa fu promulgata l'11 aprile 1963 in pieno Concilio Ecumenico Vaticano II, ma all'insaputa dei padri conciliari, che non poco se ne lamentarono e dolsero. È possibile anche congetturare che il papa bergamasco, coadiuvato dalla lunga esperienza di monsignor Pietro Pavan –in seguito rettore dell'Università lateranense, e propostosi con una lettera al segretario monsignor Capovilla come redattore di quella che sarebbe divenuta l'enciclica dell'anno seguente– intendesse tenere l'enciclica, conscio delle sue discontinuità e di effetti potenzialmente esplosivi, lontano da pressioni e interferenze. Anche se l'umore dei padri doveva risultare soprattutto alla fine del concilio così affine al suo "aggiornamento", al punto che dei 74 schemi preparatori approntati dalla curia nessuno riuscì ad arrivare in porto, ed anzi furono tutti bocciati.
Esiste una chiave interpretativa generale per la dottrina sociale della Chiesa (DSC)? Ovvero, esiste la possibilità di inquadrare teologicamente e storicamente la DSC nella vicenda di questi ultimi anni –ben più di un secolo– dall'emanazione dell‘enciclica "Rerum novarum" universalmente assunta come punto di partenza della DSC medesima?
La risposta è sempre difficile e complessa per chi non ha autorità teologica e tanto meno magisteriale ed è quindi costretto a misurarsi con la sua pochezza e con la difficoltà della materia.
A me è sembrato che il metodo migliore per dare una risposta fosse quello di individuare un filo conduttore che, assumendone tutta la responsabilità, mi pare di aver trovato nelle riflessioni che a questa tematica dedicò un originale teologo come Edoardo Benvenuto, grande amico "interno" alle Acli.
Nel vasto mare della produzione teologica di Benvenuto il testo dedicato alla dottrina sociale della Chiesa assume quasi la forma del masso erratico, e lui stesso d’ altro canto era il primo ad ammettere di non avere particolari competenze in materia di storia e di discipline giuridico–economiche, materie tutte collegate con l’ oggetto specifico della dottrina sociale della Chiesa (DSC). Diciamo pure che se non fosse stato per le affettuose e reiterate insistenze di un altro amico che ci ha lasciati, Pino Trotta, le note sulla DSC che Benvenuto andò pubblicando per diversi numeri della rivista “Bailamme” non avrebbero mai visto la luce.
Il lieto annunzio dell'enciclica è un messaggio di pace a tutti gli uomini di buona volontà. La prima enciclica che un papa rivolge non solo ai vescovi e ai cattolici, ma a "tutti gli uomini di buona volontà". La prima volta cioè che un documento pontificio assume esplicitamente un'interlocuzione così estesa.
In essa viene preso in esame l'equilibrio fra blocco occidentale e sovietico in quanto fomentatore di nuove tensioni internazionali (crisi di Cuba). Se ne deduce il rischio di quella che in quegli anni Franco Fornari definiva come "ipotesi pantoclastica", comportante la distruzione totale dell'umanità, e che spingeva il sindaco "santo" di Firenze Giorgio La Pira sui "sentieri apocalittici" additati da Isaia.
Si prende nota della influenza nuova della classe operaia nella società e del ruolo più incisivo della donna, così pure dell'aspirazione dei popoli ex-coloniali all'indipendenza nazionale. Si tratta in effetti dei "segni dei tempi" sui quali Giovanni XXIII richiama l'attenzione. Una nuova categoria di interpretazione della storia (esplicitata nei punti 21, 22 e 23) che segna una discriminante nella dottrina sociale della Chiesa e nei suoi criteri, paragonabile per importanza fondativa al principio di sussidiarietà codificato da papa Pio XI nella Quadragesimo anno. Con una difficoltà e una novità in più: i "segni dei tempi" non risultano statici né immutabili, ma mutano con il mutare delle condizioni storiche. Il primo a rendersene conto fu il solito don Giuseppe Dossetti che segnalò il problema nel 1986 nella introduzione a Le querce di Monte Sole. Una introduzione che in verità si presenta come un intensissimo saggio di teologia della storia. L'enciclica si compone di cinque parti: l'ordine tra gli esseri umani, i diritti e i doveri fondamentali di ogni persona; i rapporti fra gli individui e i poteri pubblici; i rapporti fra gli Stati (ruolo positivo degli organismi internazionali); i rapporti degli individui e delle comunità politiche in seno alla comunità internazionale; le direttive pastorali.
Nell'enciclica ha particolare rilievo l'invito del Papa alla collaborazione dei cattolici con i non cristiani in campo sociale; essa può nascere sulla base di una distinzione tra le errate teorie filosofiche e i movimenti sociali che ne derivano.
Sono questi due paragrafi (nn. 83 e 84) che risuonarono come un nuovo "colpo di tuono" nella cultura e nei movimenti politici degli anni Sessanta. "Non si dovrà però mai confondere l'errore con l'errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale e religioso" (83).
"Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell'universo e dell'uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione"? (84)
Commenta Beppe Vacca: "Si tratta della rimozione, senza esplicitarlo, della scomunica del 1949 nei confronti dei comunisti".
Né mancano le prove sul campo e perfino quelle aneddotiche dell'impatto popolare dell'enciclica. Sono nato a Sesto San Giovanni. Mio padre era partigiano cristiano e i miei zii erano tutti partigiani garibaldini. In casa mia era appeso alla parete il quadro della Sacra Famiglia con il lumino perennemente acceso. Nelle case dei miei cugini il quadro era quello di Giuseppe Stalin, con il lumino perennemente acceso. Lo tolsero quando seppero dell'enciclica e lo sostituirono con la fotografia di Papa Giovanni XXIII. Narrai questo episodio qualche anno dopo alla Pro Civitate Christiana di Assisi durante un animato dibattito. Era presente a quella tavola rotonda il cardinal Pellegrino, allora arcivescovo di Torino. Volle intervenire a darmi manforte e aggiunse di suo: "Io stesso mi resi conto di quanto il messaggio di papa Giovanni fosse passato tra la gente quando vidi la sua effigie issata sui finestrini dei camionisti, insieme ad altre per la verità assai meno ieratiche"...
L'enciclica espone dunque e sinteticamente i capisaldi di una pace giusta e duratura basata su verità, giustizia, solidarietà e libertà.

Un'ipotesi di lavoro?
Credo non possa limitarsi ai saggi e alla convegnistica. Nella fase dei populismi trionfanti, che vedono la pubblicità aver detronizzato la politica, quantomeno il richiamo al primato    
–togliattiano e moroteo– del pensare politica pare presentarsi come un impervio dovere dell’ora.


Anche i treni veloci deragliano
di Giovanni Bianchi

Memento audere semper



Ho ripescato un vecchio mantra, non sempre usato dalla sinistra, per contribuire a incitare me stesso e il Paese a buttarsi finalmente nel guado per attraversarlo. Per porre cioè fine all'infinitudine della transizione infinita. In fondo la sua traduzione popolaresca (e populista) la ritroviamo nel Renzi che ripete anche troppo spesso: "Ci metto la faccia"! Non si tratta cioè tanto di decisionismo quanto di coraggio in quanto temperamento e in quanto atteggiamento quotidiano. Credo anche che la critica –in ogni caso doverosa– non si debba fermare agli annunci, ma sia sospinta a guardare i frutti e i risultati. Ad esser sincero, lo stile mi pare convincente, mentre i frutti non sono tali da creare entusiasmo. Mi vanno bene gli 80€ in busta paga, sia pure con la smaccata strizzatina d'occhio alle elezioni europee, dal momento che perfino il Vangelo invita a farsi amici con la disonesta  ricchezza, mentre non mi piacciono la gestazione e il parto prevedibile della legge elettorale e mi lasciano perplesso l'impianto, la ratio e l'architettura costituzionale del nuovo Senato. Il decisionismo italico cioè mi pare più brillante nello stile che nella sostanza. E però ci sono tempi in cui i nodi si sono talmente intricati da poter essere soltanto tagliati e il troppo tergiversare potrebbe risultare autolesionista, soprattutto dopo gli esiti del pur capace Enrico Letta. 
Siamo tutti dunque diventati, da destra a sinistra passando per il centro,decisionisti dell'immagine e populisti? Probabilmente il caso di studio più cospicuo è costituito dal peronismo, del quale mi sono un poco occupato prima e dopo il default argentino, anche se la preparazione più tosta l’ho dedicata al populismo statunitense, meno interessante per noi.
Il peronismo infatti, in tutta la sua gamma, dal generale ad Evita, dal dubbio Menem al radicale Firmenich dei "montoneros", è più prossimo come configurazione a quello italiano perché il nostro Paese è stato sovente populista a propria insaputa, confondendo il populismo con la destra, in una Nazione che la destra ha storicamente perso per strada con la chiusura dell'esperienza di Spaventa e Quintino Sella.

Quale populismo 



Un populismo il nostro quindi insieme inconscio e multiforme, che deve essere ancora studiato anche nei suoi trascorsi, con un rapporto che costantemente si muove tra democrazia e demagogia. E con l'osservazione preliminare che proprio la demagogia è la categoria classica (ben nota ai greci di Atene) che poco ci curiamo di approfondire, avendo tutto messo nel conto dell'inevitabile populismo dell'immagine, che altrettanto inevitabilmente trascina con sé la personalizzazione della politica e degli ultimi ruderi dei partiti politici. 
Qui stiamo. Tutti, anche gli analisti, fanno i conti con questa circostanza, alla quale lentamente ci stiamo alfabetizzando, non per la sua leggerezza, ma proprio per la sua incontenibile irruenza e pervasività.
Guardiamo cioè i populismi assediati da un populismo che ci attraversa anche interiormente e troppo spesso inconsciamente.
E dopo aver quindi preso le parti della critica e della sua necessità, si tratta di riproporre una domanda circa il tasso di democrazia che ogni operazione comporta. Ricordando da una parte la lezione di Sturzo –per il quale la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte– e dall'altra le pressioni da sopra e da fuori che dai tempi della gloriosa Trilaterale sulla democrazia vengono esercitate in nome di un molto dubbio eccesso di partecipazione e in nome di una molto legittimata esigenza di governabilità.
Nessuno spavento, dal momento che non solo le complessioni gracili, ma anche un fisico sano va talvolta soggetto a sbandamenti febbricitanti…
Un fantasma petulante insegue non a caso i miei ultimi anni e mi sussurra: "Guarda che esiste un rischio reale di finire fuori strada. Più presto di quanto pensiate. Succede anche ai treni veloci di deragliare". Non per colpa della velocità, ma per assenza di critica.
Renzi è il miglior "piazzista" (Hannah Arendt, 1963, e dimenticate per favore Berlusconi) in grado di vendere il prodotto politico, altrimenti negletto, ai cittadini-consumatori: ex cittadini e sempre più consumatori. Non viene percepito né di destra né di sinistra perché tutti, non solo lui, sono avvolti dal pensiero unico. Ed è nelle corde della pubblicità che sia l'offerta a creare la domanda. Dubito anche che nel deserto della critica l'autocritica venga ridotta a critica delle auto…
La festa finisce presto però se la pretesa è sostituire il carnevale alla quaresima. Perché presto, troppo presto, la domanda tornerà ad essere: chi rottama i rottamatori? Medicalmente osservato, Renzi infila nell'organismo dosi massicce di cortisone: l’agente che simula nel tempo breve una salute ritrovata senza spesso realizzarla. Non è il problema di Renzi: è il problema di tutti quanti. Perché, a partire da Obama, insistono più sull'innovazione che sulla critica.
Scrive Romano Màdera in Il nudo piacere di vivere: "L'innovazione, che è rivoluzione incessante nei mezzi e nei modi della produzione, nelle procedure, investe le cose e quindi il panorama della nostra percezione, catturando l'attenzione del cittadino-consumatore per shock and spots. Ma costringe anche le persone al carosello dei posti di lavoro e della formazione continua. Uno stile di vita che inevitabilmente corrode ogni stabilità delle relazioni fra le persone e assoggetta persino la procreazione e la cura dei figli al contratto matrimoniale "a tempo", che sempre più è la forma reale delle relazioni eterosessuali. Che cos’è dunque naturale, e che cosa artificiale nel nostro mondo? I bisogni reali sono dipendenti da quelli né naturali né necessari dell'accumulare denaro per accumulare ancora più denaro, formula dell'accumulazione capitalistica. Il modello della rivoluzione permanente intacca le identità e quindi rende improbabile, o almeno residuale, la sequela di un tipo esemplare di persona da imitare secondo le caratteristiche e le contingenze della propria vita".[1]
Sono considerazioni da proporre ai socialdemocratici interessatamente curiosi del revisionismo e passati nelle schiere degli atei devoti: atei sì, perché secolarizzati, e devoti del turbocapitalismo, dei suoi poteri e delle sue rapide carriere. Eppure non possiamo fare a meno di Marx e del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria.

Moderno e antimoderno

Ministri e mutande

È a questo punto che tento una rapida ricognizione sullo stato della critica: ripeto che essa diventa rapidamente obsoleta quando prende ostinatamente le parti della sola innovazione. Il nuovo non è per statuto necessariamente migliore del vecchio. La critica si alimenta di moderno e antimoderno. Che è la chance potenzialmente resurrezionale di quello che in Italia continuiamo a chiamare il cattolicesimo democratico. Ma allora, non sono queste le vere radici di Renzi che si affaccia alla maturità condotto per mano dallo scoutismo? Lo scoutismo mi va bene. Finalmente generazioni più a-ideologiche che post-ideologiche hanno messo la sordina alle prediche domenicali di Eugenio Scalfari, che ogni domenica religiosamente leggo su "la Repubblica", e detto al mondo che i reduci sono reduci e non combattenti in servizio permanente effettivo.
Tuttavia non credo sia necessario ogni volta motivare tutto. Basta alla circostanza l'evocazione di un esempio: remember Lusi, ex amministratore della Margherita e del PD. Anche lui era scout e l'ombra di Baden-Powell, non gli è bastata.
Non è stato ancora scoperto (o almeno non ne ho notizia) il vaccino a quello che i tedeschi –sempre troppo luterani– chiamano il potere demoniaco del potere. E l'innovazione non sembra nella modernità antidoto in grado di esorcizzarlo.
Romano Màdera ha visto giusto, prendendo le mosse dal laico Epicuro: "L'innovazione, che è rivoluzione incessante nei mezzi e nei modi della produzione, nelle procedure, investe le cose e quindi il panorama della nostra percezione, catturando l'attenzione del cittadino-consumatore per shock and spots".[2]
Abbiamo finalmente dalla nostra parte il principe dei piazzisti. Così giovane, così intelligente, così esuberante, così simpatico, così vero! Ma destinato dall'usura della velocità a danzare una sola estate nella vendita del prodotto "che tira". Poi dovrà cambiare prodotto o andarsene, o rinegoziare un accordo con i produttori del nuovo prodotto alla moda. La sua fede democratica verrà sottoposta a indicibile tensione, perché la scarsa attitudine all'autocritica sembra escludere dall'orizzonte dei rottamatori l'auto-rottamazione in quanto rottamatori di se stessi.
E il tempo –ricorda il vecchio Qoèlet– è sempre maledettamente breve, anche per chi, affidandosi a una qualche residua saggezza, lo vive con il disincanto di chi non riesce più a credere nelle virtù salvifiche dell’innovazione in quanto tale.
Renzi dunque non è né berlusconiano né craxiano (secondo l'acuta aggettivazione di Gianfranco Brunelli): è figlio del suo tempo, veloce quanto Mercurio; e un tempo veloce rende rapidamente obsoleta l'innovazione che ha partorito.
L'innovazione, e il suo fascino irresistibile agli occhi dei compagni di Ulisse che si sono precipitati da Auchan invece che dalla vecchia Circe. Io invece come il povero Catullo odi et amo. Renzi mi sta simpatico. Viene dal mio mondo. Ma dovrei smettere di pensare con le categorie che ho coltivato e criticato lungo una vita non breve. Sono anche stupito piacevolmente dalla circostanza che molti miei coetanei, di me più acculturati, ripetono in televisione famo a fidasse, usando gli argomenti della generazione, della psicologia dell'età evolutiva e soprattutto della insopportabilità degli errori e della protervia di quelli che Renzi hanno generato in maniera preterintenzionale e continuano sotto sotto ad essere convinti,  dal loro coté, che si tratti al più di una gravidanza isterica.
Io invece penso agli errori di valutazione di Benedetto Croce e all'idea susseguente di parentesi. Penso al dileggio motivato dei "labbroni" giolittiani, allo sconcerto degli esiti di Barack Obama, così bravo in retorica e così carente in politica pratica. Insomma, largo ai giovani! Ma che studino. Non si sentano "imparati". Che almeno abbiano letto la frase del cardinale Martini: "La politica sembra essere considerata un'attività umana che non abbia bisogno di una preparazione specifica. I risultati sono di conseguenza".   
La politica, non la pubblicità politica.
Sono vecchio e pieno di ricordi. Rammento quando salii da Dossetti dopo la formazione del primo governo di Romano Prodi. Mi disse: "La squadra è debole". Nella squadra c'erano Ciampi e Nino Andreatta.
Che direbbe il vecchio monaco di una compagine governativa dove lo schema e l'intenzione di fondo (è retorica quella dei sindaci, del giovane e donna) sono quelli di proclamare al mondo che basta l'allenatore a vincere il derby e il campionato?

 Note: 
1.Romano Màdera “Il nudo piacere di vivere. La filosofia come terapia dell’esistenza
Mondadori, 2006, pag. 62                                                                                                               2.Ibidem

                                                                          


Sosterrebbe Dossetti?
Di Giovanni Bianchi

Elogio della pubblicità



Confesso di essere inaspettatamente motivato a fare l'elogio della pubblicità, così come Erasmo si produsse in quello della follia... Infatti dal 1994 nel Bel Paese la pubblicità ha sostituito la politica, oltre alla propaganda. E che cos'è la pubblicità se non la faccia motivante e vocazionalmente ottimistica del consumismo vincente? Che cosa è deputata a promuovere la pubblicità se non i prodotti già pronti per gli scaffali del supermercato? E può farlo senza promuovere il narcisismo collettivo (a tempo) al posto della Storia, delle sue durezze e contraddizioni?
La pubblicità regina si muove sul proscenio globale accompagnata dalle fide ancelle del sondaggismo, che segmentano i settori dei consumatori secondo le propensioni indotte da fuori con un'abile regia. Perché anche in questo caso è l'offerta che crea la domanda, e non viceversa. Il ruolo un tempo occupato nello spazio pubblico dai vati, dai testimoni e dai leaders  è così diventato man mano appannaggio di piazzisti di successo, che non propongono il proprio disegno, ma vendono meglio quel prodotto che i sondaggi registrano come il più richiesto e che i signori del consumo hanno provveduto ad accreditare subliminalmente con grande dispendio di tecniche raffinate. Il gioco lo aveva già svelato Hannah Arendt nell'ultimo capitolo di Sulla rivoluzione negli anni Sessanta.
Dopo i movimenti degli anni Settanta e di tutti decenni Gloriosi sono arrivate generazioni sanamente barbariche: tutte oltre l'Ideologia e tutte inconsapevolmente dentro l'uomo a una dimensione. I Senzastoria. Se c'è una colpa delle vecchie generazioni non è avere costruito a propria misura un welfare generale, solidale e possente: è non avere diffuso la memoria. Non siamo riusciti a farla passare. Poi il recipiente giovanile l'avrebbe interpretata e usata a proprio modo, ma così i nuovi barbari sono leggeri perché alleggeriti della memoria e del positivo rammemorare.
L'idea di Decadenza – demonizzata e cancellata dalla pubblicità – non gli appartiene. Non la  decadenza catastrofica e lineare predicata da quella Cassandra di Spengler, ma la decadenza così come oggi già si è presentata nell’Europa "detronizzata": quella cioè che finge di non vedere l'insulto alla sovranità di chi viola i confini di tutte le sovranità di tutto il mondo globalizzato con i droni come sceriffi a caccia dei terroristi. Mettendo in volo i droni da quel Grande Paese in cui i figli poveri non hanno i soldi per rifarsi la dentatura.
Questa decadenza non è neppure quella che spaventava  l’Agostino del De civitate Dei. È ignorata dai figli dell'illuminismo che ha spento i suoi lumi inquietanti perché nevroticamente ottimista.
È più affine al sentire di chi ha nel proprio bagaglio oltre all'idea di progresso anche quella dell'antimoderno. Sono più disponibili a intenderla gli sprovveduti ascoltatori di Radio Maria che i provvedutissimi reduci delle ideologie del Novecento e i loro nipotini che, pur pressati dalla necessità, sono cresciuti riflettendo sul Grande Fratello, X Factor, sulla saggistica digitale, pensosa e democratica, di Facebook e Twitter.
Cosa manca? La critica. Non m’importa di destra e sinistra, ma della critica sì. Senza critica non si fa politica, si è inconsapevolmente "piazzisti" (proprio così), come appunto ammoniva la Arendt dagli Usa negli anni Sessanta: perché così ridotta la politica di partito "ha semplicemente bisogno dell'abilità di un buon piazzista". La critica come duro pane di una politica consapevole e sensata che – infatti – non c'è più.
Non c'è perché è sostituita dalla pubblicità, che usa anche il negativo delle statistiche solo e inevitabilmente conflittuali di Istat, Ocse, Fondo Monetario, Banca d'Italia, Confindustria, Ufficio Studi dei commercianti del Veneto... per spaventarci ogni sera, e consolarci nel servizio televisivo successivo citando qualcuno deputato a dire che una ripresina è comunque dietro l'angolo, in un mondo globalizzato fatto a spigoli.
Dovendo comunque anch'io decidere nel mio piccolo un che fare, ho votato e fatto votare alle primarie per la segreteria del PD Matteo Renzi, il giovane e dinamico sindaco di Firenze. Per la squadra di un partito glorioso come il vecchio Torino mi è parso l'allenatore più adatto. Più adatto ad una squadra partitica che mandava in campo secondo il calendario del campionato promesse della "primavera", oriundi dell'Oratorio San Luigi, e un centromediano metodista che quando si alzava dalla panchina si toglieva le stampelle oltre alla tuta. Renzi come Conte, o come Mazzarri, o come Benitez. (Lasciamo da parte il blasonatissimo Milan che non può che essere in confusione discendendo da Silvio Berlusconi.)
Chi meglio poteva motivare la squadra della sinistra, del centro-sinistra, oppure del nuovo centro gradito ai ceti medi, insomma il "partito presunto" di Berselli? Solo che il destino e la congiuntura hanno spinto quasi subito Renzi (non è un problema di carattere, ed io non ho voglia di fargli non richiesto né da confessore né da psicoanalista) dal campo del partito alle stanze di Palazzo Chigi. Qui forse si gioca a ping-pong o forse a rugby. Fatto sta che della compagine  calcistica del PD non si occupa nessuno, o viene considerato oramai uno spettacolo che le tv di Murdoch non comprano più e che ha la stessa audience delle rubriche religiose del tipo "Tempo dello Spirito".
Domanda: dove stiamo andando? E come? Non sapendo rispondere, brandisco ancora una volta l'arnese arrugginito della critica, che non guarda in faccia a nessuno, non gliene importa delle sorti della destra e della sinistra, e tanto meno di quelle del centro. Non guarda in faccia neppure ai dolori della middle class, giovane o anziana, e teme che un partito per la nuova borghesia progressista italiana nasca con un cuore piccoloborghese. Insomma, mantengo il mio sostegno al nuovo corso, mi auguro che "riesca", ma non mi tappo gli occhi e le orecchie (che come tutto il mio organismo riconosco datati) e invece di affidarmi alle motivazioni psico-ottimistiche della pubblicità vincente mi affido ancora alla vecchia talpa della critica.
Chiaro? Non so: almeno sincero. Per questo provo a ripartire da Dossetti, da una delle sue frequenti (e raramente  ottimistiche) invettive.

Quale principato?


Direbbe Dossetti: "C'è voglia di principato". Lo disse a Milano di Berlusconi agli esordi. Aggiungo: "principato mediatico". Il problema infatti è: dove poggia il carisma?
Un conto è l'origine, e un altro conto i mezzi che ne consentono l'esercizio. Napoleone aveva l'esercito. Non era e non è uno strumento consueto della democrazia.
I media che sostanziano il carisma renziano non poggiano su gruppi di potere ansiosi della sostanza e delle regole della democrazia. I partiti sono progressivamente svaniti in una lunga eutanasia propiziata con dosi massicce del narcisismo del tempo, indotto da sopra e da fuori da un consumismo onnivoro: dilagato, inarrestabile (le mani di papa Bergoglio sembrano fermare il vento), vincente. Beviamo sorpresi un caffè elettorale e nazionale  apprestato da Renzi e Berlusconi con la correzione governativa di Alfano, triste e non più giovanile maggiordomo.
Il PD è sempre più un partito presunto, ma anche nazionale, di centro e "vincente". Le sinistre interne e limitrofe, che non sanno a loro volta riconoscersi presunte, si accomodano, in fondo riconoscendo che il principato mediatico renziano è figlio legittimo anche delle loro inesaminate debolezze. Napolitano guarda la strana partita dai bordi, declassato a miope collaboratore di un arbitro che fu, incapace di alzare la bandierina del fuorigioco.
Da troppo tempo funzioniamo a presidenti del Consiglio senza voto popolare e frutto di un carisma quirinalizio che tuttavia non abita più il Quirinale.
Esiste il golpe simpatico? Esiste. Esiste il golpe mediatico? Esiste. Anch'io ho guardato con simpatia questi media e il loro principe pro tempore. Ma il fantasma del tempo medio e lungo che viene dopo lo scatto adrenalinico della velocità e del rock mi suggerisce nottetempo che c'è un potere demoniaco del potere, destinato quantomeno a emergere nell'intermittenza delle opere e dei giorni.
È scritto nel deserto e  in tutti i Sinottici che introducono alla Quaresima. È nella riflessione di tutto il pensiero politico e telogico tedesco che introduce e attraversa il moderno. Un moderno che è nato consapevolmente rinunciando alla verità.
Non sono tedesco, ma mi preoccupo lo stesso. Esiste un Santo Inquisitore delle democrazie quando esse dimenticano di essere sturzianamente a rischio? Forse esiste pure lui.
Ma perché sospettare e non affidarsi a questo bravo e vivace ragazzo (anche insonne) venuto a Palazzo Chigi da Palazzo Vecchio di Firenze? Perché è tanto meglio e infinitamente più affidabile di Berlusconi, che pure lo coccola come un figlio e sarebbe tentato di pensare che il discepolo ha oramai superato il maestro. Anche se l'invidioso Brunetta non riesce ad ammetterlo.

La democrazia non si affida

La mia convinzione è, dall'età di ragione, che la democrazia non si affida a nessuno. La democrazia è figlia dell'illuminismo, e non di una vulgata cristiana enfatica e buonista. Quando penso da democratico il primo riferimento non è Atene, non sono gli ordini monastici che esercitavano il voto, non è il Nazareno che resiste a Pilato. Il primo riferimento è a Kant, che invita a riflettere sul "legno storto" della natura umana. Di tutti. A partire dalla mia. Per questo la democrazia poggia sul primato della Legge – che è anche rigida e sovente si burocratizza – e non sulla fede/fiducia.
E tra il vincere "Noi" e il rischiare la democrazia, preferisco ogni volta rischiare di perdere (e perdere), ma non rischiare la democrazia. E sono così irenicamente ingenuo da pensare che le altre siano vittorie di Pirro. Un vizio coltivato nel tempo, e non sepolto nella baraonda dei media. Quando nel 1996 mi  candidai per l'Ulivo nel collegio di Sesto San Giovanni e Bresso, nella serata finale dei dibattiti precedenti alle urne, presi parte a un confronto con gli altri due candidati che contendevano il seggio: una giovane signora leghista e un affermato chirurgo che non nascondeva radicate simpatie fasciste. Quando venne il mio turno per l'appello conclusivo agli elettori dissi pressappoco così: "Avete visto quali grandi differenze ci siano tra di noi. Eppure preferisco chi vota per uno dei miei avversari a chi diserterà il seggio per il mare". Ricordo ancora lo stupore e le parolacce di amici e supporter. Tuttavia vinsi alla grande e continuo a pensarla allo stesso modo.

Il primato della legge




Dov'è il problema? Al solito posto. La democrazia si giova di leadership vivaci e innovative, anche dissacranti, nelle fasi di passaggio che impongono decisioni non facili e drastiche.  Tuttavia continua a poggiare sulla legge e sugli strumenti che la rendono partecipata e sotto controllo. Una funzione nella quale si esercitarono e dovrebbero continuare ad esercitarsi i partiti, o quelli che vengono dopo di loro e al loro posto. Perfino un libro ispirato e centrale nella storia umana come il Qohélet pone al centro di una sana convivenza il primato della Legge, ignorando o almeno non nominando mai Dio stesso.
E la nostra provinciale vicenda italiana, a partire dall'esaurimento della cosiddetta "Prima Repubblica", dice che quando quel primato viene continuamente ignorato dilaga il giustizialismo, con una impropria supplenza esercitata da giudici invadenti, a loro volta a caccia di leadership mediatica e di potere.
Per concludere, la democrazia, giovandosi delle leadership, poggia comunque sul primato della legge, sugli strumenti che ne garantiscono il rispetto attraverso la partecipazione e, quindi, sui soggetti che a questo agire si conformano nella vicenda del gioco democratico. Soggetti che la Costituzione vuole risultino democraticamente – e quindi trasparentemente –  organizzati.
È inutile e perfino controproducente occuparsi ossessivamente delle regole del gioco e dei perimetri del campo di gioco disinteressandosi (interessatamente) dei soggetti chiamati a giocare la partita.
Con un ultimo richiamo ai naviganti: la Costituzione esiste, anche a dispetto dei mutamenti della cosiddetta "costituzione materiale". È emendabile secondo le sue regole, e da emendare. Sarebbe utile anche applicarla nelle parti inapplicate.
La nostra Costituzione del 1948 sarà pure la più bella del mondo, ma ha anche avuto un costo doloroso. I suoi appunti li ritroviamo nelle lettere dei giovani condannati a morte della Resistenza. Dietro il genio politico dei padri estensori ci sono anche le loro lacrime e il loro sangue. Neppure una costituzione è un pranzo di gala o uno show mediatico. E, grazie a Dio, la nostra Costituzione del 1948 è l'ultimo straccio di idem sentire di un Paese in cerca di bussola per un bene comune possibile. Remember.

La pubblicità al posto della politica

Perché la pubblicità ha sostituito la politica? La sostituzione è avvenuta non soltanto nel linguaggio e negli stilemi. Rispondere al quesito senza dimenticare Chomsky aiuta ad approcciare il "fenomeno Renzi", da tutti considerato il miglior piazzista politico in campo, avendo largamente superato l'antico maestro Silvio Berlusconi. Renzi  vende – meglio di tutti –  il prodotto politico. Ossia una politica che il consumismo globalizzato ha ridotto a prodotto. Ci sta? Funziona? Funziona come prodotto, ma non funziona come politica: grande, media e alla fine pure piccola. Perché uno vince e risulta il migliore o il vincente perché la sua presentazione è la più in linea con le attese di prodotto create dal mercato "politico": dove politico è per tutti l’aggettivo e mercato il sostantivo.
Sta bene: è da tutto il moderno che la democrazia propizia l'incontro tra politica e mercato. E si è pure provata a regolarlo. Solo che il mercato finanziario, ossia il mercato com’è in epoca di globalizzazione e come di conseguenza funziona, è tutto salvo che democratico. Esercita la pirateria al posto delle regole. Le vecchie Compagnie delle Indie e degli States hanno divorato le regole della concorrenza e non vogliono abbandonare il mare aperto del turbocapitalismo. Le nostre vite quotidiane sono finanziarizzate da fuori, anche quelle dei pensionati figli del glorioso Welfare Europeo.
Anche in questa politica l'offerta crea la domanda e i desideri vengono formattati in bisogni di massa all'insegna di un narcisismo generazionale collettivo. Nel senso che attraversa con opportuni aggiustamenti le generazioni. Il medesimo brand con attente variazioni e studiate confezioni.
Dove non funziona più il rapporto tra mercato e democrazia? Dove è diventato totalmente asimmetrico e tentato di salvare le apparenze dopo avere mutata la sostanza. Anche il mercato non è più il mercato di una volta... Mentre la democrazia è rimasta quella di una volta.
La concorrenza s'è dileguata nel senso che è stata estinta. La finanza ha adempiuto la profezia del "Manifesto" del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Il denaro ha sostituito le cose. Il lavoro non è uno mezzo antropologico nella produzione di merci, ma la merce di cui si contratta.
Il capitale finanziario ha spostato le sue avide corporazioni nel cuore delle istituzioni sovranazionali, mentre il sindacato ha acquartierato le truppe, per la gran parte pensionati comprensibilmente disponibili alla nostalgia, nelle gloriose trincee del  Carso del 1917.
Può il sindacato cambiare location? Come può praticare le istituzioni? È chiamato a farsi parte e partito (anche nel senso della nostra tradizione politica) per provare a reggere il confronto? Stando così le cose un solo prodotto politico ammette il convento globale e miglior piazzista è chi lo ha capito e ne sostiene la pubblicità. Sfido io che non ci sono più né destra né sinistra: c'è un'unica produzione finanziaria e un'unica produzione ideologica, disponibile a cambiare etichetta per i diversi mercati politici: europeo, asiatico, africano, cattolico, riformato, ebreo, islamico...
Qui interviene la Rete, il suo uso, le sue potenzialità da non canonizzare e da non demonizzare. Certamente la Rete non è neutra. Non per la sua natura tecnologica, ma per i poteri che la producono, controllano e performano. Qui anche lo scacco di Beppe Grillo, che non è necessariamente un uomo di destra, ma che non è in grado di riformare alcuna democrazia da apprendista stregone della Rete.
La politica ha dunque irrimediabilmente perso la partita?
La politica può sempre ricominciare. A tre condizioni: che le contraddizioni reali la sospingamo; che recuperi, oltre la congiuntura, il senso della storia; che la critica alla storia la solleciti – come è sempre accaduto alla "grande politica" – ad andare contro la storia.
Servono i politici dunque, non i piazzisti. O i piazzisti dotati di acuto senso critico e senso della storia. Anche se alla mia sensibilità fa qualche problema immaginare De Gaulle, ma anche De Gasperi o Adenauer in foggia di piazzisti. Mi attanagliano la nostalgia e il desiderio di uno sguardo e una statura in grado di reggere il complesso panorama europeo, dove non si tratta semplicemente di vincere le prossime elezioni di primavera, ma di rilanciare quella che proprio De Gasperi e Spinelli – solo su questo all'unisono – consideravano una tappa storica verso il governo mondiale.

Adelante




II renzismo d'altra parte si annuncia come una novità del politico italiano. Basata sul moltiplicarsi e la velocità degli annunci, con un decisionismo dadaista che recupera l'anticipo mediatico berlusconiano, al punto da trovare più dichiarazioni di padri putativi nel campo degli avversari che in quello del Partito Democratico.
Impossibile distinguere la rappresentazione dalla sostanza, almeno per ora. Non resta che concentrarsi sui frutti più che sull'albero disegnato al computer della Leopolda. Ed è giocoforza partire dal chiavistello che ha scassinato la porta di Palazzo Chigi al Rottamatore. Il primo frutto è infatti la nuova legge elettorale resa obbligatoria dalla sentenza della Consulta.
Essa appare ai miei occhi figlia naturale del porcellum. Rispetto al quale presenta liste elettorali più corte e il medesimo disprezzo della rappresentanza in entrata e in uscita. In entrata, perché l'autorizzazione a stilare le liste dei candidati viene totalmente concentrata nel vertice dei rispettivi partiti personali, in uscita, perché si spinge a negare la rappresentanza a compagini che abbiano raggiunto l'8% dei suffragi degli elettori.
La logica del connubio si trova nella cabina di regia abitata dalla coppia toscana Renzi-Verdini, platealmente intenzionata a ridurre il tripartitismo italiano, sorpassando e compiendo il bipolarismo, in un bipartitismo che veda dominus sull'altro fronte Silvio Berlusconi.
Disegno che mette a rischio tutto l'impianto qualora i sondaggi continuassero a presentare il M5S di Beppe Grillo come secondo partito più votato dagli italiani. A quel punto nutro pochi dubbi che, ripetendo il film della bicamerale presieduta da Massimo D'Alema, Berlusconi si esibirebbe in una nuova interpretazione del rovesciamento del tavolo.
Quale sublimazione sarà mai possibile se Parsifal usa Verdini come mago Merlino?  Leadership destinate a spegnersi quando si pigia il pulsante del televisore. Il decisionismo che storicamente conosciamo parte da un luogo comunque altro rispetto all'indecisione corrente. La domanda allora diventa: può la pubblicità creare i propri anticorpi? A quali condizioni?
Non m'importa che il Berlusca sia stato platealmente resuscitato (anche se soltanto lui finge di ignorare che uno zombie non esce dal sepolcro di Gerusalemme), ma se la cosa è in grado, politicamente e istituzionalmente, di funzionare.
Schmitt e Gianfranco Miglio mi hanno insegnato che la politica ha una sua durezza e sue regolarità che il politico e il decisore non possono ignorare. Può la critica necessaria comportarsi come il surf sulle onde dell'oceano in California? Posso dare onestamente una manata sulla mia stessa spalla sospingendomi con un romanesco: Famo a fidasse!? Si aiutano così i giovani talenti? Eppure confesso di essere perfino disponibile, dopo quanto detto, a usare saggiamente la teoria della doppia verità.
Adelante  Matteo! Ma con juicio, e non soltanto per rispettare alla lettera il politicissimo Manzoni. Può un leader leggere la nostra storia ignorando le fatiche letterarie che ci hanno accompagnato a ritroso da David Foster Wallace a James Joyce? Non che li abbia letti integralmente, e neppure che qualche guru glieli abbia spiegati, ma che li abbia in qualche modo dentro, nel fondo della coscienza? Non che li spieghi agli elettori nel talkshow, ma che ne abbia sentore, anche quando cita le canzonette.
Non è colpa mia se questo Occidente è tormentato più che ottimistico e se la decadenza è un concetto deprimente che non ci riesce più di maneggiare. Una decadenza non lineare, come ho già detto, nel senso di Spengler, che deve mettere a tema "l'Europa detronizzata" di Carl Schmitt, che mantiene nelle scienze nelle tecniche – dalla medicina alla fisica cosmologica eccetera – inerzie propulsive, ma che sordamente soffre la concorrenza dei Brics decisi a masticare, a loro volta in maniera disuguale, un tozzo di benessere e di crescita.
Noi andiamo indietro anche perché loro vanno avanti. E sarebbe bene riuscire a leggere la fase con occhi diversi da quelli di Agostino che scrutava i barbari e scriveva il De Civitate Dei.
Ignorando la tristezza dell'Occidente i leaders restano pesi piuma su un ring dove soltanto i massimi giocano un match mortale. Serve l'ignoranza a superare il disincanto? È buon cuore, è solidarietà quella dei nostri nipotini che si precipitano su Facebook a segnalare il proprio sostegno alla sopravvivenza delle balene mentre non vedono, infastiditi, gli acciacchi della nonna?
Non siamo chiamati a fare i conti anche con l'ottimismo della nostra falsa coscienza? Eppure lo so che gli incitamenti che il presidente Roosevelt faceva al caminetto delle celebri trasmissioni radiofoniche alle massaie degli States somigliano molto alle amenità che Berlusconi raccontava anni fa sulla crisi alla casalinga di Voghera, convinto che la crisi non ci fosse se non come indotta dagli untori psicologici della sinistra comunista… Lo so, e penso che sia necessario infondere ottimismo, come fa Matteo Renzi, pur avendo coscienza della profondità della crisi.
Come uscire dunque dall'universo ideologico dei media senza scendere dalle interessate bugie del mondo televisivo? Dirò una banalità: va necessariamente frequentato mantenendo una distanza critica e collettiva.
Per farmi coraggio e cantare di notte ritorno ai padri.
De Gasperi non risultava particolarmente simpatico non soltanto ai comunisti – anche perché ignorava ogni sforzo per apparire tale –, non presumeva di sé né della politica. Arrivò a sostenere in pubblico che il politico deve ogni volta promettere un poco meno di quel che è sicuro di ottenere. Non era un ottimista. Portava nel cuore, oltre al disastro dell'Italia fascista, anche l'ombra del crollo dell'Austria-Ungheria. (Raramente un Parlamento riuscì così poliglotta e alla fine confuso come quello della Vienna di Cecco Beppe.) Ci mise di suo una caparbia volontà. Una dignità sofferta da italiano di frontiera, una Speranza che aveva salde radici nella falsificazione personale di un adagio sostenuto sulla stampa anche dal cardinale Ruini e che suona: vizi privati e pubbliche virtù.
No: de Gasperi era un cattolico "grigio", umile, sincero, coerente, forse perfino noioso. Risultò credibile ai delegati dell'Assemblea di Parigi; fu il primo a recarsi in Germania per solidarizzare con Konrad Adenauer. Si impuntò sulle modalità di Trieste italiana in modo che col senno di poi può apparirci discutibile. Fu determinante nella ricostruzione del Paese e nella scelta delle alleanze. Costruì il partito della Democrazia Cristiana pur credendo nello strumento partitico meno di Dossetti e anche esercitando un ossequio "tetesco" nei confronti delle istituzioni.
So benissimo che il nostro scenario è toto coelo differente. Tedescofilo impenitente fin dai tempi dell'università, ero a Berlino con la famiglia durante le celebrazioni della nuova unità tedesca. La cancelliera Angela Merkel si esibì nel discorso ufficiale con dei giudizi non appropriati sugli esiti dell'interculturalità in Germania. Assai migliore risultò l'intervento del Presidente della Bundesrepublik, in seguito licenziato perché si era fatto pagare le vacanze da un amico imprenditore: così vanno le cose nella vicina Germania... A correggere il tiro ci pensò il vecchio Helmut Kohl, che tuonò su tutti i giornali di Germania: "Europa bleibe alternativlos!" Davvero l'Europa, anche vista dalla locomotiva berlinese, resta senza alternativa.
La capace guardiana del tinello e dell'officina tedesca, l'astuta badante del benessere teutonico è altra cosa. Fa la professoressa d'Europa: esamina i leaders del Sud, assegna i compiti a casa, non intende guastare i rapporti né con la Bundesbank né con  Volkswagen. Renzi fa bene ad apparire irrequieto e ad aver abbandonato il banco in fondo alla classe, quello degli asini. Con quali alleati? Con quali strumenti d'appoggio?
Gli alleati, confrontati a loro volta con i padri rispettivi, appaiono nani figli di giganti. Non è un bel vedere. Tuttavia il panorama offre una chance: rispetto agli infidi sodali uno può giocare a fare il primo della classe. Matteo in questo senso funziona.
Ma c'è un altro problema –anzi thath is the prolem, e qui batte il chiodo– quali forze organizzate, quali reali strumenti del politico sostengono l'ex sindaco di Firenze? Perché ambigua e tuttora vuota di strumenti è la bandiera del "sindaco d'Italia".
Il problema politico italiano (e senza la politica e i suoi strumenti non si esce dalla crisi e dalla interna transizione infinita) resta la riduzione degli ex partiti a liste elettorali. Taxi a ore, ed anch'essi troppo leggeri proprio per i tempi sincopati della politica rock. Ogni volta che il leader si muove fa il vuoto alle spalle, o meglio, lo rende evidente: dov'è l'esercito?, non dico le salmerie.
Restiamo l'unico Paese in Europa che, a far data dall'Ottantanove, ha azzerato tutto il sistema dei partiti di massa. Che erano decrepiti, corrotti, che avevano occupato lo Stato al posto di governarlo: insomma da rottamare. Dobbiamo ristrutturarli? Probabilmente no. Ma sostituirli con altri strumenti adatti alla bisogna certamente sì: non si dà politica senza strumenti del politico, e la pubblicità li può accompagnare o opporvisi polemicamente, ma non è in grado di sostituirli. Per questo ho votato Renzi – il Rottamatore – alle primarie.
E mi figuravo seguisse il percorso di Tony Blair, che prima riformò il Labour, purgandolo nella direzione delle Trade Unions, e poi mosse alla conquista di Downing Street. Le cose da noi Non sono andate così. Ho votato alle primarie un segretario e mi sono ritrovato con due presidenti del Consiglio, uno in carica e l'altro designato a furor di popolo, che non potevano che litigare. Mettiamo da parte il galateo, psicoanalisi, il retaggio del sacramento della confessione cattolica, l'appartenenza all'associazionismo degli scout: la colpa è dell'uso delle primarie in maniera impropria e indiscriminata: un uso che risulta distorto perché applica un comportamento collettivo americano a un partito che resta tutto europeo, e soprattutto un uso dilettantesco e pressapochista dal momento che su di esso non si è mai trovato il tempo di riflettere.
Già che ho sfiorato l'argomento mi concedo una puntualizzazione. La smettano questi bravi e capaci ragazzi di evocare il passato dello scoutismo. Vengo io pure dall'associazionismo, e dopo sei mesi di immersione a Montecitorio mi chiedevo quanto di aclista fosse rimasto in me. Comunque un argomento antipatico può chiudere la questione: anche Lusi  si esibì – non millantando – come capo scout.
Dunque Matteo Renzi è stato costretto a bruciare tempi e a rimangiarsi le promesse dalla necessità politica. La quale tuttavia – ecco di nuovo il problema – se non può fare a meno di rispettare i tempi della politica, non può nemmeno mancare dei suoi strumenti.
Gli antichi partiti? Diciamo quel che viene dopo e al loro posto, e, per non fare confusione, proporrei di chiamarli a-ideologicamente "motociclismo". Ma insomma: lo strumento ci vuole perché non basta la pubblicità che manipola la pubblica opinione. Non basta almeno alla democrazia. O almeno sembra a me che non basti.
Il nuovo "motociclismo" politico ha, mi pare, il compito di preparare il governo, di accompagnarlo quando è in carica, di continuare a fare politica quando il governo fosse caduto. Può il Bel Paese fare democraticamente eccezione alla regola universale?
Così la penso. E dunque? Adelante  Matteo!, ma con juicio. E qualcuno provveda – in fretta, ma non di fretta – al partito o al suo succedaneo e sostituto.



 

La cosa enorme
di Giovanni Bianchi


La commedia all'italiana
Sono tante le cose enormi che ci tallonano. La prima è la decadenza. Un concetto illuministicamente controcorrente al punto che è stato depennato. Non parliamo più,  figurarsi, di rivoluzione e dovremmo ripristinare l'orrendo termine "decadenza"? Non se ne parla proprio. Cassato. Eliminato dal lessico moderno e dalla grammatica della democrazia. Roba da depressi. E anche per questa forma nuova di depressione collettiva sarà pure in arrivo una pillola da acquistare privatamente in farmacia.
Così riprese e ripresine sono sempre più dentro l'angolo dell'Europa e l'angolo della globalizzazione, in un mondo che sembra fatto a spigoli. Ma il tarlo della decadenza ci rode ed arriva a rodere il dulcis in fundo dei talkshow che pure vivono sull'allarmismo. È per questo che a un'iperbole negata rispondiamo con un'altra iperbole di segno uguale e contrario. È così che le leadership vengono presentate tutte come vincenti e risolutive nel tempo breve, che i provvedimenti si annunciano capaci di creare lavoro in tre mosse e nuove geometrie costituzionali in quattro mosse.
Ad angosce storicamente enormi, lenitivi enormi e rassicuranti almeno nella comunicazione. Per questo mi assilla il dubbio che anche i similnapoleonidi che stanno invadendo la scena e l'immaginario debbano essere esorcizzati ed addomesticati alla loro volta. Di Napoleone ne compare uno ogni due secoli, ed è un gran bene che così avvenga. Vengo in tal modo condotto a difendermi da titoli ed annunci drogati e magari gonfiati come seni al silicone.
Prendiamo il caso della legge elettorale in dirittura d'arrivo. Poggia e inevitabilmente si barcamena su due maggioranze: una interna al governo e l'altra esterna. Nessuno stupore: è la democrazia e, più ancora, sono i rapporti di forza. Perché la politica può anche latitare, il potere mai. E se c'è un vuoto viene immediatamente riempito. Anzi i poteri si rafforzano proprio quando la politica risulta latitante. Si tratta, per chi s’informa, di una delle regolarità della politica schmittianamente richiamata da Gianfranco Miglio. Dunque la nuova legge elettorale si vedrà costretta a tenere in qualche conto e latinamente le orme del leghista Calderoli per le esigenze della contrattazione. È la democrazia, bellezza.
Il giovane e dinamico Premier (che ho votato alle primarie come segretario del PD e che mi auguro riesca nel tentativo) twitta di prima mattina che la legge elettorale è la rivoluzione… Cosa che nessuno chiede e neppure osa sperare. A me i concittadini di Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d'Italia, hanno insegnato subito dopo la scuola materna (allora si diceva "asilo infantile") che la rivoluzione non si mette ai voti.
E siccome la critiche e perfino il disappunto dovrebbero in questa fase tentare di essere costruttivi mi sono messo a interrogarmi su come l'antico Giolitti, notoriamente di linguaggio sobrio, avrebbe presentato la legge. Credo di non allontanarmi dalla verisimiglianza pensando che avrebbe usato i toni della lettera famosa alla figlia. L'Italia è un Paese che va conosciuto per come è. I suoi politici sono uomini con una natura umana non priva di difetti ed io, Giovanni Giolitti, ho mirato più che a cambiare l'Italia, a  governarla. E siccome il Paese ha la gobba, io ho confezionato da sarto un abito da gobbo. Altrimenti la cosa non riesce.
Non fa sognare Giolitti. Era asciutto. Ma almeno governava. E invece? Invece stiamo da decenni rincorrendo la pubblicità al posto della propaganda. Così la politica è da tempo confezionata come un prodotto da vendere. Ha cambiato grammatica, sintassi, contenuti. Come difendersi? Mi è tornata in mente, in tempo di Oscar alla Grande Bellezza di Sorrentino, una scena di Amici Miei di Monicelli, che, insieme al ciclo di Fantozzi e ad altre opere azzeccate, ha rivitalizzato il filone magico della commedia all'italiana.
Penso alla scena in cui Ugo Tognazzi, costretto dall'impellenza, pensa bene di defecare nel vasino del bimbo dei suoi ospiti. Quando la cosa verrà scoperta sarà considerata un'enorme anomalia perché ricondotta al pupo titolare del vasino, scatenando nei genitori più angoscia medica che meraviglia.
Insomma, gli italiani posseggono stilemi e rudimenti per prendere le misure delle troppe cose enormi che vengono loro annunciate dai quotidiani telegiornali. Sanno fare la tara alle leadership, anche perché recentemente vaccinati dal "fenomeno Monti". Sanno aspettarsi dalla democrazia quel che può dare. E forse perfino incominciano a provare fastidio per promesse che eccedono l'attesa.  





La democrazia in streaming
Così per la legge elettorale; così per Beppe Grillo e Casaleggio che promettono di riuscire meglio in streaming di Montesquieu e Tocqueville. C'è il calcio per sognare. La politica, oltre al sogno del cambiamento, realizzi alcune cose necessarie, trovando le compatibilità e ricercando le utili alleanze.
Va tuttavia messo nel conto che ci troviamo di fronte a un nuovo modello del politico. Quello che ho cercato di cogliere come leaderismo-dadaismo, con un'abbondante ed evidente spruzzata di marinettismo, e con la sostituzione al pensiero meditante della velocità del rock. (A proposito, quanti brani riascolteremo tra dieci anni dello tsunami musicale che accompagna quotidianamente le nostre ore e i nostri minuti, con il commento degli esegeti documentatisi sui lanci pubblicitari?)
Il ritmo al posto della riflessione. Più dentro il vortice della vita quotidiana che attenti agli insegnamenti della storia. E va da sé che il nuovo modello del politico ha introdotto (da vent'anni) sulla scena un nuovo personale, non si capisce quanto politico. Per questo oggettivamente e in perfetta buona fede più interessato al posto che alla mission. Che significa anche più interessato a governare il Paese che al Paese. L'idea di sacrificio o almeno di servizio al bene comune risulta del resto improponibile quando non c'è traccia di bene comune, né quanto al progetto né quanto al percorso.
Vale per la nazione e vale anche per il piccolo borgo: non è problema di dimensione e tutti hanno conseguentemente dimenticato che il piccolo era bello. Bye bye Censis.
Giuseppe De Rita (l'intellettuale italiano più ricco di antenne sensibili) lo ha immediatamente capito e lamenta nell'ultima intervista che da noi abbia pesato l'illusione dell'eternità del presente. E cioè: se oggi stiamo bene, staremo sempre bene. "È quello che ci ha fregato sul piano antropologico, perché vivere nel presente significa distruggere la memoria del passato e non avere curiosità per il futuro. C'è una bellissima frase di Manlio Sgalambro: il passato non mi interessa, perché era il presente di altri. Il futuro non mi interessa, perché sarà il presente di altri. A me interessa il mio presente, oggi. Questa è stata la malattia italiana".[1] Stiamo cioè a fare i conti con lo spirito del tempo prima che con la perdita di spirito della politica.
Raccontava Fabrizio Barca un episodio gustoso durante l'incontro con il Circolo Dossetti di Milano. Una madre compita e benintenzionata (e quindi molto materna, come si conviene) lo avvicinò chiedendogli come la figlia sarebbe potuta diventare sindaco della città. E alla domanda di Barca circa il partito che avrebbe dovuto condurre la figlia alla poltrona civicamente impegnativa, rispose tranquillamente che non faceva differenza. Lo strumento cioè risulta neutro rispetto all'obiettivo da raggiungere.
Una generazione, anzi più generazioni oramai semplicemente a-ideologiche o post-ideologiche? Che cosa fa la differenza? In che modo la politica ne viene interrogata? Come la democrazia è chiamata ad occuparsene?

Come nasce un leader?
La domanda è dirimente, anche se era buona e dissipata abitudine della politica non lasciare il leader solo, ma accompagnarlo con i militanti (razza evidentemente estinta).
Ho riletto un bel libro pubblicato da Angelo Gaccione e scritto da Jacopo Schettini Gherardini, candidato alla segreteria nazionale nel 2007, fondatore del Partito Democratico, dopo aver partecipato alla redazione del Codice Etico del PD. Basta un passo del resoconto di un'impresa non vincente a consegnarci il profilo di un giovane indubbiamente preparato: "La mia vita era quella di un italiano costretto ad espatriare nella City di Londra per tentare di mostrare le proprie capacità e che, dopo esserci riuscito con sacrificio e fortuna, cominciò a incassare con orgoglio uno stipendio dalla banca più prestigiosa della Gran Bretagna, dove si recava ogni mattina alle 7.15 per fare il Broker di Futures & Options. Era quello il mio mondo: telefoni e computer in un enorme open space con altri mille colleghi di tante nazionalità, dove commerciare in titoli d’ogni lingua e valuta, imparando la ruvida realtà dei mercati finanziari internazionali, quella dei conti e del saperli tenere. Arte (secondo gli operatori della City) allora sconosciuta all'Italia"[2].
Ancora meglio scritto e illuminante l’incipit del libro: "Decisi di sfidare Walter Veltroni e candidarmi alla guida del nascente Partito Democratico mentre mi trovavo sotto l'ombrellone di una spiaggia in Versilia. Mia moglie era via per lavoro, mio figlio in riva al mare. Galeotto fu il caldo ed un articolo su la Repubblica che recitava: "PD, primarie aperte a tutti." Mesi dopo, mi chiesi il perché di un simile guizzo da parte di un fesso come me, munito di ciantelline ai piedi, pallida pancetta fuori dal costume e lo sguardo a fessura battuto dal vento, dal sole e dalla polvere di una spiaggia di giugno."[3] Si scrive così di politica oggi. Che continua ad essere modalità e vezzo di una comunicazione riflessiva e perciò chiara e convincente anche nel tempo lungo.
E già che ci sono confesso che è lo stesso Schettini, che non conosco personalmente, ad avermi suggerito fin dalla prima pagina la sapida citazione di Monicelli. Soprattutto mi ha favorevolmente impressionato il tentativo di passaggio di una competenza allevata nell'arena della City londinese al servizio della politica, e non viceversa. Finalmente un'occasione e un caso in cui energie duramente disciplinate nel melting pot professionale della globalizzazione provano a transitare nella politica, fin qui desolatamente rimasta nei recinti nazionalistici sia ideologicamente come professionalmente e organizzativamente. Desolazione passatista che riguarda oltre i partiti anche i sindacati e gli stessi Parlamenti. Finalmente l'opportunità di un personale capace di combattere ad armi pari con gli onnipotenti poteri finanziari.
Non so invece se questi giovani preparati e capaci possano continuare a candidarsi in questo modo, buttandosi nelle primarie come nell'unica prova concessa, quasi un'ordalia, senza training specifico ed accompagnamento. E del resto tutto funziona per concentrare al vertice competenza, visibilità, responsabilità, rappresentatività. Così le leadership  diventano tutte onnivore e sovraesposte.
Mancano i percorsi di un tessuto organizzativo alle spalle. E se è vero che dopo l'azzeramento totale dei partiti storici e di massa in Italia il compito della preparazione è passato alle amministrazioni locali – via francese – è pur tuttavia altrettanto vero che, complice una legge elettorale riuscita e favorevolmente interiorizzata dai cittadini elettori, nasce proprio nel Comune la spinta al leaderismo narcisistico che prende le forme del "Sindaco d'Italia". Lontano quindi da quel laboratorio dei corpi intermedi che invece costituiva storicamente nel  Bel Paese il tessuto connettivo di una democrazia partecipata e organizzata dal basso. E spero di non dovermi difendere a questo punto da un’accusa di pedanteria democraticista o peggio ancora basista.





Cos'è il genio?  
E qui torna quella che a me pare non la cosa enorme ma il vero problema. Ho detto che in tempi di vuoto di politica il pieno viene fatto dai poteri. Da quelli che si danno convegno al Club Bilderberg e in altri salotti meno famosi. Hanno tutti il diritto e addirittura la vocazione di ritrovarsi a discutere delle loro e nostra sorte. Nessun complottismo. Tuttavia è palese che questi gruppi di potere hanno, a differenza delle leadership gridate, l'abitudine della riservatezza. Tant'è che approdato in Parlamento nel 1994 proposi a Franco Bassanini di importare in Italia un'associazione, Common Weal, che avevo visto funzionare negli States. Un'associazione cioè voluta dal senatore Fullbright che pubblica annualmente gli elenchi dei senatori e dei rappresentanti al Congresso corredati dall'elenco dei gruppi finanziari e industriali ai quali sono legati. Un contributo quantomeno alla trasparenza del lobbismo. Insomma, diamoci da fare. Bypassiamo gli annunci della cosa ogni volta enorme.
Nel film di Monicelli una voce ironica fuoricampo si chiedeva: "Cos'è il genio"? Va bene anche Edison, che affermava che il genio è per l’uno percento ispirazione e per il novantanove percento traspirazione, sudore.
Di fronte al consolidamento dei poteri in assenza di politica la preoccupazione della democrazia dovrebbe essere di fare anzitutto qualcosa di democratico prima ancora che di sinistra (anche se le due facce possono coincidere). Perché le leadership sono necessarie ma non poggiano su se stesse. E se tu non le costringi a rappresentarti, sono tentate di rappresentare quel che c'è, e poi legittimarsi con la pubblicità.
Perciò se le vecchie forme del politico sono in dissesto si tratta di sostituirle. Che cosa dopo il vecchio partito e il vecchio sindacato?
 Manca lo strumento: quello tradizionale e quello nuovo, e va benissimo anche se postmoderno e a-ideologico. Una cosa però reale, partecipata, quotidiana. Che tenga conto che in democrazia si fanno sempre i conti con l'uomo comune e l'albero storto (e giolittiano) della natura umana.
La cosa enorme lasciamola al cinema, meglio se alla sua ironia. Chissà che allora anche la nostra politica non vinca un qualche modesto e casalingo Oscar di cartone.

                                                                           
[1] In "la Repubblica", lunedì 3 marzo 2014, p. 51.
2 Jacopo Schettini Gherardini, Il Partito Democratico e il rifiuto di Hans Biderman, Odissea, Milano 2009, p. 12.
3 Ivi, p. 9.

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La Repubblica dadaista
Di Giovanni Bianchi





La complessità della condizione italiana può anche voltarsi in confusione. Mischiare i sottosistemi luhmanniani e stordire i cittadini incamminati non-sanno-verso-dove. E allora il primo imperativo è smetterla di correre. Opporsi al mito della politica veloce capace in ogni circostanza di intervenire just in time. È la politica, bellezza! Non la Ferrari di Montezemolo. Torna il caro Alexander Langer: lentius, suavius
Ci sono questioni alle quali rispondere in tempo reale, altre sulle quali è bene sostare e ruminare. La democrazia non ha un tempo solo, anche se non è necessariamente dodecafonica. Quando si bruciano con tanto forsennato turn-over i vertici di un partito, il problema non è più la statura e il temperamento dei segretari, ma la natura del partito. Basta la statistica al posto della saggezza.
È questa corsa all'impazzata che ci ha introdotti in una stagione politicamente dadaista. Dove la politica dubbia e l'antipolitica sconvolgono le convenzioni, provocando il disgusto per le usanze del passato, promuovendo e nuove stravaganze, usando la politica contro la politica stessa. È il dadaismo politico cresciuto sull'onda di un giovanilismo le cui ragioni non sono tutte né astruse né fuori luogo. Il nuovo si schiera comunque contro le convenzioni, non ponendosi l'interrogativo circa l'eventualità di un rapido passaggio dal vecchio al vuoto.
Tutto ciò riguarda in particolare la politica organizzata e quindi il partito democratico.   
E infatti il PD è il maggiore e il più partito tra i non-partiti italiani, presentandosi con una natura quantomeno duplice: una parte partito e una parte tuttora partito presunto. Un cantiere da troppo tempo aperto. E aperto perché mai nessuno ha finora posto in cima ai propri desideri quello di chiuderlo una volta completato il lavoro.
Ho votato Renzi alle primarie proprio per il suo proposito rottamatore. Solo una robusta e baldanzosa barbarie poteva interrompere le esauste liturgie e gli interminabili minuetti di un ceto politico che la voglia di perpetuarsi aveva ridotto all'inefficacia e all'impotenza. La politica inutile è infatti più vuota e pericolosa dalla politica sporca. Quindi tagliamo tutti insieme una serie di nodi che non c'è riuscito di sciogliere.
Un segretario con lo spadone e non sempre educato poteva servire. Ma il voto delle primarie ci ha lasciato senza segretario e con due presidenti del Consiglio: quello in carica e quello designato. Dunque diamo la colpa alle primarie e al partito presunto: i due presidenti non potevano che litigare. Prima o poi. Più prima che poi. Non ci si comporta collettivamente o ostinatamente all'americana in un partito tutto – da capo a piedi – europeo.
Due presidenti e nessun partito. Perché da vent'anni si arriva a Palazzo Chigi sulla logica e sul veicolo della lista elettorale. Problema: si può governare senza partito? Non quelli di vecchio conio tradizionale, ma comunque un partito o un suo succedaneo. Stiamo sempre lì.
Chi paragona Matteo Renzi a Tony Blair ignora la consecutio temporum e la sua efficacia: perché il Tony riformatore prima ristrutturò il Labour (espellendo dalla direzione le Trade Unions) e poi conquistò Downing Street.
Il vuoto dei partiti costringe in Italia la politica  a rincorrere i poteri forti che –  educatamente o meno, in pubblico e in privato –inseguono indisturbati la propria bulimia e la volontà di potenza. È così che la cosiddetta costituzione materiale cambia le cose e la Costituzione assai prima delle riforme evocate. E il tasso di democraticità sta vistosamente diminuendo in questa poliarchia che appare incline a premiare temperamenti autoritari.
E anche qui sarebbe bene chiarire che il carisma della leadership è altra cosa rispetto all'autoritarismo dei capi, e anche rispetto alla loro efficacia. (Disturba solo me il fantasma di Adolf Hitler che va al potere promettendo e realizzando la piena occupazione?)
Siamo così finalmente e faticosamente giunti al punto cruciale: è bene cominciare dalla rappresentanza o dalla governabilità? Perché rappresentanza e governabilità non fanno necessariamente rima e coppia. Da dove dunque partire e fare la prima mossa?
Non ho dubbi che bisogni democraticamente prendere le mosse dalla rappresentanza. Perché troppe variazioni sul tema della legalità e della sostanza democratica presenta – a modo suo – la governabilità. E non è fuori di luogo rammentare che il tema della governabilità fu posto all'ordine del giorno in Giappone a metà degli anni Settanta dalla Trilateral Commission, la quale, già allora, era preoccupata che nel nostro Paese ci fosse un "eccesso di democrazia"...
Ai tanti o pochi che si propongono come vincitori delle prossime elezioni politiche sarà bene porre il quesito sulla natura della vittoria ipotizzata. Perché anche in ambito democratico si danno (democraticamente) vittorie di Pirro. Tutto questo ha a che fare con la pervasività delle immagini che non a caso ci sta regalando una nuova categoria del politico: il dadaismo-leninismo… E non sto pensando soltanto a Beppe Grillo.
Ci sono in giro ex giovani democristiani che cavalcano l'onda con grande perizia sulla tavoletta del surf mediatico. E mi invade una cupa tristezza ricordando che per l'ultimo grande democristiano di questo Paese, Aldo Moro, il pensare politica era già per il novanta percento fare politica.
Anche sui metodi spicci usati dalla Democrazia Cristiana circolano poco documentate favole metropolitane, se un custode della memoria come Bartolo Ciccardini si è sentito in dovere di scrivere: "Credo necessario mettere in ordine la verità storica su questo costume repubblicano della DC che aveva molto in comune con la brevità delle cariche della Repubblica romana, quando era governata, per non più di un anno, da due consoli, in una con il Senato. O molto in comune con la regola dei ricchi mercanti della Repubblica di Venezia per la quale nessuno poteva sopravanzare gli altri e il Doge non aveva alcun potere".
Insomma Ciccardini, uomo di lunga memoria e frequentazione dc, si sente in dovere di distinguere il "pugnale doroteo" dallo sgambetto dadaista. L'attesa e il bisogno del nuovo, il rompere finalmente gli indugi non può coincidere con il pressappochismo delle regole scritte e neppure di quelle non scritte. O abbiamo definitivamente sepolto il mantra antico che recitava che in democrazia il metodo è anche sostanza?
Perché? Perché il pressappochismo democratico ha sempre favorito e favorirà il peso e la disinvoltura dei poteri forti, sia quando si mostrano in pubblico come quando preferiscono il backstage. Nessun complottismo, ma le troppe anomalie della Repubblica italiana e il loro protrarsi obbligano a pensare ai burattinai (è la tesi di Giulio Sapelli). Perché una politica senza partiti – lo ammetto: è un'ossessione – si presenta inevitabilmente come un peso piuma sul ring di troppi pesi massimi disponibili a colpire anche sotto la cintura.  



                                    

Sentirsi Napoleone
di Giovanni Bianchi

Libertà immaginaria




Mauro Magatti ha scritto un grosso saggio, Libertà immaginaria, per avvertirci che i giovani d'oggi non vogliono come Napoleone fondare un impero, ma piuttosto affermare il proprio narcisismo acquisitivo che si esprime in volontà di potenza. I tempi infatti sono tali che Nietzsche e Zarathustra restano lontani, mentre quotidianamente si approssimano   
-accattivanti- il supermercato e le sue seduzioni allineate sugli scaffali.
È così, ma non soltanto così, e comunque le eccezioni confermano la regola. Qualcuno tra le nuove generazioni continua a preferire il grande Corso al piccolo consumatore. È probabilmente il caso del sindaco di Firenze: Matteo Renzi, che siede sullo scranno di Giorgio La Pira, con non minore rumore e superiore ambizione (per l'Italia).
Nella palude democratica –che bisognerà pur tentare di scandagliare e definire– risorge di tempo in tempo un bisogno di titanismo che rende scultorea e problematica la leadership. Anche perché il titano di turno è tutto avvolto nell'immagine, i suoi muscoli sono disegnati al computer, il suo decisionismo è recita dadaista. Ma questa è inevitabilmente la nuova grammatica della politica dell'immagine, e chi vuole consistere nel mercato elettorale non ne può prescindere. Se vuoi fare politica nella Repubblica dadaista, devi saperci fare con il linguaggio Dada. Ed è probabilmente a partire da questo lessico che le scelte democratiche che urgono sono chiamate a fare i conti, decidendo quanto di continuità e discontinuità rispetto al passato sarà bene di volta in volta mantenere. Ed è ancora su questo terreno che si ripropone il rapporto tra etica e politica, che, dal nostro punto di vista –non ignaro della grande lezione di Machiavelli– non può non declinarsi nel rapporto tra etica di cittadinanza e democrazia.
Poteva infatti corrispondere al cliché del decisore di Carl Schmitt il generale Charles De Gaulle, che aveva alle spalle France Libre e il maquis, e che non doveva dimostrare di essere decisionista nel momento in cui si presentava come tale perché la fama d'essere decisionista gli veniva da prima del crearsi dello stato d'eccezione. Per questo il De Gaulle decisionista poteva archiviare l'Algeria, in nome della quale era stato richiamato a Parigi, e far scrivere la nuova costituzione in una settimana. Ma, come è risaputo, quest'Italia non ha fortunatamente in agenda alcun dramma algerino. Più banalmente nel Bel Paese si è bloccato l'ascensore sociale e si è bloccata la dialettica politica. Provare a forzare questa situazione di stallo diventa perciò, perfino indipendentemente dagli esiti, un tentativo dovuto. E allora, bonne chance, giovane Nap! I democratici incalliti ti aspettano al prossimo bivio, non solo come spettatori.
L'ironia del titolo evoca non a caso quel titanismo che in epoca moderna nasce con Napoleone. In lui il genio strategico-militare si accompagna alla passione che vuole riscrivere insieme il civile (il Code Napoléon) e il politico, trasformare le leggi, riformattare l'Europa e il mondo. Dicendo e documentando sul campo con l'energia dei fatti che l’impresa è possibile.
Fu Goethe a sostenere che con Napoleone la politica diventa un Destino. E nel caso nostro e tutto italiano il destino riassume la forma delle "riforme dall'alto", che cioè discendono dal carisma della leadership per emanatismo non più plotiniano ma renziano. L'annuncio delle riforme è in quanto tale la novità, e pone il problema della profezia che si autoadempie.
Può funzionare? Speriamo. Ho votato Matteo Renzi alle primarie con la speranza che sbaraccasse le inerzie, le rendite, i cascami di un ceto politico che da decenni ha cessato di essere classe dirigente. La rottamazione mi è parso termine appropriato alla situazione ancorché barbaro. Anzi la barbarie di Matteo (l'uso generalizzato e confidenziale del nome al posto del cognome è elemento del divismo e non indica maggiore prossimità) poteva funzionare immettendo energie nuove nell'esausto corpaccione dell'italica nomenclatura.




Ancora le primarie
Non a caso la partita delle primarie si giocava sul vertice del partito democratico, perché questo strano Paese è l'unico in Europa e al mondo che, dopo la caduta del muro di Berlino, ha smantellato tutto il sistema dei partiti di massa che abitavano quella che chiamiamo Prima Repubblica. Sembrerebbe cioè che la scommessa italiana sia stata di far funzionare la democrazia senza partiti. È in questa guisa che ad ogni tornata contendono liste elettorali prontamente smantellate a risultato conseguito. Di qui le primarie per il segretario del PD dove "Matteo" ha stravinto.
Primo problema: sono le primarie "aperte"  il metodo più adatto a scegliere il segretario? Così funziona, ossia senza confini, un partito popolare o un non-partito? La "parzialità" del partito –che è un lascito sturziano– è un inciampo al funzionamento di una democrazia aperta, o proprio la separatezza del partito garantisce la natura della proposta politica limitandone la portata e la responsabilità? Non è più utile a queste democrazie la pluralità delle posizioni che contendono, ma concorrono anche alla creazione di un idem sentire e di un comune orizzonte politico? Il voler cioè rappresentare tutto e tutti non rischia alla fine una logica plebiscitaria che favorisce e ripara la leadership e le élites? Una minore pretesa di rappresentatività non garantisce meglio l'autonomia dei cittadini e dei gruppi attivi, evitando inclusioni generalgeneriche? Insomma, un'assunzione netta di responsabilità non mantiene viva la titolarità dei diritti e dei doveri politici anche dopo il voto?
Secondo problema: alla luce delle prime prove e dei primi risultati non sarebbe utile una riflessione intorno all'uso delle primarie in quanto comportamento collettivo americano applicato a un partito che resta comunque culturalmente (e in toto) europeo? È pensabile che problemi di rodaggio, di ambientamento, di eventuali rigetti e insomma di assestamento siano da mettere in conto.
Terzo problema: Renzi non ha mai nascosto il fastidio per questo partito. Nel contempo il suo profilo e l'ambizione percepita si sono sempre decisamente orientati a Palazzo Chigi più che a via del Nazareno, presentata come un cimitero di ingombranti cariatidi. Quindi abbiamo votato per il segretario e abbiamo trovato il nuovo capo del governo. Di modo che, a voler essere un poco circostanziati, siamo destinati a restare senza un segretario a tempo pieno e ci siamo ritrovati due presidenti del Consiglio –uno in carica e uno designato– che subito e inevitabilmente si sono messi a litigare.
Ma intanto il partito torna (o meglio resta) acefalo. Può un partito risorgere, ristrutturarsi, riformarsi, esistere senza un segretario che si occupi a tempo pieno del compito? Possiamo continuare a ritenere che il partito seguirà il governo come le salmerie di De Gaulle? Dall'Ulivo di Romano Prodi in poi i fatti ci dicono che così non accade e noi continuiamo a calpestare il fango della palude della transizione infinita. Che significa che senza partito, nuovo ma vero, (che lo precede, accompagna e segue) un governo non regge, sia a sinistra, che a destra, o al centro, anche in presenza di una maggioranza bulgara come quella che il porcellum aveva assegnato all'ultimo gabinetto di Silvio Berlusconi.






Come costruire un partito?
Insomma, anche la democrazia italiana (come quella tedesca, inglese, francese o spagnola) sembra avere bisogno di partiti democraticamente strutturati. I guai e le panacee possibili della politica italiana in questi giorni confusi prendono tutti le mosse da questa radice. E dal momento che la forma della rappresentanza è fortemente cambiata, l'interrogativo rimbalza  inevaso: come costruire un partito? Sono questi "partiti" odierni in grado di svolgere la loro necessaria funzione di mediazione? Come si configura oggi, in termini strutturali, il rapporto tra capitale e lavoro? Il rapporto tra risparmio e investimento? È possibile pensare e costruire un partito a prescindere da un'analisi aggiornata della forma del capitale finanziario? Anche qui non mancano i problemi di rappresentanza, dal momento che i risparmiatori vogliono controllare. Mentre i finanzieri sono ovviamente insofferenti di qualsiasi controllo.
E brancoliamo nella ricerca, perfino delegata, di un potere pubblico che eserciti il controllo. Prendendo a prestito le metafore del pugilato, potremmo dire che il potere della politica appare un peso piuma rispetto ai pesi massimi della finanza che dominano il ring attuale. Addirittura sta sparendo la moneta... Cosa resta? I rapporti di potere, dei quali la moneta è segno e custode. L'incompletezza dei contratti e della loro pratica non riesce infatti a coprire il terreno lasciato scoperto dal ritrarsi della politica.
Tutte ragioni che danno conto di una "transizione infinita", così come la definì Gabriele De Rosa. E dal momento che una serie di contratti non possono essere chiusi, il sistema si trova in costante emergenza. L'economia è passata dalle mani degli economisti alle mani dei matematici, segnando una stagione che va ben oltre la fine delle programmazioni. Dal momento che i meccanismi di sviluppo della società hanno vanificato dall'interno ogni possibilità di piano e di mercato controllabile. È così che l'emergenza insegue se stessa e fa la propria apologia.
È in questo quadro che Fabrizio Barca ha avanzato la sua proposta di sperimentalismo democratico. Ce n'è bisogno, anche se l'espressione allude a un'atmosfera universitaria piuttosto che a quella popolare, umida e fumosa, delle antiche sezioni di quartiere.
È forse più facile richiamare telegraficamente il percorso alle spalle che ci ha condotti nel presente vicolo cieco. Il partito –scopertosi inadeguato– si installa nello Stato e parassita la società civile. Il welfare è a perdere, non soltanto nella grande stagione della Dc postfanfaniana. Mentre il Pci era costretto sottobanco a un continuo concordismo con il partito di governo e di maggioranza relativa. Teatro allora delle grandi e piccole manovre della politica politicante era il territorio. Oggi invece il partito e il sindacato sono troppo piccoli e troppo deboli per intervenire nell'area senza confini del mondo globalizzato. Proprio per questo lo sperimentalismo democratico dovrebbe creare un partito in grado di misurarsi con l'orizzonte presente, assumere il necessario respiro e la capacità di intervenire con una qualche efficacia.
Si aprono i nuovi temi dall'apprendimento, anche per quel ceto politico che ha smesso da tempo di studiare. Come i partiti possono apprendere dalla società? Non a caso allo sperimentalismo corrisponde la funzione formativa. E il partito dovrebbe collegare il territorio sia con lo spazio-mondo della globalizzazione, sia con un locale sempre più attraversato dai flussi che nascono fuori dai suoi confini.
Qui sono chiamate a incontrarsi e a intrecciarsi la mobilitazione cognitiva e la competenza democratica. Torna utile la grande lezione di Schumpeter: la democrazia è la competizione delle élites dinanzi alle masse. Il politico ha la competenza di un partito. Ma ecco la domanda insidiosa: un professionista competente offrirebbe oggi la propria competenza a un partito invece che a una multinazionale? Rispunta perfino la tensione weberiana: accanto alla professione c'è ancora traccia di vocazione?
I partiti definitivamente alle nostre spalle esibivano una dirigenza competente sopra un corpo esteso e popolare di "credenti nell'ideologia". Non è più il caso nostro e non potrà esserlo. Così come sono impensabili un futuro e dei partiti Statocentrici. E invece i casi italiani sono tuttora fermi alla stagione referendaria dominata da Mariotto Segni. Mentre risorge da mille pertugi il bisogno di una organizzazione nuovamente "generalista".




Quale la vera natura della democrazia che viviamo?
È in questa scena che si è giocata la contesa tra Enrico Letta e Matteo Renzi, dioscuri inevitabilmente litigiosi. Essi pongono un tema che li sovrasta, ben oltre il confronto che li ha divisi. Il plebiscitarismo di un uso indiscriminato delle primarie non riesce ad occultare il problema delle strutture politiche che legittimano la leadership. Enrico fa parte del Gruppo Bildelberg. Di Matteo sono a me meno note le frequentazioni, e tuttavia non si possono ricevere elogi settimanali dal New York Times o dal Financial Times senza essere introdotti in ambienti utilmente potenti. Detto senza patetici complottismi: i vertici della democrazia italiana, proprio perché privi dei tradizionali canali, non possono prescindere dal rapporto con i gruppi di potere (forti, medi, piccoli) che si sono venuti strutturando e che innervano     
–non francescanamente– questa democrazia nella lunga stagione della crisi globale.
Basta ridare uno sguardo alle prime pagine di Financial Times e New York Times di giovedì 13 febbraio per rendersi conto di quanta paritaria considerazione i dioscuri litigiosi siano accreditati. Meno male. Anche se resta tutto da affrontare il tema dei rapporti tra i gruppi di potere che quei giornali (e non essi soltanto) interpretano e la natura concreta della attuale democrazia italiana. Detto alla plebea: quale trama di rapporti, in due decenni di latitanza dei partiti, ha sostituito la loro invasiva presenza? Qual è la "vera" natura della democrazia che viviamo? È proprio vero che non può che peggiorare con il prolungarsi della latitanza dei partiti?
Mi viene anche da interrogarmi su una eventualità non del tutto peregrina. È probabile che i poteri egemoni (anche se occulti) di questa nostra poliarchia (uso un termine molto diffuso negli States) abbiano sdoganato il tema –reale– delle riforme istituzionali. Insomma i poteri che si relazionano sia a Letta sia Renzi sono probabilmente gli stessi, e hanno spinto Matteo, non ignari di dover dare una qualche risposta riformatrice a una altrimenti incontrollabile pressione del corpo sociale.



Il bisogno di criticare
Nessuna demonizzazione. Questo capitalismo è l'unico sistema che abbiamo. Ma il constatarlo  non evita il dovere della critica e degli strumenti efficaci per renderla politicamente produttiva. Proprio per questo, come nel gioco dell'oca, siamo rimandati al punto di partenza e cioè al tema dei partiti. Chi se ne occupa?
Piero Fassino fece per la sua parte un lavoro efficace e caratterizzato dalla modestia. È vero: i tempi corrono e non è più come nella mia giovinezza la stagione del cosiddetto "spirito di servizio". Ha una qualche parentela con esso il dilagante spirito di "auto-servizio"?
E tutto il personale che sta intorno alle leadership sublimate in che serie calcistica lo fareste giocare? Vi entusiasma lo spettacolo delle segreterie dei "fedelissimi" trascinati nelle stanze di un effimero potere come una torma in gita aziendale?
Caratterizza gli opposti (?) schieramenti del PD una evidente uniformità, che non si vorrebbe facesse rima con mediocrità. Perché la democrazia non ha bisogno di eroi, ma dell'eroismo normale dell'uomo comune, che si identifica normalmente con il termine coerenza.
Le si addicono spesso le sfumature del grigio. Ma anche talvolta i colpi di reni e di testa, perfino quelli sgangherati. Sto pensando alla scomparsa di Freak Antoni, leader bolognese degli Skiantos e di un tardo dadaismo demenziale, che cercò di rianimare il rock dei miei tempi. Se la presero con l'Illuminismo. Ma avevano ragione perché notarono la latitanza dalle bandiere della rivoluzione francese dell'ultima parola d'ordine, che osarono dissacrare: Liberté, égalité, bidè... Esagerati!  Ma almeno riconosciamogli l'intenzione di salvare un pezzo di spirito critico.




Ultimo avviso ai naviganti
Provo a rifare il punto. Ho votato Matteo Renzi e non ho ancora avuto il tempo per pentirmene. Perché ha rimesso in campo il ritorno della politica, riaperto i canali del confronto, ed io resto in scalpitante attesa dell'estensione del confronto oltre il gioco ristretto delle élites.
Nella leadership si è oramai concentrato non solo il partito personale, ma il partito tout court e anche il partito riformatore. O almeno una buona parte degli italiani e la sospetta uniformità corale dei media trasmette a tappeto questo sentimento. Le riforme discendono dall'alto e da un carisma mediaticamente napoleonico. Soprattutto si concentrano nel tempo breve e in strategie fulminee. A questo gioco riservato non ci sto. La democrazia non è né una volée né uno smash, anche se dubito coincida con lo slow food. Anzi, muovendomi ostinatamente in senso contrario, suggerisco e grido: fermiamoci un attimo! Ma, si dice –anche in luoghi accreditati ed autorevolissimi–,  che è necessaria una risposta in tempo quanto più reale alle preoccupazioni dei mercati. Uno "stato di necessità" interminabile, di cui sono sospetti le radici, il senso, il fine e la fine. Rispondo che le preoccupazioni dei mercati vengono dopo le mie e mi paiono contrarie a quelle della maggioranza degli italiani e degli europei. I mercati non sono né il Cervino né Bordighera: la forza delle cose non è cioè una forza "della natura". Lo so: sono i fondamentali della critica del vecchio Marx e spero, da ostinato non marxista, di non essere rimasto l'unico a ricordarlo. Senza la critica non c'è sinistra. Ma neppure intendo fare il verso a Nanni Moretti che implorava baffetto Massimo D'Alema di dire qualcosa di sinistra. Mi pare sufficiente e indispensabile tentare di pensare e di fare qualcosa di democratico. Sturzo mi ha insegnato che la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte. Che spesso si trova in rotta di collisione con i conformismi e sempre con le visioni superficiali. Non c'è da attraversare la Beresina, ma da uscire da una interminabile "transizione infinita". Le preoccupazioni dei mercati, e gli gnomi e i giganti nascosti che le pilotano, ci hanno condotti in questa "transizione" e ho il sospetto che, lucrandone non pochi vantaggi, siano tutt'altro che intenzionati a farcene sortire. C'è tutta una vasta produzione di saggi e di opuscoli sulle radici e sul senso dell'economia del debito. So anche che non si ferma il vento con le mani e con le giaculatorie. Che per resistere e cambiare c'è bisogno della politica e delle sue organizzazioni. Non i vecchi partiti degli antichi "credenti dell'ideologia", ma dei nuovi cittadini sovrani che si dotano di strumenti diversi da quelli precedenti –e chiamiamoli pure "motociclismo"– che consentano alla politica di consistere per confrontarsi, rispondere, e regolare gli animal spirits fattisi forsennatamente avidi e palesemente incapaci di governare se stessi.
Un po' più di democrazia conta più di mille promesse di grandi riforme. La politica è tornata, vecchia talpa, vediamo di non lasciarla nelle mani dei vecchi e nuovi proprietari.


                                                                                                 

La memoria oltre la memoria
di Giovanni Bianchi


Ricoeur

Senso della memoria
Il discorso sulla memoria si muove in epoca moderna lungo un itinerario dotto e filosofico che va da Heidegger a Paul Ricoeur. È un percorso invece ignorato dalla politica tutta data nelle immagini e nelle mani di un presenzialismo onnivoro. Resiste ancora negli ambiti residui di una cultura storica e politica che non rinuncia alla propria vocazione. In chi insomma pensa che bisogna essere ricchi del passato per guardare al futuro.
Momento cruciale di una verifica in tal senso è risultato il giorno della memoria. Un tempo non sprecato per ritornare sui temi della svolta del Congresso 2012 della Anpc tenutosi a Metanopoli, in omaggio al ricordo fondante di Enrico Mattei. Con una decisione che per guardare al passato con gli occhi del futuro apre alle nuove generazioni attraverso un accordo con le Acli per costituire i "Gruppi di lavoro Resistenza e Costituzione", dove l'esigenza di tramandare la memoria ai giovani si coniuga con quella di introdurre nell'organizzazione nuove e più fresche energie. Per tutte le associazioni partigiane infatti il confronto impari continua ad essere quello con l'anagrafe.
Va subito chiarito che il nostro concetto di resistenza civile ha come riferimento la diagnosi di Pietro Scoppola. Firmando la prefazione al libro di Bartolo Ciccardini su La resistenza di una comunità Scoppola scriveva: "Due sono i motivi centrali delle tesi revisioniste: il primo è quello della "lunga zona grigia" di indifferenza e passività fra le due posizioni minoritarie in lotta crudele fra loro, quella dei resistenti e quella di coloro che si batterono per la Repubblica di Salò; il secondo è quello della crisi della nazione, quale si era faticosamente venuta formando negli anni del Risorgimento e dell'Italia unitaria, della tragedia dell'8 settembre, che diventa la data simbolo della "morte della patria"."
Scoppola osservava di seguito che la conseguenza di queste idee largamente proposte e diffuse a livello di opinione pubblica è stata quella di tagliare le radici stesse della Repubblica e della Costituzione, con effetti politici che ancora scontiamo.


Ricoeur

La "zona grigia"
Troppe cose hanno finito così per essere immolate sull'altare della "zona grigia" diventata un Moloch inaccettabile. Anzitutto una corale partecipazione di popolo, anche se a diverse intensità. In particolare a farne le spese è stata la memoria della faticosa e diffusa partecipazione degli italiani senza la quale i combattenti in montagna non avrebbero avuto un retroterra. La popolazione italiana nel suo insieme non fu infatti né inerte né indifferente di fronte ai drammi provocati dall'8 settembre: dai soldati allo sbando, a inglesi e americani in fuga dai campi di prigionia, agli ebrei salvati con le modalità più ingegnose e talvolta rocambolesche, al rifiuto della chiamata alle armi da parte della Repubblica Sociale, alla resistenza dei militari "badogliani", agli ufficiali e ai soldati che resistettero nei Lager per fedeltà al giuramento al re, all'apporto delle donne e del clero, fino alla diffusa presenza cattolica intuita da Chabod e non confinabile nella sola categoria dell'attendismo.   È il tessuto morale e civile di chi si batte per la salvaguardia dei valori fondamentali di convivenza e di rispetto della persona umana, così come saranno poi codificati dalla lettera della Costituzione. Perché prendere le armi non può essere considerato l'unica forma di partecipazione e di coinvolgimento. Significative in tal senso le due esperienze parallele di Dossetti che sull'Appennino Reggiano partecipa alle azioni militari ogni volta disarmato, e quella di Ermanno Gorrieri che sull'Appennino Modenese prende parte da capo partigiano ai conflitti a fuoco. Tutti elementi che costringono a ripensare il concetto stesso di Resistenza, evitando di isolare il fenomeno della lotta armata dalle condizioni civili che ne consentono l'esercizio e la vittoria.
Tutto ciò dà conto di una ricostruzione progressiva e dal basso delle ragioni della convivenza delle quali una storiografia più attenta all'ideologia e all'epopea ha faticato a prender conto. Di qui l'importanza della memoria, ma anche dei nuovi tentativi di ricostruzione della memoria medesima. Va d'altra parte riconosciuto che questi tentativi sono in atto e non soltanto tra gli studiosi di area cattolica. Significativo in tal senso l'ultimo libro di Luigi Borgomaneri, dagli anni Settanta ricercatore e collaboratore della Fondazione Isec con sede a Sesto San Giovanni, che ritorna sul tema della scelta fuori dalle ideologie e dalle organizzazioni partitiche, nel tentativo di restituire la storia della Resistenza alla sua verità non revisionistica, fuori cioè dalle costruzioni di parte e "ufficiali".
Come annota Santo Peli nella densa prefazione all'ultima fatica di Borgomaneri, Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino, se già nei precedenti lavori di Borgomaneri non mancavano cenni critici alle versioni ufficiali della vicenda gappista, "ora è nei capitoli centrali dello Straniero indesiderato che l'autore finalmente ingaggia un serrato confronto con un'immagine del gappismo sostanzialmente scolpita, una volta per tutte, dalla prosa di Giovanni Pesce, e del suo fortunatissimo Senza tregua (1967)". Che è poi – come nota sempre il prefatore – la via maestra tracciata tanti anni fa da Italo Calvino, quando invitava a "lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza, e nello stesso tempo ai sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata".



Cos'è lotta di popolo
E siamo di nuovo al rapporto centrale tra le lotte in montagna e la crescita di coscienza della popolazione: quel che fa della Resistenza una autentica "lotta di popolo". Addirittura didattica in tal senso la memoria degli scioperi del marzo 1943 e aprile 1944 a Sesto San Giovanni e nelle altre grandi fabbriche del Nord di Milano e Torino. Di esse ha scritto il New York Times il 9 marzo 1944: "Non è mai avvenuto nulla di simile nell'Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani. È una prova impressionante che gli italiani, disarmati come sono, sanno combattere con coraggio ed audacia quando hanno una causa per cui combattere".


Turoldo

Sono le ricostruzioni poetiche e teatrali di David Maria Turoldo a perpetuarne la memoria, con il capolavoro multimediale di Salmodia della speranza (rappresentata nel Duomo di Milano nove anni fa per la regia di Giulio Mandelli) e la conversazione tenuta agli studenti dell'Istituto Tecnico Industriale "Benedetto Castelli" di Brescia il 31 maggio del 1985, che costituisce insieme la ricostruzione più completa e colloquiale del frate servita di Sant'Egidio. Del pari non vanno dimenticate le storie locali che riempiono gli scaffali di numerose librerie e che neppure l'avvento del Web è riuscito ad arginare. In esse ritroviamo gli eroismi dell'uomo comune, che è il sale della democrazia e che per la democrazia è disponibile a dare la vita sotto il tallone di ferro della dittatura.
Significativo che i due protagonisti del libro di Borgomaneri – un ragazzo del popolare quartiere del Giambellino cantato da Giorgio Gaber e quel Carlo Travaglini, un maturo intellettuale di madre tedesca, autentica primula rossa, che, nella Milano occupata dai nazisti e presidiata dalla Muti, compiono azioni incredibili e mirabolanti – attraversino il grande secolo delle ideologie senza lasciarsene contaminare. Quasi a porre un interrogativo anche per noi di peso epocale su che cosa sia e implichi una autentica fede democratica. Dove sta infatti la differenza tra ideologia e impegno democratico? Come e quando la memoria si fa politica? Come mai siamo piombati da un'epoca di grandi testimoni a questa fase confusa dove campeggiano e chiacchierano i testimonial, che dei testimoni sono un patetica caricatura? Andare oltre gli eccessi dell'ideologia è dunque recuperare la Resistenza al suo senso vero e agli aspetti o sottaciuti o inediti che ne costituiscono un elemento ineliminabile.


Qui si collocano Il martirologio del clero italiano conservato dall'Istituto Sturzo e il discorso di Aldo Moro, che intervenendo in un acceso dibattito alla Costituente argomentò che la Costituzione doveva considerarsi antifascista e non semplicemente a-fascista. Qui anche può esser dato conto del saggio di Claudio Pavone sulla guerra civile, assumendolo – è l'invito di Francesco Malgeri – come un contributo a rilanciare un dibattito o languente o irrigidito, con qualche patetismo, dagli approcci ostinatamente ideologici. (Anche la morte della patria si colloca, per altro verso, sul versante dell'ostinazione ideologica.)
Emerge piuttosto dai lavori e dal percorso tracciato dalla Anpc l'immagine di una "società nascosta"(De Felice). Lo stesso attendismo infatti muove all'interno di un'Italia sofferente, l'Italia delle campagne dove si nascondono renitenti e fuggiaschi, l'Italia delle donne e dei preti. Da non dimenticare Gianfranco Bianchi e il volume edito da Vita e Pensiero Per amore ribelli. Cattolici e Resistenza. Così pure il rifiuto della dialettica nazione/antinazione. E per concludere il giudizio riassuntivo e puntuale del solito David Maria Turoldo: "Il fascismo non è un partito, ma una visione del mondo".
Il nostro sforzo ha prioritariamente presente questo termine di confronto: celebrare la Resistenza significa anzitutto evidenziare le ragioni che l'hanno evocata.

                           
                                                                                  
                                                    

NEL VUOTO GENERATO DAL DECLINO DEI PARTITI,                     

SI AFFACCIA UNA NUOVA STAGIONE
DELL’ASSOCIAZIONISMO E DEL VOLONTARIATO?
di Andrea Rinaldo






Introduzione al testo di Giuseppe Cotturri  


Uno. Un approccio critico alla materia
 Che la rappresentanza espressa attraverso la forma costituzionale dei partiti sia in uno stato di grave crisi di credibilità presso un elettorato sempre più sfiduciato è cosa lapalissiana, nonostante i numeri comunque consistenti della partecipazione alle consultazioni elettorali, non ancora defluiti verso la crescente fascia dell’astensione. I risultati delle elezioni nazionali dell’insolito scorso febbraio 2013 ne sono stati una prova: essi hanno consegnato un’Italia tripartita tra una compagine di forze essenzialmente conservatrici, un’altra costituita da partiti a “vocazione” progressista, ed un imprevisto raggruppamento “anti-sistema”, fruttificato dalle spinte protestatarie di una vasta platea di cittadini insoddisfatti.                
È forse stato questo l’effetto della cosiddetta antipolitica? Tuttavia è in primis il contenuto del sostantivo  "antipolitica" a difettare:  esso non dovrebbe essere inteso come la cieca, irresponsabile, risentita condizione di insofferenza di tantissime persone verso la politica, i partiti e le istituzioni.  La transitabilità nei due sensi tra politica ed antipolitica è probabilmente il tratto distintivo di questa fase, con mutamenti repentini di campo, mentre le evoluzioni del contesto appaiono più determinate dallo “tsunami incontrollabile degli eventi”, piuttosto che dalla forza intrinseca dei partiti.   Partiti che nella stragrande maggioranza scontano anche il limite di essere troppo di tipo “personale”, legati cioè indissolubilmente alla fortuna del loro leader di riferimento, o al mantenimento ab eaterno degli apparati, e molto, molto meno ancorati ai contenuti politici nonché alle necessità pratiche dei cittadini. La politica non può essere ridotta a mera amministrazione perché essa deve dare forma non a quello che c’è ma a quello che ci sarà.  Deve avere una visione.  Deve costruire una visione.  Perché laddove essa si riduce a professione genera nel suo seno i germi insidiosi dell’antipolitica. Certamente non soccorrono in questa direzione neanche le nuove forme di trasformismo ammantate dalle incessanti “cause di forza maggiore”, che sono alla base della costruzione di un sempre reviviscente blocco di potere moderato-conservatore.  In questo degradare del sistema dei partiti ed in questa temperie culturale si inserisce l’accurata analisi di Giuseppe Cotturri, docente universitario, membro del comitato scientifico del sito www.labsus.org, laboratorio sulla sussidiarietà, che nel suo ultimo saggio “La forza riformatrice della cittadinanza attiva”, delinea un nuovo protagonismo delle compagini dell’associazionismo e del volontariato, che a pieno titolo si incuneano nel baratro generato da una partitocrazia forse al tramonto.  Protagonismo peraltro promosso costituzionalmente anche dalla recente riformulazione dell’ultimo comma dell’art. 118, il quale oggi prevede che: “…Stato, Regioni, Città metropolitane, Provincie e Comuni favoriscono l’autonomia dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà…”. 
Quindi, prossimità delle istituzioni alle esigenze generali dei cittadini nella convinzione, come recita l’orizzonte programmatico del citato laboratorio sulla sussidiarietà, che “…le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità e che è possibile che queste capacità siano messe a disposizione della comunità…”   Non si tratta pertanto soltanto del fatto di "cacciare" quelle persone ritenute indegne dalle istituzioni rappresentative, ma anche del tema più vasto e certamente più importante di una riforma complessiva del sistema politico-istituzionale tout court.


Due. Riformare il sistema dal basso
La tesi di fondo del testo è che le basi di una riforma complessiva degli equilibri del sistema si siano ormai ampiamente delineate.  Tuttavia a questo proposito sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza diffusa sia sulla crisi della rappresentanza politica (e questa forse c’è!), ma anche sulla progressiva nuova centralità assunta dalle pratiche di cittadinanza attiva, e quest’ultima invece probabilmente manca. E poi sulla prorompente fase di dismissione del welfare state, cioè del pilastro su cui ha poggiato per molto tempo la tenuta dello Stato liberale europeo, che è invece la connotazione forse più caratteristica della "società liquida" attuale.  In questo contesto il cittadino è in balìa di eventi incontrollati e si trova spaesato, solo. Servirebbero più spazi pubblici di incontro dentro i quali si possano socializzare le paure, si possa magari discutere di "bene pubblico": ebbene queste agorà non ci sono, mentre la politica appare orizzontalmente distante e profondamente autocentrica. Se il sistema della rappresentanza partitica ha costituito dal dopo guerra in poi, il binario quasi assoluto sul quale transitavano le decisioni pubbliche, da un quarto di secolo a questa parte, altre forme di coinvolgimento come quelle referendarie o quelle sussunte nella definizione della cosiddetta "democrazia partecipativa", sembrano avere preso il sopravvento. Si tratta non tanto di mobilitazioni che avvengono dentro/fuori dai partiti, ma del che cosa fare nella contingenza come "azioni positive", e così -afferma il professor Cotturri- "...sulla base di pratiche sociali "positive" e autonome, è intervenuta una profonda trasformazione della democrazia...". Infatti tutta una serie di bisogni dei cittadini sono oggi soddisfatti attraverso il volontariato, il privato sociale, le forme di cooperazione, in una parola dagli attori del "Terzo Settore", i quali hanno marcato anche la fase evolutiva di una modalità nuova del far politica, attraverso meccanismi di auto-attivazione finalizzati alla conquista di diritti denegati. "Sussidiarietà orizzontale" ne è la formulazione di rango costituzionale dal 2001 di questo processo, il quale trae forza dalle volontà espresse "dal basso" dall’estesa platea della "cittadinanza attiva". Detta così sembrerebbe la Caporetto dei partiti, in quanto quelle evoluzioni del sistema che dovevano essere dagli stessi promosse, sono state invece stimolate dalla mobilitazione delle numerose articolazioni della "società civile". Infatti la realtà è spesso quella della rincorsa della politica su questi temi, a volte per finalità assimilative, altre volte con intenzioni manipolatorie. Ma vi è anche il problema del conflitto tra il sistema socio-economico del "consumismo infinito" versus la disponibilità non infinita di risorse naturali del pianeta; in definitiva sulla tenuta complessiva di tale ordine mondiale, oltre alla costante verifica delle modalità supposte a priori come democratiche mediante le quali vengono distribuiti i beni prodotti.  Se per Giorgio Gaber la libertà era partecipazione, per il docente qui con noi stamattina, partecipare è anche apprendere e comunicare, e la democrazia si può definire come un “regime dell'apprendimento collettivo” continuo, nella convinzione che non vi sia un “uomo solidale per natura”, ma che l’homo, homini lupus prevalente si possa trasformare attraverso la formazione in un uomo solidale. E quando talune pratiche di solidarietà diffusa gestite nell’autonomia si accumulano, le stesse possono diventare il motore di un cambiamento sociale credibile: è così che si può passare dall’indignazione alla speranza; è questo il circuito virtuoso di un riformismo dal basso che assevera che un altro mondo è possibile.

Tre. Il “caso italiano”
La vicenda del Belpaese è stata ab origine quella di una “democrazia difficile”, di una perenne rincorsa verso riforme normalmente mancate, tanto che il professor Cotturri nella sua corposa introduzione contenuta nel testo che oggi analizziamo, si interroga su “…come può sopravvivere la Costituzione di una Repubblica tanto a lungo attaccata e alfine svuotata degli stessi soggetti che ne furono parti costituenti…”. Forse la sua sopravvivenza è da ricercare proprio nell’azione di quei cittadini che con continuità hanno surrogato alle manchevolezze politico-istituzionali ed anche di recente agli effetti devastanti di una perdurante crisi economica. A rimuovere una riflessione in tal senso sono state poi quelle concettualizzazioni ideologiche figlie della “Guerra Fredda”, riassumibili nell’ambigua formula del “caso italiano”. Cioè in quella specificità tutta italica di una democrazia certamente sotto tutela, tuttavia in preoccupante ritardo nell’omologazione dentro la sfera di influenza occidentale e magari alla ricerca di improbabili (ed inaccettabili) “terze vie”.     La riduzione politica del dissenso entro un arco parlamentare bloccato da governi marcatamente anti-comunisti, attiva per oltre un decennio dopo l’omicidio di Aldo Moro, ha impedito anche una serena valutazione delle istanze provenienti dai soggetti reali della società, accentuando la progressiva insoddisfazione di ampi segmenti sociali. Il fallimento della commissione bicamerale istituita intorno alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, la quale pur coinvolgendo in un primo tempo le forze sociali territoriali, in realtà ne ha poi sancito l’impermeabilità da parte del potere politico ed invece la capacità di pesante condizionamento esercitata contemporaneamente da persone molto ricche, rientra in quella dimensione di tormentosa applicazione dei principi costituzionali che ha caratterizzato  l’Italia dal dopo guerra in poi.   Italia che è sempre stata in bilico tra la difesa di quei principi, per esempio anche recentemente attraverso i Comitati per la Costituzione ispirati dall’ultimo Dossetti, e del loro “picconamento”, per fortuna spesso mancato come nel caso del referendum intorno alla metà del primo decennio degli anni duemila, che ha respinto la proposta di modificazione targata Bossi-Berlusconi. Il contenuto fondamentale del saggio di Cotturri ruota ciclicamente sulla “scoperta” che la Costituzione abbia miracolosamente trovato forza di attuazione proprio in quel patrimonio nazionale rappresentato da soggetti sociali molecolari diffusi, i quali agendo autonomamente e originalmente nel tempo, hanno così contribuito alla realizzazione del disegno repubblicano. E’ un libro sì sulla riflessione intorno alle virtù civiche, ma soprattutto sulla Costituzione come fonte primaria del patto sociale, come Magna Charta concreta e attuale “manifesto del nostro bene comune”.

Quattro. Le vie solidali alla partecipazione
Il gap tra democrazia costituzionale formale e quella sostanziale è dipeso (e dipende ancora) in larga misura dal grado di condivisione del patto sociale di convivenza, da quel senso civico di solidarietà che ne dovrebbe essere il motore principale che la norma giuridica può solo indicare, ma che è compito di ogni singola persona/cittadino riempire poi di significato. Infatti il disegno costituzionale -afferma nel suo testo il professor Cotturri- soprattutto con riferimento ai principi fondamentali, si può attuare soltanto nella continua circolarità tra diritto e pratiche sociali.               
Tuttavia la dimensione solidaristica è rimasta per molto tempo un “inderogabile obbligo” relegato però soltanto sulla Carta, mentre come si è già detto, è appena stato introdotto dalla recente revisione dell'inizio degli anni duemila il fatto che vengano assegnati ai cittadini poteri per realizzare iniziative autonome di interesse generale. Con un distinguo però “…se l’economia quindi ha sostanzialmente rifiutato per sé ogni contaminazione “solidaristica”, la solidarietà pubblica attraverso apparati di intervento statale nel sociale è stata una conquista reale…” , dice il professor Cotturri. Così la fratellanza, il terzo dei valori fondamentali della rivoluzione francese (forse il meno sperimentato), in un certo senso suscitata anche da taluni contenuti della nostra Carta Costituzionale, non si può inculcare ma ad essa semmai si può solo essere educati.  “Promuovere”, “favorire”, “rimuovere”, sono verbi che rimandano ad un work in progress formativo e ad una attuazione della Costituzione proiettata verso il futuro. Il riconoscimento giuridico del Terzo Settore, cioè di quella compagine di attori che non sono né Stato né Privato, avvenne con la legge quadro del '91, lo stesso anno del provvedimento normativo sulle cooperative sociali; l'anno anche del referendum sulla preferenza unica e della vigilia di "Tangentopoli". Il mondo del privato sociale godeva in quella temperie di una grande fiducia da parte dei cittadini, così come aumentava progressivamente la forza di advocacy, mentre di converso le spinte anti-partitocratiche si accentuavano esponenzialmente.  Il collateralismo con i partiti da parte delle grandi associazioni venne in un certo senso superato in seguito con l'istituzione del Forum del Terzo Settore, mentre la politica vecchio stampo cercava ancora di imporre il proprio protettorato; infine la legge del duemila sulle associazioni di promozione sociale a completare (finora) il quadro giuridico riguardante i principali componenti della galassia variegata del Terzo Settore. Ci sono voluti più di cinquant’anni per inverare un percorso di empowerment di iniziative civiche “dal basso”, per passare insomma dall’ “obbedienza” rispetto all’obbligo di solidarietà, ad apprenderne invece il contenuto declinato però in un contesto di responsabilità ed autonomia personale.
 
Cinque. Una democrazia a venire e prospettive della sussidiarietà
La contrapposizione tra "democrazia partecipativa" e "democrazia rappresentativa" è tutt’oggi oggetto del dibattito politico, e in questo senso la tesi di Cotturri è che stiamo  assistendo alla costruzione di una "democrazia duale", in pratica ad un sistema misto dove l'intervento dei cittadini concorre con quello dei poteri delegati. "Anticorpi tocquevilliani" si potrebbero definire, cioè contrappesi sussidiari alle possibili derive maggioritarie delle democrazie moderne, ed anche meccanismo attraverso il quale si possono attenuare le disparità tra governante e governato. Di formazione più recente è il termine "democrazia deliberativa" che tende a porre maggiore attenzione sulla fase della discussione pubblica, rispetto a quella della decisione. L'escalation numerica del nuovo lessico sul motore di ricerca Internet più famoso Google, indica una netta caduta di interesse per le forme di democrazia rappresentativa, mentre di converso l'utilizzazione odierna della rete come forma di democrazia diretta, risente forse in qualche caso di una eccessiva mitizzazione del web. Tuttavia è il concetto stesso di democrazia a vacillare, soprattutto dopo l'implosione dell'altro modello alternativo quello del socialismo reale, tant'è che vi sono oggi taluni studiosi che stanno elaborando teorie non solo al di là della concezione statuale ma anche di quella democratica così come l'abbiamo finora intesa. Le incipienti forme partecipative vanno lette anche come azioni "reattive" al pensiero unico neoliberista, proprio perché "...È la globalizzazione che sottopone a torsioni tremende vecchi sistemi di gestione dei conflitti sociali…", afferma Cotturri. Bisogna dire inoltre che le forme di cittadinanza attiva si muovono di regola tra delega e sussidiarietà, ma risentono profondamente dell’influenza non sempre disinteressata delle autorità, le quali spesso fissano percorsi preordinati indicati magari con la scusa di interpretarne il livello di rappresentatività, mentre di sovente rasentano l’eterodirezione. Quali orizzonti allora per la sussidiarietà? Se si considera l'arco temporale rappresentato dal primo decennio del 2000, e in particolare la legge istitutiva del servizio civile nazionale (dopo l'abolizione della leva maschile obbligatoria), la costituzione del sistema integrato di assistenza socio-sanitaria, la normativa sul 5x1000, si potrebbe essere fiduciosi in ordine alle politiche messe in campo per la sussidiarietà. Tuttavia delle riforme citate nessuna gode oggi di buona attuazione. Il busillis è allo stato attuale quello di "fare di più con meno". Comunque l’indirizzo costituzionalmente implicito invoca certamente una politica di sussidiarietà che si traduca poi in una governance, cioè in una sorta di “governo allargato” dove i soggetti auto-attivati sono favoriti dalle pubbliche autorità nel perseguimento di finalità di carattere generale.  Nei tempi di crisi poi, le forme sussidiarie di azione possono essere simili ad una “foresta che cammina”, ed una seria politica della sussidiarietà può creare certamente un “capitale sociale”, così prezioso per il buon funzionamento delle istituzioni e per il benessere dei cittadini.

Sei. Le questioni aperte
La concezione personalistica della Costituzione indica sicuramente che lo Stato deve essere una funzione della società civile, in quanto in quest’ultima albergano quei diritti che sono connaturati all’inalienabilità della persona: la dimensione già inscritta implicitamente dai padri costituenti è stata quella della “sussidiarità”, mentre il metodo esecutivo era ed è quello della “solidarietà”, che però non può mai essere pura e semplice filantropia. Tuttavia è necessario recuperare una virtuosa dialettica tra la dimensione del civile e l’apparato istituzionale, anzi una circolarità (non definita a priori) tra civile-istituzioni e viceversa, sono questi i possibili approdi di una “democrazia deliberativa” che consentono di passare dall’individualismo di mercato al personalismo comunitario, e magari dalla solidarietà alla fratellanza. Va detto che la rappresentanza politica non è riuscita in più di mezzo secolo di travagliata vita repubblicana a creare sufficienti condizioni generali di giustizia sociale. Se è vero che la caduta di credibilità della stessa è uno degli elementi che hanno cagionato la crisi della militanza nei partiti in favore della cittadinanza attiva, è anche vero che in tempi di ristrettezze delle risorse non si può ricorrere al volontariato soltanto come una comoda risposta a costo zero alle sacrosante istanze che provengono dalla società civile. Certo il volontariato può rappresentare una riserva anche etica dalla quale attingere per rigenerare magari una politica consunta, ma non può sostituirsi ai presidi e alle tutele che spettano principalmente alle istituzioni; indubbiamente rappresenta poi un efficace moltiplicatore di risorse, ma non è succedaneo di quei servizi che dovrebbero essere erogati in primis dalla pubblica amministrazione.  Può certamente contribuire alla costruzione di quella democrazia “duale” che si regge sulle due gambe della rappresentatività e dell’azione individuale diretta: due facce della stessa medaglia costituita dall’architettura repubblicana, cioè della res publica che appartiene a tutti i cittadini. Stesso discorso per quanto concerne l’interpretazione riduttiva della sussidiarietà come modalità operativa per esternalizzare servizi e ridurne il carico sui bilanci pubblici. Infine, il testo del professor Cotturri, non è il “manifesto” delle “magnifiche sorti e progressive” del Terzo Settore.  Semmai esso è l’analisi messa in campo con l’acribia dello studioso e la partecipazione emotiva di chi ha sperimentato personalmente la cittadinanza attiva, di un fenomeno del quale tutti noi dobbiamo acquisire maggiore coscienza. Fenomeno che è in grado di ri-attualizzare lo spirito più profondo della Carta Costituzionale in una prospettiva di maggiore democrazia ed equità.






 
Estate a Milano, 2013 (Foto Liviaci)
Ci sono delle specie di uccelli che gli studiosi individuano come monogami. L'abitudine di tali animali ad accoppiarsi e convivere con una sola femmina addirittura per tutto il ciclo della loro esistenza. L'uomo è un animale che non ha questa caratteristica; non è monogamo. Posso solo pensare che l'indissolubilità del matrimonio nel mondo occidentale sia stata un'invenzione per il controllo sociale. Un ritrovato di una società prettamente maschilista. Pur non spingendoci oltre nell'analisi, le ragioni fondamentali di tali istituzioni sono da ricercarsi nella divisione del lavoro apparsa in età antiche e più tardi in età storiche nell'assestarsi della società in classi. Queste sono altresì cose note negli studi di molti pensatori, filosofi, sociologi e nelle più recenti scienze psicologiche. Il sesso e la società, per giungere finanche alla rivoluzione sessuale di W. Reich. Arriviamo ai giorni nostri, all'emancipazione femminile. Oggi si assiste a fenomeni in cui i maschi hanno perso la propria identità, il proprio ruolo. La società odierna inoltre continua a proporre idee ed immagini attraverso i media, la televisione, la pubblicità, del corpo della donna da fruire come oggetto. Poi l'allarme è il femminicidio. Un mutamento di costume presente oggi in Italia e nelle società occidentali avanzate, marginalizza sempre più l'istituzione del matrimonio e trova grande diffusione lo stato di single. L'aspetto economico svolge una parte importante in questi processi sociali. Stanno saltando i rapporti sentimentali che un tempo venivano formalizzati in unioni stabili e burocraticamente codificate. Di contro cresce l'aspettativa di ufficializzare le cosiddette copie di fatto; i matrimoni gay. Consideriamo la letteratura di fine Ottocento e prima metà del Novecento.   

Estate a Milano, foto (Liviaci)
                                                                                         
Il comune secondo Sturzo
di Giovanni Bianchi

Un'assenza invasiva
È molto difficile imbattersi nella buona politica, ma è altrettanto problematico incontrare oggi la politica. Essa ci sfugge perché è dappertutto… La sua infatti è un'assenza invasiva, propiziata dal dilagare dei media e della comunicazione, dalla sincope delle notizie e dall'eccesso di talkshow ad essa dedicati. L'eccesso di politica parlata e di politica dell'immagine finisce per eliminare la politica pensata e capace di decidere. La pandemia di quello che Raffaele Simone ha catalogato come il "mostro mite".
Lo scomodissimo Pansa ha scritto in Carta Straccia che i giornali – pur in una drammatica crisi di vendite – si sono oramai fatti tanto forti da poter parlare ai partiti della propria area da protagonisti. E non da organi di stampa al servizio di un blocco politico: si è cioè invertito il rapporto rispetto alla prima Repubblica, quando il giornale di partito fungeva da house organ della propria consorteria organizzata.
Fu Mario Sechi, direttore de"Il Tempo", a teorizzare per primo questo rovesciamento delle parti. I partiti infatti si scoprivano sempre più deboli mentre la carta stampata, nonostante la crisi, mostrava una forza insospettabile. I giornali riuscivano infatti ad essere sempre più forti se si assegnavano un'identità politica e culturale molto chiara, e gridata senza incertezze, con titoli spesso surreali e scioccanti. Favoriva questa presa di leadership la decadenza di un ceto politico oramai identificato con La Casta, termine non a caso coniato da Rizzo e Stella, due giornalisti del "Corriere della Sera".
La casta anzi si è rapidamente trasformata nelle coscienze da inchiesta giornalistica a categoria del politico. I giornali dettano l'agenda, a destra, a sinistra, al centro. Sono diventati veri giornali-partito che si acquistano all'edicola. E, a differenza della politica, questi giornali esprimono idee forti.
Dietro l'uso generalizzato del termine casta c'è dunque il prevalere fino alla sostituzione dei giornali nei confronti dei "rispettivi" partiti. Un processo al quale hanno dato fiato e immagine le televisioni, a loro volta finite non innocentemente nel gioco. Così si parla ogni sera di politica riducendola a chiacchiera di urlatori. Questa politica entra nelle case e sostituisce quello che una volta era il dibattito in sezione o nella cellula dei partiti di massa disseminati sul territorio. La mitica casalinga di Voghera non è più costretta a subire la stentata sintassi del vicino di sedia, ma ha a disposizione per le proprie sensazioni il parere di esperti facondi e preparati. Si sente legittimata perciò a sdottorare a sua volta con le amiche. E mentre la chiacchiera politica imperversa ovunque, la politica (pensata) è stata sospinta in esilio.
Chissà se pensava a questa condizione il cardinale Martini quando diceva che la politica sembra essere l'unica professione che non richieda una professionalità specifica. E aggiungeva con sconsolata ironia: gli esiti sono di conseguenza... 

Burocrazia e sottogoverno
Come ha reagito la politica? Si è lasciata archiviare del tutto?
Grazie a Dio, le cose non stanno così. La politica infatti ha cercato caparbiamente la propria sopravvivenza e militanza, in parte rifrequentando le catacombe, dove funzionano tuttora i "mezzi poveri", e soprattutto ritrovando linfa e radici sul territorio attraverso la riscoperta dell'ente locale, del municipio; riducendo cioè con grande buon senso le distanze tra la politica e l'amministrazione. Una sorta di "via alla francese", dal momento che oltralpe nessun leader è tale o arriva all'Eliseo senza aver prima fatto il sindaco della propria città.
Nei comuni la politica ha provato a ripartire, praticamente e teoricamente, a educare un nuovo personale politico in grado di diventare classe dirigente. Non a caso sono sovente i sindaci i personaggi che concorrono alle nuove leadership, così come abbiamo conosciuto nei decenni alle spalle una serie di movimenti che ai sindaci facevano riferimento.
Sono tutte buone ragioni per ritornare a riflettere sul municipio e sul municipalismo, per procedere cioè alla riscoperta di uno dei temi più innovativi del pensiero e della prassi di Luigi Sturzo e del popolarismo. Pino Trotta lo aveva capito tra i primi e vi ha dedicato un saggio che mantiene intatta la sua validità.
Ma come spesso accade in questa congiuntura disordinata, prima di fare un passo avanti, sarà opportuno sostare un attimo per approfondire il discorso intorno alla "quarta libertà", ossia ai processi che si muovono lungo il perimetro e dentro la burocrazia. Perché nessuno Stato può farne a meno, nessuna organizzazione globale e neppure nessun ente locale. È il destino additato da Max Weber, che non ha allietato la modernità e inquieta la postmodernità.
Una circostanza cioè che obbliga a interrogarci sui meccanismi che connotano una democrazia, la sviluppano, oppure ne segnano gli arretramenti e il declino. È stato Stefano Rodotà sulla "Repubblica" di qualche mese fa a porre la questione: all'interno di una democrazia come quella italiana crescono un ceto politico e una classe dirigente, e insieme ad essi prospera generalmente una vasta area di sottogoverno.
La pratica del sottogoverno fu  caratteristica redistributiva dei partiti di massa della Prima Repubblica, ma non ha cessato di riprodursi, talvolta paragonabile a una autentica metastasi, all'interno del sistema politico e di quello amministrativo. All'interno e nei dintorni, se si pensa a quella che Eugenio Scalfari definì "razza padrona" e che aveva prosperato (in molti casi continua farlo) grazie alle industrie di Stato e alla notevole esperienza delle Partecipazioni Statali. Insomma, per analizzare lo stato di salute di una democrazia e individuarne le potenzialità di sviluppo è importante ed inevitabile entrare nei suoi meccanismi di riproduzione.
È qui che ci imbattiamo nella piovra del "sottogoverno" che è dilagato nella cosiddetta Seconda Repubblica ed è cresciuto all'ombra dei nuovi sistemi elettorali, di una interpretazione molto sportiva ed estensiva dello spoils system, a sua volta rapidamente succeduto alla lunga stagione dei partiti di massa ereditandone i difetti piuttosto che le virtù. Le leadership che si dichiarano riformatrici sono infatti più propense a riformare il campo altrui, quasi fosse sempre il campo di Satana, piuttosto che il proprio.
In tal modo il tessuto del sottogoverno ha continuato ad estendersi, dilagando dai partiti che occupavano lo Stato alle amministrazioni locali, agli apparati produttivi e bancari, a non pochi ambiti della società civile – quelli in particolare a cavallo di un welfare poco disponibile a interrogarsi intorno al proprio destino e alle capacità di autoriforma, e in generale in tutti quei settori attraversati dalla labile linea di confine che separa e unisce la quotidianità con le liturgie istituzionali.
Proprio perché il fattore più dinamico (o inceppante) di una democrazia consiste non tanto nelle istituzioni o nella propulsione del civile, quanto nel processo di "istituzionalizzazione" che mette in comunicazione civile e istituzioni, e conferisce alle istituzioni la necessaria credibilità e un'autorità che non può discendere semplicemente dalla loro geometria statuale. Così delineato sommariamente il quadro, siamo forzati ad abbandonare le sociologie per un salutare anche se rapido bagno nella nostra storia unitaria.

L'ente locale
È a cavallo tra Ottocento e Novecento che si assiste in Italia ad una forte ripresa del dibattito sulla forma Stato a partire dall'importanza crescente che viene ad assumere l'amministrazione locale. Perché l'amministrazione locale è il luogo nel quale le forze nuove –  i socialisti e i cattolici – incontrano lo Stato ed insieme il luogo da cui nasce la prospettiva di una nuova statualità che dei municipi tiene gran conto e che ai municipi fa riferimento.
È così che nella lotta municipale si forgiarono gli strumenti per un ordine nuovo della società e delle istituzioni. È così che nei municipi si preparano i quadri della nuova classe dirigente del Paese. È a questo livello, in una penisola disseminata di troppi comuni (sono dunque lontane nel tempo le radici della polverizzazione e delle diseconomie comunali) che la nuova società mirava a incorporare l'economia attraverso l'azione organizzata. Sindacato e Municipio sono la coppia di questa socializzazione politica dell'economia di mercato che tende a trasformare radicalmente lo Stato liberale.
Ha scritto Sabino Cassese: "Sturzo non si limitò ad integrare le forze cattoliche nello Stato italiano, agendo così come potente strumento di raccolta del consenso intorno ai poteri pubblici, allargandone la legittimazione popolare. Egli fu anche l'unico politico che si preoccupò seriamente delle fondamenta e della struttura (dell’"organamento", come egli diceva) di quello Stato, suggerendo un ambizioso disegno di riordino, che va ben al di là del regionalismo e dell'autonomismo ai quali il nome di Sturzo è solitamente legato".
Supportava questo ambizioso disegno di riordino dello Stato la incessante attività di amministratore locale che lo aveva visto protagonista nella sua Caltagirone. C'era di mezzo la crescita esponenziale delle città, il loro dirompente sviluppo economico e sociale a fare in modo che la coercizione dello Stato accentratore divenisse sempre più intollerabile. Un fatto strutturale, una coscienza generalizzata, l'occasione per la formazione dal basso di una nuova classe dirigente.
Era l'evoluzione sociale a spingere i comuni ad adattare le proprie funzioni e ad acquistarne di nuove, sostitutive di quelle perdute o confiscate dallo Stato.
Bisogna sottolineare che lo sviluppo del movimento operaio era uno dei fattori che spingevano i comuni ad occupare un nuovo ruolo: era il municipio il primo organismo verso il quale gli esclusi e gli oppressi si rivolgevano. I nuovi bisogni indotti dallo sviluppo industriale così come la spinta alla lotta di classe costringevano gli amministratori, volenti o nolenti, a integrare e correggere il progresso unilaterale dello Stato. L'autonomia dei comuni non soltanto si opponeva al moto centralistico indotto dall'unificazione del mercato nazionale, ma costituiva il luogo dialettico e funzionale a disegnare e praticare una nuova prospettiva solidaristica.
Il sociale e l'amministrativo procedevano dunque di pari passo, sia per la genesi come per lo sviluppo, quasi a testimoniare la correttezza dell'approccio della dottrina sociale della Chiesa che ha costantemente individuato negli "organismi intermedi" (e nel comune tra essi, così come nelle  cooperative) un momento essenziale dello sviluppo democratico.

Il programma municipale
Non stupisce allora che a questo trend generalizzato si accompagnino grandi dibattiti sul programma municipale, dove campeggiano la tutela del lavoro e dell'assistenza pubblica, l'istruzione, i servizi pubblici, la politica tributaria, la lotta contro la ricchezza improduttiva, una politica di sostegno alle classi oppresse di penalizzazione – destinata a diminuire le disuguaglianze – delle classi dominanti. In tal modo il comune veniva configurandosi come un vero e proprio ente economico, una vera e propria "impresa sociale". E’ da questa trasformazione che discende la richiesta sempre più pressante e generalizzata dell'autonomia finanziaria e impositiva del comune medesimo. Così il municipio è il centro attivo di tutta la vita pubblica della città.
Cose analoghe in proposito scrivono Matteotti, Turati, Sturzo e Angelo Mauri. Per quest'ultimo si trattava inoltre di abolire gli abusi della tassazione indiretta riorganizzando la tassazione diretta, commisurata al benessere economico e alla capacità di prestazione dei contribuenti. Un dibattito non mai smesso e giustamente approdato fino ai nostri giorni confusi.
Il comune dunque doveva ricostruire quella solidarietà sociale che l'usura vorace del capitalismo aveva distrutto. Le classi lavoratrici erano le destinatarie per eccellenza dell'azione del municipio sociale, che più di ogni altro poteva far fronte ai problemi locali. Va da sé che in questa prospettiva anche l'eterno tema del decentramento assumeva significato e  incidenza ben maggiori.
Dietro il municipalismo cattolico e socialista cioè se intravvede la possibilità di costruire un’Italia nuova, dove la felicità dei singoli si sviluppa insieme alla giustizia sociale e ad un inarrestabile moto di progresso economico e civile. L'ente locale cessava di essere un terminale periferico dell'amministrazione centrale, per assumere il ruolo di organo di governo del suo territorio.
Per questo anche in Sturzo il tema fondamentale diventa quello del bilancio. Ha scritto in proposito Gabriele De Rosa: "Per la prima volta nella storia dell'Isola un Comune poteva dirsi Comune, e non una bottega dove poche famiglie di notabili facessero e disfacessero, a loro piacere, diritti demaniali, regolamenti e leggi amministrative. Per la prima volta il bilancio diveniva un fatto pubblico, della cittadinanza, a cui rendeva conto fino all'ultimo soldo; per la prima volta la finanza di un Comune era messa a servizio di una politica sociale ed economica illustrata in mezzo al popolo".
In tal modo l'ente locale diventa luogo di partecipazione e di educazione politica dei cittadini,  mentre cambia la natura dell'ente locale stesso. L'analisi del bilancio diventa il luogo critico di questa trasformazione. Non solo: il comune finiva così per diventare uno degli strumenti più incisivi per la riforma agraria.
Ed è proprio qui che emerge in tutta la sua proposta il "concretismo" di Sturzo. Quello Sturzo che appare infaticabile organizzatore di casse rurali, di affittanze collettive, di unioni professionali che si intrecciano profondamente con la sua azione di amministratore locale.
È l'apoteosi concreta del territorio, dove l'amministrazione si esercita e cresce politicamente, dove una nuova classe dirigente popolare si attrezza per dirigere la cosa pubblica avendo come obiettivo il bene comune.
Ma quel che rende la vicenda sturziana un autentico magistero politico non è solo l'incontenibile passione municipale, ma anche la visione che lo spinge dall'attività di prosindaco di un comune siciliano alla proposta di una vera e propria rivoluzione della forma Stato.

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Le spine della “quarta libertà”
di Giovanni Bianchi


Il cancro della burocrazia che cronicizza il disordine
e sfibra la democrazia, in questi primi appunti di Giovanni Bianchi.
Un ottimo avvio per un dibattito

Le spine
Nelle stagioni del Leviatano campeggia l'autunno. E l'autunno del Leviatano vuol dire il prevalere della burocrazia. Intorno ad essa si affannano insieme le definizioni e le critiche. Perché forte è il bisogno, accresciuto dalla crisi, della "quarta libertà". Compito arduo e complicato. Dal momento che la missione di breve periodo per radicare ed accrescere la quarta libertà comporta di ridisegnare lo Stato, le Regioni e gli enti locali – come espressione della comunità e non dei governanti – in una dimensione di governabilità basata sulla fiducia scaturente dall'uso imparziale e trasparente del rapporto tra burocrazia e democrazia, tra amministrazione e politica.
Una sfida cioè ad affermare la cultura dell'uomo prima dell'avidità dell'interesse, riportando la risorsa umana nella giusta dimensione di lavoro, di sinergia e collaborazione, di passione, di capacità di instaurare relazioni di gruppo e comunitarie. Con l'esigenza evidente di una bussola istituzionale, davvero indispensabile per acquisire gli strumenti innovativi e definire l'agenda della governabilità.
E invece la burocrazia oggi ruba il futuro, toglie dignità, libertà, certezze. Né la definizione del dizionario ci risolve i dilemmi. Con il termine burocrazia infatti si intende l'organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità. Il concetto fu definito in maniera sistematica da Max Weber in Economia e società. Weber considerò la struttura burocratica come espressione ed effetto dei processi di razionalizzazione e specializzazione delle comunità moderne, nelle quali si sviluppa una relazione di subordinazione tra i cittadini e i pubblici funzionari, che conquistano la legittimità dell'esercizio del potere per la razionalità tecnica con la quale svolgono il loro operato. L'organizzazione burocratica costituirebbe così un momento fondamentale in questa legittimazione.
L'etimologia ibrida del termine, dal francese bureau (ufficio) connesso al greco kràtos (potere), ne rivela d'altronde l'origine moderna. Tanto moderna da scatenare insieme all'interesse anche l'ironia dei moderni.
Il vertice è raggiunto da Emil Cioran che, nei Sillogismi dell'amarezza (1952), così si lascia andare: "La menzione delle noie burocratiche tra i motivi che giustificarono il suicidio, mi sembra la cosa più profonda che Amleto abbia detto". Superato probabilmente da Franz Kafka: "I ceppi dell'umanità tormentata sono fatti di carta bollata".[1]
Puntualissimo nella sua corrosività il solito Marx: "La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale, è lo spiritualismo dello Stato".[2] Più prossimo alla crisi finanziaria che stiamo vivendo il giudizio dei Friedman: "Più burocratica è un'organizzazione, più grande è la misura in cui il lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile".[3]

Nella crisi
La burocrazia non guarda in faccia a nessuno. Piccole o grandi che siano, le aziende italiane, oltre alla crisi, devono far fronte a questa tassa, neanche più tanto occulta, valutata dalla Cgia di Mestre in 31 miliardi di euro l'anno; 26,5 secondo la Presidenza del Consiglio dei Ministri che nel suo dossier sulla semplificazione amministrativa, alla fine del 2012, ha sottolineato
come "l'eccesso di costi della regolazione rappresenta una delle cause principali dello svantaggio competitivo dell'Italia".
È fuori discussione per tutti gli autori che l'organizzazione burocratica sia interna al processo di legittimazione. Come pure che tra politica e burocrazia si è sviluppata una dialettica hegeliana del tipo servo/padrone, con la progressiva sostituzione della burocrazia alla politica politicante. Se infatti persiste la verità dei nostri costituenti, per i quali le istituzioni prendono verità ed autorità da movimenti e valori della società civile,  si può intendere  il rischio  che stiamo correndo  servendoci  dei risultati delle ultime rilevazioni.
Secondo una ricerca condotta da Ipsos, per la committenza dell'Istituto Toniolo in collaborazione con Fondazione Cariplo e Università Cattolica, sui giovani residenti in Lombardia dai 18 ai 28 anni, solo l'8,5% dei giovani lombardi pratica con continuità l'esperienza del volontariato.
I dati relativi al campione lombardo si discostano di quasi 6 punti rispetto al campione complessivo nazionale, da cui emerge che il 64,7% "non ci ha mai provato". Le cifre risultano piuttosto sorprendenti rispetto alla generale impressione di un universo giovanile particolarmente impegnato in questo settore. Anche in questo campo invece risulta una potenzialità inespressa dalle nuove generazioni.
Da notare che l'attività tende leggermente a crescere nella fascia d'età dai 24 ai 26 anni. I maschi che non si sono mai impegnati sono in Lombardia di 10 punti superiori alle femmine: il 64% di uomini contro il 54% delle donne. Guardando al passato, emerge che le donne si impegnavano di più: il 20% risponde che ha avuto precedentemente esperienze di volontariato contro il 14,4% degli uomini. Anche il titolo di studio ha un peso: fra chi ha un livello di scolarizzazione più basso e alto le differenze sono rilevanti.
Titolo di studio basso: il 67% non ha mai fatto volontariato, contro il 51% di chi ha un titolo di studio alto. Oggi, in modo continuativo, chi ha un titolo di studio basso lo pratica per il 7%, mentre il dato sale all'11,5% per chi ha conseguito un titolo di istruzione superiore.
Infine i partiti e movimenti politici. Già precedentemente il Rapporto Giovani aveva messo in evidenza la scarsissima fiducia delle nuove generazioni  verso le istituzioni. Anche rispetto alla partecipazione politica il dato non cambia, anzi, decisamente peggiora: soltanto il 3% dice di impegnarsi saltuariamente o con continuità in una formazione politica, gruppo o movimenti. Radici ed effetti del "disordine" epocale sono così codificati dalla ricerca su un campione comunque significativo.

Amministrare il disordine
Torniamo ai temi della quarta libertà. La burocrazia amministra il disordine e lo cronicizza, e così facendo allunga la vita della società politica e del disordine stesso. Codifica cioè e riflette un assetto castale della società italiana, palesemente priva di ascensore sociale.
L'origine notoriamente è nel lavoro e nella sua assenza: senza lavoro si muore, e senza lavoro non si crea società. Qui anche si perpetuano le antiche radici di un assetto castale che precede il nostro Risorgimento e che l'assetto unitario del Paese, il modo con il quale l'unità stessa viene raggiunta, non riescono a scalfire.
Complice dell'irrigidimento castale (dialettale e provinciale) della società italiana è dunque l'assetto burocratico. Anche la burocrazia e molti suoi compiti sono sussunti dalla rendita. Rendita finanziaria, cui si accompagna la rendita sociale e politica. I protocolli burocratici appaiono incredibilmente analoghi a quelli medicali: perpetuano l'esistente con una qualche insistita ottusità.
L'Europa ha esportato burocrazia nel mondo, convinta di essere depositaria della logica weberiana, dopo quella illuministica. In tal modo Bruxelles e Berlino hanno affamato i greci e risarcito le banche tedesche. È con questa attitudine e quest'ottica che la burocrazia al servizio della rendita cronicizza il sistema, e ne allunga l'esistenza.
Non è sfuggito a questa deriva anche il sistema scolastico italiano, patetico nel tentativo di mettersi al passo con l'impresa dietro le bandiere dell'efficacia e dell'efficienza.
Servendosi degli strumenti culturali l'irrigidimento castale riproduce e "disciplina" il passaggio dal lavoro alla rendita. Il punto di partenza è ovviamente l'esaurirsi della creatività sociale, lo sfarinarsi dei soggetti storici, l’eclissi dei movimenti.
Può essere correttamente applicato il criterio con il quale Giuseppe Dossetti guardava lo Stato: anche la burocrazia non crea società, ma la promuove e disciplina. E se la società è disordinata la burocrazia mantiene e cronicizza il disordine. I dati impressionanti della ricerca dell'Istituto Toniolo testimoniano la fine della generatività sociale nel nostro Paese. L'Italia cioè conserva esplicitamente l'assetto castale che codifica il passaggio dal lavoro alla rendita che ha caratterizzato gli ultimi decenni.
Così le nuove generazioni hanno subìto il furto del futuro, mentre il poeta potrebbe lamentare:"Non abbiamo più energie per pensare alla bellezza".    

Note
[1] Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, 1951.
2 Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844.
3Milton e Rose Friedman, Liberi di scegliere, 1980.