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venerdì 11 dicembre 2020

LA LINGUA RITROVATA
di Angelo Gaccione

Alberto Bertoni
 
Ero fin troppo certo che mai in vita mia avrei letto un libro intero sul monitor di un computer, e questo non tanto perché sono un maniaco della carta stampata (da vecchio gutenberghiano incallito e incorreggibile), ma perché ho bisogno di reggere il libro fra le mani, sfogliare le pagine, e soprattutto segnare i passaggi più significativi, una frase magnifica che illumina la pagina d’improvviso, un aforisma o un verso che si vuole salvare per fissarselo meglio e incancellabile nella memoria. E poi non posso rinunciare al mio mozzicone di matita rosso-blu che mi porto appresso per tutte queste operazioni. Lo faccio da quand’ero giovanissimo, ed è diventata nel tempo una irrinunciabile abitudine. E invece è accaduto ed ho derogato. L’e-book di Alberto Bertoni pubblicato dalla Casa Editrice Marietti che mi è arrivato in pdf, ha un titolo che non poteva non sedurmi: La lingua ritrovata. Non è un trattato di linguistica, i lettori si rassicurino; in realtà è un robusto segmento dell’esistenza dell’autore, raccontato attraverso la figura paterna, il sanguigno e gioviale socialista modenese Gilberto Bertoni che gli amici chiamano affettuosamente Gil. Il sottotitolo, del resto, è chiarissimo e così recita: “Storia di mio padre e del suo Alzheimer”. Il riferimento a questa patologia neurologica invalidante e degenerativa, ci dice del gorgo in cui un essere umano precipita, e con esso quanti ne sono coinvolti a livello affettivo e familiare. “All’inferno”, titola giustamente Bertoni il capitoletto che dedica a questo tragico evento che colpisce suo padre nel 2001, ed è un inferno da cui si esce devastati.


Modena poetica

Ne so qualcosa per esperienza personale, e non è possibile neppure lontanamente immaginare che cosa succede nei vostri visceri, nel vostro equilibrio, quando vi svegliate un mattino e vostra madre non vi riconosce più, non ha più alcun interesse per la vostra vicinanza e vi considera addirittura una persona ostile, un estraneo molesto. La sua memoria all’improvviso non c’è più, è volata via risucchiata come da un vortice. E siete costretti a guardarla a vista, a nascondere le chiavi di casa, perché può capitare che in piena notte si alzi e tenti di aprire la porta e vagare per le vie. “Tu non sei mia figlia, vattene!” diceva sua madre a mia cognata, la sua prima adorata figlia per la quale stravedeva e s’era levato il pane di bocca, come si dice dalle mie parti. Un calvario durato anni, una quotidiana umiliazione che ha influito non poco sulla prematura scomparsa di questa mia sfortunata cognata. “(…) L’elemento davvero spiazzante e in fondo irredimibile è stato l’immediato, pervicace rifiuto di mio padre a riconoscermi figlio (l’unico figlio, per di più!)”; è uno dei passi drammatici del capitolo citato del libro di Bertoni. Ma il poeta aggiunge un elemento in più a questo rifiuto, a questa distanza, l’uso esclusivo dell’idioma modenese del padre, “(…) c’era un segnale definitivo, in questo senso, vale a dire il suo parlarmi in dialetto modenese. Rigorosamente dialettale con gli interlocutori extrafamiliari, pallavolisti o ferraristi che fossero”. E ancora: “(…) dopo il 2001 e fino alla sua morte, nelle nostre passeggiate alzheimeriane, lui mi parlava in dialetto modenese, idioma che comprendo benissimo ma che non riesco a sillabare né tantomeno a scrivere se non – prima – traducendo mentalmente dall’italiano, come in inglese o in francese: ed era il segno che mio padre proprio non identificava in quel suo accompagnatore quotidiano l’amatissimo figlio maschio…”. 


Modena. Centro storico e Ghirlandina

I conoscitori della poesia di Bertoni sanno che egli è tornato sul tema dell’alzheimer in molti testi poetici, e che la figura del padre è presente in buona parte della sua interrogazione. Una materia così incandescente e privatissima con cui non avrebbe potuto non fare i conti, come figlio e come scrittore. L’alzheimer è una patologia molto più diffusa di quanto noi pensiamo; sono rimasto annichilito nel leggere, non molto tempo fa, che alla metà di questo nostro secolo, una persona su 85 in tutto il mondo sarà colpita da questo morbo. Una cifra spaventosa e che è destinata a comparire in età sempre più presenile. Non è stato facile per me, dopo aver simpatizzato con la figura di Gil Bertoni che il figlio ci racconta, e la sua tragica parabola, stendere questa nota. Cinquant’anni di lavoro alla Ferrari, socialista, sportivo, vitale, popolano, e, soprattutto, custode e orgoglioso della sua lingua dialettale. Lingua dialettale che in molti luoghi è già scomparsa o è destinata a divenire una lingua perduta, come ho avuto modo di dire e scrivere in tante occasioni. Sarebbe bastato questo suo uso dialettale della lingua a rendermelo simpatico. Chissà se i tentativi dialettali del figlio poeta non siano il modo più giusto di “ritrovarlo” questo padre scomparso; ritrovarlo in questa lingua delle radici, dell’autenticità, in fondo un modo per non sentirsi orfano del tutto. L’ho provato sulla mia pelle questo vuoto, se ho potuto scrivere in un tempo che si avvia verso la vecchiaia, versi come questi: Di te non voglio che ricordare il lutto / che mi ha reso orfano. / Il vuoto che ho provato all’improvviso / d’essere solo al mondo. / Ero padre anch’io, / ma me ne accorsi, / quando persi te.


Modena poetica

A me, la lingua dialettale, la lingua madre, è venuta a cercarmi in età tarda. Contrariamente a Bertoni, io quella lingua l’avevo sempre parlata, ne ero impastato, anche se in scrittura me ne ero tenuto alla larga e avevo dissuaso anche i miei amici letterati. In parte per le difficoltà, in parte perché ero stato influenzato da letture carnascialesche, ironico-satiriche, da un suo uso declinato spesso in chiave erotica. Ero stato depistato e non me ne ero servito che per qualche efficacissimo modo di dire, per qualche tagliente proverbio. Fino a quando nel 2017, in un tempo contratto e in un delirio creativo, i trenta testi di Lingua mater non hanno rotto ogni argine e sono voluti uscire prepotentemente in lingua dialettale. Il VI e VII componimento di questa raccolta mi hanno mostrato a dismisura, come invece quella lingua non avesse nulla da invidiare, in poesia, a quella che Bertoni chiama la lingua del sì. E come avrei potuto usarla su un versante diverso e più profondo.
Mi sugnu sempri chiestu / s’a dingua nostra sa candèari u doduru. / Sudi chilli su’ lingui – e suni degni - / e stèari supra a faccia e du munnu. / Anchi si cchiù spissu, / u doduri ‘u ndeni lingua”.
 
Mi sono sempre chiesto
se la nostra lingua sa cantare il dolore.
 
Solo quelle sono lingue
- e sono degne -
di stare sulla faccia della terra.
 
Anche se più spesso
il dolore non ha lingua.
 
Pu mi signu dittu: / tutti d’uomini suòffrini, / tutti d’uomini mùorini / in ugn’è ppart’e du munnu, / in ungn’e àncudu e terra, / i parodi si’ tu / chi ll’e trovèari. / Ssa verità m’apierti d’uocchi. / Dodùri… / sentiti cum’è densa ssa paroda. / dodùri… dodùri… doduri… / ’U nni sèrbanu àvutri”.
 
Poi mi sono detto:
“Tutti gli uomini soffrono,
tutti gli uomini muoiono,
in ogni parte del mondo,
in ogni angolo di terra,
le parole necessarie
devi trovarle tu”.
Questa verità mi ha aperto gli occhi.
Dolore…
Sentite com’è densa questa parola.
Dolore… dolore… dolore…
Non ne servono altre.

Scorcio del quartiere della Pomposa
 
Dunque, io penso che Bertoni debba continuare a scrivere versi nella sua lingua paterna (la mamma non gliel’ha trasmessa, maestra di scuola elementare, rifuggiva il dialetto modenese come la peste. Il fascismo, del resto, aveva stupidamente in odio i dialetti), perché i versi che ha proposto in questo libro prendono alla gola.


 
Mè e mê pèder
 
Stasìra a tìra un vèint catìv
ch’a-l desquàcia léngua e vistî
e a-n vól ch’a famm
gnànch ’na ciacarèda, un gir
 
Mè, da la mê fnèstra srèda
 a-gh’ho sôl la colpa d’éser vìv
mèinter a guèrd la Pumpó∫a ba∫èda
da sta lù∫ nóva ed temporèl, ch’la spècia
 
un èter dè finî.


Me e mio padre

 
Stasera tira un vento cattivo / che scopre lingua e vestito / e non vuole che facciamo / neanche due chiacchiere, un giro. / Io, dalla mia finestra chiusa, / ho l’unica colpa di essere vivo, / mentre guardo la Pomposa baciata / da questa strana luce di temporale, che rispecchia / un altro giorno finito.
 
Ai lettori del mio lembo di terra calabrese non sarà sfuggito l’avverbio di tempo - Stasìra - che apre la poesia di Bertoni. Tale e quale a come lo scriviamo e lo pronunciamo noi. Magia della contaminazione dei dialetti, a quasi un migliaio di chilometri di distanza!
 
La copertina del libro
 
Alberto Bertoni
La lingua ritrovata
Storia di mio padre e del suo Alzheimer
Marietti 1820 Ed. digitale 2020
Pagg. 40 € 2,99