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mercoledì 22 gennaio 2014


IL FANTASMA DELLA FAME
L'Italia che si rivela tra le corsie
del supermercato
di Antonio Lubrano  

Con questo scritto Antonio Lubrano inizia la sua collaborazione con "Odissea"



Nei corridoi delle stazioni metropolitane quelli che tendono la mano sono ormai una moltitudine. Chi tace mostra invece un cartello con una scritta perentoria: “Ho fame”. E ogni volta che mi imbatto in questa dichiarazione spudorata mi torna in mente la jonta. Avevo dieci anni nel 1942, un'epoca che per chi l'ha vissuta vuol dire guerra, tessera annonaria, pane razionato; e mia madre aveva assegnato a me l'incarico di andare al forno ogni mattina. Alla nostra famiglia toccava un chilo di pane ma il palatone non era mai un chilo, sicché per raggiungere il peso giusto occorreva una giunta, poco più di una fetta. Ovvero la jonta. Guai a mangiarla per strada, tornando a casa: erano schiaffi sicuri. La signora Clotilde ne faceva una questione di giustizia: “Che forse la tua fame ha più diritti di quella delle tue tre sorelle..?”
     Ecco: la jonta nel mio paesino d'origine rappresentava tutta la nostra involontaria miseria di cittadini trascinati in guerra dal fascismo. Il simbolo stesso della fame. Dopo l'armistizio ci sono voluti almeno due decenni per far sparire la parola fame dal nostro vocabolario quotidiano. Gli Anni Sessanta infatti sono passati alla storia come quelli del benessere. Ma ora che cosa sta succedendo: siamo un paese di disperati o di ostinati fiduciosi?





     Mi colpì alcuni mesi fa il rilievo dato dai quotidiani milanesi alla notizia di un anziano sorpreso a rubare in un supermercato. Gli bloccano due borse piene di cibo per un valore di 36 euro. “Con la pensione non vivo”, dichiara l'ottantenne appena riesce a risalire dall'abisso della vergogna. Eppure le fredde statistiche ci dicono che casi del genere dal 2008 in poi sono aumentati del 40%. Sta di fatto che il titolone ha avuto per me la violenza di uno schiaffo in faccia. Forse perché improvvisamente attraverso questo triste episodio si è materializzato ai miei occhi il fantasma della fame, un fantasma che sembrava dissolto per sempre, cancellato più che dimenticato. Di sicuro c'è che la piccola storia del “pensionato-ladro” può essere letta oggi come la spia dolorosa di una indigenza collettiva, pronta a dilatarsi  oltre ogni misura.
  Le cifre, del resto, sono fin troppo crudeli.
 L'Eurispes, istituto europeo di studi sociali, sostiene che due milioni e mezzo di famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà, il che vuol dire 8 milioni di persone. Altri due milioni e mezzo vivono al di sopra di questa soglia e sono altri otto milioni di individui. Dunque, siamo a sedici. Non bastasse, lo stesso centro di ricerche afferma che “a chi vive nel disagio bisogna aggiungere circa 25 milioni di persone appartenenti al ceto medio in una costante condizione di instabilità e precarietà”. Vale a dire quelli che sono stati definiti “i poveri in giacca e cravatta”.
      Se so fare bene i calcoli venticinque più sedici fa 41. Ossia quarantuno milioni di italiani, su una popolazione di sessanta milioni, che campano male. Una intera nazione allo stremo, dove i privilegiati rappresentano sì e no un terzo degli abitanti. Possiamo crederci o c'è qualcosa che non funziona? Il dubbio nasce da una considerazione dello stesso Eurispes: “La verità è che in Italia manca un sistema di rilevazione serio che prenda in considerazione parametri più aderenti alla realtà. Se si pensa, infatti, che il parametro per stabilire la soglia di povertà è 990,88 euro di reddito per un nucleo familiare formato da due persone vuol dire pensare che una famiglia che tira avanti con mille euro al mese sia benestante. Un’assurdità”.
   Sta di fatto che il fantasma della fame prende corpo oggi per troppi italiani. Le telecamere dei supermercati ci raccontano con freddezza il travaglio psicologico del vecchietto che ruba. Intanto che cosa ruba: la confezione di prosciutto crudo, quella da due fettine di carne, un trancio di grana padano o di reggiano, la scatoletta di tonno… E comunque sceglie sempre tra le offerte il prodotto che costa di meno, quasi a tacitare la sua coscienza.


    Subito dopo il furto è preso dal rimorso: c'è chi lascia sul primo scaffale che capita la confezione rubata e chi riporta la merce laddove l'ha prelevata. Il “telescrutatore” ci dice che questi tentennamenti durano dai dieci ai 15 minuti. E chi li studia da anni  rileva l'ingenuità degli anziani quando infrangono(o tentano) la barriera dell'onestà. Si presentano alla cassa e cominciano a tremare dalla paura. Pagano quel che hanno messo nel carrello e si avviano all'uscita sperando di averla fatta franca. Di solito il sospettato viene fermato da una commessa con la scusa che forse nello scontrino c'è un errore. E qui il povero pensionato (nel senso più vero dell'aggettivo) confessa subito. “Per carità, non ditelo ai miei figli”, è poi la patetica raccomandazione di qualcuno.
   Ma basta a salvarci il sentimento di pietà che tutti noi - cittadini, lo Stato, i politici - nutriamo o diciamo di nutrire per questi ladri involontari?