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domenica 2 marzo 2014

LO SGUARDO CORTO DEL POTERE
di Fulvio Papi


Da quello che si riesce a capire da parte di chi non è uno specialista di analisi economiche pare (nel senso di apparire) che l’economia che domina l’Occidente, cioè quella americana, passato il peggio della bufera, ricominci ancora dal punto in cui era cominciata la famosa “crisi”. Le cause per l’intelligenza critica erano ben note, anche se devo riconoscere che i libri dei grandi economisti americani che ho letto terminavano sempre con una terapia di natura etico-politica che concludeva degnamente il lavoro, ma apriva in una direzione antropologica che era fuori controllo rispetto ai poteri materiali che, senza essere profeti, si poteva immaginare avrebbero cercato, e anche facilmente, di riprodurre se stessi. A questo proposito avverrà probabilmente che i più sosterranno che questo modo di produzione, con tutti i suoi aspetti, finanziari, tecnologici, di mercato, ecc, appartengono a una inevitabile natura non proprio come tra Settecento e Ottocento, perché storica.    E altri esperti, probabilmente i meno ricchi, riprenderanno, aggiornate, le loro analisi critiche. Da un punto molto generale, tenuti presenti gli studi dei competenti, si può forse dire che le prossime limitate catastrofi potranno essere medicate facendo pagare i costi a chi càpita càpita, tra le chiacchiere, spesso volonterose, e per questo non prive di dignità, di chi, in un paese marginale come il nostro, ormai alle prese con una sua storia disastrosa, dominata da intraprese errate e da criminalità diffuse, desidera mostrare che la vita migliorerà. Per quello che resta della nostra vita potremmo procedere in questa commedia che la televisione mostra come realtà, e Internet fa risuonare di opinioni che derivano da più che comprensibili lamenti, ma sono anche utopiche, sconsiderate, paranoiche, quando non addirittura promosse da animi meschini, menti povere e linguaggi volgari. Tutto questo può durare a lungo, e addirittura formare un costume. Ma quando, a causa del riscaldamento dell’atmosfera, l’acqua invaderà inevitabilmente terre abitate, e vi saranno un miliardo e trecento milioni di profughi?
Per fare una previsione anche modestissima, bisognerebbe avere una mappa geografica di questa catastrofe per capire l’insieme di effetti che verranno provocati. Tuttora temo che esse esistano negli studi degli scienziati specializzati, ma non sulle scrivanie dei “potenti” del mondo che, in una prospettiva del genere, mostrano una potenza molto limitata o, addirittura teatrale. Che libri leggono questi personaggi importanti, quali riviste, quali relazioni, a chi danno ascolto?
L’impressione è che, per lo più, siano autogeni, creano il proprio mondo vedendolo riflesso sui mezzi di comunicazione dove la prospettiva temporale è quella del giorno dopo e poi dell’oblio, e quindi di un nuovo inizio. Il tempo del resto non è un ente, appartiene al modi di pensare e al modo di essere. E quindi può essere adattato facilmente a una solitudine che, per il luogo dove è, e per come è in quel luogo, si può considerare autosufficiente e un poco divina.
Faccio solo un caso di vicende che credo di conoscere dalla riforma Gentile in poi in un modo raro tra i “dirigenti” di adesso, e cioè la questione universitaria. Non sto a discutere vent’anni di errori dovuti a culture fuori luogo, a incompetenze clamorose, a programmi in realtà destinati a distruggere l’Università pubblica per favorire enti privati, ecc. ecc. Mi limito a notare che tempo fa un filosofo italiano, forse il più illustre, scrisse che le misure relative alla selezione del personale universitario erano “demenziali”. Ora penso che se qualcuno dicesse dei miei scritti che sono poco perspicaci, incompleti, deludenti, mi terrei la critica e ci penserei. Ma se leggessi che sono “demenziali” sarei costretto almeno a difendere il mio stato di natura mentale. Invece il Palazzo, comunque frequentato, tace sempre.
E allora è solitaria presunzione del potere secondo cui tu leggi, studi, scrivi, pubblichi, ma resti come la natura in Plotino “prope nihil”, oppure si può dire volgarmente, ma non mi va, in un dialetto della penisola.