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venerdì 4 luglio 2014

QUESTIONE DI LESSICO




Ho sentito alla tivù che la ministra del lavoro nel suo intervento all’assemblea della Confindustria ha sostenuto ad alta voce che non bisogna “demonizzare il profitto”. “Demonizzare” è una metafora consunta anche se chi l’ascolta, come proprietario di un’impresa, può essere tutto contento. Elettoralmente il linguaggio è perfetto, e corrisponde a quella critica del lessico “intellettuale” che si diffonde dal ceto politico ai mezzi di comunicazione di massa senza chiedersi minimamente che cosa si può comprendere se si usa solo il lessico quotidiano e quanto il “mondo”, così diventa piccolo. Vorrei ricordare, a proposito del profitto, che al tempo del “socialismo reale” ci furono economisti che giustamente sostennero che il profitto delle industrie statizzate dava il metro per comprendere se la loro produzione era efficiente. Del resto il nonno Marx non ha mai pensato che il profitto industriale (diverso il caso della rendita) dovesse non esistere, come se il processo economico potesse essere ricondotto a un gigantesco consumo. Il profitto doveva servire per processi di civilizzazione sociale, per il rinnovo del capitale fisso e, ovviamente per una sua equa distribuzione. Se un’impresa funziona così, anche se contratta severamente intorno alla sua quota di profitto (Olivetti e la sua cultura non si riproducono come le nuvole in cielo), le cose “vanno bene” in una situazione socio-economica come quella attuale (che, contrariamente a quanto pensava Ruffolo, è molto più precaria di quanto non si creda proprio per lo “stato del mondo”). Che poi esista un mercato basso e un mercato alto, questo è implicito; sarebbe sufficiente diventasse sapere comune che solo l’estensione della forza lavoro e la dimensione del salario socialmente decoroso, estendono la possibilità del profitto. Non è tuttavia una impresa né intellettuale né pratica da poco, ma costituisce la premessa per un governo che, nel nostro momento storico, possa garantire un equilibrio. Al di là delle scommesse che circolano in sub-culture che assumono forma politica.
Per quanto possibile, in un tempo difficile come il nostro, il profitto, invece di correre nell’area (pericolosa) dell’economia finanziaria, perché non prende anche la strada del decoro pubblico, di una più elevata civilizzazione della vita sociale? È impossibile varcare questa soglia, e non cercare fuggevoli amicizie e ancora più fuggevoli approvazioni con la metafora del “demonio”. Perché se proprio desideriamo rendere visibile il demonio basta pensare a dove sta andando a finire la storia degli ultimi due secoli. Tuttavia questa prospettiva richiede un lessico intellettuale fuori moda.
Lei, professore, porterebbe le ghette che anche il primo Mussolini prediligeva favorendo le raffinatissime furie di Carlo Emilio Gadda?
Fulvio Papi