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domenica 28 settembre 2014

Linguistica: anima del terzo millennio
di Paolo Maria Di Stefano


C’era un volta il diario scolastico. Era la maggior fonte di conoscenza, il massimo forziere di quelle pillole di saggezza le quali, checché se ne dica, tanta parte avevano nella formazione culturale delle giovani generazioni. E costituivano anche una riserva non trascurabile di “citazioni citabili” nelle conversazioni salottiere.
Talvolta costituivano spunti di ricerche ed approfondimenti; sempre, informavano.
Magari in modo indiretto, ma informavano.
E’certo che nessuno dei diari scolastici dell’anno appena iniziato ha riportato quel“da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi” che il ministro della Pubblica Istruzione ha pensato bene di affermare e che La Repubblica ha diligentemente citato il 19 settembre a pagina 8, nel “breviario” di Gianluca Luzi: non hanno fatto in tempo. Per il 19 settembre, i diari dovevano essere stati non solo già stampati e distribuiti alle librerie, ma anche acquistati.
Peccato.
Gli studenti -e non solo- avrebbero potuto iniziare ad avere la prova provata che veramente la scuola è una delle priorità assolute del Governo e, ovviamente, del Ministro alla Pubblica Istruzione. E, con essa, la conferma che l’innovazione e la creatività -non disgiunte da una professionalità esemplare- sono vive e vitali in una Politica che, finalmente, si ammanta di modestia e discrezione.
La strategia del Ministro è esemplare. Questa:

I Sacri testi affermano che
1. è buona norma partire da una definizione chiara, condivisibile e possibilmente condivisa della materia di cui si tratta; che
2. ogni affermazione, soprattutto se innovativa, va esposta morbidamente, in modo quasi  casuale; che
3. è bene aver chiari i punti di forza e di debolezza di ciò che si vuole dire perché sia accettato e condiviso.

Sono le basi indispensabili perché il detto dei sacri testi si concreti in sacri principi di comunicazione che abbiano buone probabilità di raggiungere il destinatario, essere compresi, e dunque essere condivisi.
Chi meglio di un maestro della comunicazione può conoscere ed applicare le regole appena sintetizzate? Non solo, naturalmente, ma almeno queste.
Ed ecco, allora, il Ministro della Pubblica Istruzione lanciarsi in una sintesi estrema e apparentemente innocua di quella che resterà nella storia come espressione massima della creatività e della innovazione della Politica nel mondo della Cultura. (notate le maiuscole?)
“Da professoressa” esordisce il Ministro. E qui subito una serie di problemi, sorti anche per la confusione che pare regnare in Italia sulla qualifica di “professore”, che non è, come molti (troppi) sono portati a credere in automatico spettante a chi insegna per il solo fatto di insegnare. Sembra che da noi il titolo spetti di diritto soltanto ai docenti universitari e, se non vado errato, soltanto ai titolari di cattedra e agli associati.
Più o meno.
Ora, sia pure limitato ai docenti universitari titolari di cattedra (ordinari) e agli associati, di quale disciplina occorre essere cultori e insegnanti per potere esprimere giudizi sulla qualità in senso lato della conoscenza di una lingua e dell’eloquio che ne consegue?
Domanda di non poco conto, per rispondere alla quale bisogna forse ricordare che la Ministra è docente ordinaria di linguistica presso una Università piccola e ormai screditata quanto si vuole, ma pur sempre Università.
E se un docente di linguistica  sottolinea che “da professoressa” assegna un voto alla conoscenza di una lingua (nello specifico, dell’inglese) , si può immaginare che il riferimento sia la linguistica, appunto. Il che risponde almeno in parte alla domanda. Così: un docente di linguistica è in grado di valutare la conoscenza di una lingua da parte di chi ne fa uso.
Con un risvolto immediato, seppure di rilevanza non assoluta: di quale lingua e di quante?  Pare che nel mondo si parlino tra le seimila e la settemila lingue. Tra queste, in testa ad una possibile classifica dovrebbe essere il Cinese (un miliardo e duecentotredici milioni di persone) seguito a distanza dallo Spagnolo e dall’Inglese (circa trecento trenta milioni di persone per ciascuna), dall’Arabo con circa duecentotrentamilioni di persone), dall’Hindi e dal Portoghese con più o meno centoottanta milioni di persone, e via dicendo. Pare che l’italiano sia al diciannovesimo posto, con circa sessantadue milioni di utilizzatori. Non ho trovato cenni degni di nota per le lingue morte (latino e greco in testa, almeno per noi) e neppure alla presenza o meno tra le sei- settemila di quelle lingue che noi chiamiamo dialetti. Ma forse non è importante più che tanto.
Ma forse lo è il sapere di quali lingue e di quante di esse un linguista è in grado di valutare la conoscenza da parte di chi le parla. Voglio dire: se il Presidente del Consiglio si fosse espresso – magari a puro titolo di cortesia- in arabo o in Hindi, “da professoressa” il Ministro sarebbe stato in grado di esprimere una valutazione?
Non ho una risposta, ma un dubbio sì.
E me lo tengo.
Quidam de populo potrebbe forse ignorare cosa la linguistica sia. Ed è probabile che quel qualcuno si lanci come un sol uomo sul vocabolario della lingua italiana e legga: Linguistica: “ Lo studio delle lingue nella loro storia, nelle loro strutture e nei loro rapporti con la storia della cultura e le classi sociali” (Devoto – Oli, Dizionario della lingua italiana). Tanto per la cronaca: subito sopra c’è la definizione di Linguista quale “cultore di studi linguistici” e, subito sotto, di linguistico come “attinente al fenomeno della lingua, specialmente come oggetto di indagine o classificazione”.
Dal canto suo, il nuovo Zingarelli definisce la linguistica come “studio scientifico e sistematico del linguaggio e delle lingue naturali”.
Che è bello ed istruttivo.


Ma che, soprattutto, non giustifica più che tanto quel “da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi”.
Allora, occorreva dare della linguistica una definizione diversa da quella canonica, chiaramente insufficiente, e dichiarare a voce spiegata che la linguistica è la disciplina che consente di parlare alla perfezione tutte le lingue e dunque anche di esprimere giudizi sul loro uso da parte dei “non nativi” sarebbe stato non soltanto non diplomatico, ma forse addirittura offensivo, e avrebbe certamente provocato reazioni. Ecco, allora, il percorrere una via sufficientemente morbida per stimolare la curiosità di coloro che in qualche modo hanno interesse all’approfondimento delle cose. E solo chi è spinto all’approfondimento può proiettare la propria mente al di là dei confini delle convenzioni, e quindi non giungere con approssimazione frettolosa alla conclusione che il Ministro, nell’altra vita, insegna inglese.  
E con la diplomatica cortesia e discrezione che le sono proprie, - anche in modo di poter negare di aver mai fatta affermazione simile, che è modo proprio della politica e dei politici -, la ministra lascia intendere che la linguistica è una disciplina che consente di conoscere a fondo qualsiasi lingua e dunque anche di valutarne il grado di conoscenza da parte di chi la usa. E senza parere, porta alla ribalta una nuova e più moderna definizione della linguistica come “strumento di conoscenza di tutte le lingue naturali e di giudizio della sintassi, della grammatica, della costruzione e della pronunzia e dunque dell’uso di ciascuna di esse”.

Data la definizione, se ne dovrebbero trarre conclusioni. Una delle quali sembrerebbe essere questa: la Ministra ha parlato “ in qualità di professoressa”. Lo ha detto in modo inequivocabile.
Ma certamente la Ministra non intendeva dire che l’essere “professore” abilita a parlare ogni idioma: farlo è appannaggio della linguistica, la materia che Ella insegna (o che dovrebbe insegnare) e che la pone nell’Empireo dei docenti. Dunque, io che sono abilitato all’insegnamento di materie giuridiche ed economiche (compresa la statistica) e che ho insegnato marketing in corsi aziendali, in corsi di perfezionamento e in più di una Università, non per questo sono in grado di valutare la conoscenza dell’inglese da parte di chicchessia. E infatti non lo sono.
Lo sarei solo se fossi linguista.
E forse, se disponessi anche della cadenza propria della periferia della Toscana, simpatica, bella e forse anche colta Regione, ammalata però di “toscanite acuta”, tara ereditaria che affligge troppi toscani e che appartiene alla numerosa famiglia dell’autoreferenzialità, patologia tipica dei docenti universitari e dei politici, non senza invasioni in settori diversi, segnatamente  nell’imprenditoria e nella managerialità italiche.
Dicevo: insegnante di linguistica e d’accento toscano, cose che appartengono alla Ministra e ad un ristrettissimo numero di eletti, e che, per quel poco che ne so, la Ministra conserva orgogliosamente anche quando si esibisce nell’inglese.
Che ovviamente intride della propria straripante personalità.
Naturalmente, la nuova definizione di linguistica consentirebbe conclusioni ulteriori, quelle dalle quali un qualsiasi politico italiano è solito astenersi, poiché il solo trarre conclusioni logiche  sarebbe negazione della politica. Un politico non può, non deve, servirsi della logica che, come ognun sa, alla Politica ed alle politiche è estranea. Almeno, fino alla formulazione di enunciazioni condivise e dunque accettate dalla maggioranza dei votanti alle consultazioni di riferimento. E non è detto che logica e accettazione e condivisione abbiano legami nella e con la Politica.
Se la linguistica è quella adombrata dalla Ministra, a che serve predisporre insegnamenti e cattedre dedicati ad ogni specifica lingua (con impegno non trascurabile di risorse finanziarie e umane)  quando basterebbe sostenere e superare  l’esame di linguistica per discettare su e con ciascuna e su e con tutte?
Laggiù, lontano lontano, ai bordi dell’orizzonte, si delinea la cancellazione degli insegnamenti di tutte le lingue, con un notevole risparmio di tempo e di danaro. E si noti bene: di tutte le lingue in assoluto, e dunque anche della lingua italiana.
Ma pensate al risparmio che si potrebbe realizzare?
In una futura università che formi insegnanti di lingua, basterebbero i corsi di linguistica per  essere in grado di insegnare lingue morte e lingue vive e di valutarne la conoscenza da parte di docenti e discenti; i corsi potrebbero essere di linguistica generale con le specializzazioni in tutte le lingue e i dialetti parlati al mondo a seconda della richiesta e delle opportunità. Con, in più, il vantaggio di una materia -la linguistica, appunto- che sarebbe approfondita costantemente nel corso di tutti gli anni di studio. E, volendo, oltre.
Con un vantaggio ulteriore: la linguistica diverrebbe il collante tra i diversi paesi e le diverse regioni del mondo.
E un mondo linguista non può che essere unito.
Una cosa, per la verità, con qualche altra di scarsa importanza, mi stupisce: che la Ministra, pronta come è sempre stata a cogliere ogni opportunità, nel corso della sua intensa azione di rinnovamento della scuola non abbia speso una sola parola in favore dell’insegnamento della linguistica fin dalle primarie. Ma forse lo ha ritenuto ovvio.
E ancora un vantaggio, al quale è bene fare un cenno: l’aver superato gli esami di linguistica ai diversi livelli renderebbe immediatamente abilitante il titolo conseguito alla fine degli studi universitari. E dunque, ancora un risparmio: quello derivante dalla abolizione di ogni e qualsiasi concorso a cattedra. Anche perché le valutazioni conseguite nel corso degli studi riuscirebbero a tracciare una graduatoria di merito assolutamente affidabile. 
Soprattutto se fosse correttamente valutata la cadenza toscana.