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sabato 27 settembre 2014

MEDICI SENZA FRONTIERE

Medici Senza Frontiere è la più grande organizzazione medico-umanitaria indipendente al mondo. Nel 1999 è stata insignita del Premio Nobel per la Pace. Opera in oltre 60 paesi portando assistenza alle vittime di guerre, catastrofi ed epidemie.


Ebola: la forza di Mary
Il triangolo della morte, così mi viene da descrivere questa parte di mondo dove l’equipe MSF sta lottando giorno e notte per fermare l’epidemia di Ebola. Mi trovo a Guéckédou, una cittadina nella foresta della Guinea, non lontana dal confine con la Sierra Leone e la Liberia. Il virus Ebola sembra non voler arrestare la sua avanzata. Nel nostro ospedale da campo a fatica riusciamo a trovare i letti e lo spazio per ammettere tutti i casi d’ebola. Qui i morti si contano giornalmente: è un’ecatombe. Il numero più basso di morti che abbiamo avuto in una giornata è stato quattro ed il numero maggiore sette.
Il giorno del mio arrivo abbiamo ammesso una famiglia intera, padre, madre e  Ie loro tre figlie di 7, 10 e 13 anni. Il padre è deceduto dopo qualche ora dall’arrivo, lasciando sole la moglie Geneva e le 3 figlie. Geneva era terrorizzata dall’idea di morire e di dover lasciare le sue tre bellissime bambine orfane. Ma le sue condizioni sono subito apparse gravi. Ha iniziato a perdere sangue dal naso e poi dalla bocca fino a che non è spirata, tra i pianti e le urla delle sue tre bambine che l’hanno vista morire in questo modo orribile. Il padre era stato ad un funerale di un fratello (successivamente si è capito che era affetto da ebola), e durante la cerimonia della preparazione del corpo, eseguita senza protezione, era venuto a contatto con il virus. Una persona infetta con l’ebola ha il virus in tutte le secrezioni del corpo: sudore, lacrime, saliva, sangue, feci, vomito e perfino nel latte materno. Ed il luogo dove il virus si propaga maggiormente è proprio durante i funerali, dove il corpo del morto viene toccato da tutte le persone che partecipano al funerale. Una volta rientrato a casa, il padre ha trasmesso il virus a tutta la famiglia.
Mary, la più grande delle tre, mi ha subito colpito per il suo sguardo maturo, per quell’aria da ‘dura’ con la quale mi guardava. Sola ad accudire le sue due sorelline, passava ore a darle da bere e da mangiare, le spronava a sforzarsi, ma per loro era un calvario anche solo aprire la bocca. La diarrea ha iniziato a manifestarsi nella sorellina piu piccola che dopo una notte di agonia se n’è andata. 
Mary e Jetta, le due superstiti si sono allora chiuse in un silenzio totale. Non mi guardavano neppure quando entravo nella tenda. Si rifiutavano di mangiare nonostante Mary avesse ancora la forza per farlo. Entravamo a turno nell’unità di isolamento, per non lasciarle troppo tempo da sole. Faceva caldissimo e con la tuta di protezione che indossiamo e non riuscivamo a stare all’interno per molto tempo. Mary e Jetta non parlavano l’inglese e quando chiedevo loro come si sentissero o se avessero mangiato non mi guardavano neppure. 
Jetta si è addormentata, di un sonno profondo, dal quale non si è più svegliata. Che tristezza nei nostri cuori, quanta rabbia abbiamo provato. Il senso di impotenza in questi casi prende il sopravento, e la rabbia la senti salire e vorresti urlare.
Mary era lì, apparentemente indifferente alla morte della sorella, non guardava il suo corpo, non piangeva. Avrei voluto abbracciarla e per questo mi sono avvicinato ma Mary con uno movimento brusco si è girata dall’altra parte. Mentre l’équipe si preparava a portare via il corpo della sorellina, Mary, fissava con lo sguardo la parete della tenda. Non si è mossa da quella posizione per ore, e così l’ho ritrovata quando alle sette di sera sono rientrato per portarle la cena. Le ho messo il piatto davanti e le ho chiesto di fare uno sforzo, spiegandole che mangiare e bere aiuta l’organismo a combattere l’ebola. Non ha mosso la testa di un millimetro.
Il giorno seguente quando sono entrato nella sua tenda l’ho trovata sdraiata per terra, che dormiva. L’ho chiamata, ha riconosciuto la mia voce perché mi ha fissato come se aspettasse una delle mie domande. Le ho preso la mano destra e mentre la stringevo le ho detto che non mi sarei arreso, e che sarei rimasto lì accanto a lei fino a che non avesse assaggiato il cibo che le avevo portato. Poi mi sono detto «perché non parlarle in italiano?», la nostra bella lingua così musicale da incantare anche chi non la conosce. Sono rimasto al suo fianco raccontandole un po’ di cose: da dove venivo e cosa facevo nel suo Paese. Sono poi passato a raccontarle della mia famiglia e di mio nipote Matteo, e di quanto bene gli volessi. Mary mi guardava, la sua mano nella mia, immobile come rapita da un testo stupendo di una canzone ascoltata per la prima volta. Mi sono fatto coraggio e le ho avvicinato il piatto e subito si è girata dall’altra parte. Le ho fatto capire che il caldo mi stava torturando e che la tuta era tutta bagnata di sudore all’interno, gli occhialini erano quasi tutti appannati. Faticavo a respirare, eppure mi sforzavo a starle accanto perché volevo vedesse che m’importava davvero di lei. Poi non ce l’ho fatta più e mentre mi allontanavo ho sentito la sua mano afferrate il mio braccio. Mi sono girato e ho visto le sue labbra muoversi, ma non capivo. Un’altra paziente ha tradotto per me: Mary mi chiedeva di farle il bagno. Mi sono sentito subito pieno di energie e pronto per fare questo ultimo sforzo prima di uscire dall’unità di isolamento. 
Era debole, a stento riusciva a stare in piedi, « io ho fatto un grande sforzo per farti il bagno ed ora ti chiedo di fare lo stesso per mangiare » . Le ho avvicinato il piatto e sono rimasto altri minuti ad aspettare che lei aprisse la bocca e finalmente mangiasse qualche boccone di riso.  
Non so descrivere il senso di vittoria che ho provato in quel momento, una grande gioia e contentezza. Certo non era il segno della guarigione, ma comunque un grandissimo passo in avanti, una meta che non avrei mai creduto di raggiungere. All’uscita dall’unità di isolamento ho urlato a tutta l’équipe la grande novità, erano increduli. Allora li ho fatti avvicinare alla tenda da dove si intravedeva Mary masticare piccolissimi bocconi di riso.
Il giorno dopo sono tornato, Mary sembrava non volesse mangiare ma dopo il bagno, si è seduta sul letto ed ha iniziato a mangiare il pane inzuppandolo nel tè. Non stava proprio bene, era molto debole, ma vedevo che si sforzava ed ero sicuro che sarebbe migliorata.  Nel pomeriggio mi è arrivata la notizia che il giorno dopo sarei dovuto partire per una missione esplorativa in Liberia, dove l’ebola continua la sua avanzata. Che rabbia! Proprio ora che Mary reagiva volevo seguire i suoi progressi e starle accanto. Prima di partire sono andato a salutarla. Mi ha guardato, ha preso il piatto ed ha iniziato a mangiare, mentre ero seduto al suo fianco. Prima di uscire dalla tenda le ho fatto ciao con la mano dicendole che sarei partito ma che ogni giorno avrei chiesto sue notizie.
È davvero strano come ci si possa legare ad una persona che si è conosciuta da poco, con la quale non puoi neanche comunicare. Eppure quella bambina mi emozionava tutte le volte che la guardavo, non me la tolgo dalla mente.
Sono stato costantemente informato, ed oggi la grande notizia : « Mary è uscita, ce l’ha fatta ». Non avevo parole per esprimere la gioia che provavo e così mi sono coperto il volto con le mani e come un bambino ho pianto. Non ho la presunzione di pensare di aver salvato la vita a quella ragazzina che non rivedrò mai più, ma sono certo che l’incoraggiamento, la vicinanza e la mia testardaggine le siano state da spinta. Mary poi ha fatto il resto e forse il fato , finalmente, ha dato il suo contributo.
Non vedo l’ora che sia domani per iniziare una nuova sfida al fianco di chi soffre e stimolare il cambiamento che voglio vedere nel mondo.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea


Mohamed, Yatta, Isatta... Bambini positivi al virus Ebola
Mohamed, Yatta, Isatta, Fatimata, Tamba, Charles, Salomon, Suma, Jusu, Bendu, Ngebeh...Sono i nomi di alcuni dei bambini positivi al virus dell'ebola nel nostro centro di trattamento a Kailahun in Sierra Leone. Molti arrivano con le loro famiglie e poi pian piano ne assistono al decesso o si spengono prima dei loro familiari. La mortalità tra i bambini è più elevata che per gli adulti (80 90% contro il 70%). Chi è riuscito a sopravvivere ci ha dato lezione di coraggio e generosità.
Sono stati i bambini, prima degli adulti, a prendersi cura degli altri bambini positivi rimasti orfani vincendo la paura di toccare un altro paziente. Hanno iniziato a rompere il silenzio e con il rumore dei loro giochi e risate hanno dato speranza a tutti noi.
Abbiamo assistito alla dimissione di Yatta e Salomon, primi bambini guariti nel centro, li abbiamo visti salutare gli altri pazienti, ne abbiamo ascoltato la storia di come l'ebola sia entrata nelle loro vite. Chi per primo nella loro famiglia si è ammalato e come sono arrivati da noi. Ancora confusi hanno scelto il loro vestito e i loro giochi prima di rientrare a casa, ci hanno chiesto chi si sarebbe occupato degli altri bambini ora che loro sarebbero partiti. Hanno dato una dimensione umana ad un'epidemia che di umano ha poco. A Kailahun, non ci sono solo bambini, ci sono donne, anziani,  intere famiglie, infermieri, che si sono infettati cercando di aiutare i loro amici, familiari o pazienti.
L‘ebola uccide, questo è noto. Quello che non è così noto è che uccide i legami e la fiducia nei villaggi. Uccide creando la paura di toccare chi si ammala o salutare chi muore. Nelle settimane trascorse sul campo, ho visto la paura diffondersi come l‘infezione, ma ho anche visto il serio e dedicato lavoro di MSF, villaggi e pazienti ringraziarci per il lavoro che facciamo per fermare ciò che è più grande noi, paura compresa.
Grazia, Epidemiologa MSF in Sierra Leone



Ebola. Come assistiamo i nostri pazienti
Questa è la prima epidemia di Ebola che mi trovo ad affrontare. Ho trascorso le ultime tre settimane in Guinea, e appena due giorni fa sono arrivato in Sierra Leone per lavorare nel Centro MSF per il Trattamento dell’Ebola da 65 posti letto. Sono responsabile della cura del paziente: vado con i medici a fare il giro dei reparti, somministro flebo se necessario e mi occupo della formazione del personale locale sulle procedure che bisogna conoscere per trattare questa malattia.
 In Guinea abbiamo trattato una giovane donna risultata positiva all’ebola, incinta del suo primo figlio. La maggior parte delle volte, quando una donna incinta si ammala di ebola, lei e il suo bambino muoiono. Questa donna, invece, ha perso suo figlio ma è riuscita a sopravvivere. Era visibile come l’esperienza l’avesse cambiata quando, una volta guarita, è uscita dal Centro per il trattamento dell’ebola. Era straordinaria.
 Il trattamento per l’ebola è molto semplice e l’assistenza infermieristica è forse uno degli aspetti più importanti di esso. Inizia con l’igiene: è necessario lavare i pazienti nel letto e tenerli puliti. Somministriamo loro cibo e liquidi, a volte sono così deboli che non riescono neanche a mangiare e bere da soli. È difficile: in Italia, le unità di cura intensiva sono di alta tecnologia, con monitor e attrezzature di tutti i tipi, mentre qui devi fare tutto da solo. 
Non lavoro più in Italia da quando, 11 anni fa, ho iniziato a lavorare con MSF. MSF è il mio lavoro a tempo pieno. Sono stato in Liberia, Angola, tre volte in Sud Sudan, Bangladesh e Myanmar. Quello che mi piace di questo lavoro è la vicinanza con le persone, il fatto che sto facendo del mio meglio per migliorare la loro salute, come se stessi davvero “facendo la differenza” in questo mondo. Anche qui in Sierra Leone contro l’Ebola. 
 Massimo, infermiere MSF, in Sierra Leone



Tute di protezione, forza e tanta esperienza contro l’Ebola
La piccola Mary mi guarda con i suoi occhioni grandi, spesso gonfi di lacrime, a volte assenti come se fissasse il vuoto. Forse non mi ha riconosciuto, del resto credo sia quasi impossibile riconoscere chi si nasconde dietro una tuta di protezione, l’uniforme che dobbiamo indossare quando entriamo nel Centro per il Trattamento del Ebola.
Si tratta di una tuta di materiale plastico impermeabile, stivali di gomma, due paia di guanti, una maschera che copre bocca e naso (molto spessa), un copricapo di materiale plastico che ti deve coprire dalla testa fino sotto le scapole e che lascia solo gli occhi senza copertura. Poi ovviamente per riparare gli occhi usiamo occhiali che sembrano maschere da sub e per finire indossiamo un grembiule di plastica spessa che dal collo ti copre fino ai piedi.
È difficile descrivere come si lavora quando si indossano tutte le protezioni, ma credetemi è  molto faticoso. All’ interno delle tende fa caldo e con tutta la plastica che ti porti dietro potete immaginare quanto si sudi all’ interno della tuta.
Dopo 5 minuti senti le goccioline di sudore che scendono dappertutto. Tutti i movimenti devono essere lenti, per evitare sforzi ma anche per evitare cadute accidentali che potrebbero esporti a un possibile contatto con il virus.
Tutte le procedure invasive (mettere un catetere venoso per esempio) vengono fatte solo da personale molto esperto e selezionato perché il rischio di contrarre il virus durante la manipolazione di aghi e sangue è elevatissimo.
La prima volta che ho fatto un prelievo non nascondo di aver avuto tantissima paura; l’ importante è  sempre spiegare bene al paziente quello che si intende fare e come il paziente si deve comportare (nessun movimento brusco, restare immobile etc.), avere sempre vicino un raccoglitore per gli aghi usati, avere un collega che ti passa il materiale, avere la mano ferma e sentire di avere la situazione sotto controllo.
Quando siamo dentro, cerchiamo sempre di avere tutto il materiale con noi (medicinali, antibiotici già diluiti) per risparmiare tempo. Anche respirare è faticoso, non devi mai cercare di farlo in modo veloce.
Proprio come succede al mare, le nostre maschere dopo un po’ si annebbiano e non si riesce più a vedere correttamente. Se a questo aggiungi gli sforzi eccessivi (come chinarsi più volte per aiutare un paziente a bere o aiutare qualcuno ad alzarsi) che aumentano la frequenza respiratoria diminuendo l’ossigeno che entra nei polmoni (ricordatevi che indossiamo una maschera che ci copre la bocca) capite bene che il senso di soffocamento può avere il sopravvento e gettarti nel panico.
Bisogna conoscere i propri limiti, sapere quanto possiamo chiedere al nostro corpo e quando arriva il momento di fermarsi. Mai prolungare la permanenza nel reparto d’isolamento oltre i propri limiti.
Alzare la testa per guardare l’orologio affisso alla parete della tenda, ripetere a un collega una frase due volte, chinarsi a raccogliere una tazza vuota per dare da bere a un paziente, aiutare un malato a mangiare sono esempi di azioni quotidiane semplici ma che se vengono effettuate con la tuta di protezione ti stancano, ti sfiniscono fino a che non senti il bisogno di uscire.
Quello è un momento bellissimo… ovviamente c’è una procedura speciale per togliersi la tuta: tutte le diverse protezioni vengono rimosse una per volta in un ordine specifico, la maschera è la penultima cosa che togliamo, alla fine l’ultimo paio di guanti.
È duro e faticosissimo lavorare con questa tuta, ma non c’è alternativa: la protezione prima di tutto!
Lavorare nell’emergenza Ebola ti fa imparare tantissime cose, e sorprendentemente mi sono accorto di avere più energie e forze di quanto credessi.
Purtroppo la mortalità è  altissima (fino al 90%), solo il 10% dei pazienti infettati con l’Ebola sopravvive ma senza il nostro intervento non ci sarebbero neppure quelli… e il virus si propagherebbe causando una catastrofe. Sono loro che ci danno la forza per continuare, quelli che riescono a sopravvivere al terribile virus.
Quanta gioia nei loro occhi quando gli viene detto che sono guariti  e quante lacrime…. Il momento della dimissione è il più bello: tutto lo staff di turno all’ospedale si ritrova di fronte all’uscita dell’isolamento, e quando il paziente esce tutti iniziano ad applaudire, cantare e ballare ! È una gioia per tutti. È lì che ti dimentichi di quanto hai sofferto all’interno dell’isolamento.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea


“Non ti faremo del male, siamo qui per curarti”
Mi chiamo Ernestina Repetto, sono un medico infettivologo, ho 33 anni e sono partita con Medici Senza Frontiere in Guinea a Gueckedou su un progetto Ebola.
La cosa più difficile per un medico che parte su una Missione Ebola è dover stravolgere completamente il normale rapporto che si ha tra medico e paziente. Perché ti devi proteggere, tu in prima persona, e quindi utilizzi dispositivi di protezione individuale (la tuta, la maschera, gli occhiali, il copri capelli, etc). Quindi i pazienti che visiti non hanno la possibilità di vederti, vedono solo i tuoi occhi e ascoltano la tua voce. È molto importante ogni volta che entri ripetere il tuo nome, il tuo cognome, dire chi sei, se sei un medico o se sei un infermiere, che sei lì per lui e che gli farai delle domande per sapere come va e se ha dei sintomi particolari e così via. Devi affidarti al tono della tua voce e basta.
Quando si entra in un Centro di Trattamento Ebola, la cosa che colpisce di più rispetto a un ospedale convenzionale è la presenza di barriere. Ogni settore è diviso dall’altro da doppie barriere con una distanza minima di due metri. Questo permette agli operatori sanitari e ai visitatori e parenti dei pazienti di avere una certa sicurezza, una distanza minima per evitare il contagio con i malati, anche in assenza di protezioni individuali. Chi non è ancora entrato nella zona ad alto rischio può stare al di fuori e vedere i propri cari e i propri parenti senza utilizzare la protezione.
Per un paziente che non ha alcuna nozione di protezione individuale, non sa come siano i guanti o le mascherine, vedere tre o quattro persone che si avvicinano come degli astronauti, fa molta paura quindi è molto importante prima di fare qualsiasi cosa con la protezione individuale spiegare a tutti il perché si utilizzano tali strumenti, che non siamo degli alieni ma siamo delle persone normali… e farsi vedere sia prima sia dopo. Da fuori dici: “Io entrerò, sono il tuo medico, mi vestirò con la tuta per proteggermi e non ti preoccupare non ti faremo niente di male, anzi siamo qui per te e per curarti”.
Ernestina Repetto, infettivologa MSF


In Sierra Leone tra i bambini di Gondama e l’emergenza Ebola
Con Barbara, Kathleen e altri parlo francese. Con Alejandra e Miguel spagnolo. Con Yuma ed Esther qualche parola di swhaili. Inglese tutto il giorno. La babele di lingue e la tastiera inglese non mi aiutano certo a scrivere qualcosa di buono in italiano. Mi chiamo Luca e da quasi due mesi mi trovo nel calore della Sierra Leone. Lavoro come esperto di potabilizzazione dell’acqua (watsan manager) tra l’ospedale pediatrico di Gondama, l’ufficio di Bo e la coordinazione di Freetown. Sono arrivato qui dopo quasi quattro anni tra Congo, Rwanda, Uganda e Perù. Ma ogni missione è unica e speciale. 
L’ospedale pediatrico a Gondama
L’ospedale pediatrico è un progetto di lunga data. Essendo nato come campo profughi non si trova a Bo, la seconda città del Paese, ma a Gondama, un piccolo villaggio a poche miglia dalla città. L’ospedale è a pochi passi dal centro, il mercato.
All’ingresso dei bassi reparti la vita ha la stessa intensità di sempre. Donne che lavano i vestiti dei bambini chiacchierando tra loro a voce alta, uomini seduti in cerchio discutono mangiando da un solo piatto, ragazze giovani con il viso invecchiato si scambiano favori pettinandosi a vicenda. Nonostante i rumori, le grida e i profumi si sente che qualcosa manca. Bambini.
I nostri 200 letti spesso non bastano. Tra i reparti abbiamo rubato spazio per le tende bianche. All’interno le voci restano basse. I pochi bambini che riescono a camminare non hanno ancora la forza per giocare. Restano vicini ai letti, spesso una mano ancorata al ferro bianco per non cadere. 
L’ospedale è l’ultima scelta. Prima c’è la vecchia del villaggio, nel caso abbiano qualche risparmio la curatrice, qualche erba, piccole incisioni sulla pelle per far uscire il male. Sono quasi dieci anni che siamo qui.
In dieci anni una goccia d’acqua può scavare una grotta. Forse le idee sono più dure ma il fatto non cambia. I bambini continuano ad arrivare tardi, spesso troppo tardi. Per fortuna anche la gente che lavora con noi è dura come le idee. Ogni giorno una lotta silenziosa, spesso lunga, a volte contro qualcosa che nemmeno riusciamo a definire. I risultati però arrivano. Li vediamo rincorrere una vecchia ruota tra i muri bianchi dei reparti, li sentiamo ridere e gridare con la voce cristallina che solo i bambini hanno. Momenti che riescono a ripagare tutti gli sforzi fatti, le frustrazioni e i capelli bianchi. 
Emergenza Ebola
Stavo quasi per trovare il mio equilibrio quando è arrivata la notizia. Un caso di Ebola confermato a Koindu. Un piccolo villaggio vicino al confine con la Guinea. Mi viene chiesto di partire con un logista e una dottoressa per valutare la situazione.
La voglia di dimostrare a me stesso di essere un professionista nella giusta organizzazione, la responsabilità che pesa su chi ha gli strumenti per intervenire, un tocco di curiosità e una buona dose d’incoscienza, come direbbe mia nonna, mi convincono ad accettare. Nel giro di poche ore la “filovirus haemorrhagic fever guideline” diventa la mia lettura preferita. Tutta l’esperienza di MSF, dei migliori esperti al mondo, racchiusa in 150 pagine e due soffici copertine rosse.
La stessa sera carichiamo tre macchine per il viaggio. Tutti in ufficio si muovono decisi, efficienti, pronti per sostenerci. Le macchine quasi scompaiono sotto il peso delle tende da campo, centinaia di scatole di medicinali, secchi di cloro e strumenti vari. Non sono ancora passate 12 ore dalla conferma del primo caso e noi siamo pronti. Un team per valutare la situazione e centinaia di articoli per sostenere i piccoli centri di salute coinvolti. 
Dopo quattro giorni di missione tutti quanti concordiamo che la situazione non potrà che peggiorare. I villaggi sono vicino al confine con la Guinea dove da marzo è in corso l’epidemia di Ebola. 
Scopriamo che la presenza del virus in Sierra Leone è dovuta a un funerale. Cosa abbastanza comune in questo genere di epidemie. Alla morte di una famosa guaritrice tradizionale molte donne hanno partecipato al funerale. Qui la tradizione vuole che il defunto venga lavato dai conoscenti dello stesso sesso e che venga commemorato con pianti, abbracciando il corpo. La famosa guaritrice era morta giusto dopo un viaggio in Guinea per assistere una paziente affetta da Ebola. Dagli abitanti dei villaggi veniamo a conoscenza dei nomi delle donne che hanno partecipato al funerale. E qui è iniziata la lotta per fermare l’epidemia. 
Luca, esperto MSF di potabilizzazione dell'acqua in Sierra Leone