Pagine

martedì 17 febbraio 2015

L’elemento comunitario
di Giovanni Bianchi

Una serata nell'hinterland
Mi accade ancora nelle serate della buona come della cattiva stagione di uscire la sera per incontri dove persone in genere non giovanissime -ma anche drappelli delle nuove generazioni, talvolta nutriti- si radunano con atteggiamento cenacolare intorno al relatore venuto da fuori per affrontare un tema di bruciante attualità oppure anche di consistente peso storico. Meglio se invece di un solo relatore è di scena una piccola tavola rotonda.
Il clima è assolutamente disteso, amicale, sicuramente non competitivo. Un classico dopocena, nella magna Brianza come nell'hinterland milanese. Senza escludere località lontane situate in regioni della nostra troppo lunga penisola.  Soltanto una deriva e un residuo del passato? Non credo.
Piuttosto un'attenzione legata al territorio, custodita attraverso legami persistentemente amicali, dove almeno nel dopocena non vige il mantra del turbocapitalismo: competition is competition, che ha invaso a partire dagli Stati Uniti il mondo intero e globalizzato, dimenticando per strada l'appellativo con il quale saggiamente proprio gli americani lo avevano battezzato agli inizi come "corsa del topo in carriera".
In effetti abbiamo dimenticato i topi e li abbiamo espulsi dal nostro inconscio, e abbiamo intronizzato -idolo indiscutibile- la carriera. Soddisfatti? Non dice nulla (lontana da me l'idea di arrivare all'ora dei corvi e dei lupi) la sequela di suicidi che ha colpito i manager apicali del sistema finanziario elvetico? Dopo una giornata di stressante lavoro uno o una hanno il sacrosanto diritto di godersi nella pace domestica (si diceva un tempo) lo spettacolo, sempre tesamente competitivo, del talkshow serale, dove al posto dei topi vengono esibiti i pittbull della politica, rispettando rigorosamente le quote rosa. Spenta la tv e finita la rissa, i topi più celebrati, smesse le fogge e i toni da pittbull, fanno a loro volta ritorno alla pace domestica -si fa per dire- forse sognando di restare pittbull forever, anche all'interno dei muri di casa…
State sicuri che i personaggi in questione non frequentano i cenacoli delle mescite e delle cooperative periferiche, ma soltanto eventi ricchi assai più di luci che di empatia, dove va in onda il tifo delle masse piccoloborghesi nei confronti di quelli che fingono di occuparsi dei problemi di tutti per promuovere comunque e sempre se stessi.
Senza dimenticare che anche il tifoso è lì convenuto attratto dalla medesima ragione: promuovere se stesso. È il narcisismo universale e globale, indotto da sopra e da fuori. Quello che sembra in grado di riprodurci nell'oggi senza fine in quanto fregati e contenti.
Bisogna dunque sostenere col pubblico denaro e le prediche dei parroci più facondi i cenacoli periferici? Non siamo con le analisi e le proposte a questo punto di disperata dissennatezza. Davvero quei vecchietti che prima della conferenza si precipitano al bar a chiedere un limoncello che adiuvi una difficile digestione, rappresentano una benefica e modesta resistenza: per dirla con l’Evangelo, si industriano (ma anche un poco si divertono) a non lasciar spegnere il lucignolo fumigante. Niente più che riserve e attempati riservisti. Coscienti di essere reduci di un mondo che non c'è più, e di custodire il vantaggio del reducismo, che non è soltanto memoria deamicisiana, ma anche custodia di un pensiero non intenzionato al successo e talvolta neppure all’azione. Ha senso una simile gratuità, questo allineare le sedie perché il pensiero possa ancora venire a noi, in termini di assoluta gratuità e assenza di violenza? Scriveva Simone Weil -il genio più vertiginoso del Novecento- in Venezia salva che appartiene ai violenti far sognare agli altri il proprio sogno. Che altro è il rapporto tra l'idolo mediatico e i suoi tifosi? Resistere a questa violenza diffusa e accattivante è l'inizio dell'odierna democrazia, ma anche di quell'amicizia senza la quale -l'osservazione è di Aristotele- non c'è fondamento alla politica.
Un caso allora che stiamo attraversando la stagione delle politiche senza fondamento?
Il marinettismo invadente del linguaggio ne è sintomo e vettore. Devi fidarti a seguire dei leaders che essendo senza progetto non devono perdere tempo a illustrarlo né a te né alle masse. Soltanto a risultato conseguito o non conseguito sarai in grado di emettere un giudizio.
Laddove le vecchie generazioni di militanti e i vecchi partiti servivano proprio a costruire progetti, a criticarli, applicarli, lavorare collettivamente perché risultassero alla fine vincenti.
Devi affidarti allo slogan come a una parola d'ordine indiscutibile e motivante.
A pensarci bene, il modello insuperato è quello che fascinò le masse della Grande Proletaria che aveva un gran bisogno e una gran voglia di muoversi: È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende.

Le prediche inutili
Esiste secondo Maggiani il coraggio del pettirosso; gli metterei accanto la costanza del reduce. Una costanza che non consiste nel pateticamente riproporsi, ma è piuttosto l'arte di chi ha la pazienza di individuare con umiltà i pezzi di passato che possono contribuire alla creazione di un punto di vista da condividere con gli attori delle nuove generazioni.
Ciò contribuisce non già a un remake, ma alla costruzione di una profondità e di una prospettiva che, private di senso storico, non possono esistere e non possono soprattutto costituire materiali di un progetto di futuro. Un'operazione quindi essenzialmente programmatica. Ma non si tratta soltanto di una operazione di cultura politica e di organizzazione intellettuale, bensì di un contesto che va ricostruito ricollegando le vite dei partecipanti e le loro esperienze. Insomma resta pur sempre vero che le ideologie di partito e i partiti di massa sono finiti quando il rapporto "caldo" ed amicale tra i membri è venuto meno. Detto in una formula che mi è abituale: quando cioè uno che ha in tasca la tua stessa tessera di partito va in ospedale per un intervento chirurgico e tu non ti senti in dovere di andare a fargli visita... Un elemento cenacolare ed amicale non può essere assente da nessuna costruzione politica, sia che essa avvenga sul territorio, sia che segua i canali di Internet e dell'immagine in generale. Detto in soldoni, non si dà comunque società senza elementi di comunità. Va infatti rivisitata la classica dicotomia stabilita da Ferdinand Tönnies fin dal 1887 tra Gemeinschaft e Gesellschaft. Sono infatti gli elementi di comunità che tengono insieme e fanno praticamente da colla tra le parti di una società in evoluzione. Vi sono dimensioni destinate a scomparire, ma senza il riprodursi di un tenore comunitario e di rapporti empatetici ed amicali nessuna società è in grado di svilupparsi e di rimanere unita e quindi anche efficiente. Prima del merito e del bisogno viene la solidarietà comune. È da questo angolo di visuale che possono essere riguardate le nuove proposte politiche in campo, non soltanto nel Bel Paese ma anche nel continente europeo. Si pensi a Marine Le Pen in Francia, a Orbàn in Ungheria, a Matteo Salvini in Italia. In tutte queste proposte si confrontano come due poli del discorso e della propaganda politica la paura e la comunità. E il cortocircuito è spesso tale che la promessa di costruzione di una comunità cresce sulla paura, sulla sua incentivazione, sui confini che essa è destinata a gettare come palizzate davanti a chi viene da fuori. E questo approccio al fenomeno dell'immigrazione, sottovalutato nella sua forza e nel suo senso, è vissuto piuttosto con spirito d’assedio. Appaiono così lontane le utopie di un federalismo nostrano, che cresceva su una cultura da strapaese coltivata dai dialetti regionali e provinciali. I cartelloni stradali, all'ingresso dei paesotti brianzoli conquistati dalla Lega Nord, cui veniva sottratta una lettera e aggiunto un accento per mimare il vernacolo locale e per la disperazione autentica dei camionisti venuti da fuori. Un vicinato vissuto come trincea non ha retto la prova della politica, perché troppo demodé e troppo poco intelligente. Non è successo così agli autori e agli attori della compagnia dei Legnanesi che hanno invece avuto la genialità di interpretare e portare sulle scene il vissuto di antichi cortili, aggiornato con le forme della secolarizzazione che hanno invaso la pianura padana. Ma il vero tallone d'Achille del giovane e nuovo leader Matteo Salvini non è non aver studiato né creduto al federalismo di Cattaneo o alla scienza geopolitica di Gianfranco Miglio. Salvini ha abbandonato le sceneggiate dei giochi dei Celti (non si conoscono i Celti, e come sarà mai possibile stabilire le modalità del loro divertirsi?) e si è progressivamente spostato su posizioni ipernazionaliste sostituendo Obelix al dio Po. La vera abiura si è compiuta sostituendo all'ideologia del localismo l'ossessione dei sondaggi: non importa difendere una tradizione federale, neppure importa di stabilire i confini di una piccola patria, ma quel che conta è vincere le elezioni. La lotteria dei simboli e la lotteria delle urne: un'autentica sottomissione nei confronti di quei responsi dei quali Pareto diceva che avrebbe preferito giurare sul Decamerone, pur di arrivare al potere.
L'omologazione di tutte le posizioni in campo, da destra a sinistra passando per il centro, è ad un tempo totale e scoraggiante. Così la politica ha decretato il proprio totale assoggettamento ai poteri, rinunciando alla critica, all'interpretazione dei bisogni di quelle che un tempo chiamavamo masse popolari, ad ogni possibile progettualità pur di installarsi al potere.

È la vittoria dell'idolo, quotidiana e banale. La sottomissione al potere demoniaco del potere. E ha ragione a questo punto Severino, il grande filosofo che ama definirsi ateo: "Non siamo noi che prendiamo il potere; sono i poteri che prendono noi".